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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 95175 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Agosto 19, 2013, 07:29:48 pm »

Editoriali
18/08/2013

Attenzione agli asini impazziti

Mario Deaglio


Tito Livio racconta che uno dei principali scontri militari nella storia di Roma avvenne per caso. Nel 168 avanti Cristo, tra macedoni e romani era in gioco, nella piana di Pidna, la supremazia politico-militare sull’Oriente ellenistico. I due stati maggiori erano molto riluttanti a combattere ma chi decise per loro fu un asino: sfuggito al controllo dei suoi guardiani nel campo romano, si diresse verso le linee macedoni, inseguito da alcuni legionari decisi a riprenderlo. I macedoni pensarono a un attacco, diedero l’allarme e la battaglia ebbe inizio.

 

I responsabili delle grandi potenze raramente hanno oggi la fortuna di aver ricevuto un’educazione classica ma dovrebbero sapere che 99 anni fa, il mondo, che pensava soprattutto alla pace e all’espansione economica, si trovò «per caso» immerso in una terribile guerra mondiale a seguito di un atto di terrorismo (l’uccisione dell’Arciduca d’Austria a Sarajevo).

Le prospettive di crescita stabile e duratura che cominciano a delinearsi in Europa, e forse anche in Italia, potrebbero essere compromesse da situazioni inattese e apparentemente secondarie. 

 

Gli «asini impazziti» non sono infatti un’esclusiva di Pidna né si devono riferire esclusivamente alle battaglie: ai possibili fatti imprevisti di natura politico-militare, alle «guerre per caso» si devono aggiungere possibili fatti imprevisti di natura economica, le «crisi per caso» come quella che diede inizio all’attuale fase depressiva nel 2007-08. Queste due possibilità vanno prese in seria considerazione oggi non solo, come è ovvio, per considerazioni di carattere generale ma perché potrebbero compromettere un lavoro di irrobustimento finanziario e rilancio economico che, con molta fatica, l’Europa sta conducendo da 2-3 anni.

 

Chi sono gli «asini impazziti» che oggi minacciano la pace politica e la ripresa economica mondiale? Il primo, naturalmente, è l’Egitto dove lo scontro sta raggiungendo dimensioni da guerra civile: al di là di altre considerazioni, la possibile chiusura del Canale di Suez avrebbe ripercussioni comunque molto negative sull’intera economia mondiale e soprattutto su quella europea e di fronte alle quali non possiamo chiudere gli occhi. Il secondo è naturalmente la Siria, le cui terribili vicende si svolgono tra l’indifferenza di fatto della comunità internazionale, mentre coinvolgono sempre più direttamente gli Stati vicini, dalla Turchia all’Iran, con il rischio che Israele, sentendosi gravemente minacciata, scelga la strada pericolosissima di un’azione militare diretta. E’ doveroso ricordare tutto questo non si sta svolgendo su un altro pianeta: nell’ultima settimana sono giunti in Italia i primi profughi siriani, un problema, tra l’altro, del quale deve farsi carico l’Europa e che non può essere affrontato soltanto con le armi dell’emergenza.

 

Ci sono «asini impazziti» anche nell’economia. Un paio di settimane fa, la città di Detroit, uno dei maggiori centri industriali degli Stati Uniti, ha dichiarato fallimento e non è certo l’unica tra le metropoli americane a vivere una stagione finanziaria difficilissima; i debiti di Detroit (la rispettabile somma di circa 18 miliardi di dollari) sono in buona misura detenuti da banche europee (non risultano banche italiane) la cui stabilità finanziaria è indebolita da questi sviluppi. Detroit, naturalmente, non è l’unico ente locale americano in difficoltà finanziarie e nessuno dispone di una mappa attendibile di dove si trovino i titoli di questi debitori difficili. 

 

Rimanendo sul fronte della finanza internazionale, alla debolezza dei debitori si aggiunge un altro «asino impazzito», ossia una possibile debolezza degli intermediari da cui deriva un cattivo funzionamento dei mercati finanziari internazionali. Il 14 agosto negli Stati Uniti vengono incriminati due operatori finanziari di JP Morgan, uno dei giganti delle transazioni finanziarie, il governo americano accusa di frode sui mutui subprime la Bank of America, uno dei maggiori istituti bancari del mondo e altri grandi nomi della finanza mondiale sono sotto inchiesta per irregolarità e violazioni di legge che comportano multe pesantissime. 

Nel frattempo, la collaborazione tra autorità monetarie, dalla quale potrebbero derivare soluzioni è scarsissima: la banca centrale giapponese ha impostato, senza avvisare nessuno, una politica monetaria espansiva che presenta notevoli rischi di destabilizzazione per tutti. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europa si sono pubblicamente accusati di cattiva gestione della crisi greca, uno scontro che non si era mai visto. 

 

La presenza di questi ostacoli sulla via di una nuova, grande ripresa, europea e globale non va sopravvalutata ma nemmeno disinvoltamente ignorata. Semplicemente, gli ostacoli vanno eliminati: con politiche incisive e condivise nelle crisi egiziana e siriana da parte di un’Unione Europa oggi clamorosamente muta, con una nuova azione di governo e controllo dei mercati finanziari mondiali della quale si vedono timidi inizi.

La ripresa, in altre parole, non è un fatto automatico e non cade dal cielo. Va fortemente voluta non solo sul piano economico ma anche, più generalmente sul piano politico-sociale e internazionale, costruita con la messa a punto delle condizioni necessarie. La ripresa è un progetto di futuro che richiede sforzi e non il sostituto del regno di Bengodi: una semplice verità che gli italiani e gli altri europei dovrebbero ricordare sul finire delle vacanze ferragostane. 

mario.deaglio@gmail.com 

da - http://lastampa.it/2013/08/18/cultura/opinioni/editoriali/attenzione-agli-asini-impazziti-ViXbagB37hmwL48UQON3BP/pagina.html
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« Risposta #181 inserito:: Settembre 22, 2013, 11:06:07 pm »

EDITORIALI
22/09/2013

Germania al voto, non ci sono buoni e cattivi

MARIO DEAGLIO

Moltissimi italiani sono convinti che il risultato delle elezioni tedesche di oggi influenzerà immediatamente e sensibilmente la nostra politica economica. 

E quindi, se vincerà l’attuale coalizione di governo, a livello europeo saremo trattati con maggiore severità. Se dovesse prevalere l’attuale opposizione, oppure materializzarsi una versione tedesca del governo delle larghe intese, ci sarebbe consentito lo sforamento del tetto del 3 per cento al nostro deficit e potremmo tranquillamente permetterci di confermare l’abolizione dell’Imu e di non aumentare l’Iva. 
 
Qualcuno arriva a sperare che una maggioranza diversa consentirà alla Banca Centrale Europea una politica monetaria più accomodante con la creazione di liquidità se non proprio a livello americano o giapponese sicuramente sufficiente a consentire all’economia europea un’espansione ben più rapida della debole ripresa attuale.

È meglio non illudersi troppo. È molto probabile, invece, che, chiunque sia il prossimo vincitore, le cose non cambino in maniera apprezzabile nel breve periodo e cambino invece gradualmente in senso espansivo nel medio e lungo periodo. L’abitudine a dividere sommariamente i tedeschi in «buoni» e «cattivi» fa parte di un semplicismo dal quale possono venire illusioni e danni.
 
Per convincersi di questo è bene considerare che l’elettorato di riferimento del Partito socialdemocratico tedesco è rappresentato dai lavoratori dipendenti e in particolare dagli operai dell’industria. Il mondo del lavoro ha con gli imprenditori un rapporto dialettico e collaborativo da mezzo secolo e il successo di tale collaborazione è misurabile in salari reali sensibilmente più elevati di quelli italiani e in una disoccupazione pari all’incirca alla metà della nostra. Ebbene, i lavoratori dipendenti, e in particolare gli operai dell’industria tedesca, non sarebbero certo entusiasti di una politica europea che comportasse, a spese loro, consistenti aiuti ad altri Paesi senza una chiara prospettiva di restituzione. Prima di criticare dovremmo considerare che nessun lavoratore italiano farebbe salti gioia di fronte alla prospettiva di un aumento di imposte a favore della Grecia o del Portogallo.
 
Va aggiunto che il leader socialdemocratico, Peer Steinbrück non può essere considerato un grande amico dell’Italia: dopo il successo del M5S alle nostre recenti elezioni politiche fece commenti sprezzanti sull’importanza dei comici nella vita politica italiana che indussero il presidente Napolitano, in quei giorni in visita in Germania, ad annullare un incontro programmato con lui.

L’Italia riscuote maggiore simpatia presso Angela Merkel la quale non solo viene regolarmente in vacanza a Ischia ma ha anche lungamente ascoltato le opinioni del precedente presidente del Consiglio italiano sulle necessità di una politica più flessibile. Questi colloqui hanno contribuito a un atteggiamento tedesco più morbido verso i Paesi in deficit del quale hanno però beneficiato francesi e spagnoli: a Francia e Spagna l’Unione Europea ha concesso uno slittamento di due anni nel programma di rientro dal deficit pubblico mentre tale slittamento è stato negato proprio all’Italia.
 
Questo dovrebbe insegnare agli italiani che la politica economica europea si fa assai poco sulla base di simpatie e molto sulla base di parametri concreti. Per ottenere un analogo slittamento, l’Italia dovrà dimostrare che il rientro del deficit pubblico sotto il valore del 3 per cento del prodotto interno lordo è permanente e mostra un’ulteriore tendenza a scendere. L’ottimismo, poi rientrato, sul raggiungimento di quell’obiettivo non ha fatto certo bene alla reputazione italiana; vista da Berlino, l’ostinazione di una parte almeno della maggioranza a non procedere all’aumento già programmato dell’Iva appare quasi come il capriccio di un bambino piccolo per una caramella.

Qualsiasi cosa decidano gli elettori tedeschi, dalla Germania non proverrà alcuna soluzione miracolistica dei problemi italiani. Dovremo invece aspettarci in ogni caso la continuazione del «disgelo» tedesco verso l’Europa; per quanto a passi piccolissimi, la Germania ha detto sì al Fondo Salva Stati e all’Unione Bancaria. I tedeschi che vanno a votare oggi sono ormai in larga misura favorevoli all’euro (75 per cento secondo un recente sondaggio) e al federalismo europeo. Dicono no a quello che a loro sembra un Carnevale Europeo del Debito; probabilmente sono un po’ troppo rigidi ma qualche giustificazione ce l’hanno e in ogni caso con questa rigidità dobbiamo sicuramente fare i conti, chiunque sia il prossimo inquilino della Cancelleria di Berlino.

mario.deaglio@gmail.com 

da - http://www.lastampa.it/2013/09/22/cultura/opinioni/editoriali/germania-al-voto-non-ci-sono-buoni-e-cattivi-zWqQfGYLqK8z6cXp7lNF5J/pagina.html
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« Risposta #182 inserito:: Ottobre 10, 2013, 05:11:19 pm »

EDITORIALI
08/10/2013

I presupposti per una nuova economia

MARIO DEAGLIO

La riduzione del cuneo fiscale che il governo è ora in grado di proporre, e della quale sta informando le parti sociali, a cominciare dai sindacati, incontrati ieri sera, non potrà che essere piccola dal punto di vista della quantità: nell’ordine di 200-300 euro l’anno, come se il presidente del Consiglio e la sua squadra di governo offrissero a tutti i lavoratori dipendenti italiani un caffè al giorno, probabilmente escludendo i sabati e le domeniche, al bar dell’angolo. Del resto non si può ragionevolmente offrire di più con il quadro delle entrate fiscali che è stato delineato ieri sera da un bollettino del ministero delle Finanze, caratterizzato da una precaria stabilità, dalla forte caduta del gettito dell’Iva, in particolare sulle importazioni, non totalmente compensata da un aumento del gettito delle imposte dirette. 
 
Per il cittadino-contribuente, tuttavia, oltre alla quantità conta molto anche la «qualità» delle misure fiscali, siano esse favorevoli o sfavorevoli al contribuente. Lo dimostra lo scarsissimo gradimento dell’Imu, un’imposta mediamente di non grande peso sui normali bilanci famigliari (anche in questo caso, il valore medio viaggia intorno ai 200-300 euro all’anno) ma fortemente risentita come invasione dello Stato nell’intimità del focolare domestico. 
 
Proprio per questo, l’accoglienza dei lavoratori e delle imprese a una riduzione del cuneo fiscale potrebbe essere molto positiva, in quanto potrebbe rappresentare una sospirata inversione della tendenza di vari governi i quali cominciano con la promessa di ridurre le imposte e, stretti da vincoli interni e internazionali, finiscono con l’aumentare il carico fiscale. 
 
 
 
La riduzione del cuneo fiscale è benvenuta se la si può configurare come un primo passo su un lungo sentiero di riduzioni che si dovrebbe snodare nel corso dei trimestri del prossimo anno, qualora se ne presentino le condizioni, in un quadro generale del Paese e dell’Unione Europea rivolto a una crescita dell’economia reale: da un lato la produzione riparte e accelera gradualmente e dall’altro i bilanci pubblici ottengono, altrettanto gradualmente, maggiori entrate da questa economia in crescita senza dover aumentare le aliquote fiscali, ma anzi con la possibilità di ridurle. Occorrerebbe probabilmente una flessibilità della finanza pubblica maggiore a quella attuale, a esempio con il finanziamento, trimestre dopo trimestre, degli sgravi fiscali con le risorse che, trimestre dopo trimestre, si renderanno disponibili con la lotta all’evasione fiscale.
 
Ora che anche la Germania sembra essersi posta sulla strada di un maggiore pragmatismo, con la vittoria della cancelliera Merkel alle recenti elezioni politiche, l’unico vero ostacolo a un programma europeo impostato in questi termini potrebbe derivare da molto lontano: dalla miopia e dalla cocciutaggine dei deputati repubblicani alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti i quali – negando l’aumento del «tetto fiscale» – potrebbero portare la finanza pubblica americana a una condizione di insolvenza. Il mondo sarebbe allora di fronte a una situazione di caos finanziario che sicuramente complicherebbe le cose. 
 
Ammettiamo che questa situazione estrema non si verifichi e torniamo alle cose italiane. L’importanza della riduzione del cuneo fiscale non sta nella cifra ma nel progetto che si individua dietro alla cifra: quello di fare di tale riduzione, ripetuta nel tempo (e dell’introduzione del reddito minimo, ricordata ieri dal ministro del Lavoro) il principale veicolo di uscita dalla crisi, mediante l’incoraggiamento dei consumi dei lavoratori con più soldi in busta paga e – di qui a qualche tempo – degli investimenti delle imprese, con condizioni generali migliori e minore pressione delle imposte sugli utili. Questo progetto economico potrebbe costituire l’altra faccia di un disegno politico di archiviazione di vent’anni di «era Berlusconi»: un’economia nuova, quindi, per una stagione politica nuova. 
 
Il che è una prospettiva attraente, sempre che non ci si trovi poi di fronte a rigurgiti del passato: il litigio di ieri tra Pd e PdL sulla reintroduzione dell’Imu per le abitazioni dei «ricchi», ossia con una rendita catastale superiore ai 750 euro, non consente certo un ottimismo sfrenato. Così come non consente un ottimismo sfrenato la riluttanza delle due maggiori forze politiche ad affrontare davvero la riforma elettorale, tanto da indurre un vicepresidente della Camera, Roberto Giachetti, del Partito Democratico, ad annunciare uno sciopero della fame perché si vari una riforma elettorale sempre promessa e sempre di fatto accantonata.
 
Ammettiamo che queste differenze d’opinione vengano superate e che non si debba arrivare alla «giornata anti-Porcellum» annunciata da Giachetti per la fine d’ottobre: se la politica tiene, l’economia potrebbe seguire. Di fronte a una decisione fiscale percepita come «buona», anche se inizialmente di modesta entità, le famiglie italiane, che detengono complessivamente un’enorme liquidità finanziaria, potrebbero decidere di fare spese da tempo programmate ma poi non effettuate semplicemente per paura di una situazione che si avvitasse nel peggio.
 
mario.deaglio@gmail.com 
http://www.lastampa.it/2013/10/08/cultura/opinioni/editoriali/i-presupposti-per-una-nuova-economia-lh43mSRBnFNWxFZNn9k4ZN/pagina.html
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« Risposta #183 inserito:: Ottobre 12, 2013, 06:13:46 pm »

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« Risposta #184 inserito:: Novembre 25, 2013, 05:15:00 pm »

Editoriali
24/11/2013

I vecchi dissesti ci mettono tra i cattivi Ue

Mario Deaglio

L’Italia ha vissuto una settimana molto difficile, caratterizzata da quattro dissesti intrecciati. Il dissesto geologico in Sardegna le cui cause vanno al di là della geologia e tirano in ballo l’incapacità crescente di governo del territorio non solo in quell’isola ma in tutto il Paese; il dissesto politico che sta facendo «esplodere» i partiti della maggioranza, alterandone profondamente natura e struttura; il dissesto sociale messo in luce dalla manifestazione di Roma e dagli scioperi spontanei di Genova; il dissesto del sistema produttivo che rende difficile una ripartenza della crescita i cui primi segnali si rafforzano meno rapidamente delle attese di qualche mese fa. Per scuoterci di dosso un pessimismo eccessivo, forse dovremmo ricordarci il vecchio detto «mal comune, mezzo gaudio»: in quasi tutti i Paesi ricchi (e in buona parte di quelli emergenti) ritroviamo fenomeni simili a quelli italiani.
 
Per limitarci all’Europa, possiamo cominciare dalla Spagna. Centinaia di migliaia di persone sono sfilate ieri «in difesa del settore pubblico» (una rivendicazione non troppo distante da quella dei tramvieri di Genova), «in difesa delle persone» e «per cambiare le cose».

L’iniziativa non è certo partita dalle forze politiche tradizionali, bensì dalle associazioni di volontariato, della società civile, dei sindacati, riuniti sotto la sigla di Cumbre Social o «vertice sociale». Più violenta è l’agitazione dei «berretti rossi» francesi, nata anch’essa al di fuori del contesto politico tradizionale, che da qualche settimana blocca la Bretagna: sullo sfondo di dati produttivi e fiscali niente affatto lusinghieri, si estendono blocchi stradali, che ieri hanno interessato anche la Costa Azzurra, e distruzioni di caselli autostradali (in segno di protesta per un’«ecotassa» che di ecologico ha poco più del nome). Intanto, in una Grecia che ha da tempo perso il sorriso, un sondaggio pone il movimento nazionalista Alba Dorata, con caratteri para-fascisti, al primo posto delle intenzioni di voto con il 26 per cento, più della sinistra radicale e dei conservatori, mentre i socialisti crollano al 5 per cento. 

Si potrebbe continuare a lungo con l’elenco dei malesseri europei: non è solo in Italia, ma quasi dappertutto che governi, parlamenti e opinione pubblica sono alle prese con leggi finanziarie difficili, confuse e severe, sempre meno tollerate dalla gente, mentre quasi dappertutto le economie che hanno difficoltà a riprendere o proseguire i loro percorsi di crescita. Quasi dappertutto, eccetto in Germania dove sembra regnare una normalità quasi surreale e tutto tace in attesa che venga ultimata la stesura di un minuzioso «contratto di coalizione» tra democristiani e socialisti. Anche se quest’assordante silenzio della politica tedesca, dopo due mesi dalle elezioni politiche di settembre, apparentemente rientra nella prassi di quel Paese, viene il sospetto che vi sia qualche difficoltà a creare un’ennesima «grande coalizione». 

Il pericolo è che, mentre il resto d’Europa si agita per questioni che interessano la gente, una Germania priva di disoccupati ma incapace di far ripartire il motore bloccato dell’economia europea stia perdendo l’occasione politica ed economica di guidare la ripresa del continente e stia facendo correre all’Europa rischi molto elevati. E questo mentre anche il motore americano e quello cinese non stanno certo girando al massimo e l’Ocse ha bruscamente abbassato le stime di crescita di quasi tutti i Paesi per il 2014, proietta le responsabilità tedesche su un piano planetario.

Il silenzio tedesco ha lasciato spazio alle istituzioni europee: la Bce ha ridotto il costo del denaro, senza tener conto dell’irritazione che questo avrebbe causato in Germania e la Commissione ha aperto un’indagine sulla stessa Germania, accusata di un eccesso di attivo nei conti con l’estero, ossia di una soffocante aggressività commerciale che toglie spazio e linfa vitale alle altre economie. E perfino il finlandese Olli Rehn, commissario agli Affari Economici e Monetari, severissimo alfiere dell’austerità dei conti pubblici, dopo esser stato non banale giocatore di calcio, ha cominciato a parlare apertamente della necessità di una ripresa.

Ecco il quadro in cui si deve muovere l’Italia con i suoi quattro dissesti (o forse molti di più, a seconda dei parametri che si adottano per contarli). Nel mal comune attuale vi è almeno un elemento moderatamente positivo: non siamo più i soli, o i principali, «cattivi» d’Europa, che potrebbero incrinare, o peggio, la solidità monetaria ed economica del continente. Le schiere dei «cattivi» si stanno ingrossando e, anche se in maniera confusa, l’Italia sta facendo almeno qualche progresso su tagli alla spesa, deficit e debito, in attesa di quella sospirata boccata d’ossigeno che solo una ripresa (meglio se collegata al risveglio di consumi interni, che la paura della crisi contribuisce a tenere bassi, in un disgraziatissimo circolo vizioso) sarà in grado di confermare.

La nuova situazione europea impone peraltro nuovi vincoli all’Italia: non è pensabile una crisi di governo a Roma proprio in un momento di estrema vulnerabilità dell’intero quadro economico e politico europeo. Se si andasse davvero in quella direzione, l’Europa ci porrebbe ai margini come ha già fatto nel 2010-11, mentre invece una buona gestione del semestre italiano (luglio-dicembre 2014) costituirebbe un’occasione di rilancio per l’Italia e per l’Europa.

Da - http://lastampa.it/2013/11/24/cultura/opinioni/editoriali/i-vecchi-dissesti-ci-mettono-tra-i-cattivi-ue-V3FNm978d5QZ89LN1aC4iN/pagina.html
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« Risposta #185 inserito:: Febbraio 05, 2014, 06:21:51 pm »

Editoriali
04/02/2014

Una via d’uscita alle debolezze del nostro Paese
Mario Deaglio

Se tutto va bene, Alitalia troverà in Etihad, la linea aerea di Abu Dhabi, un «partner dominante» (qualcuno potrebbe dire un «partner padrone») migliore di Air France. E questo, prima di tutto, per un motivo geografico, o, se si preferisce, geo-economico: le rotte servite da Alitalia sono relativamente ben integrabili con la rete di collegamenti aerei internazionali che Etihad sta tessendo da Abu Dhabi, assai più difficili da conciliare con la rete che Air France ha già tessuto da Parigi. 

Di qui si può trarre un’importante, anche se paradossale, conclusione: la linea aerea italiana salverà, almeno in parte, la propria italianità, e quindi potrà continuare ad assicurare all’Italia collegamenti a livello mondiale, unicamente diventando non solo meno italiana ma anche meno europea. 

L’insufficienza di soluzioni nazionali e la scelta tra soluzioni europee e soluzioni mondiali, tra sopravvivenza e indipendenza, non è un problema isolato di Alitalia. L’ex compagnia di bandiera è, in un certo senso, emblematica di quanto sta succedendo al mondo delle grandi imprese italiane. Per un complesso di motivi che non è il caso di analizzare qui ma che ormai dobbiamo considerare come dati di fatto, l’industria italiana di dimensioni grandi e medio-grandi, che aveva reagito molto bene all’impatto dell’unificazione economica europea, non riesce a reagire altrettanto bene all’impatto della globalizzazione. Sta subendo, invece di governare i cambiamenti che la globalizzazione sta rapidamente portando nei modi di produrre e di organizzare la produzione. 

Il fattore scatenante di questa debolezza varia da caso a caso, da periodo a periodo: talvolta si tratta della rigidità dei meccanismi economico-sindacali, altre volte della debolezza strutturale del sistema finanziario che ha sempre maggiori difficoltà a fornire alle imprese finanziamenti «giusti» dal punto di vista della quantità e qualità. La difficoltà delle imprese italiane di reggere da sole il confronto mondiale può derivare inoltre dalla carenza di molte infrastrutture pubbliche o anche da una possibile diminuzione della «voglia di fare impresa» degli italiani, e persino dalla scarsa sensibilità economica della magistratura che ha messo a rischio, in alcuni momenti, la sopravvivenza di un settore produttivo importante come quello siderurgico. L’importante è che, per operare bene sui mercati internazionali, al sistema produttivo italiano manca qualcosa e che a queste carenze non si può porre rimedio tanto facilmente.

La soluzione Alitalia mostra una via d’uscita non certo ideale, ma per lo meno soddisfacente, alle debolezze strutturali italiane: l’ingresso in un gruppo non italiano, con il mantenimento di un certo grado di indipendenza non solo operativa ma anche strategica, magari con un aumento di capitale sottoscritto dai nuovi soci che si traduca in un insieme di nuovi investimenti. Così Alitalia, pur senza poter più mirare alla posizione centrale di British Airways, Lufthansa e Air France, potrebbe almeno coprire lo scacchiere europeo della rete mondiale di trasporti aerei che ha il suo centro fuori dell’Europa, ossia negli Emirati Arabi Uniti. Per i nuovo soci extra-europei di Alitalia, la convenienza deriverebbe dall’acquisizione dell’esperienza, del capitale umano, delle conoscenze tecniche di Alitalia, tutti elementi importanti di una strategia industriale che richiederebbero lunghi anni per essere acquisiti da Etihad.

Scelte analoghe si impongono, e si stanno verificando, in molti altri settori, specie là dove il contrasto tra buone posizioni di mercato e buone tecnologie da una parte e carenze strutturali italiane dall’altra è più duro e marcato. E sono decine, se non centinaia, le imprese italiane che stanno facendo scelte di questo tipo o che le hanno fatte negli ultimi 18-24 mesi. L’acquisizione di Loro Piana, impresa tessile di grandissimo nome e grandissima qualità produttiva, da parte della multinazionale francese del lusso Lvmh può essere considerata una variante di queste soluzioni.

Un’altra variante, con una ben più forte componente italiana ed europea, è rappresentata dalla fusione Fiat-Chrysler: in questo caso sono italiane sia l’iniziativa sia buona parte dei mercati di sbocco e delle tecnologie ma per il nuovo colosso mondiale dell’auto la sfida è quella della costruzione congiunta di nuove auto globali. In ogni caso, in un futuro sempre più prossimo, se il mercato globale continuerà a svilupparsi nonostante la crisi, saranno molte le imprese che perderanno le caratteristiche tipicamente nazionali. Saranno globali, e basta. Simbolo e pilastro di una nuova economia in cui le componenti nazionali saranno più importanti sul piano culturale che sul piano economico.

In questo contesto, l’azione dei governi, e specificamente del governo italiano, non potrà limitarsi a interventi episodici in situazioni di emergenza e non potrà consistere nella promessa di aiuti che non possono certo derivare dalla finanza pubblica italiana. Si tratta invece di traghettare l’economia italiana in questo nuovo contesto globale, privilegiando l’identità rispetto alla nazionalità. Questo comporta la definizione di strategie nazionali di crescita delle quali le forze politiche parlano molto senza mai scendere a casi concreti. Nel far questo l’Italia può imparare qualcosa proprio da Abu Dhabi e dall’intera regione del Golfo: i Paesi di quest’area si stanno preparando, con importanti progetti alternativi e con investimenti giganteschi, alla prospettive di minori entrate petrolifere nei prossimi 2-3 decenni. L’Italia è tutta assorbita dagli sviluppi, giorno dopo giorno, del suo teatrino della politica che rischia di diventare sempre più truculento e sempre più inconcludente.

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/04/cultura/opinioni/editoriali/una-via-duscita-alle-debolezze-del-nostro-paese-FKe90NKayuXMs4QxRl4iqJ/pagina.html
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« Risposta #186 inserito:: Febbraio 26, 2014, 06:09:20 pm »

Editoriali
26/02/2014

La scossa che serve al Paese
Mario Deaglio

Moltissimi lettori si saranno trovati almeno una volta alla guida di un’auto che non parte perché la batteria è scarica: si gira più volte la chiavetta, si sentono dei rumori ma non scocca la magica scintilla che deve far partire il motore. A questo punto non ci sono molte scelte: o si trova qualche volenteroso che si metta a spingere nella speranza che la sia pur piccola velocità accumulata faccia partire il motore di botto, oppure si collega il motore a una batteria esterna.

Far partire il veicolo Italia la cui batteria è scarica da almeno 15 anni è il compito storico del governo Renzi. C’è un tempo per ogni cosa e dopo l’austerità e la sostenibilità promosse dai due governi che l’hanno preceduto e che hanno messo in sicurezza i conti pubblici, (con il risultato che oggi il rifinanziamento del debito dello Stato costa la metà di quanto costava nel novembre 2011) si può, e si deve, pensare alla crescita. 

E’ ragionevole supporre che il governo Renzi cerchi di seguire contemporaneamente entrambe le strade: far ripartire l’Italia ferma e cercare al tempo stesso una batteria carica per aumentare una crescita comunque debole o per premunirsi contro il pericolo che il motore si spenga di nuovo. La spinta dell’auto ferma può derivare - più che da specifiche e problematiche misure interne di rilancio - da un risveglio degli italiani dalle aspettative negative degli ultimi anni e dal loro eventuale desiderio di effettuare consumi e investimenti rinviati per paura. 

Si può ragionevolmente stimare che il nuovo presidente abbia due-tre mesi di tempo, ossia che possa contare sui tradizionali cento giorni di «luna di miele» con il Paese (in Parlamento di «miele» nei confronti del governo se ne è visto pochissimo) per convincere quella parte di imprese e di famiglie che dispongono dei necessari mezzi finanziari a tornare a investire e consumare normalmente.

In circostanze appropriate, il ritorno a comportamenti normali di consumo e investimento può essere la molla in grado di dare un colpo veramente positivo all’economia italiana. Non sappiamo se un risveglio del genere possa essere stimolato dallo «stile» nuovo del governo (compresi gli atteggiamenti anticonvenzionali del presidente del Consiglio durante la discussione parlamentare) ma certamente il cambiamento di umore degli italiani dovrà essere ottenuto all’inizio con mezzi più psicologici che economici. 

Se questa spinta non basterà, c’è sempre l’ipotesi di farsi prestare una batteria carica per riavviare il motore, ossia di far sì che un consistente flusso di fondi esteri possa raggiungere l’Italia. La batteria su cui l’Italia può contare è costituita da almeno quattro diverse componenti, tutte in grado di far arrivare alle casse pubbliche nuove risorse da spendere immediatamente in programmi di crescita oppure da restituire agli italiani sotto forma di sgravi fiscali. La prima componente è la riduzione di sprechi pubblici e di costi della politica, sicuramente un alto valore simbolico ma non priva di consistenza economica, in quanto appare realistico pensare che si possa andare attorno a 1-1,5 miliardi di euro nel corso di quest’anno. 

La seconda componente, per contro, sarebbe più consistente, derivando dall’eventuale conclusione dell’accordo fiscale con la Svizzera, di cui si parla da tempo, che permetterebbe di recuperare qualche decina di miliardi di euro. La terza, più difficile da stimare, potrebbe derivare da vari fondi e programmi europei, che negli anni passati l’Italia è riuscita assai poco a utilizzare perché i progetti da finanziare (largamente sotto la responsabilità delle amministrazioni regionali) sono risultati tradizionalmente molto carenti. La quarta è collegata alla forte riduzione della spesa per interessi sul debito pubblico. 

Si potrebbe complessivamente arrivare a 50-70 miliardi di euro da spendere subito che potrebbero far quasi raddoppiare il bassissimo tasso di crescita stimato dall’Unione Europea per l’economia italiana nel 2014. Non si tratta di cosa facile, ma ci si può provare, soprattutto se si utilizzano queste risorse per rimborsare debiti delle amministrazioni pubbliche con le imprese fornitrici e per ridurre il cuneo fiscale anche se sarà difficile arrivare subito alla riduzione a «due cifre» promessa da Renzi. Del resto, le stime europee sulla crescita italiana sono state sicuramente redatte prima della nascita del nuovo governo e quindi ipotizzano semplicemente la continuazione delle tendenze attuali mentre l’obbiettivo del governo è precisamente quello di ribaltare tali tendenze.

Ci sono poi elementi «di contorno» che potranno facilitare un cambio di passo dell’Italia e favorire l’arrivo spontaneo di capitali esteri nel Paese. I mercati finanziari vedrebbero certamente un segno importante di rinnovamento la continuazione del processo, iniziato dal governo precedente, di qualche forma di privatizzazione di imprese pubbliche e la semplificazione delle procedure per gli investimenti. Dopo molti anni, l’interesse per l’economia italiana appare in crescita nel mondo ed è realistico provare a pensare al reinserimento del Paese nel «grande gioco» dell’economia mondiale.

In definitiva, è ragionevole provare a scommettere su una ripartenza di quel vecchio veicolo che è l’economia italiana. Anche perché le alternative sarebbero sicuramente peggiori.

Da - http://lastampa.it/2014/02/26/cultura/opinioni/editoriali/la-scossa-che-serve-al-paese-vKoA470btg7fa5yaVXyViK/pagina.html
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« Risposta #187 inserito:: Aprile 21, 2014, 11:28:39 pm »

Editoriali
16/04/2014
Governo, il rodaggio è finito
Mario Deaglio

Per una sorta di convenzione non scritta, si dice che i capi di governo possano disporre di cento giorni iniziali di «luna di miele», un periodo in cui vengono comunque loro perdonati errori e «gaffes», indecisioni e contraddizioni. Per Matteo Renzi, presidente del Consiglio dal 22 febbraio, si può parlare di una «luna di miele» dimezzata: appena cinquantun giorni separano l’entrata in carica dalle nomine dei nuovi vertici delle principali imprese controllate dallo Stato, che il suo governo ha deciso la sera del 14 di aprile. 

Queste nomine, infatti, segnano il passaggio da un semplice «effetto annuncio» di provvedimenti - che si sono rivelati, come c’era da aspettarsi, tecnicamente ben più difficili da scrivere e da far approvare di quanto il nuovo governo prevedesse - a un cambiamento concreto non solo di persone ma anche di tipologia dei massimi dirigenti di queste imprese, pur non del tutto immuni da conflitti di interesse.

Allo scardinamento e alla «rottamazione» del vecchio modo di fare politica, a un vero e proprio diluvio di dichiarazioni del presidente del Consiglio e dei suoi ministri ha fatto seguito un atto concreto di «incardinamento» del nuovo in alcuni dei principali gangli del potere economico italiano. Si tratta di un vero e proprio salto di qualità che segna la fine dell’inizio di questa esperienza di governo, la sua entrata in una fase di maturità. 

Se tutto andrà secondo le previsioni del presidente del Consiglio, i prossimi cinquanta giorni dovrebbero portargli un’importante vittoria alle elezioni europee, determinata da un elettorato grato per il primo sgravio fiscale, a carattere generalizzato. Di qui dovrebbe derivare una spinta inarrestabile a ulteriori mutamenti di tipo costituzionale, riguardanti la legge elettorale e i compiti del Senato e un definitivo consolidarsi degli impulsi di ripresa che si cominciano a intravedere chiaramente nell’economia anche se, per ora, il loro effetto generale continua a rimanere incerto.

La fortuna, diceva Virgilio, aiuta gli audaci, o, come più probabilmente direbbe il toscano Renzi, chi non risica non rosica. Renzi ha sicuramente «risicato» abbastanza, continuando a mettere sulla bilancia il proprio ritiro in caso di sconfitta con un coraggio che non appartiene alla classe politica italiana: riuscirà ora a «rosicare», ovvero a raggiungere quell’insieme di cambiamento istituzionale, rilancio economico e successo politico che persegue con grande energia? 

A questo interrogativo naturalmente nessuno è in grado di rispondere con un sì o con un no. L’aver portato a termine l’operazione nomine, in ogni caso, gli renderà più facile portare a termine il cambiamento istituzionale in un clima di recupero economico. L’operazione nomine, infatti, rappresenta un chiaro segno di discontinuità nei rapporti, spesso al limite della regolarità, tra mondo politico e imprese pubbliche. La realtà di queste imprese non cambierà dall’oggi al domani e non è neppure necessario che ciò avvenga. Diventeranno però, quasi certamente, imprese più trasparenti e, come tali, più adatte al sistema di mercato. Il loro valore di mercato aumenterà, che le si voglia davvero privatizzare o no, e controbilancerà più efficacemente il debito pubblico.

In questa prospettiva, la possibilità che la ripresa attecchisca diventa più consistente, soprattutto se la convinzione di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e di dinamico indurrà gli italiani a modificare i loro comportamenti timorosi e quindi a dar vita a nuove iniziative, di investimento e di consumo, che rinvigoriscano la domanda interna. Per citare ancora Virgilio, Renzi si è collocato nella posizione di quelli che «possunt quia posse videntur», hanno potere perché (e potremmo aggiungere finché) questo potere ha una manifestazione visibile. 

Perché il suo potere continui a essere visibile, e quindi a produrre cambiamenti effettivi sulla società e sull’economia, il presidente del Consiglio dovrebbe però evitare alcune cadute di stile. A cominciare dalla «scivolata» nel populismo che l’ha portato a far pagare alle banche la parte maggiore degli ottanta euro in più che dovrebbero arrivare, entro un tempo brevissimo, nelle buste paga degli italiani: le banche non sono vacche da mungere, specie in fase di ripresa, e di latte alla finanza pubblica ne stanno già dando tanto. E continuando con la dichiarazione di venerdì di una «violenta lotta» alla burocrazia: la burocrazia ha molti difetti ma non è tutta bacata e la violenza semplicemente non può avere spazio nel suo progetto di rinnovamento. 

mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2014/04/16/cultura/opinioni/editoriali/governo-il-rodaggio-finito-vEbeleN1twmz6tdBRmpRwN/pagina.html
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« Risposta #188 inserito:: Maggio 01, 2014, 07:44:28 pm »

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29/04/2014

La timida primavera della ripresa
Mario Deaglio

Ai primi dello scorso luglio, quando scrissi su «La Stampa» che erano spuntati i primi «fili d’erba» della ripresa, molti lettori non ci credettero. 

Anche perché i deboli segni «più» che comparivano nelle statistiche venivano sistematicamente sottovalutati dai mezzi di informazione, troppo abituati ai segni «meno». Ora dobbiamo prendere atto che, con molta difficoltà e molta esitazione, i fili d’erba si sono infittiti e continuano a crescere. L’economia italiana è come un prato che ha un pallido aspetto primaverile anche se è troppo presto per trarne delle conclusioni sul raccolto. 

La produzione industriale ha praticamente smesso di scendere dalla scorsa estate e, secondo il Centro Studi della Confindustria, ha messo a segno un +0,5% nel 1° trimestre 2014, dopo +0,7% nel 4° trimestre 2013. 

Nella media degli ultimi tre mesi, le esportazioni italiane sono aumentate del 2,6 per cento, assai più del commercio mondiale. Segnali di recupero ugualmente pallidi, ma forse ancora più preziosi, vengono dai consumi interni e di pari passo aumentano gli ordini di beni da investimento da parte di imprese italiane. Non saranno pochi quelli che continueranno a storcere il naso: le costruzioni rimangono il grande punto oscuro della produzione italiana (-3,7 per cento a febbraio, al penultimo posto in Europa dopo la Slovenia) e la situazione internazionale non permette certo un ottimismo incondizionato sulle esportazioni. 

Il panorama del credito mostra ancora una contrazione, anche se in rapido alleggerimento, Ieri, però, è arrivata dall’Istat una ciliegina preziosa su questa torta ancora informe e ancora piuttosto insipida: il clima di fiducia dei consumatori ha compiuto uno dei più forti balzi in avanti degli ultimi anni, riportandosi ai livelli del 2010; miglioramenti sensibili e improvvisi si registrano anche nelle intenzioni di acquisto di beni durevoli e nella generica «fiducia nel futuro». 

Certo, non è il caso di lasciarsi prendere dall’euforia. Aver vinto una partita non significa aver vinto lo scudetto e neppure essere entrati in zona Europa League, come certe squadre di calcio sanno bene, ma è sicuramente meglio di averla persa. Si aprono così nuove prospettive in una classifica europea della crescita nella quale l’Italia è da molti anni agli ultimi posti. La conferma ufficiale dell’aumento di fiducia è, in ogni caso, importante perché milioni di italiani dispongono dei mezzi per trasformare questa fiducia in crescita, a differenza di quanto succede in altri Paesi complessivamente più ricchi e dalle finanze pubbliche più solide, dove le famiglie presentano però una situazione di indebitamento netto.

 

E’ difficile non collegare quest’ondata di fiducia con il bonus di 80 euro in busta paga da maggio, con gli annunci di alleggerimenti fiscali per i lavoratori autonomi e di riduzione delle bollette dell’elettricità, possibili se – come sembra ragionevole supporre - i conti italiani supereranno l’«esame» europeo del 5 maggio. La riduzione fiscale dovrebbe andare di pari passo con l’estensione al 2015 della «spending review», ossia della sistematica revisione al ribasso della spesa pubblica, sperabilmente senza riduzione (e possibilmente con aumento) della qualità dei servizi, annunciata dal ministro Padoan. 

L’aspetto paradossale è che di tutto questo nulla è ancora stato realizzato: i bonus non solo non hanno cominciato a essere spesi ma non sono neppure ancora entrati in busta paga e le bollette energetiche rimangono elevate. Su un terreno economico non più negativo ma sostanzialmente neutrale, è tuttavia bastato l’«effetto annuncio», con la martellante sequenza delle dichiarazioni del presidente del Consiglio, intervallate da dichiarazioni più rade e più tecniche del ministro dell’Economia, a risvegliare una voglia di recupero dopo il lunghissimo inverno della crisi. Se non ci saranno imprevisti, sempre possibili, la ripresa andrà avanti e aumenterà di intensità, anche se con molta gradualità e forse con qualche discontinuità.

La politica economica di Renzi si differenzia da quella dei suoi predecessori precisamente perché proiettata in avanti anziché rivolta all’indietro, a costruire scenari anziché a tappare buchi delle finanze pubbliche. Questa differenza è possibile proprio per le politiche precedenti: il governo Renzi può fare un «lavoro pulito» precisamente perché i due governi precedenti sono riusciti a fare il «lavoro sporco», evitando che l’Italia cadesse nel baratro dell’insolvenza e del caos finanziario.

Il governo Renzi parte quindi da una posizione che si può definire «fortunata». Cinquecento anni fa, un conterraneo di Renzi, Nicolò Machiavelli, scrisse ne «Il Principe» che, a suo parere, la fortuna è arbitra all’incirca di metà delle nostre azioni ma che lascia a noi, alla nostra «virtù» il governo dell’altra metà. Non si può dire che il governo Renzi non stia usufruendo della sua parte di fortuna, il che – cosa non trascurabile – sta facendo andare il Paese nella direzione giusta. Occorre augurargli, e augurare al Paese, che sappia cavarsela anche quando dovrà sfoderare la sua «virtù». 

mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2014/04/29/cultura/opinioni/editoriali/la-timida-primavera-della-ripresa-3A5jRvJUoDVVjrC83fodFL/pagina.html
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« Risposta #189 inserito:: Maggio 29, 2014, 10:55:46 pm »

Editoriali
29/05/2014

Quel che Renzi può chiedere a Bruxelles

Mario Deaglio

Per una singolare coincidenza, pochi giorni dopo una consultazione elettorale che ha cambiato il modo in cui si fa politica in Italia, è stato pubblicato un documento ufficiale che analizza come è cambiata l’Italia. Si tratta del «Rapporto Annuale» dell’Istat, una fotografia ufficiale costruita con statistiche di prima qualità, non con sondaggi frettolosi, una ricognizione di quel che è successo al Bel Paese nel corso della crisi e di come ne sta uscendo. 

Partiamo dalle famiglie: l’Istat documenta sei anni consecutivi di caduta del loro potere d’acquisto e sin qui si tratta di un’osservazione arcinota. Meno noto è che questo periodo di crisi si può dividere molto chiaramente in due parti. Dal 2008 fino a metà del 2012 le famiglie italiane hanno cercato di mantenere i livelli di consumi ai quali erano abituate e pur di ottenere questo risultato hanno ridotto fortemente il risparmio. 

Da metà 2012 a fine 2013 è successo l’esatto contrario: i redditi sono, in media, scesi più lentamente oppure hanno smesso di scendere ma questo non si è tradotto in un aumento dei consumi – i quali anzi hanno continuato a contrarsi – bensì in un aumento di risparmi, cresciuti del 17,3 per cento nel 2013. La riduzione dei consumi è stata un comportamento generalizzato, sicuramente alimentato da un diffuso pessimismo, sul cui fuoco hanno soffiato anche i mezzi di informazione, anche al di là della reale scarsità di risorse. 

In questa situazione di incertezza, non solo i consumi ma anche gli investimenti sono scesi più rapidamente del prodotto lordo e la caduta ha riguardato persino settori, come le tecnologie informatiche, che prima avevano sperimentato quasi soltanto andamenti positivi. Si tratta di una situazione in forte controtendenza, basti pensare che la Spagna, in difficoltà economiche maggiori di quelle dell’Italia, ha invece incrementato questi investimenti «moderni». La loro riduzione in Italia dipende da un accentuarsi del pessimismo degli imprenditori oppure da un’accentuata severità delle banche nel concedere credito? Probabilmente a questo risultato concorrono entrambe le cause ma in ogni caso lo scarso investimento in informatica appare come il maggior responsabile del mancato aumento della produttività italiana.

Di fronte a bassi consumi e bassi investimenti è entrato in funzione, per fortuna dell’Italia, il «motore di riserva», rappresentato dalla domanda estera. L’incidenza delle esportazioni sul fatturato è aumentata in tutti i settori, la bandierina del «made in Italy» ha ripreso a sventolare in quasi tutti i paesi del mondo. E’ sufficiente per gridare «evviva»? Il rapporto dell’Istat si dimostra molto cauto e considera questi successi potenzialmente transitori, interpretandoli come una reazione alla debolezza del mercato interno. Sembrerebbe, in altre parole, che le imprese si siano buttate a vendere all’estero pur di continuare a lavorare, probabilmente con margini ristretti, piuttosto che come frutto di un’autentica strategia di crescita: quando la domanda interna si risolleverà davvero, le imprese daranno minore importanza ai mercati esteri per concentrarsi sul mercato nazionale, specie se, come mostrano le previsioni degli enti internazionali, non ci aspettano, a livello mondiale, tempi di euforia economica.

Si può concludere che, se vuole davvero creare una ripresa sostenuta e sostenibile, l’Italia di Renzi deve «fare efficienza» prima ancora di «fare occupazione». Anzi, l’occupazione duratura non potrà che essere il risultato di una maggiore efficienza: «senza efficienza produttiva, l’Italia non è competitiva» potrebbe essere lo slogan che si ricava dall’analisi dell’Istat, marcatamente diversa dalle voci del mondo industriale che talvolta paiono legare il ritorno alla competitività alla semplice riduzione delle imposte. 

Pur con queste difficoltà di fondo, l’Italia di Renzi si presenta in Europa come un paese che «ha fatto i compiti a casa». L’Istat ha calcolato che nel triennio 2011-13 la riduzione della spesa pubblica è risultata maggiore di quella inizialmente stimata: la spesa pubblica italiana è rimasta sostanzialmente stabile mentre è aumentata del 7,3 per cento in una Francia che ha difficoltà strutturali superiori a quelle italiane, del 3,6 per cento nel Regno Unito e del 2,4 per cento nella virtuosa Germania. Questo risultato è stato raggiunto grazie alla riduzione della spesa per il personale, ma soprattutto degli investimenti fissi, un taglio che ha avuto effetti negativi sia diretti sia indiretti sulla crescita italiana. Proprio per questo, Renzi ha buon gioco a insistere che i futuri investimenti pubblici, specie se intesi a migliorare la produttività, devono essere, almeno in parte, esclusi dai tetti alla spesa. Anche perché, secondo gli indicatori costruiti dalla Commissione Europea, la sostenibilità del debito pubblico italiano è tra le migliori.

La conclusione che si può trarre da tutto ciò è che il presidente del Consiglio italiano non deve andare in Europa con il cappello in mano (e non sembra proprio averne l’intenzione): l’Italia ha pagato, e ha pagato duramente, con una serie di correzioni dolorose ma necessarie, il prezzo di un ventennio di andamenti anomali, potremmo dire qua e là un po’ folli, ed è ora bene impostata per raggiungere gli obiettivi finanziari. Molti paesi europei, nonostante una salute apparente, si trovano in condizioni peggiori. E’ giunto il momento non certo di battere i pugni sul tavolo di Bruxelles bensì di richiedere con forza garbata, una rapida evoluzione in senso espansivo delle politiche europee.

mario.deaglio@unito.it 

DA - http://lastampa.it/2014/05/29/cultura/opinioni/editoriali/quel-che-renzi-pu-chiedere-a-bruxelles-JakG38F8n3vUqVa5hsFmlO/pagina.html
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« Risposta #190 inserito:: Agosto 13, 2014, 08:31:01 am »

Se l’Italia crescesse del 3%

13/08/2014
Mario Deaglio

A Ferragosto oltre metà dell’estate è passata e c’è già odore d’autunno dopo la pausa delle ferie. A partire della prossima settimana le attività produttive cominceranno a riprendere i loro ritmi normali e saremo travolti dallo stillicidio di piccole, non certo esaltanti, notizie economiche quotidiane. Prima di tuffarci nella quotidianità di un Paese che ha difficoltà a scuotersi di dosso la stagnazione, è non solo legittimo, ma anche doveroso, pensare in grande, confrontarsi per un momento con scenari e obiettivi di lungo periodo. Su questa strada si è avviato, sia pure in maniera incompleta e frettolosa, anche il presidente del Consiglio nel suo discorso agli scouts di qualche giorno fa in cui ha invitato i giovani ad avere coraggio: il coraggio, però, non basta se dietro al coraggio non c’è un sogno. «Senza un sogno», disse una volta Kofi Annan, uno dei migliori segretari generali delle Nazioni Unite, «non si va da nessuna parte». Il sogno, possiamo aggiungere, non è però una fantasia, deve essere plausibile, deve spingere la gente a realizzarlo, trasformarsi in progetto.

È possibile elaborare un «sogno» per l’economia italiana, per il quale tutti possano pensare di spendersi un poco? Probabilmente sì, partendo da questa premessa: la frontiera della realizzabilità di lungo periodo per l’economia italiana si colloca attorno a una crescita della produzione compresa tra il 2,5 e il 3 per cento l’anno, una velocità di crescita che l’Italia ha sostenuto a lungo in decenni passati, tanto che fino a 20-30 anni fa, un tasso di questo genere ci sembrava normale. 

Proviamo quindi a partire da questo ipotetico ritorno a una normalità antica. Dieci anni di crescita al tre per cento farebbero salire la produzione di un terzo, e precisamente (per effetto dell’interesse composto) del 34 per cento. Se il ritmo di crescita dei nostri partner europei, nel frattempo, non cambia, recupereremmo gran parte del terreno perduto nei loro confronti, torneremmo ad avere una dimensione per noi «normale» in Europa mentre ora stiamo rimpicciolendo a vista d’occhio. Ammettiamo poi di realizzare una crescita «buona», ossia concentrata in settori a elevata produttività e quindi con un contenuto tecnologico medio-elevato e sia in media del 2 per cento l’anno: gli occupati salirebbero in dieci anni di circa 2,2 milioni. Deficit e debito pubblico non costituirebbero più un problema, il primo potrebbe essere cancellato, il secondo sensibilmente ridotto e ci sarebbe ampio spazio per politiche fiscali non ingessate: sarebbe possibile, a esempio, contemporaneamente ridurre le aliquote fiscali e aumentare gli introiti fiscali, in quanto le aliquote più basse si applicherebbero a redditi maggiori. 

Fine del sogno. Mentre incombono un autunno e un inverno che non si preannunciano esaltanti, possiamo però domandarci se può aver senso cercare di realizzarlo almeno in parte. La risposta è positiva: dovremmo, almeno provarci perché il vivacchiare nella zona dello zero virgola nel lungo periodo è controproducente. E’ però soggetta a una premessa e ad alcune condizioni.

La premessa è che non si può partire subito. Per rimettere l’economia su un sentiero di crescita, le riforme – senza entrare nel loro dettaglio tecnico – devono non solo essere approvate ma anche avere il tempo di produrre effetti: non sono formule magiche in grado di aggiustare tutto ma punti di inizio di un cammino fatto di profondi e generali cambiamenti nei comportamenti che ci hanno frenato in questi anni. Bisogna imparare ad applicarle prima di proporne di nuove. Senza cambiamenti di questo genere, scordiamoci una vera ripresa. Dobbiamo quindi prevedere un periodo di rodaggio (2-3 anni?), durante il quale il motore nuovo del veicolo Italia cominci con gradualità a funzionare in maniera efficiente.

Le condizioni perché il tutto si realizzi sono molte e difficili. Innanzitutto, gli italiani devono veramente preferire la crescita, con tutte le scomodità che essa comporta, a un lento sprofondamento in una stagnazione secolare. Tra le scomodità c’è sicuramente una diversa distribuzione dei redditi tra generazioni, e tra settori produttivi. Le strutture retributive dovranno essere modificate, dando maggiore spazio a merito e responsabilità e minore spazio all’anzianità. La quota del settore pubblico sul totale della produzione e sul prelievo fiscale complessivo dovrà ridursi, una strada che forse il Paese ha cominciato a percorrere con la guerra agli sprechi. Si deve realizzare una diversa distribuzione dei redditi, non penalizzante per chi produce, una tassazione più chiara dei capitali.

Da queste premesse generali si deve passare a indicazioni di settore. Finora il dibattito è stato largamente focalizzato sui «posti» di lavoro dell’industria: la realtà è più vasta e più complessa. All’interno dell’industria, l’Italia deve far crescere i settori – spesso di nicchia – in cui ha (ancora) una proiezione mondiale ma dovrà guardare soprattutto fuori dall’industria; non potrà non valorizzare le sue risorse turistiche e artistiche in cui ha un vantaggio competitivo a livello mondiale. Probabilmente su cento nuovi occupati, un’ottantina troveranno lavoro nel terziario (quasi esclusivamente terziario privato).

Un sogno non è un piano bensì una sorta di scatola vuota che gli italiani, a cominciare dai politici, devono concretamente riempire. Senza questa scatola, però, rischiamo tutti di affannarci in maniera confusa e inconcludente, a correr dietro, quando va bene, a una crescita da zero, virgola. Altrimenti, senza un sogno, avremo un lento spegnimento.

Da - http://lastampa.it/2014/08/13/cultura/opinioni/editoriali/se-litalia-crescesse-del-8m7UC5fewCQS4bKbBBPYDO/pagina.html
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« Risposta #191 inserito:: Agosto 31, 2014, 11:48:00 am »

San Matteo non ha fatto il miracolo
28/08/2014
Mario Deaglio

Il coraggio – sospira Don Abbondio nel XXV capitolo dei «Promessi Sposi» – uno non se lo può dare. E nemmeno la fiducia, siamo tentati di aggiungere, guardando ai dati, appena resi pubblici dall’Istat, sul clima di fiducia degli italiani che segnalano una netta caduta per il terzo mese consecutivo. 

Il giudizio degli intervistati è peggiorato su quasi tutto: molto sulla situazione economica dell’Italia, poco o nulla situazione economica attuale della loro famiglia, per la quale, però, è aumentato il numero di quanti si aspettano un peggioramento imminente. Rispondendo alle varie domande del questionario, gli intervistati, quando non vedono nero, vedono tutto con lenti con varie gradazioni di grigio. 

Questo clima nazionale di sconforto è tanto più deludente in quanto la caduta dell’indice di fiducia segue una sua impennata decisa di inizio anno (spesso attribuita a un «effetto Renzi») che l’aveva quasi riportato ai valori del 2008, ossia all’inizio della crisi. Per fortuna il clima di fiducia non si traduce necessariamente in comportamenti.

E, così come la salita primaverile non ha portato a una corsa agli acquisti, c’è da sperare – mentre invece le associazioni dei consumatori ne traggono previsioni infauste – che non andiamo incontro a uno «sciopero dei consumatori», peraltro già molto «svogliati» negli ultimi mesi. Dopo l’aggiornamento di questo indice è però più difficile pensare a un aumento, anche piccolo, dei consumi privati. 

Il «bonus» mensile di ottanta euro che dieci milioni di lavoratori stanno incassando non solo non ha inciso, come già si sapeva, sulle abitudini di spesa, ma non ha neppure aumentato il «buon umore economico» degli italiani. I motivi per i quali il «bonus» - una misura generica di rilancio, meno efficace di misure «mirate» a determinati settori economici o segmenti sociali - non si sta traducendo in un aumento di consumi, ma, al massimo, in una loro stabilizzazione sono nascosti nelle pieghe dei bilanci famigliari. E’ verosimile che, per non ridurre troppo il loro tenore di vita, negli ultimi 2-3 anni, molte famiglie abbiano contratto dei debiti e che usino quest’entrata mensile addizionale per ripagarli; è altrettanto verosimile che, prima dei normali beni di consumo, si pensi a spese sanitarie rinviate scarsamente coperte dal servizio sanitario nazionale (per esempio le cure dentarie).

Invece di attingere ai loro risparmi e convertirli in acquisti necessari, gli italiani continuano a investirli in titoli del debito pubblico che rendono pochissimo: ai tassi dell’asta dei Bot semestrali di ieri (nella quale la domanda si è rivelata molto abbondante, superando di oltre una volta e mezza la quantità offerta) il rendimento di 1000 euro basta appena a prendere un caffè ed è quasi dimezzato rispetto all’asta precedente. Certo, i titoli sono stati quasi tutti acquistati da operatori finanziari, in parte esteri, ma una quota rilevante finirà, prima poi, grazie alla loro intermediazione, nei portafogli delle famiglie italiane che, per paura della crisi, esitano a utilizzare quelle risorse per spese necessarie.

Insomma, San Matteo Renzi ha dato una notevole scossa a molti aspetti della vita economica italiana e altre promette di darne con il prossimo Consiglio dei Ministri. Non è riuscito, però (ancora?) a compiere il miracolo di far sorridere gli italiani. D’altra parte, le notizie che giungono dal resto d’Europa mostrano che questo «male italiano» si sta lentamente diffondendo e che praticamente tutte le economie dell’Unione Europea sono in frenata. Per la prima volta ieri su organi di stampa tedeschi si è evocato lo spettro di una recessione, attribuendone indirettamente la causa al conflitto ucraino che ha seriamente danneggiato le esportazioni della Germania (e dell’Italia) verso la Russia.

Gli occhi degli europei, e non solo degli italiani, sono tutti puntati su San Mario Draghi, il quale, dall’alto dei 148 metri dell’Eurotower di Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale Europea, sta preparando le sospirate misure «non convenzionali» che dovrebbero immettere denaro nell’economia, raggiungendo direttamente (ossia usando le banche principalmente come tramite) imprese desiderose di investire e famiglie desiderose di sottoscrivere prestiti per acquistare un’abitazione. E’ ragionevole attendersi un miglioramento che permetta all’economia europea di non scivolare in deflazione, ma non aspettiamoci che le economie ripartano a razzo: in economia è difficile trovare dei grandi santi che risolvano i problemi. 

Milioni di italiani e di altri europei sembrano invece continuare a credere che la ripresa deve scendere dall’alto, derivare da fatti esterni senza accorgersi che in buona parte la si crea giorno dopo giorno, avendo il coraggio di compiere piccole scelte, comprese quelle di acquistare i beni che servono con spese che rientrino nelle normali disponibilità delle famiglie e di varare piani di crescita che restino nell’ambito della normale attività delle imprese. Decine di milioni di famiglie europee, con la somma delle loro decisioni, determinano in buona parte il «clima economico». Questi milioni di piccoli miracoli individuali sono la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché ci scuotiamo di dosso quest’infernale recessione.

mario.deaglio@libero.it 

da - http://lastampa.it/2014/08/28/cultura/opinioni/editoriali/san-matteo-non-ha-fatto-il-miracolo-5UCi15s15truZmgZfFHc8K/pagina.html
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« Risposta #192 inserito:: Ottobre 19, 2014, 04:22:35 pm »

Il pericolo dell’infarto finanziario

19/10/2014
Mario Deaglio

Meno 4,4 per cento; meno 1,21 per cento; più 3,42 per cento. Queste cifre mostrano la variazione del Ftse Mib, il principale indice della Borsa di Milano nelle ultime tre sedute della settimana scorsa e ripetono, un poco amplificati, gli andamenti delle Borse di tutto il mondo. Variazioni di queste dimensioni, per di più senza una direzione precisa, escono dai limiti della normalità, soprattutto se si tien conto che, in questi giorni, nell’economia reale non è cambiato pressoché nulla, con l’Europa sull’orlo di una recessione – che potrebbe anche non arrivare o essere molto lieve – e gli Stati Uniti impegnati in una ripresa non del tutto convincente (nella prima metà dell’anno la crescita americana è risultata di poco superiore all’1 per cento, meno dell’aumento della popolazione). 

Siamo quindi di fronte a una fibrillazione dei mercati. Potrebbe derivarne un infarto? Perché? Perché proprio ora? Il pericolo di un infarto finanziario deriva dal fatto che la trasparenza e la regolazione dei grandi mercati mondiali non hanno compiuto molti passi avanti dal 2007-08 anche se non c’è oggi una specifica categoria di titoli ma a rischio, come erano allora i famigerati americani mutui «subprime». Una parte importante della risposta va cercata nella politica mondiale. Inforcando le lenti della politica occorre guardare al paese che vanta il maggior mercato finanziario globale nonché (ancora per poco, ossia finché non sarà superato dalla Cina, probabilmente nel 2015) il maggior sistema economico del pianeta.

Naturalmente stiamo parlando degli Stati Uniti dove ogni due anni viene rinnovata gran parte del Congresso. Tra una ventina di giorni, e precisamente il 4 novembre, si terranno negli Stati Uniti le cosiddette «elezioni di metà mandato» ed esiste la possibilità che i democratici del presidente Obama si trovino in minoranza sia al Senato (che attualmente controllano) sia alla Camera dei Rappresentati, dove già oggi sono in netta minoranza. 

Se così fosse, Obama diventerebbe ciò che nel gergo politico di quel paese si chiama un’«anatra zoppa», non più in grado di perseguire efficacemente alcuna vera azione politica né interna né internazionale senza il «permesso» dei suoi oppositori repubblicani. La prossimità delle elezioni sta inoltre frenando il possibile intervento militare americano in Siria-Iraq soprattutto perché gli elettori americani sono stanchi di guerre. Ai curdi che difendono accanitamente la città di Kobane arrivano soprattutto le armi mandate dagli alleati europei degli Stati Uniti e l’aiuto di un numero non elevato di incursioni di aerei americani. 

Nei prossimi venti giorni, l’incertezza sui risultati elettorali americani potrebbe incidere negativamente sui listini, così come potrebbe avere un impatto negativo una sconfitta dei democratici di Obama proprio per la paralisi governativa che ne deriverebbe. Un possibile vuoto di politica economica potrebbe riguardare anche l’Unione Europea, dove la nuova Commissione muoverà in novembre i suoi primi passi, necessariamente incerti. Non va però trascurata la politica estera. 

 

Il vuoto politico si aggiunge così al vuoto economico, la politica contribuisce, e non poco, a bloccare l’economia. E questo non solo – o non tanto – in Italia dove il processo di approvazione della «manovra» non ha la rapidità auspicata dal presidente del Consiglio, ma comunque procede molto più celermente che in passato; ma anche, e soprattutto, a livello mondiale. Alle Borse non rimane altro che guardare alle relazioni trimestrali delle imprese e alle previsioni di crescita dei diversi settori e quel che vi possono scorgere non è precisamente entusiasmante: a livello mondiale, sono dati molto variegati mentre la Fed parla di crescita complessivamente «moderata» o «modesta». E Janet Yellen, da pochi mesi a capo della Fed, sottolinea la crescente diseguaglianza della ricchezza e dei redditi negli Stati Uniti come motivo di preoccupazione perché costituisce un blocco alla ripresa.

Ai pazienti a rischio d’infarto i medici prescrivono spesso una serie di pillole e suggeriscono di cambiare stile di vita. Alle economie ricche (e ai ricchi mercati finanziari) a rischio d’infarto è necessario proporre qualche pillola di nuova liquidità e un cambiamento di politica economica che introduca qualche modificazione nella distribuzione dei redditi in modo da incoraggiare, quanto meno nel breve periodo, un certo rilancio dei consumi interni. Spesso il malato non segue i buoni consigli e la Signora Merkel non ha, nelle ultime settimane, dato prova di quel pragmatismo, di quel «buon senso» del quale l’Europa e l’intera economia mondiale hanno disperatamente bisogno. C’è da sperare che l’aria di Milano, dove si è svolto un inedito incontro Europa-Asia la convinca (e convinca i suoi ministri economici) che economia e ragioneria sono due discipline diverse e che la politica economica non si fa contando i decimali di – eventuale - sforamento del tre per cento del rapporto deficit/prodotto lordo. 

mario.deaglio@libero.it 

da - http://www.lastampa.it/2014/10/19/cultura/opinioni/editoriali/il-pericolo-dellinfarto-finanziario-h6HHfwmrvDIKhrocphK1oM/pagina.html
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« Risposta #193 inserito:: Novembre 03, 2014, 06:07:24 pm »

Se manca una strategia sull’acciaio
03/11/2014

Mario Deaglio

Nelle prossime settimane, il governo Renzi non dovrà soltanto spendersi nel sostegno in Parlamento a un ingorgo di provvedimenti legislativi relativi alla manovra economica e alle riforme. Sulle scrivanie dei ministri economici, e del presidente del Consiglio esiste di fatto un «dossier acciaio». 

Tale «dossier» potrebbe spostare l’attenzione del Parlamento e del Paese dalla finanza pubblica all’economia reale, con effetti molto significativi sull’intero sistema economico italiano. 

È basato sulla constatazione che nei Paesi avanzati l’industria siderurgica è vittima di una duplice crisi: la fase congiunturale incerta o negativa, determina una forte caduta della domanda dei prodotti siderurgici proprio quando l’innovazione tecnologica rende l’acciaio sempre più sostituibile da altri materiali. 

La combinazione di questi due elementi ha portato a chiusure su vasta scala di stabilimenti siderurgici in gran parte d’Europa, in America e in Giappone e rende indispensabile per l’Italia, dotata di un settore siderurgico ancora oggi di elevata importanza a livello europeo e mondiale, la messa a punto di una strategia o, se si preferisce, di una politica industriale del settore. Non è possibile continuare a ragionare sul filo dell’emergenza, affrontando, man mano che si presentano, le situazioni di crisi di singoli stabilimenti, da Taranto a Piombino e Terni. 

Nei principali Paesi siderurgici europei si è optato, di fatto, per una forte riduzione dell’importanza del settore: in Gran Bretagna la signora Thatcher sostanzialmente ne favorì la chiusura. I francesi e i belgi hanno adottato soluzioni più graduali, venduto i nodi siderurgici più importanti a grandi imprese dei Paesi emergenti, a cominciare da quelle indiane. Solo i tedeschi sembrano aver impostato una politica più articolata, basata su un’accentuata diversificazione verso tipi di acciaio più «moderni» in grado di competere con i nuovi materiali. L’Italia ha sostanzialmente «giocato di rimessa», senza elaborare una vera strategia siderurgica. 

Dietro quest’assenza di strategia si individua la riluttanza ad impostare una politica industriale per la priorità necessariamente accordata alla pesantissima situazione del debito pubblico italiano. Per impostare una politica siderurgica occorrere domandarsi innanzitutto verso quali settori si indirizzerebbe la futura produzione siderurgica. Si arriva così facilmente alla risposta che i principali clienti vanno ricercati nell’ampio settore dei veicoli a motore (auto, veicoli industriali, materiale ferroviario e navi) e del settore delle costruzioni, dall’edilizia residenziale alle grandi opere pubbliche. 

 

Per risolvere i problemi della siderurgia occorre muoversi in una prospettiva di crescita di lungo periodo di questi settori - a livello europeo e non solo italiano - e formulare ipotesi su questa crescita che coprano, almeno, l’arco di un decennio, sulla quale i politici mettano la faccia non solo in Italia ma anche in Europa. Solo così è realisticamente possibile stimare l’entità degli investimenti dell’industria siderurgica italiana, il suo fabbisogno energetico, il volume dell’occupazione da creare o mantenere. Si tratterebbe, in sostanza di rispolverare una forma leggera di «programmazione», un termine ormai dimenticato, perché odora ancora di socialismo vecchio stile. In un sistema a economia di mercato la programmazione va invece intesa come esercizio concettuale, di tipo indicativo, di messa a punto di priorità nazionali e di contributo alla determinazione di priorità europee. Come costruzione di un quadro di riferimento che consenta al mercato di muoversi meglio. 

Per la siderurgia, in altre parole, l’Italia dovrebbe fare un particolare «compito a casa», ben diverso da quelli che la Signora Merkel ci raccomanda continuamente ma che la Signora Thatcher fece molto in profondità, indicando chiaramente - e operando per realizzare - un insieme di priorità nazionali. Nel caso inglese, di queste priorità il rilancio della veneranda industria siderurgica non faceva parte. Per l’Italia, al contrario, potrebbe esserci un futuro siderurgico più o meno grande ma sarebbe assurdo limitare la discussione - come di fatto oggi sta avvenendo - al numero degli esuberi di questo o quell’impianto. 

La «programmazione» dovrebbe essere indicativa, lasciando ai privati il compito di realizzarne gli obiettivi e fornendo loro l’ambiente e le attrezzature necessarie. Il discorso appare ragionevole anche in sede europea, dove una programmazione flessibile del settore non è certo sconosciuta, dal momento che l’industria siderurgica è vissuta per decennio all’ombra di piani siderurgici concordati a livello dell’Unione Europea. Con queste premesse, e solo con queste premesse, è auspicabile un intervento diretto e minoritario del settore pubblico - a esempio attraverso la Cassa Depositi e Prestiti - che contribuisca a scrivere un capitolo futuro di una storia già molto lunga; non tanto a salvare provvisoriamente posti di lavoro oggi, ma a creare posti di lavoro sostenibili domani.

Questo sforzo di immaginazione e di quantificazione è una delle pietre angolari dell’impegno dell’Italia a costruire il proprio futuro economico, a pensare a «che cosa vuol fare da grande» invece di procedere con risposte episodiche a sfide importanti. Può ben essere che, a conti fatti, un euro investito nell’acciaio del futuro risulti meno produttivo e meno stimolatore di occupazione di un euro investito in un settore come l’elettronica. In ogni caso, la trasparenza razionale di un discorso che coinvolga non solo le forze politiche e il governo ma anche le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori è una premessa irrinunciabile perché l’Italia economica possa avere un futuro all’altezza del suo passato.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/03/cultura/opinioni/editoriali/se-manca-una-strategia-sullacciaio-J5joQjrw5z7WwwjEItrCgN/pagina.html
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« Risposta #194 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:48:11 am »

Ma fuori dall’Euro non c’è futuro

30/10/2014
Mario Deaglio

Più di metà degli abitanti dell’eurozona – e precisamente il 57 per cento – pensa che l’euro sia una buona cosa per il proprio paese; più dei due terzi (il 69 per cento) pensa che sia una buona cosa per l’Europa; solo un po’ meno di un quarto (il 24 per cento), però, si sente più europeo grazie all’euro.

Lo rivela un’indagine speciale, resa nota ieri e realizzata appena tre settimane fa dall’Eurobarometro, un ente della Commissione europea che da oltre quarant’anni esplora con grande accuratezza le opinioni degli europei su una serie molto ampia di argomenti. E queste tre percentuali racchiudono una buona sintesi della forza e della debolezza dell’Europa nell’attuale situazione di subbuglio economico-monetario mondiale.

Gli europei i cui paesi hanno adottato la nuova moneta sembrano voler dire che l’euro è uno strumento abbastanza efficace ma non eccezionale, da accettare per il bene dell’Europa assai più che per il bene del proprio paese. E soprattutto che, così come l’euro non si identifica con l’Europa, dal momento che ne sono fuori paesi molto importanti, a cominciare da Gran Bretagna, Polonia e Svezia, l’Europa di certo non coincide con l’euro. Euro e identità (anche solo economica) europea sembrano al massimo due facce di una stessa medaglia, al minimo due percorsi tra loro separati che il continente sta seguendo.  

Se questo è vero, ridurre di fatto l’Europa all’euro e al trattato di Maastricht del 1992, con cui la nuova moneta ha iniziato il suo cammino, significa fare violenza all’economia e alla società; sono necessarie una politica economica e una politica sociale europea, senza le quali l’euro è un pilastro solitario a guardia di un continente che non cresce, o non cresce abbastanza.

La debolezza della condivisione economica è resa evidente dall’esistenza di un «Alto Rappresentante» europeo per gli affari esteri (ruolo che a giorni sarà ricoperto da Federica Mogherini, ministro degli Esteri italiano) mentre non esiste un ruolo analogo per il coordinamento delle politiche economiche dei paesi membri. E’ sempre più difficile giustificare l’esistenza dell’euro se non si emettono eurobonds, strumenti creditizi dell’Unione Europea, destinati a finanziare politiche di investimenti strutturali sul territorio dell’Unione stessa; o se non si dà vita a un’effettiva politica industriale comune e condivisa, a un ordinamento fiscale con principi e meccanismi validi in tutti i paesi membri; senza politiche del lavoro, dell’istruzione, della salute che coinvolgano e armonizzino, sia pure con gradualità, i paesi che hanno unito i loro destini politici ed economici.  

Dal suo bel grattacielo di Francoforte, la Banca Centrale Europea, che «gestisce» l’euro, dà l’impressione della voce di chi predica nel deserto, con qualche fievole risposta da Bruxelles e da Strasburgo ma senza alcuna azione veramente incisiva e veramente coordinata da parte dei 28 governi dell’Unione o anche solo dei 18 dell’eurozona. Ed è chiaro che così non si può continuare. Le alternative sono sostanzialmente due.

La prima è quello di un «allineamento» (eufemismo per indicare subalternità) dell’euro rispetto al dollaro, una soluzione che naturalmente incontrerebbe il favore degli Stati Uniti, i quali stanno premendo con tutte le forze della loro diplomazia per una maggiore unione tra le due rive dell’Atlantico Settentrionale, e che lascia invece freddissimi gli europei. La seconda è quella di una frantumazione della zona euro tra paesi forti, ovviamente con la Germania alla testa, e paesi deboli, ovviamente con l’Italia quale elemento più rappresentativo. I paesi forti giocherebbero la loro partita mondiale tra Stati Uniti, Russia, Cina e quant’altri; i paesi deboli rischierebbero fortemente di fare la fine dell’Argentina: molta confusione, molto «rumore» politico e poca politica effettiva, pochissima crescita, per di più disordinata, discontinua e diseguale.

E qui il discorso si sposta sull’Italia, un paese un tempo fervente sostenitore dell’Europa, perché, secondo l’indagine sopraccitata dell’Eurobarometro, proprio l’Italia è il penultimo paese in termini di consenso alla moneta unica, seguita da soltanto da Cipro. A ritenere l’euro «una cosa buona» sono soltanto il 43 per cento degli intervistati italiani, mentre il 47 per cento lo ritiene «una cosa cattiva». Se si esclude il solito Cipro, in nessun altro paese i contrari superano i favorevoli. In Germania la differenza tra favorevoli e contrari è 41 punti percentuali, nella scettica Francia i favorevoli superano i contrari di 16 punti percentuali. Persino Grecia, Spagna e Portogallo che hanno sofferto la crisi più dell’Italia presentano solidi valori positivi.  

Il confronto con l’analoga indagine di un anno fa mostra una caduta di 9 punti percentuali da un livello di consensi allora pari al 52 per cento. Il ritratto è quindi quello di un’Italia anomala, di un paese confuso, una confusione avvalorata dal fatto che neppure il fronte dello scontento, organizzato da politici di bassa lega, arriva alla maggioranza assoluta. Nella ricerca di un «provvedimento semplice», quasi una formula magica, che tiri il paese fuori da una delle crisi più lunghe e complesse della sua storia, l’Italia – che ha platealmente sciupato gli anni dell’euro, a differenza della maggioranza degli altri paesi, rinunciando a necessari mutamenti strutturali – sembra dire all’euro, come i bambini piccoli, «non ti faccio più amico!». Scordandosi che fuori dall’euro (e fuori dall’Europa) per un paese di queste dimensioni ci sono solo la confusione, l’irrilevanza, l’arretramento. E di amici proprio nessuno.  

mario.deaglio@libero.it  

da - http://www.lastampa.it/2014/10/30/cultura/opinioni/editoriali/ma-fuori-dalleuro-non-c-futuro-sdKmqsUdxPwpMyib9NAxyK/pagina.html
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