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Autore Discussione: Luigi MANCONI.  (Letto 3586 volte)
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« inserito:: Febbraio 29, 2008, 02:45:59 pm »

Dalla parte delle donne

Luigi Manconi


Com’è noto - e peraltro, ampiamente documentato - le vie del Signore sono infinite: e anche quelle dell’intelligenza politica, quando c’è. Enzo Carra, parlamentare del Partito democratico, classificato come «teo-dem», ha rilasciato un’intervista a Repubblica, a proposito dell’introduzione in Italia della pillola RU486, addirittura esemplare. Esemplare, per una volta, non delle contraddizioni e fin delle lacerazioni che attraversano il Partito democratico a proposito del rapporto tra politica e laicità, ma della possibile e felice soluzione di uno di quei conflitti.

Si diceva: Carra è indicato come un "teo-dem" e, dunque, secondo la logora toponomastica delle appartenenze e degli schieramenti, dovrebbe essere un fiero avversario di un farmaco che - nella prosa truculenta e triviale, oltre che assai approssimativa di un Luca Volontè - corrisponderebbe all’«aborto fai da te». E, invece, Carra espone così la sua posizione: rifiuto morale dell’interruzione volontaria della gravidanza («Come cattolico sono contrario all’aborto»), sollecitudine nei confronti di chi ne è comunque vittima («l’aborto dispiace a tutti, in primo luogo alle donne»); e consapevolezza che si tratta di un disvalore anche per chi ne accetta l’inevitabilità in determinate circostanze («anche per quelli che hanno votato per la legge 194»); e, infine, apprezzamento per il compromesso realizzato («la RU486 sarà distribuita solo negli ospedali pubblici»). A motivare tale orientamento c’è una considerazione: «L’ideale sarebbe eliminare il flagello dell’aborto. Ma di fronte a questo dramma, perlomeno mi pare importante, però, che la donna che decide di abortire, o è costretta ad interrompere la gravidanza per motivi di salute o di scelta personale (…) non sia sottoposta a tecniche eccessivamente invasive». Credo di poter dire che dietro una simile affermazione - interamente condivisibile - non vi sia solo ragionevolezza: c’è di più. C’è, innanzitutto, un’opzione morale, condivisa da chi - non religioso - si accosta all’aborto con la medesima e inquieta sensibilità: ovvero la coscienza che limitare la sofferenza della donna corrisponda a una essenziale esigenza etica. E c’è dell’altro: c’è l’eco di quella sapienza cristiana che si manifesta non solo nella dottrina sociale, ma anche nei fondamenti morali e teologici della concezione del «male minore». È di straordinario interesse un documento, trascurato fino all’oblio, che risale al 18 novembre del 1974. Mi riferisco alla Dichiarazione «L’aborto procurato» della Sacra congregazione per la dottrina della fede: «L’aborto clandestino espone le donne, che vi ricorrono, ai più gravi pericoli non solo per la loro fecondità futura, ma anche, spesso, per la loro stessa vita. Pur continuando a considerare l’aborto come un male, il legislatore non può forse proporsi di limitarne i danni?» La risposta della Sacra congregazione è negativa: «È vero che la legge civile non può abbracciare tutto l’ambito della morale, o punire tutte le malefatte: nessuno pretende questo da essa. Spesso essa deve tollerare ciò che, in definitiva, è un male minore, per evitarne uno più grande. Bisogna, tuttavia, fare attenzione a ciò che può comportare un cambiamento di legislazione: molti prenderanno per un’autorizzazione quel che, forse, altro non è che una rinuncia a punire. E, nel caso presente, tale rinuncia sembra comportare che il legislatore non consideri più l’aborto come un crimine contro la vita umana, poiché l’omicidio resta sempre punito». Un «male minore». Dunque, la Sacra congregazione della fede sembra prendere in considerazione questa ipotesi: tuttavia (tamen, nel latino del testo originario) si paventano le conseguenze di una riforma legislativa. La de-penalizzazione (la «rinuncia a punire») può essere scambiata per «una autorizzazione» (in qualche modo, sembra dire la Sacra congregazione, un incentivo). Dunque, la rinuncia a punire sarebbe interpretata, questa è la preoccupazione?, non come un provvedimento atto a conseguire il male minore e ridurre il danno, ma come una sorta di derubricazione morale dell’interruzione di gravidanza, non più considerata «un crimine». Se ne deve dedurre che intervengano preoccupazioni psicologiche. Ovvero il rischio che nella sensibilità collettiva quello che è (per la morale cristiana e non solo per essa) un disvalore, possa ricevere una più ridotta riprovazione morale. Il rischio in qualche misura c’è, ma quel possibile effetto (ideologico e psicologico) della legalizzazione dell’aborto va contrastato con strumenti e argomenti congrui, non con misure penali. Il giudizio etico («l’aborto è immorale») viene indebolito dall’incremento delle interruzioni di gravidanza, non dalla loro regolarizzazione per via normativa (provvedimento che, come dimostrato, ha ottenuto l’effetto di dimezzare il numero delle stesse interruzioni). La legalizzazione non traduce un disvalore (per chi tale lo consideri) in valore, e nemmeno attenua la portata della sanzione morale nei confronti della pratica dell’aborto. Ritenere ciò è proprio di una concezione etica dello Stato e/o di una interpretazione del diritto penale quale mezzo di tutela giuridica della morale. È un’interpretazione che quello stesso documento dichiara di non apprezzare: «È vero che la legge civile non può abbracciare tutto l’ambito della morale, o punire tutte le malefatte: nessuno pretende questo da essa». È, quest’ultima un’affermazione dell’ex Sant’Uffizio del lontano novembre del 1974, che oggi scandalizzerebbe gran parte delle gerarchie ecclesiastiche e che ci dà la misura di quale arretramento culturale si sia registrato negli ultimi decenni. Quel lontano documento, tuttavia, può costituire una fonte d’orientamento per il cristiano impegnato nella sfera pubblica. (Così come la traduzione «secolare» della concezione del «male minore» in strategia della «riduzione del danno» rappresenta un quadro di riferimento per quanti operano nel campo delle dipendenze della devianza e dell’emarginazione sociale). Sul piano politico, la vicenda della pillola RU486 e quel documento di trent’anni fa segnala come sia possibile un incontro (dentro il Partito democratico, ma il discorso è ovviamente assai più ampio) tra opzioni morali pur diverse, o anche diverse, che vogliano affrontare l’avventura dello scambio e della reciproca contaminazione.

Post scriptum

Stefano Menichini, direttore di “Europa”, in un interessantissimo editoriale sul «riposizionamento strategico della sinistra italiana», sostiene che le «cosiddette questioni etiche» starebbero «in fondo a ogni interesse della nazione»; e che «neanche il 3 per cento di tutti gli italiani considera l’aborto un tema rilevante per sé, soprattutto ai fini della decisione elettorale». A leggere “Avvenire” e tanto più a dare uno sguardo alle decine di giornali diocesani, si deve ritenere che le cose non stiano così: e non certo perché, a imporle al dibattito pubblico, sarebbero Dino Boffo, direttore di “Avvenire”, e Giuliano Ferrara, direttore de “Il Foglio”. Se le questioni etiche sono già dentro la campagna elettorale, ciò accade perché esse attraversano, talvolta sotterraneamente ma sempre con forza, la sensibilità collettiva. A parere di chi scrive, è più saggio, non tacerle e affrontarle senza complessi di inferiorità.

Pubblicato il: 28.02.08
Modificato il: 28.02.08 alle ore 8.22   
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« Ultima modifica: Ottobre 09, 2008, 04:13:03 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 05, 2008, 12:35:50 am »

La politica dell’odio

Luigi Manconi


Tutti lì, nel centrodestra, ad affannarsi e ad arrabattarsi per spiegare che «no, non si tratta di razzismo», che «l’Italia non è un Paese razzista» e che, infine, non si deve definire come intolleranza etnica quello che è nient’altro che un episodio sgradevole (o, nel caso peggiore, criminale). Sullo sfondo, sottile, sottilissima, eppure tanto insidiosa da rischiare di penetrare nel senso comune, una interpretazione che, comunque la si voglia imbellettare, suona così: alla fin fine, se la sono cercata. Attenzione: se considerate puntualmente quest’ultima affermazione, al di là della sua formulazione triviale, vi accorgerete che essa sorregge le impalcature teoriche, proposte come complesse e responsabili, di gran parte delle politiche anti-immigrazione.

Queste ultime, ma anche le manifestazioni di intolleranza e di aggressività nelle relazioni tra italiani e stranieri, vengono fatte risalire pressoché esclusivamente a una causa: il numero eccessivo di immigrati presenti nel territorio nazionale. La riduzione di tale numero, comunque ottenuta, dovrebbe determinare l’effetto di contenere la xenofobia e le sue manifestazioni violente. Insomma, basta espellerne e respingerne tanti e ci sarà meno casino (e più decoro urbano, che non guasta mai). In una mossa sola, oplà, la vittima diventa responsabile della propria vittimizzazione: chi è causa del suo mal pianga se stesso. (Così come se tu, invece di voler fare a tutti i costi il proletario in un cantiere edile, avessi ascoltato i consigli di papà e operassi in Borsa: oggi non correresti il rischio di precipitare da un ponteggio oscillante nel vuoto).

Ripeto: non si tratta solo della reazione superficiale e, tutto sommato, difensiva e istintiva di un soggetto debole cui è stata “imposta” la fatica di una convivenza non prevista e non voluta con altri soggetti deboli, che vengono vissuti come totalmente estranei e potenzialmente, nemici. Quella stessa lettura alimenta molta pubblicistica e gran parte del discorso pubblico del ceto di governo. Unitamente a questo, c’è quell’accalorato agitarsi per negare che «l’Italia sia un Paese razzista». Ma chi mai l’ha detto? O meglio: quale scemo potrebbe mai dirlo? Affermare che un paese o una collettività nazionale siano “razzisti”, equivale propriamente ad adottare il medesimo paradigma razzista, fondato appunto sull’attribuzione a una comunità dei connotati o dei misfatti di un singolo componente (o di più componenti) di quella medesima comunità. Dunque, il problema è palesemente un altro. Ed è quello di riconoscere che, in una società complicata ed inquieta come la nostra, non è “il razzismo” (categoria che rischia l’astrattezza) che va enfatizzato, ma è la diffusione crescente di “atti di razzismo” che va considerata come una minaccia e risolutamente contrastata.

Il fatto che il centrodestra neghi questa evidenza o voglia attribuirle un segno neutrale («sono semplici atti di teppismo») è due volte inquietante. In primo luogo, perché rivela una vera e propria procedura di rimozione (in senso squisitamente psicanalitico), che conferma l’incapacità di riflettere sul problema e, in particolare, su come quel problema riguardi il “cuore profondo” del centrodestra stesso. In altre parole, spaventato dall’idea di scoprire in sé pulsioni inequivocabilmente razziste, il centrodestra nega quelle pulsioni censurandole, indirizzandole altrove, mutando il loro nome. Insomma, come ha ricordato opportunamente Gad Lerner nel corso della trasmissione televisiva Anno Zero, se in campagna elettorale esponenti politici urlano: cacceremo i clandestini a calci nel culo, è irresponsabile pensare che non si producano effetti pesanti sugli orientamenti individuali e collettivi. La rimozione del razzismo come problema esalta l’aggressività latente, rende patologici i sentimenti di frustrazione e la volontà di rivalsa, indirizza contro il capro espiatorio più a portata di mano la condizione diffusa di stress e di ansia. Quelli del centrodestra più fieri di aver frequentato il liceo classico ricordano, con modi petulanti, che xenofobia non significa odio razziale, bensì paura dello straniero. Ma è proprio qui il punto. Quella paura (motivata, immotivata o solo parzialmente motivata) si manifesta come umore e come sentimento: dopo di che la si può blandire o razionalizzare, galvanizzare o mediare, indirizzare politicamente o contenere intelligentemente.

In Italia, una parte significativa del ceto di governo (della Lega, di An, di Forza Italia) ha deciso di farsi “imprenditore politico” di quella paura. Ovvero di trattarla politicamente, di trasferirla nella sfera pubblico-istituzionale, di scagliarla contro gli avversari. E qui arriviamo alla seconda ragione di inquietudine.

Considerate quei disgraziati che hanno aggredito il cittadino cinese a Tor Bella Monaca. Si tratta di minorenni alcuni dei quali già responsabili di episodi analoghi. Li si deve giudicare e punire secondo quanto previsto dalla legge. Ma il farlo (si spera con tempestività) non deve impedirci di provare a “capirli”. Capirli non significa essere indulgenti: significa, piuttosto, indagare le cause che hanno indotto degli adolescenti a trasformarsi in criminali. Tra tali cause c’è quel fattore incentivante di cui già si è detto: se un leader politico o una leader politica urlano nei comizi cacceremo i clandestini a calci nel culo, perché mai, in presenza di determinate condizioni sociali e culturali, un adolescente frustrato e smarrito non dovrebbe passare a vie di fatto? O forse ci si aspetta che, prima di sferrare quei calci “nel culo” chieda alla sua vittima se è regolare o irregolare, se è titolare o meno di permesso di soggiorno, se è un rifugiato politico o un “clandestino”?

Qui si pone un problema di linguaggio: e di linguaggio del discorso pubblico. Il termine “clandestino” è diventato merce corrente anche nel dibattito della sinistra, ed è un termine due volte sbagliato. In primo luogo, perché è improprio sotto il profilo giuridico: chi viola le norme su ingresso e permanenza nel territorio italiano commette un illecito amministrativo - una infrazione - e diventa irregolare; poi, perché quel termine è fortemente e cupamente denotativo, richiamando una dimensione di illegalità e di tendenziale criminalità, che risponde al vero solo per una quota minoritaria di stranieri irregolari. Più in generale, quello del linguaggio è un vero campo di battaglia tra discriminazione e integrazione, tra rifiuto e accoglienza. Si pensi a quando Antonio Di Pietro, nel dirsi favorevole alla classificazione dell’immigrazione irregolare come fattispecie penale, spiegò che in caso contrario «l’Italia sarebbe diventata il vespasiano d’Europa». Non siamo in presenza solo di una irresponsabile volgarità, che la dice lunga sulla moralità del difensore della morale: si tratta di una formula propriamente razzistica nel suo assimilare gli immigrati agli escrementi. Ma assai più grave, evidentemente, è l’uso costante e massiccio di quel linguaggio da parte del centrodestra: e patetico il suo tentativo di scindere completamente quel vocabolario razzistico dagli effetti sociali che contribuisce a determinare. Tanto più che - ma qui non posso soffermarmi - alle parole si accompagnano i fatti: decreti legge e delibere che configurano qualcosa di molto simile alla “produzione di razzismo per via istituzionale” (basti pensare a quell’aggravante costituita dalla condizione di irregolarità, che discrimina tra “i cittadini di fronte alla legge” e penalizza non una azione, ma una condizione). Infine, va ricordato che nel corso degli ultimi dodici mesi è avvenuto qualcosa di terribile e tragico: oggi è possibile, in spazi pubblici e in sedi di partito, urlare l’equazione romeni uguale stupratori. È accaduto quasi senza che ce ne accorgessimo, ma la diffusione di quell’infame equiparazione corrisponde a una crisi dei fondamenti culturali di una società democratica e di uno stato di diritto. Certo, i minorenni di Tor Bella Monaca vanno puniti, ma il conto non dovrà esser chiesto loro, se non per quanto di stretta pertinenza e responsabilità. I “mandanti” sono altri e stanno altrove.

Pubblicato il: 04.10.08
Modificato il: 04.10.08 alle ore 12.35   
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 07, 2008, 04:26:55 pm »

Razzismo? Meglio negare...

Luigi Manconi


Anch’io come Massimo Bordin, direttore di «Radio Radicale», non capisco perché si debba «scrivere una palla in prima pagina per poi smentirla già a pagina due». In effetti, sulla prima de il Giornale di lunedì 6 ottobre si legge che «Nella gang che picchiò il cinese la metà sono figli di immigrati»; poi, si va alla pagina seguente e nel relativo articolo si trovano quelle che il cronista definisce «strane verità»: ovvero che uno dei presunti aggressori è un adolescente «arabo» e che un altro, italiano, ha una fidanzatina dalla «pelle scura» (sua madre è eritrea, il papà italiano). E così si può titolare che «metà» degli aggressori di Tong Hong Shen sono «figli di immigrati» (ma non erano sette i membri della gang?).

Ricorrendo a questa micidiale logica aristotelica, se tra gli aggressori vi fosse l’amico di un egiziano il cui permesso di soggiorno turistico fosse scaduto o anche il conoscente del figlio di una badante non ancora regolarizzata, il quadro sarebbe perfetto e il Giornale potrebbe tranquillamente titolare: «cinese aggredito da una banda di clandestini». Ma non c’è solo un vertiginoso deficit di senso del ridicolo, dietro una simile lettura giornalistica: c’è qualcosa di estremamente interessante che va considerato con cura. Nessuno, ovviamente, ha mai detto o scritto che «l’Italia è un Paese razzista». E chi mai potrebbe pensare una simile scemenza? Si è detto e scritto, piuttosto, che il numero crescente di «atti di razzismo» deve suscitare allarme e venire adeguatamente contrastato. Ma perché, allora, la destra, i suoi dirigenti politici, i suoi intellettuali e i suoi mezzi di comunicazione si affannano a negare un dato inesistente (l’Italia è un Paese razzista) e a ignorare quello reale (aumentano gli atti di razzismo)? Perché tanta agitazione scomposta e sudaticcia per “neutralizzare” episodi incontestabili e incontestati di violenza a base etnica e per banalizzarne altri? La destra avrebbe potuto tranquillamente dire: gli episodi di razzismo si verificano, tendono ad aumentare e sono il risultato della politica irresponsabile della sinistra. E avrebbe potuto, con qualche argomento, provare a motivare la sua tesi. Non lo ha fatto e non lo fa. La ragione è una: la destra intuisce che il razzismo, qualunque sia la sua dimensione e qualunque sia la sua possibilità di espansione, ci parla di noi. Sia chiaro: anche della sinistra (e perché mai la sinistra dovrebbe essere immune da pregiudizi etnici e da volontà di discriminazione?), ma in particolare parla della destra perché essa non ha saputo e voluto fare i conti con le proprie radici oscure, le proprie pulsioni profonde, i propri umori indicibili. Dunque, il problema non è semplicemente che nel centrodestra si trovino (a loro perfetto agio) Borghezio e Prosperini, Calderoli e Santanchè: il vero problema è piuttosto che le loro dinamiche mentali e le loro parole pubbliche incrociano sentimenti diffusi nella popolazione, li incentivano e ne sono incentivati, li blandiscono e ne sono confortati e - ecco il punto - sono fatti della stessa sostanza, rimandano a medesime concezioni del mondo e a interpretazioni della realtà affini. Non mi riferisco, pertanto, solo ad interessi politico-elettorali, seppure non possa essere sottovalutato il fatto che Silvio Berlusconi, in un quindicennio di attività pubblica, non ha espresso mai, dico mai, una condanna inequivocabile del fascismo e del razzismo. E tuttavia la questione di fondo è un’altra: è che il primo tratto culturale e il principale connotato politico, il fondamentale bisogno e la più potente proiezione dell’identità della destra si esprimono, nonostante tutte le trasformazioni possibili e immaginabili, in una domanda di conservazione. Quella domanda, tanto più nell’epoca della globalizzazione, corrisponde sul piano sociale alla difesa del proprio territorio e del proprio sistema di rapporti e di scambi, del proprio stile di vita e della propria mentalità. Lo straniero, rispetto a quella domanda di conservazione e di conformità, è il portatore della molteplicità: ne consegue la paura per ciò che essa produce. Appunto, una società multi-etnica, multi-culturale, multi-religiosa.

È qui, esattamente qui, che la destra politica è strutturalmente portata a rappresentare le tendenze alla chiusura e all’autodifesa, all’autoreferenzialità e all’autosufficienza delle comunità (locali e nazionali) che si percepiscono come assediate; e ad assecondare, se non decide di contrastarle, tutte le possibili degenerazioni, dalle pulsioni più regressive fino alle inclinazioni più esplicitamente intolleranti. Non è fatale: la politica, qui quella di destra, può operare una mediazione, funzionare da filtro, portare a razionalità ciò che si propone come mero istinto. L’oggetto del contendere è proprio questo: se l’attuale destra italiana stia realizzando politiche e stia inviando messaggi tali da mediare intelligentemente o incentivare irresponsabilmente le tensioni attuali e possibili tra italiani e stranieri. Siamo in molti a credere che le misure di legge finora approvate e il discorso pubblico quotidianamente reiterato vadano nella direzione di esaltare le ansie collettive e, in qualche caso, di organizzarle politicamente. Le campagne contro gli zingari e contro i romeni non cadono dal cielo: sono gestite in prima persona da settori del governo e da pubblici amministratori, che a quelle ansie collettive offrono legittimazione istituzionale, canali di espressione, bersagli da colpire. Per questa ragione appare del tutto fuori luogo la domanda di Fiamma Nirenstein sul il Giornale di domenica scorsa: «È razzista quella ragazza che ha paura?» quando «tornando a casa in un quartiere popolare di notte» si allarma «se incontra giovani stranieri che parlano un’altra lingua, hanno un altro modo di approcciare?». Ma è ovvio che non lo è, e a quella ragazza vanno garantite sicurezza e libertà di movimento. Se nasce un problema politico è perché c’è chi, su quella paura (comprensibile e parzialmente motivata), effettua un investimento politico e ottiene un rendimento politico. Resta il fatto che la destra italiana rimuove tutto ciò: il suo inconscio le suggerisce di non guardarlo, per non dovervi fare i conti. Ma la discussione non finisce qui. In un editoriale de Il Corriere della Sera di ieri, Giuseppe De Rita descrive bene le forme del “modello italiano” di integrazione, segnalando i processi positivi di inserimento degli stranieri all’interno della nostra vita sociale («nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle realtà locali») e due aree di maggiore crisi: quella «delle grandi città e delle loro periferie» dove «si intrecciano la devianza degli immigrati e l’aggressività dei bulli e teppisti indigeni»; e quella «delle zone di forte criminalità organizzata dove la vulnerabilità sociale è più alta e dove possono intrecciarsi devianze di diversa origine e potenza». E sono due questioni, come nota opportunamente De Rita, che «andrebbero affrontate anche se non ci vivesse neppure un immigrato». Dopo di che De Rita critica la tendenza a enfatizzare il razzismo «come nuova grande malattia italiana». Per De Rita, questa è una «tentazione doverosa per chi deve ricordare grandi principi di civiltà collettiva» (si riferisce, immagino, al Pontefice e al capo dello Stato) ma «ci allontana dalla realtà, dai processi e dai percorsi su cui senza clamori si fa integrazione sociale di immigrati». Non ne sono convinto: e proprio perché l’immigrazione si presenta e come grande questione sociale, che ha nei processi di integrazione la prova più delicata e insieme più remunerativa; e come grande questione culturale, e, direi, morale: essa richiama, infatti, i temi cruciali dell’eguaglianza e dei diritti universali della persona. Temi che non vanno evocati retoricamente né declinati in chiave sentimentale e solidaristica, ma vanno calati concretamente dentro il sistema di cittadinanza e dentro i nuovi statuti dei rapporti internazionali. (Oltre che, beninteso, attraverso politiche pubbliche e strategie amministrative razionali e intelligenti, non demagogiche e non velleitarie. Che richiedono notevoli risorse). Per capirci: non penso affatto che ci sia quella “generale deriva razzistica”, e tuttavia segnalo due fatti. Il primo: la caduta nel discorso pubblico di quel tabù che impediva di urlare in una sede politica “i romeni sono stupratori”; il secondo: l’aggravante di clandestinità per gli immigrati irregolari che commettano reato; aggravante non dipendente dall’illegalità dell’azione, bensì dalla mera condizione amministrativa (e in qualche modo esistenziale). Se le dinamiche culturali e giuridiche derivate da questi due fatti non vengono adeguatamente contrastate, i processi di integrazione - ecco il punto - subiranno contraccolpi, ritardi, deterioramenti. Più in generale i fondamenti di valore del sistema democratico e dello Stato di diritto ne risulteranno intaccati.

È questo che, a mio avviso, dovrebbe indurre la sinistra a fare della questione dell’immigrazione uno dei tratti essenziali della propria identità culturale programmatica. E non in nome di una “società multiculturale” che, come direbbe Giovanni Trapattoni «non è una passeggiata, ma un’ardua fatica»: e non è, certo, quel surrogato del socialismo che molti hanno creduto (o lo è nel suo senso peggiore); e nemmeno in nome della solidarietà, che è virtù preziosa ma propria della sfera privata e delle opzioni personali, e non può essere imposta per legge o raccomandata fraternamente a chi non ha occhi per piangere. Bensì, in nome dei diritti e delle garanzie e di un “calcolo razionale”. È interesse mio e dei miei figli realizzare una società nella quale la convivenza sia la più pacifica possibile e l’integrazione riduca tensioni e conflitti che pure saranno inevitabili, ed è interesse mio e dei miei figli che gli standard di diritti e garanzie non siano a geometria variabile: la compressione di quelli dei soggetti meno tutelati, come gli immigrati, non innalza il livello dei nostri. Li deprime tutti.

Pubblicato il: 07.10.08
Modificato il: 07.10.08 alle ore 8.46   
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