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Autore Discussione: LUIGI PEDRAZZI. Il coraggio del dialogo  (Letto 2258 volte)
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« inserito:: Febbraio 26, 2008, 10:59:11 pm »

26/2/2008
 
Il coraggio del dialogo
 
LUIGI PEDRAZZI

 
Debbono dialogare i cattolici e i laici? Si deve rispondere di sì, anche se questa domanda contiene un bel po’ di confusione. Le due «categorie», infatti, sono malamente identitarie; nella realtà esse sono più sovrapponibili che separanti; ma, qualunque cosa si intenda per «essere cattolico» e «essere laico», entrambe queste «condizioni» fanno bene ad avere relazioni di attenzione e di rispetto reciproco. Il dialogo tra cattolici e laici, oggi, è richiesto a gran voce nell’opinione pubblica italiana allo scopo di correggere errori ed equivoci che nella storia nazionale (ed europea) hanno provocato danni non piccoli e non brevi nella ricerca di regole giuste circa diritti e doveri delle verità e degli errori di cui si discuta vivendo insieme, simili e diversi, dentro la storia.

A me sembra, tuttavia, che l’insistita richiesta di dialogo tra cattolici e laici porti con sé anche una non piccola distrazione omissiva. Dialogo e confronto, infatti, mancano quasi del tutto proprio là dove sarebbero massimamente naturali «per principio» e di utilità storica grande nel nostro Paese: mi riferisco al dialogo tra cattolici. Esso risulta carente a tutti i livelli nella Chiesa, ma soprattutto dove più conta, presso le autorità, gerarchiche e sacramentali. La mancanza di un dialogo tra queste figure essenziali oggi è pesante e parla quasi come silenzio di tutti nella Chiesa cattolica: con danno crescente per l’insieme. Non è sempre stato così, e non lo è per necessità teologica o etica.

Quale dialogo è in atto tra i vescovi italiani? Non saprei indicarne, specie intorno alle situazioni problematiche reali; le quali interpellano, anche dolorosamente, i cittadini comuni e i fedeli presenti nella periferia della grande istituzione. E c’è una carenza più grave: non si dialoga neppure per interpretare eventi ecclesiali centrali, come sta avvenendo, ed è guaio gravissimo, intorno a volto e ruolo, del Concilio Vaticano II. Lo si vede, purtroppo, nei lavori delle sedici conferenze regionali e, ancor più, di quella nazionale, che ha quasi sovrapposto i timori nati per il Post-Concilio alle speranze indicate dai lavori conciliari. Né si vede dialogo e confronto di analisi e di proposte su Avvenire. Il quotidiano cattolico nazionale, pur ricco di pagine e anche di contributi talvolta culturalmente diversificati, li organizza sempre tacendone le diversità, anche quando legittime e significative. La «linea» del quotidiano dei vescovi italiani è, con coerenza implacabile, un’esaltazione acritica del valore dell’unità cattolica, in certi casi spinta fino alla mistificazione (come ad esempio in occasione di convegni ecclesiali tipo Verona).

Giustamente, le autorità cattoliche temono le lacerazioni, ma vanno troppo in là identificando unità e uniformità. Confrontarsi e dialogare non vuol dire, necessariamente, prepararsi a litigare. Ascoltarsi reciprocamente, lo si vede in ogni casa, non è solo bello e giusto in sé; serve anche a capire meglio problemi, difficoltà, situazioni; e ad assorbire i possibili conflitti di lacerazione e ribellione.

Una comunità ecclesiale che conosca e pratichi il dialogo, un episcopato che nelle diocesi ammetta e valorizzi le domande del suo laicato, una pastorale che rispetti i dubbi e sappia entrare nei dolori: sarebbero realtà più forti e convincenti, più amabili e forse più amate. Questo risultato non è sempre detto si produca nella storia, e sia riconosciuto dall’avvicendarsi delle generazioni. La cosa va messa in conto con tranquilla umiltà, senza perdere perseveranza nei tentativi di una «resistenza cristiana» al male, accrescendo il bene. Tra i cristiani non è cinismo né banalità pensare e dire che il «perdono è la migliore vendetta»: è programma personale severo e gioioso, da portarsi con ogni possibile feconda creatività anche nelle vicende collettive più aspre.

Per fortuna nostra, e per impegno crescente ogni anno, non è solo a fronte delle guerre tra i popoli che il dialogo dei cristiani serve ad indicare, ai cattolici innanzitutto, la pace e gli accordi come mezzo politico da preferirsi ad ogni altro. Come vediamo ogni giorno, la vita dell’uomo conosce anche altri tipi di opere grandi, da condursi in tranquillità, per quanto possibile. La scienza, innanzitutto, che da alcuni secoli è la conquista più straordinaria della specie umana, della sua intelligenza che osserva, capisce, comunica. O come l’amore tra i sessi e la generazione e l’educazione dei figli, che da sempre è, in ogni casa, prodigio della vita umana sulla nostra terra e misura più profonda del nostro rapporto con la realtà del tempo e della nostra finitezza naturale. O come il fare leggi e stabilire ordinamenti e regole, preziose e delicate, nella vita di tutti, come lo sono le abitudini nella vita di ciascuno.

Dialogare e confrontarsi è ormai norma fisiologica di tutti gli ambiti creativi di benessere. Senza rispettare questa normatività, non vi è salute per gli uomini; né scienza, ammirevole in sé e guida incomparabile di lavoro e sicurezza; né amore generante ed educante bambini; né istituzioni da conservare in ordine e buono stato, non meno della propria famiglia e delle vere amicizie. Purtroppo, la pochezza dialogica corrente tra i cattolici è patologia inquietante in un ceto culturale tuttora di straordinaria rilevanza. Dentro la nostra società, questo fattore patogeno prepara e consente una ipertrofia di interventi della gerarchia ecclesiastica sul piano della legislazione pubblica, sostanzialmente velleitari nella più parte dei loro risultati, pericolosi e tristissimi in quanto alterano l’ordine naturale dei processi di testimonianza religiosa e di sviluppo storico civile.

Può una comunità di fede, come quella cattolica così autorevolmente operante in Italia, impegnata nell’ascolto e nello sguardo verso Alterità incommensurabili, vivere e sopravvivere con autorevolezza senza praticare quel costume di confronti abituali, già diffuso a livelli sociali anche modesti, e tra realtà più fragili e povere di ciò che, propriamente e consapevolmente, è più suo: cioè una fraternità universale, con la sua rigorosa fondazione teologica? Quando il dialogo manca, esso va allora cercato con più fiducia e insistenza. Per motu proprio dei vescovi, nelle sedi che sono previste, e che nella loro collegialità includono con sapienza sinfonica globale il vescovo in Roma e i suoi qualificatissimi collaboratori di Santa Sede. Per grazia, possibilità garantita, dall’alto, a tutti i fedeli. Per solidarietà e sollecitazioni le più varie, fraterne e concorrenti da tutti i popoli e continenti. Alla lunga, dialogo e confronto non possono mancare dove regnino preghiera e ascolto di una parola creduta divina e conosciuta vicina. Sono beni sociali che possono mancare a lungo e dolorosamente, ma l’ascolto reciproco verrà. Perché dagli errori ci si può liberare, e anche esserne liberati: e proprio dai più profondi. Non sono forse i cristiani a dirlo e saperlo, prima di tutti?
 
da lastampa.it
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