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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 100351 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:48:53 pm »

25/1/2012

Una nave e un paese inclinati

MARIO DEAGLIO

Nave senza nocchiero in gran tempesta»: già settecento anni fa Dante si servì di una metafora marittima per parlare dell’Italia. Anche oggi una nave che può servire da metafora del Paese e delle sue difficoltà. Si tratta naturalmente della «Concordia», abbandonata dal suo capitano, ossia «nocchiero», incagliata, con il pericolo di affondare, in prossimità di un bellissimo tratto di costa italiana. Non si tratta solo di accostamenti superficiali, occorre invece riflettere sulla «Concordia» quale concentrato delle debolezze italiane.

Questa riflessione deve partire dalla società proprietaria, la Costa Crociere, quasi una sintesi dei successi e delle debolezze del capitalismo italiano. La Costa Crociere (allora Giacomo Costa fu Andrea) venne fondata sette anni prima dell’unità d’Italia e la famiglia Costa ha spesso giocato ruoli di primo piano nella storia imprenditoriale italiana. Angelo Costa, fu un leader storico degli industriali italiani e presiedette la Confindustria per ben 14 anni in due periodi distinti, ai tempi del miracolo economico.

La Costa Crociere è tra le prime società italiane a sperimentare le opportunità e le durezze del capitalismo globale e le difficoltà italiane ad adeguarsi. Lancia le crociere come nuovo prodotto, si dota di navi modernissime nelle quali si fondono la tecnologia avanzata e la raffinatezza del made in Italy. Diventa così la prima impresa croceristica del mercato europeo, forse l’unica società italiana di servizi turistici che si rivolge davvero al mercato mondiale. Allarga l’azionariato, diversifica, entra in Borsa ma non basta: l’Italia non crede nelle sue imprese e non riesce a far affluire il risparmio - tra i maggiori del mondo verso le imprese e i loro progetti di espansione. A credere nella Costa Crociere è invece la multinazionale americana Carnival che nel 1997 ne acquista la maggioranza: la Carnival investe fortemente e, oltre alla Concordia, fa costruire per la Costa Crociere ben 10 grandi navi da crociera, sulle quali lavorano complessivamente oltre diecimila persone, capaci di trasportare 3-5 mila passeggeri l’una. La Costa Crociere contribuisce per circa il 25 per cento al fatturato e ai profitti della sua capogruppo.

In queste condizioni, l’episodio del Giglio si configura come molto di più di un incidente, diventa il sintomo sia di un male oscuro del capitalismo italiano che, oltre certe dimensioni, non riesce a mettere assieme idee, strategie e capitali sia di un più vasto male oscuro: il caso della Concordia e le difficoltà italiane possono infatti essere entrambe ricondotte a una crisi di «governance», ossia del modo di funzionare della nave e, più in generale, del Paese. L’inchiesta scopre scatole nere non funzionanti, radar fuori uso, forse clandestini a bordo, manovre irregolari su una nave che andava troppo veloce in acque nelle quali non avrebbe dovuto trovarsi, con un ponte di comando pieno di gente che non avrebbe dovuto essere lì. Più in generale mette a nudo una diffusa atmosfera di faciloneria, un costante stiracchiamento delle regole.

L’analogia può anche andare oltre. La Concordia ha «in pancia» diverse migliaia di tonnellate di carburante e di altri prodotti tossici che, se si squarciassero i serbatoi o la nave affondasse, procurerebbero un danno gravissimo a fondali e zone costiere che sono tra le più belle del Mediterraneo; la nave Italia ha «in pancia» circa millenovecento miliardi di debiti. In situazioni di grave turbolenza finanziaria potrebbero «inquinare» la finanza europea e globale qualora l’Italia non riuscisse a onorare il suo vasto debito pubblico, oggi rifinanziabile a tassi di interesse troppo elevati. Ecco allora il momento dei tecnici. I sommozzatori, i palombari, gli incursori della Marina impegnati ad aprire dei varchi nello scafo, gli specialisti olandesi dello svuotamento di serbatoi; e forse, in futuro, grandi rimorchiatori che cercheranno di raddrizzare la nave. A livello nazionale, ecco gli esperti chiamati al governo, con vari ruoli, non solo a Roma ma anche ad Atene e in molti paesi europei.

Il risultato è una nave inclinata, in un Paese inclinato, in un’Europa inclinata. Per un’ironia della sorte, il nome «Concordia» era stato inteso, al momento del varo, appena cinque anni e mezzo fa, come un omaggio alla nuova Europa in cui Stati molto litigiosi cercavano di andare d’accordo. Tanto che a ciascuno dei suoi tredici ponti era stato dato il nome di uno Stato europeo. Sarebbe un incoraggiamento per l’Italia e per l’Unione Europea, entrambe chiamate in questi giorni a decisioni difficili, se la metafora volgesse in positivo. Evitare il disastro ecologico e raddrizzare la nave sarebbero di auspicio ad altri, ben più ampi, raddrizzamenti.

mario.deaglio@unito.it

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9688
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« Risposta #136 inserito:: Febbraio 08, 2012, 12:01:18 pm »

8/2/2012

Il Generale Inverno pesa sul Pil

MARIO DEAGLIO

Non bastava l’emergenza finanziaria, ora ci si mette anche il Generale Inverno. L’economia italiana, già metaforicamente gelata da una caduta produttiva - sensibilmente superiore a quella degli altri paesi avanzati - è andata, anche da un punto di vista fisico, duramente sotto zero. I Tir che qualche settimana fa rimanevano fermi per l’agitazione degli autotrasportatori sono adesso bloccati dal ghiaccio; le derrate alimentari che prima marcivano sugli autotreni fermi ai posti di blocco, ora non vengono ritirati dagli stessi autotreni bloccati dalla neve.

In aggiunta al maltempo, i problemi energetici che ci sono letteralmente cascati addosso negli ultimi dieci giorni, completano il cerchio. Dal momento che l’anno lavorativo delle industrie è di poco più di 200 giorni, ogni giorno di produzione industriale completamente perduta varrebbe all’incirca lo 0,5. L’arresto completo per tre giorni delle industrie per mancanza di combustibile - un’eventualità molto remota, quasi un’ipotesi scolastica, utile comunque a fissare le idee e le dimensioni del problema porterebbe così a una caduta dell’1,5 per cento della produzione industriale dell’intero 2012 introducendo un nuovo stimolo negativo.

Tra blocchi dei Tir e maltempo, in ogni modo, il primo trimestre del 2012 mostrerà un segno negativo superiore alle previsioni di qualche settimana fa e un’economia con prodotto in diminuzione paga minori imposte. La caduta della colonnina del termometro potrebbe così riflettersi sull’indice delle Borse e sulla finanza pubblica.

L’Italia, si scopre nuda non solo per il freddo eccezionale - e, in un certo senso, difficile da prevedere in una cultura dominata dalla convinzione semplicistica che il «riscaldamento globale» significhi che ogni anno farà progressivamente più caldo - ma anche per le tre vulnerabilità che la diminuzione delle forniture internazionali di gas stanno mettendo in luce: la rapidità e la mancanza di preavviso con cui si è manifestata l’emergenza energetica, la debolezza del controllo effettivo, a tutti i livelli, delle autorità competenti, la relativa opacità delle procedure unita alla discontinuità dell’informazione.

La rapidità con cui il problema energetico è apparso all’orizzonte è naturalmente sotto gli occhi di tutti: in quattro-cinque giorni siamo passati dalle immagini-cartolina di Roma paralizzata dalla neve alle prospettive più preoccupanti di treni fermi e ciminiere spente, dall’idea di un fine settimana anomalo a quella di un freddo senza fine. Tutto questo ci è caduto addosso all’improvviso, a seguito di una riduzione - di entità notevole ma non catastrofica - delle forniture di gas in arrivo dalla Russia, mostrando che il sistema energetico italiano è, di fatto, molto carente in elasticità. Il che significa che siamo vissuti a lungo nell’anticamera dell’emergenza energetica senza saperlo veramente, o senza esserne informati.

Sulla debolezza del controllo è inutile soffermarsi se non per ricordare che i due-tre anni di tagli ai bilanci degli enti locali hanno quasi inevitabilmente portato alla diminuzione degli spartineve e perfino del sale da spargere sulle strade con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. L’opacità deriva infine dal fatto che è difficile trovare risposte a domande fondamentali: a termini di contratto, i russi possono davvero ridurre senza preavviso il flusso di gas? Quale ruolo ha l’Ucraina, che in passato ha operato prelievi non autorizzati dai gasdotti che attraversano il suo territorio per arrivare in Italia, nell’improvviso aggravamento della crisi? Quanto incide sull’attuale scarsità energetica la situazione creatasi in Libia dopo Gheddafi con forniture che probabilmente non sono a pieno regime? Su tutti questi punti l’informazione è scarsa, discontinua, lacunosa, comunque insoddisfacente.

La crisi del freddo ha poi provocato una crisi di funzionamento delle istituzioni. Lo dimostra il caso della Protezione Civile che, a detta del suo stesso capo «non è più operativa». Il suo collasso segna la fine del tentativo, durato circa un ventennio, di dotare il Paese di un organismo pubblico di pronto intervento che non venisse strangolato dalle regole della burocrazia e fosse quindi in grado di agire con immediatezza. E anche il caso dell’esercito che, in questi periodi di ristrettezze di bilancio, vuole essere pagato dai sindaci che richiedono il suo intervento per spalare la neve: la cifra non è del tutto trascurabile, trattandosi di settecento euro al giorno per ogni squadra di dieci spalatori. Lo scollamento nazionale spinge poi il sindaco di Roma a vedere nei servizi sul maltempo nella capitale che compaiono sui giornali del Nord una bieca congiura per togliere a Roma la possibilità di ospitare le Olimpiadi del 2020.

Sotto le nevicate, insomma, è l’Italia che rischia di sfarinarsi. Nei Paesi di montagna di un tempo, neve e freddo portavano con sé impulsi di solidarietà e di condivisione. Invece di condivisione, la situazione attuale porta divisione, con i «forconi» siciliani che minacciano di bloccare le uscite dalle raffinerie dell’isola, nelle quali si «lavora» una quota importante del petrolio italiano per impedire che venga inviato nel resto d’Italia.

Forse proprio di qui, dalla presa di coscienza della realtà di un Paese infreddolito, lacerato, oltre che in bolletta, occorre partire per cercare di rilanciare l’idea stessa di un Paese reso irriconoscibile, ancor più che da una coltre bianca, da una coltre di acrimonia ed egoismo. Senza tale presa di coscienza, qualsiasi politica di rilancio rischia di essere fondata sulla sabbia; o, se si preferisce, su un tappeto di neve scivolosa.

mario.deaglio@unito.it

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9750
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« Risposta #137 inserito:: Febbraio 22, 2012, 11:51:27 am »

22/2/2012

La speranza alla fine di un lungo inverno

MARIO DEAGLIO

La maratona sul debito greco, che durava ormai da un paio d’anni, potrebbe (il condizionale è d’obbligo) essere proprio finita.

La notte ha portato consiglio e dalle lunghe ore buie tra lunedì e martedì è finalmente emerso un accordo che potrebbe rappresentare la conclusione, non certo dell’intera vicenda greca, ma almeno delle complicate storie del debito di Atene, dell’instabilità e della paralisi che esso ha determinato.

Giunge così a termine una lunga storia intessuta di menzogne greche, di ipocrisie europee (in particolare tedesche), di miopia dei mercati, di disattenzione dei politici.

L’Europa economica può ora voltare pagina. A ciò può contribuire il documento, reso noto quasi contestualmente alla conclusione dell’accordo greco, firmato da nove capi di governo dell’Unione Europea, i più entusiasti delle ricette del mercato, tra i quali il presidente del Consiglio italiano. E’ piuttosto raro che i capi di governo di alcuni Paesi membri si mettano assieme per scrivere una lettera al presidente dell’Unione Europea sollecitando la realizzazione di quello che in effetti è un programma di politica economica e si potrebbe certo discutere a lungo su vari aspetti del documento, quali la netta preferenza per legami profondi con gli Stati Uniti e l’assenza di riferimenti alla tassazione e alla politica industriale. Con questo documento, però, si può ritenere per lo meno incrinata l’unità di facciata dell’Unione Europea, incentrata sull’accordo tra Germania e Francia, che ha caratterizzato la sistemazione del debito greco, un’unità malinconica, il cui ingrediente principale è un’austerità che sembra fine a se stessa, fatta di imbarazzati silenti e di rassegnata unanimità.

La visione franco-tedesca viene sfidata: i nove capi di governo fanno balenare la visione di un’Europa «giovane», con un mercato elettronico ben regolato, la fine dei privilegi delle categorie professionali. Il contenuto, però, conta relativamente poco: si è aperto, per usare un’espressione inglese, un nuovo «campo di gioco» e questo è più importante dello sport, più o meno liberista, che vi si praticherà. L’importante è che si torni a giocare, che si aprano scenari al di là del raggiungimento di un grigio pareggio dei bilanci pubblici e di un’ancor più grigia riduzione del debito.

Il gioco sarà quello dello sviluppo. L’Europa - e l’Italia in particolare - ha smesso di praticarlo da parecchio tempo. Per far ripartire il motore inceppato le liberalizzazioni sono spesso soltanto una condizione necessaria ma non sufficiente. E’ necessario un insieme complesso di circostanze, solo in parte determinabili a livello italiano o europeo.

Il discorso è particolarmente vero per l’Italia la cui economia esce sfinita da un durissimo inverno meteorologico e un ben più lungo inverno economico, con una produzione in forte calo ma forse, per la prima volta da molto tempo, con la voglia di ritrovare i sentieri della crescita. Le speranza, per ora debolissime, di una ripresa italiana, poggiano su tre pilastri.

Il primo pilastro è la continuazione della crescita dell’economia globale e in particolare dell’economia europea. Tra i vari Paesi europei va naturalmente sottolineata la posizione della Germania: il proseguimento dell’espansione tedesca nei prossimi trimestri, è un fattore irrinunciabile per qualsiasi discorso di crescita italiana di breve periodo. Un ruolo secondario ma sempre più importante, per la rapida crescita di quei mercati è rappresentato dai Paesi dinamici dell’Asia.

Su tutto ciò l’Italia può incidere assai poco e siamo nelle mani della congiuntura internazionale. Vi sono invece buone prospettive perché si realizzi un secondo pilastro, tipicamente italiano, rappresentato dal contrasto all’evasione fiscale e alla corruzione. La lotta a questi fenomeni sembra dare risultati insperati e questo potrebbe consentire di dedicare una parte dei maggiori introiti alla riduzione delle imposte sui redditi più bassi e non soltanto alla riduzione del deficit. La mole dei consumi realizzati con quei redditi sicuramente aumenterebbe dopo un lungo periodo di stagnazione o addirittura di arretramento.

Un terzo pilastro di una ripresa possibile appare legato a un recupero spontaneo dei consumi nei prossimi mesi. Occorre infatti considerare che la possibilità materiale di provvedere alle spese normali è stata molto ridotta dalle condizioni atmosferiche che hanno fortemente scoraggiato l’accesso dei consumatori ai luoghi della grande distribuzione. Tale condizione dovrebbe cessare ed è ragionevole attendersi che una buona parte delle decisioni di spesa che non si sono tradotte in acquisti durante l’inverno - soprattutto per quanto riguarda beni durevoli - trovi il suo completamento in primavera: si potrebbe trattare di una modesta spinta iniziale per riavviare il motore.

Manca, purtroppo, per il momento, il quarto pilastro, rappresentato dagli investimenti delle imprese private e, più in generale, da una condizione finanziaria e creditizia soddisfacente per le piccole imprese. Il credito alle imprese non è soltanto dovuto alla buona volontà dei banchieri, come talvolta si crede: il sistema bancario italiano è come schiacciato da scarsità di risorse ed eccessiva abbondanza di rischi.

Un quadro ancora grigio, quindi, ma forse con qualche piccolo segno di un nuovo dinamismo. I prossimi mesi diranno se, in Italia e in Europa, qualcosa si sta davvero muovendo.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #138 inserito:: Febbraio 25, 2012, 05:07:52 pm »

25/2/2012

Una diversità virtuosa

MARIO DEAGLIO

E’ mai possibile che a dicembre, ossia sotto le feste, nella stagione dei regali e dei cenoni, gli italiani abbiano speso, per gli acquisti nei negozi e nei supermercati meno di quel che avevano speso a novembre? Senza esitazione, l’Istat risponde di sì: rispetto al dicembre del 2010 è una vera e propria Caporetto, con il 3,7 per cento in meno per gli acquisti di beni non alimentari e l’1,7 per cento in meno per gli acquisti alimentari. La curva delle vendite del commercio al dettaglio degli ultimi due anni fa male agli occhi, con un lieve scivolamento dal dicembre 2009 al febbraio 2011 divenuto sempre più rapido a partire dal marzo dell’anno passato. I consumi hanno reagito molto peggio nel 2011 che nel 2008-09, quando la crisi finanziaria aveva cominciato a colpire duramente l’economia reale. In giugno siamo scesi sotto il livello di consumi del 2005 (quando i residenti in Italia erano due milioni e mezzo in meno); ora siamo scesi al livello del luglio 2004.

E non si tratta certo di una «decrescita felice» auspicata da chi è contrario al consumismo ma di una contrazione che avviene in un clima di durezza e di crescente incertezza.

Un’indagine del Cermes, il Centro di Ricerca su Marketing e Servizi dell’Università Bocconi, mostra chiaramente che questa caduta dei consumi si sta accompagnando a un forte mutamento qualitativo, che invece non si era verificato, per lo meno con questa ampiezza, nella contrazione dei consumi di tre anni fa. Il modello tradizionale del consumismo sembra tramontato: il consumatore «bamboccione», stregato dalla pubblicità, ha perso il suo sorriso un po’ assente, si è fatto, duro, attento, determinato a vender cara la propria pelle, ossia a centellinare i centesimi, invece di spendere allegramente gli euro. Forse si sta realizzando ora in Italia un mutamento di comportamenti consumistici parallelo a quello che si è verificato negli Stati Uniti a partire da 4-5 anni fa.

Tale comportamento sembra articolarsi in due diverse strategie di consumo. La prima consiste nel trasferire all’interno delle pareti domestiche attività il cui prodotto veniva in precedenza acquistato all’esterno. Una buona colazione mattutina sostituisce sempre più frequentemente il «salto al bar» nella pausa caffè; si può prendere il caffè a casa, magari con le nuove macchinette a cialde, con le quali una tazzina costa più cara di quella della caffettiera normale ma assai meno di quella dei bar; e sono sempre più frequenti i casi di coloro che hanno ricominciato a fare il pane in casa invece di comprarlo.

La seconda strategia consiste nell’adeguare la spesa alle (ridotte) risorse finanziarie che si intendono dedicare ai consumi, non solo per necessità ma qualche volta anche per scelta. Gli ipermercati diventano luoghi di tentazione invece che luoghi di soddisfazione dei bisogni; meglio quindi acquisti piccoli e frequenti, adatti ai soldi effettivamente in tasca, che la «gita» ai templi del consumo dalla quale si esce con il portabagagli strapieno di prodotti, una parte dei quali senza saper veramente perché. Le offerte «prendi tre, paghi due» non sono allettanti quando si ha necessità di un solo prodotto; le confezioni piccole sono preferite a quelle grandi anche se durano meno perché alleggeriscono meno il portafoglio. E naturalmente, bando agli sprechi: gli italiani stanno (ri)imparando a non buttar via nulla.

Gli italiani non sembrano resistere con tagli «orizzontali» che toccano ogni tipo di prodotti, ma reagiscono, modellando i consumi sul reddito. Sembra così di intravedere un comportamento «attivo», quasi un riappropriarsi di facoltà di scelta, di decisioni che per vari decenni gli italiani, come i cittadini degli altri Paesi ricchi, avevano delegato di fatto ai pubblicitari. Il termine «frugalità», reintrodotto nel vocabolario americano quattro anni fa per indicare un atteggiamento responsabile rispetto ai beni, ha forse trovato la sua strada anche in Italia. Tale atteggiamento sembra far capolino anche nelle scelte lavorative, con casi recenti, da seguire con attenzione, di ritorno degli italiani verso occupazioni e mestieri fino a pochissimo tempo fa «snobbati» e lasciati agli immigrati.

L’Italia che uscirà dalla crisi - che ha probabilmente toccato il picco a gennaio e febbraio, anche per motivi meteorologici, con il freddo che limitava l’offerta degli alimentari freschi e teneva i consumatori lontani dai luoghi dell’acquisto - sarà probabilmente diversa, più responsabile, più reattiva dell’Italia che vi è entrata, quasi senza accorgersene e dopo averne negato a lungo l’esistenza. Potrà sembrare una piccola cosa, ma è proprio su questa diversità di atteggiamento che occorre costruire, se questo Paese vuole avere un futuro.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #139 inserito:: Marzo 03, 2012, 11:18:56 pm »

3/3/2012

Mille giorni per dimenticare il baratro

MARCO DEAGLIO

Con il «patto di bilancio», siglato ieri, ha inizio un esperimento indispensabile e pericoloso al tempo stesso: entro tempi brevi i Paesi della zona euro dovranno mettere in sicurezza i propri conti pubblici. Una scelta che obbedirà a direttive generali, che dovranno essere incluse nelle rispettive costituzioni. La loro applicazione sarà controllata nientemeno che dalla Corte di Giustizia europea e non saranno più possibili bilanci strutturalmente in deficit, anche se qualche piccolo valore negativo del saldo corrente sarà consentito nelle fasi sfavorevoli dei cicli economici.

Perché il trattato entri in vigore è necessaria l’approvazione di dodici Paesi soltanto; il vecchio principio dell’unanimità è stato spazzato via. Si tratta di cambiamenti radicali che un’Italia (e un’Europa) distratta ha seguito con insufficiente attenzione: è la fine della finanza allegra da parte dei governi che non potranno più, come spesso hanno fatto i loro predecessori, lasciare debiti eccessivi a chi viene dopo di loro. Insieme alla finanza allegra, se ne va un altro pezzo di sovranità nazionale, rappresentato dalla libertà di decidere senza limiti sui proprio bilanci pubblici, una libertà di cui molti Paesi hanno fatto un uso irresponsabile.

Non dobbiamo quindi essere scontenti, anzi, ma rimane un interrogativo fondamentale: come sarà possibile, in un continente sull’orlo della recessione, conciliare una simile «camicia di forza» sulla spesa pubblica con l’imperativo di sostenere l’economia evitando un tuffo nella disoccupazione di massa, e tagli socialmente insostenibili allo Stato assistenziale? Non si rischia di scatenare un rigetto viscerale da parte di Paesi finanziariamente stremati, come l’Italia e la Spagna e forse anche la Francia? A questo interrogativo ha cercato di rispondere anticipatamente la Bce, la Banca Centrale Europea: con le due aste del 21 dicembre 2011 e del 29 febbraio 2012 ha immesso nel circuito finanziario europeo circa mille miliardi di euro, prestati, a bassissimi tassi di interesse, a quasi altrettante banche europee.

Gli obiettivi di questa gigantesca operazione sono tre: rinforzare le banche in difficoltà (fuori d’Italia ce ne sono parecchie), sostenere, ove necessario, i debiti pubblici sotto attacco speculativo sui mercati finanziari, e fornire le basi per rilanciare il credito alle imprese. L’intervento della Bce era assolutamente necessario, come l’ossigeno per un malato grave in crisi respiratoria. Sarà però anche sufficiente? Riuscirà il malato a riprendere la respirazione normale quando la bomboletta sarà finita, ossia quando, tra tre anni, questi prestiti scadranno? Non c’è alcun parametro certo per rispondere con sicurezza a questa domanda ed è proprio per questo che il nuovo esperimento europeo racchiude una buona dose di inevitabile pericolo.

L’unica cosa che sappiamo con certezza e che tre anni fanno poco più di mille giorni: tra poco più di mille giorni, quindi, i mille miliardi dovranno esser restituiti. Per conseguenza, l’Europa ha mille giorni per coordinare i bilanci dei Paesi membri, per reimpostare, per ripensare, per rilanciare le sue ventisette economie. Negare l’ossigeno a un malato che ha gravi difficoltà di respirazione sarebbe stato assurdo. Pensare che il malato possa restare per sempre attaccato alla bombola dell’ossigeno sarebbe un’assurdità ancora più grande. Per questo non si può dar torto al cancelliere tedesco, Angela Merkel che, pur riconoscendo nel nuovo trattato una pietra miliare per l’Europa, invita a non abbassare la guardia, ammonisce che non siamo affatto fuori dal tunnel e considera la situazione essenzialmente fragile. Per l’Italia uno degli interrogativi cruciali per i prossimi mesi è quanti dei miliardi presi a prestito dalle banche italiane arriveranno veramente là dove sono assolutamente vitali, ossia al tessuto primario delle piccole e medie imprese che non dispongono di forza sufficiente per andare da sole sui mercati finanziari e hanno un bisogno vitale del credito bancario.

«E’ cruciale», ha detto il governatore della Banca d’Italia il 18 gennaio nel suo importante discorso al Forex, «che l’economia non entri in asfissia creditizia». Per evitare l’asfissia creditizia sono essenziali le banche, chiamate a dosare e indirizzare l’ossigeno della Bce. Hanno ottenuto un consistente finanziamento a basso prezzo dalla stessa Bce e si chiede loro di erogare, con una parte di queste risorse a clienti la cui credibilità bancaria risulta, a seguito della difficile situazione economica, inferiore a quella di un anno o anche solo sei mesi fa.

Il mondo bancario è in allarme perché nel decreto sulle liberalizzazioni è stata inserita (e approvata dal Senato) una norma che delle liberalizzazioni è l’opposto in quanto impone l’assenza di commissioni bancarie, una normale e importante fonte di reddito per gli istituti di credito. Si è trattato probabilmente di un incidente di percorso, che proprio non ci voleva e che ci si augura sia rapidamente corretto: perché, anche se finalmente ci stiamo avviando di buon passo e non siamo più sull’orlo del baratro, il sentiero è lungo, difficile e in salita.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9838
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« Risposta #140 inserito:: Marzo 09, 2012, 11:22:32 am »

9/3/2012

Condannati alla povertà

MARIO DEAGLIO

Alla fine la finanza ce l’ha fatta. Alle otto di ieri sera, ora italiana, è arrivato l’annuncio ufficiale: i possessori privati di debito greco hanno detto sì alla proposta di accettare la perdita di oltre metà del loro denaro.

È stato così rinviato alle calende greche il rimborso del resto e i creditori si sono accontentati, per questo lungo periodo, di un tasso di interesse molto basso.

Siccome l’adesione è stata volontaria - anche se certo non spontanea, viste le pressioni sui fondi e sulle banche che detenevano grandi quantità di titoli greci - la Grecia non è in fallimento; la valanga dei rimborsi sui Cds, i titoli-scommessa sul fallimento di Atene, ben più temibili del debito stesso, stimati in 1000-1500 miliardi di euro non si abbatterà quindi sulla finanza mondiale. A causa di questa valanga, alcuni grandi della finanza internazionale avrebbero potuto soccombere, ancora più facilmente della Grecia.

L’equilibrio di fondo della finanza globale appare comunque salvo, per il momento; la testardaggine del cancelliere tedesco, temperata dai suoi partner italiani e francesi, consente ora a tutti di tirare un sospiro di sollievo. L’indice Dow Jones - leggendario termometro dei capitalismo finanziario - può riprendere la marcia verso quota 13 mila, superata di un soffio prima di ricadere nei giorni scorsi, proprio per il pericolo di un cedimento dell’euro.

In questa situazione l’Italia incassa un bonus particolare: l’ormai famoso «spread», ossia la distanza tra i bassi rendimenti dei titoli decennali emessi dallo Stato tedesco e gli equivalenti emessi dallo Stato italiano, è sceso sotto il livello del 3 per cento. Siamo di nuovo un Paese rispettabile e l’estero non sembra dare gran peso al cicaleccio politico esploso improvvisamente due giorni fa, considerandolo normale amministrazione. Il che significa che lo Stato spenderà meno per ottenere il rifinanziamento dei debiti in scadenza nelle prossime settimane (e sperabilmente nel resto dell’anno). E gli spagnoli, nostri «cattivi» cugini, che hanno apertamente sfidato l’Europa annunciando che nel 2012 non rispetteranno l’obiettivo di deficit a loro assegnato, hanno avuto la «punizione» che si meritano: per la prima volta da molti mesi il loro «spread» è (un po’) più alto del nostro. Le distanze sono ristabilite, le normali gerarchie sono rispettate.

Di fronte a questo complicato e fragile ritorno alla normalità occorre evitare manifestazioni premature di giubilo. E questo per tre motivi. Il primo è che quello che abbiamo fatto alla Grecia trascende i confini dell’economia: premesso che i Greci sono stati dei grandi mentitori (ma l’Europa finanziaria per anni ha voluto credere alle loro menzogne senza darsi la pena di indagare) va denunciato che il resto d’Europa li sta trattando, per certi aspetti, peggio di come gli alleati della seconda guerra mondiale trattarono la Germania sconfitta. L’accordo che mette al riparo l’euro, condanna infatti la Grecia: tra il 2009 e il 2011 il prodotto lordo greco ha già subito una caduta del 10 per cento e scenderà ancora (secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale) almeno del 2 per cento nel 2012. La disoccupazione è raddoppiata, le retribuzioni dei pubblici dipendenti sono state decurtate del 20 per cento.

A fronte di questi enormi sacrifici, la Grecia non ha alcuna certezza che la cura funzioni. Può anzi trasformarsi in una trappola crudele: le imposte pagate da un’economia che si contrae in questa maniera si contraggono fortemente anch’esse e il sospirato pareggio di bilancio che sembra a portata di mano sfugge quando si crede di averlo afferrato. E’ già successo con il primo tentativo di salvataggio della Grecia, potrebbe succedere di nuovo. Impedendole di dichiarare ufficialmente il fallimento, l’Europa sta costringendo la Grecia a dissanguarsi goccia a goccia senza una chiara possibilità di ripresa. A questa tortura un giornale di Vienna ha dato il nome appropriato di «genocidio finanziario»: stiamo condannando quel Paese ad almeno 15 anni di relativa povertà.

Dalla parte dell’Unione Europea non tutto è tranquillo. Il presidente della Banca Centrale Europea (Bce) ha potuto ieri suonare il «cessato allarme» per l’euro e rallegrarsi pubblicamente per il superamento dell’ostacolo e il successo delle due recenti operazioni di finanziamento a tre anni, per complessivi mille miliardi di euro, che hanno fornito all’economia europea almeno una parte dell’ossigeno necessario per sopravvivere. La stessa Bce ha però ancora una volta tagliato le stime della crescita europea che ora oscilla tra -0,5 e +0,3 per cento, il che significa stagnazione. L’inflazione è prevista tra il 2,1 e il 2,7 per cento, in significativo aumento rispetto all’1,5-2,5 per cento di dicembre, soprattutto per l’aumento del prezzo del petrolio. Non è proprio un buon segnale. Lo stesso Draghi, inoltre, ha dovuto difendersi dalle critiche dei «falchi» della Bundesbank, arrivate ai giornali grazie a un’insolita indiscrezione tedesca: dietro l’unità di facciata dei banchieri europei vi sono differenze profonde e molta incertezza.

In questa prospettiva si colloca l’incerta situazione italiana; il rallegramento per i risultati raggiunti negli ultimi quattro mesi non deve far dimenticare che la strada che il Paese deve percorrere è lunghissima. Abbiamo scalato una collinetta, appena una piccola asperità che fa da anticima alla montagna del nostro debito, accumulato in una generazione. Stiamo andando di buon passo, ma la strada davanti a noi è ancora davvero molta.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #141 inserito:: Marzo 23, 2012, 11:19:43 pm »

23/3/2012

La nuova sfida è evitare la serie b

MARIO DEAGLIO

Nell’Italia della frantumazione, in cui le forze politiche e sociali tendono a sbriciolarsi, la Confindustria ha a lungo costituito un’eccezione, riuscendo a rappresentare con efficacia, nel confronto sociale, le anime sempre più divergenti dell’imprenditoria italiana. La designazione alla presidenza di Giorgio Squinzi con pochissimi voti di scarto sull’altro candidato, Alberto Bombassei, non è indizio di insanabili dissensi ma piuttosto della difficoltà, riscontrabile in quasi ogni aspetto della società italiana, di raggiungere il consenso, di pervenire a posizioni veramente condivise.

Si può facilmente constatare un processo di sbriciolamento che interessa la politica come il mondo del lavoro, le realtà territoriali, le categorie, le generazioni e che non genera tanto un «tutti contro tutti» quanto il rapido venir meno di motivi di coesione, una sorta di «nessuno con nessuno». Questo processo sta ora sfiorando la Confindustria, un paio di settimane dopo che il Centro Studi dell’organizzazione degli imprenditori ha confermato il quadro impressionante - purtroppo già noto nelle sue linee generali - di caduta produttiva dell’industria.

L’attuale produzione industriale si colloca oltre il 22 per cento al di sotto del massimo pre-crisi che risale all’ormai lontano aprile 2008. Quelle che sembravano profezie di sventura sono state superate in peggio dalla realtà di un’economia - non solo italiana, ma più generalmente europea, anche se in Italia si toccano alcune delle punte peggiori - in rapida contrazione strutturale: più si indebolisce, più l’industria, e l’imprenditoria in genere, diventa gracile con il rischio di creare le premesse per ulteriori indebolimenti.

All’organizzazione degli imprenditori, come alle altre parti sociali e alle forze politiche, incombe l’obbligo di uscire da questo circolo vizioso, di rafforzare la tendenza, sinora troppo timidamente manifestata, ad andare oltre alle difficoltà del momento, a disegnare un’ideale «città futura» e a confrontare con quell’ideale, senza pietà e senza falsi pudori, le proprie inadeguatezze attuali. A un’analisi di questo tipo, alcune caratteristiche peculiari dell’imprenditoria italiana appaiono inadeguate ad affrontare non solo l’economia globale ma anche la più vicina, e apparentemente più «facile», economia europea.

Le imprese italiane sono gracili dal punto di vista finanziario e piccole dal punto di vista delle dimensioni; dispongono di un capitale troppo poco distinto da quello personale degli imprenditori e cercano troppo il sostegno delle banche. Mentre mostrano vivacità tecnologica ed eccellenza qualitativa in molti settori della produzione, solo raramente hanno il desiderio di crescere e di sottoporsi al giudizio delle Borse; per mantenere un carattere ostinatamente famigliare diventano perciò vulnerabili, specie nei momenti di passaggio generazionale, ad acquisti esterni. Occorrerebbe riflettere, a questo proposito, sull’ondata, attualmente in corso, di acquisizioni di eccellenti piccole e medie italiane da parte di concorrenti europei ed extra-europei che spesso le svuotano del loro patrimonio tecnologico e trasferiscono altrove la produzione.

Dietro alla caduta del 22 per cento della produzione, insomma, c’è qualcosa di più profondo e di più difficile da combattere della crisi che stiamo dolorosamente attraversando: c’è il pericolo di un degrado permanente del potenziale produttivo del Paese, di un ritorno in serie B dopo oltre cent’anni di serie A. Tale pericolo è reso più evidente dal nanismo italiano in molti settori di punta dei nuovi modi di produzione, come sono quelli legati a Internet, e dallo scarso collegamento che le imprese riescono a realizzare con il mondo della ricerca universitaria, parte integrante e indispensabile del nuovo modo globale di produzione. Forse l’insistenza, che accomuna assai spesso sindacati e imprenditori, sull’importanza della «fabbrica» porta entrambi a trascurare quei settori «non-fabbrica» sui quali altri Paesi stanno costruendo o rilanciando la propria prosperità.

La nuova presidenza di Confindustria dovrà avere questi problemi ben presenti e non certo limitarsi a ricercare una coesione di facciata di associati fortemente assorbiti dai gravi problemi che ciascuno deve singolarmente affrontare. Non è sicuramente evitabile l’interrogativo su quanto rilevante potrà essere il potenziale produttivo italiano in un’ottica mondiale nel giro di cinque-dieci anni; e nella creazione della «città futura» dell’economia italiana non è sufficiente che gli imprenditori avanzino richieste, pur doverose e più che legittime, di innovazioni legislative, fiscali e finanziarie. E’ essenziale che si interroghino anche su ciò che possono offrire al Paese, non solo in termini di progettualità, iniziativa, dinamismo ma anche nella prospettiva di evoluzione dei meccanismi proprietari, di sviluppo e utilizzo delle nuove tecnologie, di nuovi modi di ottenere risorse finanziarie: dei nuovi modi, in altre parole, di essere imprenditori in un mondo che non è certo intenzionato ad aspettarci.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #142 inserito:: Aprile 01, 2012, 12:16:05 pm »

1/4/2012

L'Europa tra Scilla e Cariddi

MARIO DEAGLIO

Nel dodicesimo canto dell’Odissea, Omero racconta che Ulisse non aveva scelta: se fosse passato troppo vicino a Cariddi, la sua nave sarebbe stata affondata in quel terribile gorgo; se, per contro, fosse passato troppo vicino a Scilla, avrebbe salvato la nave ma quel mostro a sei bocche gli avrebbe divorato sei buoni compagni. Ulisse non disse nulla ai suoi uomini, passò vicino a Scilla e perse sei buoni marinai. Optò quindi per il male minore, ma tale opzione provocò la rivolta del suo equipaggio che lo costrinse a fermarsi sull’isola Trinacria dove uccise alcuni buoi sacri, fonte di nuovi guai.

Sia pure in forme molto diverse, tutti i governi dei Paesi ricchi devono affrontare il dilemma di Ulisse: per evitare di vedere le loro economie affondate dai mercati finanziari, ossia dal gorgo di Cariddi, devono adottare misure che provocano scontento sociale e politico, ossia le avvicinano alle bocche di Scilla.

Le forme dello scontento vanno dallo sciopero generale spagnolo all’imprevisto successo, nei sondaggi pre-elettorali francesi, del candidato comunista Jean-Luc Mélenchon.
A differenza di Ulisse, il vero pericolo è di subire contemporaneamente i due mali: di non riuscire a evitare né un ostacolo né l’altro, di vedere le economie avanzate, in particolare quelle europee, stritolate da un mercato finanziario fuori controllo e al tempo stesso scosse da un risentimento di fondo verso politiche non rapidamente efficaci.

Del rischio finanziario è un ottimo esempio la cancellazione - a seguito di un litigio tra il presidente Jean-Claude Juncker e il ministro austriaco delle Finanze Maria Fekter - della conferenza stampa conclusiva della riunione dell’Eurogruppo, svoltasi venerdì a Copenhagen. Se avesse tenuto quella conferenza stampa, Juncker avrebbe dovuto ammettere che l’Europa ha quasi soltanto «riverniciato», non realmente rafforzato, il fondo anti-crisi e che non si è ancora trovato l’accordo sul nome del suo successore: due non-decisioni indicative l’una del persistere della debolezza finanziaria e l’altra della mancanza di una vera volontà politica europea.

La debolezza finanziaria è molto evidente. Sui conti pubblici della Grecia è stato posto solo un vistoso rattoppo e il suo primo ministro ha dichiarato venerdì che gli aiuti ottenuti forse non basteranno (un modo diplomatico per chiederne dei nuovi); il Portogallo può vantare una forte riduzione del deficit pubblico, accompagnata, però, nel 2012, da una contrazione produttiva di oltre il 3 per cento; le sorti finanziarie di Italia e Spagna rimangono appese agli spread e soggette a un esame giornaliero; anche i rigorosissimi Paesi Bassi dovranno operare dei tagli per rimanere sotto il «tetto» del 3 per cento e il deficit francese, pur lievemente ridotto rispetto alle previsioni, rimane sopra il 5 per cento.

L’intera zona euro rischia così di avvitarsi in una spirale perversa: deficit pubblico - tagli alle spese per cancellarlo - riduzione della produzione a seguito dei tagli - minor gettito fiscale a seguito di tale riduzione - nuovo deficit pubblico (sia pure inferiore al precedente) invece dello sperato pareggio. Ne è un esempio la Spagna che ha dovuto varare la manovra finanziaria più severa - e più impopolare - dai tempi di Franco e che, nonostante questo, alla fine del 2012, avrà, se tutto va bene, un deficit pubblico pari a oltre il 5 per cento del prodotto interno lordo. Le analisi dell’Ocse, diffuse venerdì, mostrano che, nel loro complesso, le tre maggiori economie europee (Germania, Italia e Francia) hanno tristemente celebrato con la fine di marzo il secondo trimestre di caduta produttiva. Altri segnali di grave debolezza provengono dalla produzione industriale italiana, specie nel settore auto.

L’Unione europea non può semplicemente accettare una situazione del genere e continuare a inchinarsi ai mercati finanziari perdendo di vista la sostenibilità sociale delle manovre in corso e considerando gli andamenti di tali mercati come una (l’unica?) variabile indipendente, alla quale bisogna sempre adeguarsi senza discutere. Dovrebbe invece da un lato porre ordine in tali mercati, impedendo ondate speculative troppo brusche e rimuovendo l’opacità che ne caratterizza certi segmenti e dall'altro spostare in avanti gli obiettivi di pareggio dei bilanci pubblici e di riduzione dei debiti pubblici troppo frettolosamente fissati nel patto fiscale o «patto di bilancio» dei primi di marzo. Un pareggio troppo frettoloso potrebbe destabilizzare il sistema europeo per un lungo periodo.

Potrebbe poi introdurre qualche forma di tassazione dei circuiti finanziari (spesso sinteticamente indicata come «Tobin tax»): gli introiti di tale imposta, come anche una parte degli introiti derivanti dalle manovre dei vari Paesi, dovrebbero essere subito reimmessi nell’economia sotto forma di misure di stimolo invece di venire passivamente sacrificati al dio Moloch del pareggio da raggiungere al più presto possibile.

Se non si vuole seguire questa linea, non va scartata a priori la proposta avanzata venerdì a Cernobbio da Nouriel Roubini - l’economista turco-americano, laureato alla Bocconi che è stato uno dei pochi a prevedere la crisi - di immettere una fortissima liquidità nel sistema fino a far svalutare l’euro del 30 per cento. Per non finire nelle bocche di Scilla o sugli scogli di Cariddi l’Europa deve in ogni caso fare un salto di qualità e smetterla con il suo compiaciuto linguaggio burocratico, con le conferenze stampa annullate per nascondere i contrasti, con una visione troppo miope e troppo pericolosa.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #143 inserito:: Aprile 24, 2012, 05:29:29 pm »

24/4/2012

Il tramonto dei parametri finanziari

MARIO DEAGLIO

La caduta generalizzata delle Borse mondiali nella giornata di ieri rappresenta un sintomo importante dei gravi pericoli di sfaldamento di quell’ampia e sofistica costruzione che è la globalizzazione economica. E questo non tanto per l’entità - pur molto importante su alcune piazze europee tra cui Milano - quanto per i motivi della caduta, ossia per ciò che vi sta dietro.

I tradizionali fattori economici si intrecciano infatti con fattori politici nel delineare un quadro in movimento in cui i pilastri della collaborazione internazionale e della stabilità interna vengono duramente posti in discussione.

L’avvenimento al quale si attribuisce la maggiore influenza sui listini è naturalmente il risultato del primo turno dell’elezione presidenziale francese con l’affermazione dell’estrema destra di Marine Le Pen e la, almeno temporanea, sconfitta del presidente Nicolas Sarkozy. Dietro Sarkozy, però, la vera sconfitta è Angela Merkel, che aveva appoggiato, in maniera molto pesante, il presidente uscente.

Merkel rappresenta naturalmente l’ortodossia economico finanziaria, con il suo forse ipotetico - obbiettivo di bilanci ordinati da raggiungere attraverso sensibili sacrifici.

In realtà, il grande disegno di una normalizzazione finanziaria rappresentato dal «patto fiscale» tra venticinque Paesi europei, faticosamente varato meno di due mesi fa, sarà sicuramente rimesso in discussione da una vittoria dei socialisti di François Hollande che, se conquisterà l’Eliseo, lo farà con l’aiuto determinante del «partito della sinistra» di Jean-Luc Mélenchon: nessuna simpatia per i mercati da queste parti, ma anzi una dichiarata avversione per la finanza internazionale, un’antipatia per l’euro e una forte insofferenza per la stabilizzazione economico-finanziaria europea voluta dai tedeschi.

Non vanno però trascurate le altre componenti della caduta di ieri, in modo particolare l’apertura di una crisi di governo in Olanda determinata da un contrasto sui tagli alla spesa pubblica. I mezzi di informazione seguono assai poco le vicende del Paese dei «Mulini a vento» e per questo molti lettori si stupiranno nell’apprendere che l’Olanda, uno dei simboli del perbenismo, una delle icone di una società europea ordinata e bene organizzata, si è retta per oltre 18 mesi con un traballante governo di minoranza di centrodestra, sostenuto dall’esterno da un imbarazzante partito di estrema destra.

Questo Paese, al quale i mercati finanziari hanno sempre mostrato grande fiducia, si porta sulle spalle un deficit pubblico pari al 4,7 per cento del prodotto interno, sensibilmente superiore a quello italiano (3,9 per cento). E’ stato proprio Geert Wilders, il leader dell’imbarazzante partito di estrema destra, a dire no, in sintonia con quanto chiede in Francia il Fronte Nazionale di Le Pen, a sacrifici in nome dell’Europa.

Del resto, un articolo di Tonia Mastrobuoni su «La Stampa» di domenica documentava la rapidissima ascesa, nella Germania di Angela Merkel, del «partito dei pirati», una delle maggiori espressioni dell’antipolitica a livello europeo. I «pirati» tedeschi, dal canto loro, si ispirano all’analogo partito svedese che già nel 2009 ha ottenuto il 7 per cento dei voti nelle elezioni europee e oggi sicuramente ne otterrebbe molti di più.

Oltre a queste imponenti manifestazioni della malattia sociale, anche la malattia finanziaria dei Paesi europei sembra estendersi rapidamente, dai Paesi meridionali alla Francia (dove il rendimento dei titoli pubblici di lungo termine ha raggiunto il 3 per cento, con un balzo in avanti di un terzo in pochi giorni) e da questa, oltre all’Olanda anche alla Danimarca. Nykredit, una delle maggiori società danesi di servizi finanziari, si è «ribellata» alle agenzie di rating e ha deciso di non sottoporre più i suoi bilanci al loro impietoso scrutinio in quello che sembra un movimento in grado di coinvolgere tutti i maggiori istituti di credito di quel Paese. E non possiamo certo trarre conforto dagli Stati Uniti dove il motore dell’economia, pur alimentato da un fiume di dollari allegramente stampati, non riesce proprio a girare in maniera sostenuta; il motore cinese, intanto, dà segni di rallentamento, con le imprese quotate in Borsa che mostrano un peggioramento complessivo dei profitti realizzati nel primo trimestre del 2012 e delle previsioni dei profitti per il resto dell’anno.

Evoluzioni finanziarie ed evoluzioni politico-sociali sembrano andare entrambe nel senso di una minore stabilità. Soprattutto sembra tramontare il disegno merkeliano dell’austerità come cura di tutti i mali. Per troppo tempo le Borse hanno guardato soprattutto ai parametri finanziari. Si accorgono ora, a loro danno, di avere colpevolmente trascurato parametri sociali quali il crescente divario dei redditi, la sempre più difficile situazione dei giovani, l’opposizione viscerale a sacrifici troppo grandi.

Il predominio dei parametri finanziari appare chiaramente sulla via del tramonto senza che si sappia con che sostituirlo per salvaguardare le molte buone cose che, assieme a molti sconquassi, la globalizzazione ha portato. La ricerca di un compromesso tra disagio finanziario e disagio sociale dovrebbe essere al primo punto nell’agenda di quanti, in Italia e nel resto d’Europa, si apprestano a mettere a punto nuovi progetti politici.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #144 inserito:: Maggio 12, 2012, 10:23:04 am »

12/5/2012

La miopia della Germania priva di un grande disegno

MARIO DEAGLIO

Nell’aprile 2011 le «previsioni di primavera» della Commissione dell’Unione Europea attribuivano all’Italia una crescita del prodotto interno lordo pari all’1 per cento nel 2011 e all’1,3 per cento nel 2012. L’analogo documento per il 2012, reso noto ieri, ammette che nel 2011 si è realizzato solo un aumento dello 0,4 per cento e per quest’anno prevede addirittura una forte decrescita (-1,4 per cento). Il tutto senza un’analisi dei motivi dell’errore, che non è certo il primo.

Tale errore sarebbe forse scusabile se si trattasse di un’esercitazione accademica. Questo documento è però alla base delle raccomandazioni, talora molto pressanti, che la Commissione rivolge ai governi dell’Unione per realizzare il pareggio di bilancio del settore pubblico. Bruxelles si basa quindi su un radar che fornisce indicazioni all’insegna dell’incertezza sulla rotta e sulla velocità della navicella economica dell’Europa; tanto che il commissario Olli Rehn si è ieri affrettato a precisare che all’Italia non serve una nuova manovra in quando il deficit strutturale, ossia depurato della cattiva (e imprevista) congiuntura sarà comunque colmato.

L’incertezza, unita a una buona dose di nervosismo, trapela anche dalle dichiarazioni del cancelliere tedesco, Angela Merkel, la quale ripete che la Francia ha ormai firmato il «patto fiscale» e che non può tornare indietro, dimenticando che un documento siglato da un presidente battuto alle elezioni poche settimane più tardi e non approvato dal Parlamento è apertissimo ai cambiamenti. Perché entri in vigore, gli elettori irlandesi inoltre dovranno approvarlo con un referendum il prossimo 31 maggio. Nel 2008, rispondendo «no» a un referendum sul Trattato di Lisbona, ne avevano ritardato l’applicazione di circa un anno.

In realtà, Merkel sa benissimo che il patto dovrà e potrà essere migliorato o accompagnato da altri accordi ma più che al nuovo Presidente francese parla agli elettori della Renania Settentrionale-Westfalia, la regione più ricca e popolosa della Germania. Le elezioni locali di domani potrebbero, se i sondaggi sono affidabili, decretare la sua ennesima sconfitta alle urne e dalla gravità di questa sconfitta può dipendere il destino dell’attuale governo tedesco. Merkel però non è il solo leader a farsi guidare alla convenienza elettorale: è purtroppo molto deludente leggere sui giornali di ieri la denuncia del Presidente americano Barack Obama di un «contagio europeo» che potrebbe danneggiare l’economia americana. Anche Obama parla ai suoi elettori che tra sei mesi decideranno se confermarlo per altri quattro anni alla Casa Bianca e volutamente dimentica che la cosiddetta ripresa americana è un mezzo insuccesso e che la crisi è nata e cresciuta in America.

Merkel e Obama sono profondamente diversi tra loro ma risultano accomunati dalla miopia dei loro comportamenti. La Germania, in particolare, sta ricevendo un fiume di euro da parte di operatori del resto d’Europa che cercano per i loro capitali un impiego sicuro anche se non molto redditizio; tale spostamento facilita i tedeschi, che possono rinnovare il proprio debito a un basso tasso di interesse e rende più difficile il compito agli italiani, agli spagnoli e ai francesi, che pagano un interesse più che doppio per la medesima operazione.

Per essere davvero leader europei, i tedeschi dovrebbero utilizzare questi capitali per un qualche «grande disegno» a base di finanziamenti e investimenti nel resto d’Europa, come gli americani fecero dopo la seconda guerra mondiale con il piano Marshall. Invece del «grande disegno» l’Europa continua a ricevere da Berlino dei grandi consigli pressanti inviti a «fare le riforme» senza alcuna vera indicazione di quali riforme si tratta o di come le riforme - che rafforzano la struttura economica ma richiedono in ogni caso un tempo non indifferente per essere introdotte e per produrre effetti - possano contrastare una congiuntura negativa dalla quale derivano un crescente disagio sociale e una debolezza economica che rischia di auto-alimentarsi.

In questa situazione a francesi, italiani e spagnoli non resta che proseguire con avvedutezza nelle riforme, senza illudersi che queste possano modificare la congiuntura e inoltre introdurre nell’economia le poche gocce di «ricostituente» di cui dispongono, come ha fatto ieri il governo italiano con il «piano per l’equità» e l’altro ieri il governo spagnolo con i salvataggi bancari. Ed è presumibile che, nei suoi prossimi incontri con i tedeschi, il neo-presidente francese François Hollande accetti lo schema generale del patto fiscale firmato dal suo predecessore ma richieda parallele misure di rilancio con il coinvolgimento finanziario tedesco. E se Merkel non si fida degli eurobond dovrà probabilmente accettare i project bond, strumenti con cui finanziare programmi di investimenti infrastrutturali a livello europeo, non affidati ai governi nazionali ma gestiti dalla Commissione che, tra non molti giorni, ne esaminerà l’attuazione nella speranza di farli partire entro agosto.

Anche se questa speranza si realizzerà, prima che i project bond si trasformino in ordini alle imprese e in lavoro passeranno, nel migliore dei casi, diversi mesi. In questi mesi tutti i Paesi della zona euro di fatto potranno contare soltanto su se stessi in un orizzonte mondiale tempestoso e instabile.

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« Risposta #145 inserito:: Maggio 16, 2012, 05:06:35 pm »

16/5/2012

I creditori non sono senza colpe

MARIO DEAGLIO

La rinuncia dei partiti politici greci a formare un nuovo governo è, nei fatti, un «no» al piano di rientro dal debito preparato a Bruxelles e proposto ad Atene dall’Unione Europea. Mentre il rifiuto veniva pronunciato, un Presidente francese appena insediato si preparava a incontrare il cancelliere tedesco Angela Merkel, uno dei pochissimi leader sopravvissuti al terremoto politico che, negli ultimi tre anni, ha fatto crollare pressoché tutti i governanti europei coinvolti nel tentativo, finora sostanzialmente fallito, di trovare una via d’uscita dalla crisi.

Ad aggiungere un tocco di drammaticità, caso mai ce ne fosse bisogno, l’aereo presidenziale francese è stato sfiorato da un fulmine e ha dovuto tornare indietro costringendo a rinviare l’incontro, sia pure solo di quale ora; si è così provocato l’ennesimo, sia pur quasi simbolico, ritardo europeo nell’affrontare i problemi dell’Europa. La politica torna così a recitare, per quanto in tono minore, il ruolo che la contrappone, spesso controvoglia, alla finanza internazionale. E questo avviene non solo a Parigi, Berlino e Atene.

Ma anche negli Stati Uniti, dove il presidente Obama ha lanciato accuse durissime a Wall Street e invocato regole più severe per le banche anche a seguito delle perdite impreviste di JP Morgan, uno dei colossi della finanza internazionale. Queste perdite sono la prova che le grandi banche internazionali non hanno imparato molto dalla crisi e si sono illuse di poter riprendere tutte le vecchie abitudini dopo essere state, in molti casi, salvate con soldi pubblici.

A spingere una classe politica riluttante a un confronto con la finanza internazionale c’è una società civile in ebollizione, con le manifestazioni degli indignados non solo in Spagna e Grecia ma anche a Londra e negli Stati Uniti. Il problema si può sintetizzare in una serie di interrogativi che stanno diventando sempre più pressanti: fino a che punto la società civile - e gli uomini di governo che la rappresentano - può accettare la «dittatura dello spread» per usare la felice espressione del Presidente della Consob, Giuseppe Vegas, alla presentazione del suo rapporto annuale? Fino a che punto decisioni importanti per una collettività nazionale possono venir sottratte ai suoi organi politici e sommariamente decise dal «mercato» in sedi diverse dai Parlamenti, chiamati ormai solo a ratificare sbrigativamente intese che sono dei veri e propri «diktat»?

Quando si concedono finanziamenti «sbagliati» a Paesi che non sono in grado di restituirli, l’errore viene commesso da due parti, non solo dal debitore ma anche da chi concede il prestito. Non si vede perché quest’errore debba ricadere solo sul Paese debitore, ossia sulla parte normalmente più debole in questo tipo di transazioni, e non invece suddivisa tra quanti hanno sbagliato, ossia tra debitori e creditori in base a qualche criterio che non sia puramente finanziario. Alla dittatura dello spread occorrerebbe contrapporre una sorta di «democrazia del debito» in cui ciascuno paga per i propri errori. E questo dovrebbe valere in maniera del tutto particolare all’interno dell’Unione Europea, dove i greci furono indotti a contrarre debiti anche dalla facilità con la quale numerose banche europee e americane erano pronte a offrire loro credito.

Imporre alla Grecia (e forse domani ad altri Paesi) di pagare i debiti nei tempi stabiliti può significare una condanna di questo Paese - e domani forse di altri in Europa e altrove - a lunghi periodi non solo di incertezza ma perfino di povertà. Occorrerebbe considerare che un debitore esoso può attirare su di sé un risentimento molto maggiore di quello che si attira un nemico vincitore in guerra e che un simile risentimento è pericoloso per gli stessi creditori non solo sul piano civile ma anche su quello finanziario.

Non bisogna dimenticare, infatti, che, quando il deficit pubblico si azzera, il manico del coltello passa dal creditore al debitore. Non dovendo richiedere risorse aggiuntive, il debitore si rinforza mentre il creditore si indebolisce: il debitore potrebbe infatti decidere di ritardare la restituzione del debito o ridurre gli interessi sotto il livello pattuito. Una severità eccessiva nei confronti del debitore che non ce la fa rischia di porre le basi di risentimenti dai quali potrebbero sorgere nuovi, e più forti, motivi di instabilità. Nella storia i casi di questo genere sono piuttosto frequenti (i tedeschi dovrebbero rammentare che il risentimento contro le riparazioni di guerra successive alla Prima guerra mondiale spianò la strada a Hitler) ma - si sa nelle scuole alle quali si formano gli attuali uomini della finanza la storia non ha certo il posto d’onore.

E’ essenziale che il Presidente Hollande e il cancelliere Merkel superino il livello della miopia prevalente negli ultimi mesi nell’affrontare i problemi dell’euro, nel cercare di stabilire una posizione comune che tenga conto di giustificate riserve tedesche ma anche di un quadro più generale in cui queste riserve appaiono meschine. Sarebbe uno di quei piccoli miracoli ai quali l’Unione Europea ci ha abituato se dall’incontro scaturisse una posizione comune, flessibile e ragionevole, in luogo del pericoloso dogmatismo al quale i tedeschi ci hanno abituato negli ultimi tempi.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #146 inserito:: Giugno 15, 2012, 11:47:02 pm »

13/6/2012

L'europa può scegliere il suo destino

MARIO DEAGLIO

Solo molto raramente gli operatori finanziari e i responsabili dell’economia globale sono uomini di lettere. A pochissimi di loro, quindi, saranno tornati in mente, nelle recenti, pesantissime sedute dei mercati finanziari, i celebri versi di Rudyard Kipling, il romanziere e poeta della globalizzazione ottocentesca: «Se riesci a tenere la testa a posto mentre tutti attorno a te la perdono... allora, figlio mio, tutta la terra sarà tua con quanto contiene». Negli ultimi giorni, invece, la testa l’hanno persa in molti su tutti i mercati finanziari del mondo, dando l’impressione di essere sul punto di perdere il controllo che continuano a esercitare sulla terra e su quanto contiene.

Una pioggia di parole, più pesanti di pietre, si è abbattuta sui listini e sugli spread, con una particolare predilezione per la Spagna e per l’Italia il che denota una sostanziale immaturità dei mercati, nella loro versione attuale: forse per troppo tempo si è lasciato a loro il governo di fatto dell’economia globale.

La lista di queste parole pesanti sarebbe molto lunga - e comprende molte analisi frettolose e sommarie di stimate banche d’affari internazionali - ma si può cominciare con quanto detto da George Soros, il finanziere che vent’anni fa fece crollare la sterlina, il quale ha solennemente affermato che, se non si agisce subito, l’euro ha tre mesi di vita. Soros non è nuovo a drammatizzazioni di questo genere e proprio per questo è incredibile che Christine Lagarde, già navigato ministro francese delle Finanze e oggi direttore del Fondo Monetario Internazionale, gli abbia fatto eco in un’intervista alla rete televisiva americana Cnn che ha poi dovuto faticosamente rettificare dopo che le sue parole avevano contribuito al non brillante andamento dei listini. E si può finire con il ministro delle Finanze austriaco, Maria Fekter, che ha tranciato giudizi negativi sulla situazione finanziaria italiana della quale non ha alcuna conoscenza specifica.

Il lettore non specialista è indotto a credere che la moneta nella quale vengono pagati i suoi redditi, nella quale detiene i suoi risparmi e con la quale effettua i suoi acquisti - la moneta, insomma, che rappresenta al momento attuale la massima espressione di economie avanzate e solide, fondamento di una pace e di una cultura continentale - possa sparire dalla sera alla mattina per effetto della «speculazione». Non è così. L’attuale debolezza dell’euro può e deve stimolare azioni correttive da parte dei governi, ma ci vorrebbe in ogni caso un’incompetenza totale per farla sparire in una tempesta finanziaria, come per un incantesimo malefico.

Naturalmente per l’euro è indispensabile la volontà politica degli europei di avere un’unica moneta e sarà probabilmente questo il vero tema centrale dell’incontro romano dei principali leader del continente che si terrà a Roma tra non molti giorni. La volontà politica è alla base di un uso efficace dei giganteschi strumenti di difesa dell’euro, a cominciare dal «Fondo salva Stati» e dal «Meccanismo Europeo di Stabilità». Ci sono poi azioni specifiche di sostegno in condizioni di emergenza che possono essere poste in atto dalla Banca Centrale Europea e, se richiesto, dal Fondo Monetario Internazionale. E non vanno trascurate le enormi riserve auree di Francia, Germania e Italia che potrebbero, se fosse veramente necessario, essere date in garanzia sulla solidità della moneta.

Che, dopo una giornata di fuoco sui mercati finanziari, l’euro possa semplicemente cessare di esistere è una leggenda metropolitana che i mezzi di informazione purtroppo tendono a legittimare. È molto più realistico pensare che il cambio dell’euro possa subire una forte correzione al ribasso - che del resto sembra in atto -, il che non deve impressionare più di tanto. Gli americani sostengono da sempre che «il valore di un dollaro è un dollaro». È tempo che gli europei imparino che «il valore di un euro è un euro»; e una riduzione del cambio dell’euro in un periodo di prezzi calanti del petrolio non sarebbe certo una cattiva cosa in quanto si importerebbe poca inflazione mentre potrebbero esserne rilanciate le esportazioni verso altre aree economiche e valutarie.

Va infine ricordato che non è affatto detto che l’euro debba continuare a subire passivamente le azioni chiaramente offensive di una parte del mondo finanziario internazionale. Le normative che dovrebbero disciplinare le società di rating - causa prossima di molti terremoti finanziari - giacciono da troppo tempo all’attenzione di un Parlamento europeo distratto; anche la diffusione di notizie finanziarie imprecise e allarmistiche non può essere tollerata all’infinito; e va ricordato che certe operazioni finanziarie, di tipo chiaramente speculativo, possono essere limitate o vietate in determinati periodi.

In definitiva, nel governo della propria moneta l’Europa può e deve dimostrare di essere padrona del proprio destino. Il che non significa, naturalmente, abbandonarsi a una finanza allegra ma può significare in un’intervista su «La Stampa» di oggi il ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble, che, come altre volte nella storia dell’Unione Europea, un passo indietro, come quello dell’euro sotto attacco, ci può portare a un più lungo passo in avanti: una cessione parziale di sovranità fiscale dei vari Stati nazionali a un governo centrale europeo è forse il tassello che ci manca perché l’Europa non debba più aver paura di assalti speculativi contro la propria moneta.

 mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #147 inserito:: Giugno 20, 2012, 11:13:18 pm »

20/6/2012

I dieci giorni della svolta

MARIO DEAGLIO

Le riunioni dei G8 e dei G20 sono caratterizzate, di regola, da un buonismo di facciata. Tutti sono d’accordo su grandi ovvietà, tutti sorridono nella «foto di famiglia», i contrasti e i litigi trovano spazio, con discrezione, dietro le quinte e non emergono nel comunicato finale, già scritto prima che la riunione abbia inizio. Non è andata così al G20 di Los Cabos: non ci sono stati risparmiati i confronti, le polemiche e neppure i dispetti. Dall’invettiva del presidente della Commissione Europea contro gli americani, ai quali ha ricordato, in modo brusco e poco diplomatico, di essere loro i responsabili della crisi economica mondiale fino alla cancellazione, o quanto meno al rinvio, di un incontro tra il Presidente degli Stati Uniti e i leader europei, largamente interpretato come uno «sgarbo» di Obama.

Questo nervosismo superficiale cela in realtà un colossale scontro di potere che si è chiuso negativamente per l’Europa: gli europei sono andati a Los Cabos con due convinzioni parzialmente errate.

La prima è che la crisi greca fosse, in quale modo considerata come l’elemento centrale della crisi economica globale, un’opinione alimentata dai mezzi di informazione, mentre rappresenta in realtà un elemento secondario di un contrasto assai più profonda sulla natura dell’Europa economica.

La seconda convinzione è che, in ogni caso, i rapporti tra l’euro e il dollaro, le due principali monete internazionali, avrebbe segnato il momento centrale dell’incontro.

Dalle prime indicazioni, la realtà si è rivelata ben diversa: gli europei nel loro complesso sono stati, senza troppi complimenti, «spintonati» e messi in seconda fila dall’azione coordinata dei Brics, una sigla che indica i paesi emergenti più dinamici o importanti, ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che, proprio a Los Cabos, hanno compiuto la metamorfosi definitiva da entità statistica a entità politica. Per quanto estremamente diversi tra loro dal punto di vista economico e politico, sono riusciti a varare un’azione incisiva e unitaria che controbilancia la loro crescente irruenza sui mercati finanziari. E’ sufficiente ricordare che i cinesi di Hong Kong si sono appena comprati il London Metal Exchange, una Borsa specializzata, principale luogo di contrattazione dei metalli non ferrosi, tra i quali alcuni piuttosto rari che molto interessano ai Paesi emergenti.

In particolare, annunciando (assieme all’Arabia Saudita) un loro contributo abbastanza sostanzioso all’aumento delle risorse del Fondo Monetario Internazionale destinate a contrastare la debolezza dell’euro, i Brics hanno quasi certamente ottenuto un aumento dei loro diritti di voto negli organi esecutivi dello stesso Fondo, sicuramente giustificabile, già all’ordine del giorno da molto tempo ma sempre rinviato per latente opposizione europea. E’ facile immaginare, infatti, che i diritti aggiuntivi di voto attribuiti a questi Paesi saranno tolti all’Europa assai più che agli Stati Uniti e che il successore della francese Christine Lagarde, attuale direttore generale del Fondo, sarà un brasiliano o un asiatico.

La debolezza europea non è naturalmente provocata tanto da partner esterni quanto da contrasti interni all’Europa. Gli europei sono profondamente divisi su ciò che dovrà essere l’Europa economica del prossimo futuro e hanno di fatto ricevuto al vertice di Los Cabos una solenne ramanzina per non esser riusciti a sanare le loro profonde divergenze. Sapremo nei prossimi giorni se la sempre più glaciale Angela Merkel abbia in realtà fatto qualche concessione delle quali non c’è per ora traccia e come evolverà il confronto con il quasi altrettanto glaciale neo-presidente francese François Hollande. La grande giornata delle Borse europee si spiega con un parziale recupero di un ribasso provocato da forti movimenti speculativi, ancora assai piccolo di fronte alle perdite degli ultimi tre mesi.

L’Europa esce dal G20 senza alibi: il suo problema non è l’euro, che può contare su una solidità di fondo – se comparata con il dollaro – in termini di debiti complessivi e deficit di bilancio, bensì il patto politico che tiene assieme gli europei. Stretto circa sessant’anni fa, era basato sull’orrore per le distruzioni provocate da una delle guerre più terribili dell’umanità e sulla necessità che gli europei smettessero di considerarsi nemici e diventassero fratelli anche grazie alla cooperazione economica. Ma oggi, con l’aumento del peso elettorale francesi, tedeschi, italiani e quant’altri vogliono davvero diventare fratelli? O si accontenterebbero, in definitiva, di essere lontani cugini, sommariamente legati da un patto doganale? E’ una domanda legittima visti gli andamenti elettorali dei movimenti xenofobi e di quelli ultra-regionalisti,

Il compito di cercare di uscire da questa terribile stasi è stato delegato al presidente del Consiglio italiano. Mario Monti ha parlato di scelte da prendere entro dieci giorni, con un occhio all’incontro di dopodomani a Roma, al quale parteciperanno i capi di stato e di governo di Germania, Francia e Spagna, oltre che naturalmente dell’Italia. L’Italia è il Paese ideale per un’opera di mediazione in quanto è il più piccolo tra i grandi e il più grande tra i piccoli Paesi d’Europa, è al tempo stesso «settentrionale» e «meridionale» e ha un debito molto elevato ma ha compiuto in questi mesi i passi più rapidi per uscire della crisi. Speriamo che, con queste premesse, alla fine dei dieci giorni, si abbiano decisioni e accordi veri e non un ennesimo rinvio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10247
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« Risposta #148 inserito:: Luglio 13, 2012, 06:29:29 pm »

13/7/2012

Nuove regole per uscire dalla crisi

MARIO DEAGLIO

L’Europa non è certo un malato immaginario. Altrettanto sicuramente, però, mostra una sorta di perversa soddisfazione a parlare in continuazione dei propri mali, a girarci attorno, a convocare riunioni con lo scopo di cambiare tutto per scoprire due settimane più tardi di non aver cambiato nulla; il «vecchio continente», insomma, si scopre davvero vecchio e soggetto ad attacchi di ipocondria. In questa atmosfera, il «percorso di guerra» dell’economia italiana, evocato dal Presidente del Consiglio nel suo discorso di mercoledì all’Abi, trova pienamente il suo contrappunto nel Bollettino Mensile pubblicato dalla Banca Centrale Europea nella giornata di ieri, un autentico «bollettino di guerra» dove si trova soprattutto una sconsolata rassegna di tutto ciò che non va.

La Banca Centrale Europea rileva, tra l’altro, che la volatilità dei mercati obbligazionari è storicamente molto elevata, prossima a quella osservata poco prima del fallimento di Lehman Brothers.

È dubbio che l’istituto di Francoforte abbia valutato fino in fondo la portata di quest’allusione che ha fatto cadere pesantemente le Borse di tutto il mondo. Da troppo tempo ormai si intrecciano mormorii sulla salute generale delle banche; si tratta di mormorii complessivamente pericolosi. Se dalla posizione di difficoltà, o altrimenti anomala, di alcune grandi banche derivano davvero rischi di sistema, non è proprio il caso di nascondere l’immondizia sotto il tappeto. Se i rischi non sussistono sarebbe opportuno non accreditare con accenni indiretti situazioni soltanto ipotetiche.

In questa condizione di scarsa percezione del valore mediatico delle parole si collocano le dichiarazioni sempre più apocalittiche del direttore del Fondo Monetario Internazionale, la francese Christine Lagarde, per la quale la fine della crisi proprio non si vede e l’euro corre pericoli gravissimi. Ancora pochi giorni fa, i governi europei potevano proporre ai loro cittadini una crisi grave con qualche accenno di ripresa in autunno; ora tutto si sta cancellando e il quadro appare più fosco, con una caduta molto più pronunciata, come quella del prodotto interno lordo italiano, prevista dal presidente della Confindustria il quale afferma che «probabilmente» il calo produttivo italiano sarà superiore al -2,4 per cento ipotizzato dalla sua organizzazione. Le previsioni dai contorni sfumati, così come le previsioni troppo affrettate, potrebbero riflettersi negativamente sulla situazione dell’economia reale.

A questa faccia europea della crisi, fatta di pericolosa malinconia – o forse scarsa sensibilità – mediatica e di vertici europei che annunciano azioni risolutive cui non seguono fatti immediati, fa da contrappunto la faccia americana. Gli Stati Uniti appaiono immersi nelle vicende della battaglia politica per la carica di Presidente - oltre che in una paurosa ondata di calore estivo e i visi e le dichiarazioni dei responsabili economici, pur certo non sorridenti, non risultano particolarmente corrucciati. Con grande disinvoltura, una buona dose di cinismo e di opportunismo politico ritorcono sull’Europa l’accusa di essere all’origine dei mali dell’economia del mondo. Senza che l’Europa controbatta seriamente.

In realtà, l’economia americana proprio non riesce a ripartire (se si tiene conto dell’aumento della popolazione si scopre che il reddito per abitante è praticamente fermo) nonostante l’accanimento terapeutico derivante dall’iniezione di sempre nuova liquidità, ed è più indebitata ogni giorno che passa. Se si usasse il medesimo metodo di calcolo, si vedrebbe che il livello di disoccupazione negli Stati Uniti è pressoché uguale a quello europeo, ma i disoccupati americani preoccupano decisamente meno di quelli europei. I toni apocalittici che si sprecano in Europa sono pressoché totalmente assenti dall’altra parte dell’Atlantico.

Gli ingredienti per uscire dalla crisi non sono soltanto fiscali o monetari; un ruolo crescente è svolto dai mezzi di informazione che influenzano le scelte di risparmio e di consumo, di investimento e concessione di credito di decine di milioni di operatori economici. Non si verrà a capo della crisi se, attraverso i mezzi di informazione, qualcuno non indicherà vie d’uscita e futuri possibili. Gli addetti ai lavori hanno detto abbastanza chiaramente di non sapere che cosa fare se si mantengono intatte le regole attuali in base alle quali il peso della crisi si scarica più sui lavoratori che sui percettori di redditi di capitali, più sui giovani che sui vecchi.

Spesso, in questi casi, è l’ora dei politici: non di quelli che promettono la Luna, bensì di quelli che non si limitano a invitare a richiedere, in stile thatcheriano, le proverbiali «lacrime e sangue», ma propongono un cambiamento delle regole tale da portare il sistema economico mondiale da qualche parte. E’ su questa via di nuove regole del gioco che dovranno muoversi coloro che vogliono competere alle elezioni che, nel giro di un anno, interesseranno, oltre che Stati Uniti e Germania, anche l’Italia.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #149 inserito:: Luglio 25, 2012, 04:59:45 pm »

24/7/2012

Il duello tra finanza e democrazia

MARIO DEAGLIO

Negli ultimi giorni, e in particolare con la seduta di Borsa di ieri, il moderno sistema finanziario ha dato il peggio di sé. Per comprendere bene quest’insuccesso occorre ricordare un antefatto troppo spesso trascurato: la finanza globale è fortemente squilibrata dall’abbondante creazione di liquidità degli Stati Uniti, a fronte della quale manca una vera ripresa dell’economia americana. Il presidente Obama, con una difficile campagna elettorale in corso, ha demagogicamente assolto il proprio paese e la propria amministrazione da ogni colpa per la situazione economica, addossando all’Europa tutta la responsabilità della crisi.

In questo clima assai teso, è giunta la settimana scorsa un’incredibile presa di posizione del Fondo Monetario Internazionale l’istituzione di vertice del sistema finanziario globale.

Uno studio ufficiale reso pubblico venerdì, con l’apparente scopo di dare consigli (venati di un fastidioso senso di superiorità) si schiera nettamente dalla parte dei pessimisti sul futuro dell’euro, qualcuno direbbe dei suoi nemici. Secondo il Fondo, il mercato finanziario europeo è sempre più frammentato, le banche acquistano sempre più titoli del debito pubblico del loro paese, la crisi dell’euro «ha raggiunto nuovi livelli di criticità».

I mercati leggono in particolare quest’espressione come l’annuncio del decesso imminente, vero e proprio incitamento a disfarsi della moneta europea, che, infatti, subisce un ulteriore calo, e dei titoli europei, soprattutto quelli bancari, le cui quotazioni accumulano perdite su perdite. Da Bruxelles, non giunge alcuna reazione, forse perché siamo ormai nel week-end; silenzio anche da Berlino e Parigi. La sola Banca Centrale Europea, troppo timida negli ultimi tempi, ribadisce sabato, per bocca del governatore Draghi, che l’euro non è in liquidazione e che anzi costituisce un blocco di economie complessivamente assai solido. Nessuno però, apparentemente, prepara difese mentre altrove si prepara l’attacco.

Arriviamo così alla giornata di ieri, con le Borse che cadono fortemente mentre si impenna il famigerato «spread», ossia la differenza di rendimento tra i titoli a lungo termine di un Paese e gli analoghi titoli tedeschi, considerato il termometro della salute delle finanze pubbliche dei vari Paesi. I meccanismi di difesa, recentemente approvati ai vertici europei, avrebbero dovuto entrare immediatamente in azione ma sono intrappolati nel lungo processo delle approvazioni parlamentari. Nessuno imbraccia il decantato «scudo» europeo, si dichiara che, per l’intervento, occorre una richiesta ufficiale di aiuto del paese minacciato. Il governo spagnolo, i cui titoli sono al centro della caduta, esita ad avanzare questa richiesta nel timore di peggiorare la situazione. La situazione viene invece peggiorata dalla notizia, poi rivelatasi prematura, forse gonfiata ad arte e forse falsa, dell’interruzione degli aiuti del Fondo Monetario alla Grecia. Non è la prima volta che si verificano episodi del genere.

Passano così all’incirca quattro ore, nelle quali la Borsa italiana ha tempo di perdere il 4 per cento, prima che si cominci a fare la cosa più ragionevole, ossia vietare le vendite allo scoperto che rendono troppo facile il gioco al massacro sui titoli pubblici spagnoli, del quale risentono pesantemente anche i titoli pubblici italiani. Alla fine, questa semplice misura, unita a qualche «buona parola» a sostegno dell’Europa, fa sì che la caduta si corregga e che una metà del terreno perduto venga recuperato, anche se lo spread italiano rimane a livelli troppo elevati per poter offrire un senso di sicurezza.

Non è possibile continuare così, con ondate speculative basate sul nulla che devastano le economie di mezzo continente mentre le ben maggiori debolezze finanziarie e reali dell’economia americana non vengono poste sotto vera osservazione. I Paesi europei dovrebbero ricordarsi che non sono impotenti di fronte a mercati, nei quali, tra l’altro, i comportamenti fraudolenti non sono certo infrequenti e non vengono perseguiti con molto entusiasmo. E invece, a ogni ondata speculativa, tutti si ritrovano con le mani in mano senza saper bene che cosa fare e senza un vero coordinamento operativo.

A prescindere dalle misure tecniche per smorzare le punte speculative dei mercati, gli europei avrebbero naturalmente molte altre carte da giocare ma tutte queste implicherebbero penalizzazioni e limitazioni alla finanza internazionale che i Paesi debitori non si sentono di approvare nel timore che la stessa finanza non acquisti più i nuovi titoli dei debiti pubblici quando quelli vecchi arrivano alla scadenza. Tale scontro può anche essere inteso come un duello tra finanza e democrazia in quanto nella valutazione del debito pubblico di un paese, la finanza utilizza sempre più parametri politici, ossia la propria valutazione, o meglio il proprio gradimento per determinati politici o per determinate politiche. Le democrazie hanno il dovere di pagare i debiti ma anche il diritto alla non interferenza dei creditori nei loro affari.

Quest’incertezza non può durare a lungo: lo scontro tra la finanza e gli Stati difficilmente potrà essere rinviato indefinitamente, e questo per la pressione dell’opinione pubblica, sempre meno propensa ad accettare decisioni che implicano sacrifici di anni e che poi sostengono i titoli in Borsa al massimo per qualche giorno. Occorrono però strategie coordinate di intervento se si vuole evitare che tutto ciò ci precipiti nel caos.

mario.deaglio@unito.it

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