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Autore Discussione: Nicola CACACE.  (Letto 5596 volte)
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« inserito:: Settembre 08, 2008, 10:22:03 pm »

La strategia di Don Abbondio

Nicola Cacace


Don Abbondio era il parroco del non identificato paese (Olate, Acquate?) di Renzo e Lucia, “i promessi sposi” del romanzo di Alessandro Manzoni. È il tipo dell’ignorante pauroso ed egoista che parla “latinorum” per non far capire la realtà e incutere timore ai fedeli mentre fa i propri comodi. Questi simpatici signori della Lega e non solo, si esprimono nella lingua franca moderna, che è l’inglese, quando vogliono lanciare messaggi “nuovi” che di nuovo hanno poco se si escludono le fregature. Aveva cominciato anni fa Roberto Maroni, neoministro del Lavoro del primo governo Berlusconi.

Maroni decretò, non si sa per quale motivo, che il ministero del Lavoro, che si chiama così in tutti i Paesi del mondo, «in Italia d’ora in avanti si chiamerà ministero del Welfare». Qualcuno fece timidamente notare a Maroni che Welfare significa “benessere”, “prosperità”, che poco ci azzeccava (direbbe Di Pietro) con una funzione governativa storicamente responsabile del lavoro, che così era denominata dovunque nel mondo. Siamo in Italia, paese vecchio di cultura, che sta diventando solo paese vecchio, e la cosa passò. Purtroppo la storia del latinorum si è ripetuta con Giulio Tremonti, il superministro che, pur non avendone bisogno - don Abbondio era ignorante - si è inventato la «Robin Hood Tax» per intascare qualche milione di euro dai petrolieri, milione che già gli italiani hanno cominciato a ripagare col «Time Lag» (si permetta anche a me per una volta l’uso del latinorum), vale a dire il tempo ritardato con cui i prezzi al dettaglio dei carburanti si adeguano quando il barile scende, rispetto al tempo accelerato con cui seguono gli aumenti del petrolio. Infatti da settimane il barile di petrolio è sceso del 44% e la benzina solo del 6%. Calderoli è l’ultimo della brigata «Lega & Co.» che, dopo la ferma levata di scudi di Berlusconi contro la minaccia fatta intendere dallo stesso ministro della Semplificazione di reintrodure l’Ici, non ha trovato di meglio che ricorrere al latinorum del XXI secolo per inventarsi una «Service Tax» che «dovrebbe consentire ai Comuni di far pagare i servizi ai propri cittadini con tassa unificata». E quali servizi? Dal criptico latinorum del simpatico ministro leghista si è solo capito che si tratterebbe di servizi che già si pagano: acqua, luce, parcheggi, giardini, pulizia, mobilità, infrastrutture, etc. D’altra parte perché si usa il latinorum? Se non per non far capire bene, incutere fiducia, fare tranquillamente i propri interessi, come spiegava lo stesso Manzoni, «con indubbia condanna morale ma senza escludere don Abbondio da una certa comprensione e simpatia umana». Noi possiamo avere la stessa comprensione e simpatia umana per Roberto Calderoli ma non possiamo non affermare che questa proposta, come l’ha finora spiegata, non potrà non aumentare la confusione insieme alla pressione fiscale, come lucidamente teme la presidente di Confindustria (il Sole 24 ore di ieri). Aumenterà la confusione perché mentre oggi i servizi urbani, luce, acqua, rifiuti solidi, parcheggi, tranvie, etc. si pagano con criteri non perfetti ma individuati con una certa precisione del tipo chi non parcheggia non paga, chi ha piccola casa paga piccola imposta sui rifiuti e così via, sarebbe molto più difficile far pagare una sola tassa, la Service Tax per tutti i servizi, anche quelli non fruiti e senza possibilità di riferimenti oggettivi. La Service Tax aumenterebbe la pressione fiscale, come teme la Marcegaglia, ma quel che è peggio finirebbe per essere una tassa regressiva e non progressiva come la nostra Costituzione vorrebbe per le imposte dirette. Perché è sempre successo così: quanto più la tassazione non è diretta a un parametro oggettivo, il reddito, il capitale immobiliare, la quantità di rifiuti, etc., l’eventuale “semplificazione” cara a don Roberto finirebbe inevitabilmente per fissare aliquote “mediane”, convenienti per i cittadini più abbienti e disastrose per gli altri. Gli obbiettivi di aumentare la confusione e di tassare di più cittadini poveri e ceti medi, obbiettivi sottesi alla proposta della tassa comunale unificata o Service Tax va rimandata seccamente al mittente, il quale, se insiste, va invitato a rileggersi «I promessi sposi» con occhio meno benevole verso i peccati di don Abbondio di quanto avesse lo stesso autore, peccati, sinora, peggiori dei suoi.

Pubblicato il: 08.09.08
Modificato il: 08.09.08 alle ore 8.52   
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 14, 2008, 06:04:29 pm »

Alitalia, Operazione bidone

Nicola Cacace


Che Berlusconi non abbia avuto avuto remore ad usare Alitalia in campagna elettorale è triste ma in linea con la cattive abitudini italiche.
Che egli oggi persista nella sua spregiudicata campagna per sottrarsi alle responsabilità di una amara «frittata» è grave.

Che poi accusi «la sinistra di influenzare alcune categorie di dipendenti di Alitalia» è semplicemente scandaloso. Tutto questo significa due cose: o il presidente del Consiglio non sa come uscire da questa terribile empasse o il presidente del Consiglio prende per stupidi i lavoratori di Alitalia e 60 milioni di cittadini.

Ancora una volta Berlusconi ha dato una fregatura a tutti: alla società Alitalia che poteva essere salvata in modi economicamente e giuridicamente più dignitosi, ai 20mila lavoratori di Alitalia che avrebbero pagato prezzi sociali meno pesanti, ai 60 milioni di italiani che dovranno pagare miliardi di euro di debiti della società che invece Air France era disposta ad accollarsi, infine al Paese che al posto di una compagnia di bandiera si ritrova “cornuto e mazziato” con una società in fallimento che non può usare il potere contrattuale dell’ottavo mercato del mondo. Quello stesso potere che Air France era disposta a pagare ben più caro dei 16 capitani coraggiosi. A proposito dei quali non posso non esprimere amara perplessità per almeno per due di essi: l’Ad di Intesa Corrado Passera e il presidente di Cai Roberto Colaninno. Perché una grande banca come Intesa ha accettato di immolarsi in una vicenda così poco chiara come questa? Perché uno dei pochissimi industriali italiani che ha avuto il merito di investire i guadagni finanziari nell’industria manifatturiera, a differenza dei Benetton e Co., ha accettato di esporsi in prima persona in questa impresa?

La verità che sta venendo fuori è che questa sporca partita è stata giocata nel nome di un potente spauracchio, la “italianità” da difendere, occultando i veri obiettivi che erano il salvataggio di AirOne e delle banche che l’hanno finanziata legando ancora più strettamente a Berlusconi una ventina di industriali e banchieri in cambio di contropartite.

Come è stato scritto da autorevoli esperti rimasti senza risposta (Dragoni sul Sole 24 ore del 6 settembre): «Il progetto Fenice suona come il salvataggio di AirOne e delle banche che l’hanno finanziata, tra cui Unicredit e Morgan Stanley. Ci sarebbe più trasparenza se fosse fatta piena luce sulla reale esposizione di banca Intesa verso Toto». Perché né l’Ad né il presidente di Intesa, entrambe persone di grande spessore morale e professionale non hanno risposto alle obiezioni pubblicate sul giornale della Confindustria?

Noi speriamo ancora che l’opposizione, invece di limitarsi al solo commento politico e alle battute estemporanee sappia fare una analisi attenta di quanto sta accadendo in merito ad alcuni aspetti: a) i costi reali che pagheremo per una italianità che è e resterà solamente teorica, sia perché il famoso “lock up”, cioé l’impossibilità di vendere azioni prima di cinque anni, può essere facilmente aggirato, sia perché nessuna crisi di società europea, da Iberia a Sabena a Swiss Air, si è conclusa senza l’intervento di una compagnia aerea internazionale, come Air France, British Airways o Lufthansa; b)l’assurda equiparazione dei valori a 300 milioni di euro tra due realtà diversissime come Alitalia ed AirOne, quest’ultima fortemente indebitata; c) le banche creditrici di AirOne, di cui conosciamo solo alcuni nomi; d) se era giusto prevedere, come successo in precedenti casi di salvataggio - Iberia, Sabena e Swiss Air tra le altre - una riduzione dei costi del personale, era assurdo arrivare ad abolire diritti fondamentali come quello di anzianità; e) dopo la sospensione del titolo in Borsa, ora azioni ed obbligazioni sono carta straccia; f) gli esuberi, tra l’ipotesi Air France e quella Cai, sono quasi raddoppiati.

Infine, ma non per ultimo, perché non indignarsi nei confronti dell’accusa di Berlusconi «Prodi voleva svendere Alitalia» di fronte al disastro di oggi? E non dire invece che Berlusconi, per suoi scopi - salvare AirOne, far fare qualche buon affare a suoi amici, allargare l’area del consenso nell’ambiente industrial-bancario - sta rischiando di fregare Alitalia, 20mila lavoratori e gli italiani tutti.

Pubblicato il: 14.09.08
Modificato il: 14.09.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 26, 2008, 06:34:21 pm »

Cambio di rotta

Nicola Cacace


Questo è un buon giorno per l’Alitalia, i lavoratori, i sindacati e il Paese perché siamo vicini alla soluzione migliore per tutti. Ma è anche tempo di responsabilità perché la missione non è ancora compiuta. Perciò mi atterrò a un commento generale rimandando ad altro momento, quando i giochi saranno veramente conclusi, analisi più approfondite e polemiche per chi le merita. La partita Alitalia iniziata male in nome di una italianità velleitaria si sta concludendo con un’accordo di sindacati e Cai.

Accordo su un piano industriale accettabile in cui la presenza della più grande compagnia di trasporto aereo del mondo Air France offre garanzie di successo e sull’accordo sindacale che presenta miglioramenti sensibili per piloti assistenti di volo e precari. Il fatto che la partecipazione azionaria di Air France sarà minoritaria non significa che essa conterà poco o niente, come taluno ancora vorrebbe fare intendere. In casi come questi dove una multinazionale in salute entra nell’azionariato di una compagnia minore in crisi, il management, cioè la direzione strategica, non ha bisogno della maggioranza azionaria per contare. Ecco British Airways conta e decide in Iberia pur avendo meno del quindici per cento delle azioni così come il Land della bassa Sassonia conta e decide in Volkswagen con il 25 per cento delle azioni. Se ognuno senza rinunciare al suo ruolo, politico di governo e di opposizione, sindacale con federazioni e associazioni del personale di volo, farà fino in fondo il suo mestiere con senso di responsabilità il futuro di Alitalia è assicurato.

In questo momento appaiono stonati e pericolosi i proclami di vittoria e le accuse di sconfitta. Sia da parte di chi ha fatto ballare per mesi il Paese sull’orlo di un baratro, tale sarebbe stato il fallimento della compagnia di bandiera perseguendo obbiettivi di sterile italianità e di pesante umiliazione dei lavoratori, sia da parte di chi pur avendo avuto il coraggio di affrontare la privatizzazione non era stato capace di concluderla.

Una nota polemica si può fare verso i media, spesso poco precisi nel narrare i fatti. Le posizioni di Cgil e piloti meritavano commenti più obbiettivi anche alla luce della versione finale sia del piano industriale che dell’accordo sindacale nettamente migliorati rispetto ai precedenti. Di fronte alla naturale propensione a difendere l’italianità assunta da Berlusconi in campagna elettorale nessuno ha spiegato che Alitalia non era come Parmalat. In tutti casi simili - Klm finita in Air France, Iberia finita in British Airways, Sabene-Swiss Air finita in Lufthansa - la crisi di una compagnia di bandiera si era sempre risolta con l’intervento di un’altra compagnia di trasporto aereo. Nessuno ha riconosciuto a Prodi il merito di essere stato il primo presidente del Consiglio a prendere il toro per le corna decidendo la privatizzazione di Alitalia mentre altri parlavano di svendita allo straniero. Alla fine il buon senso sta prevalendo e i fautori di una italianità costosa e impossibile hanno imboccato un’unica strada giusta: una compagnia aerea degna del Paese che produca servizi più efficienti e meno cari e che, pur conservando sulle ali il logo Alitalia, sia diretta da manager che, a differenza di quegli italiani succedutisi negli ultimi tredici anni, sanno fare bene il loro mestiere.

Pubblicato il: 26.09.08
Modificato il: 26.09.08 alle ore 8.48   
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 02, 2008, 05:51:36 pm »

La lezione del ’29


Nicola Cacace


Fa bene il presidente Berlusconi a dirsi «pronto a difendere le nostre banche», gli consiglierei però di prestare attenzione anche all’impoverimento delle masse e alla concentrazione della ricchezza, fenomeni presenti nel ‘29 come oggi.

Due interrogativi attraversano il mondo investito dalla crisi finanziaria: il primo è cosa ci sia in comune tra la grande depressione del ‘29 e la crisi di oggi. La seconda, se esiste il rischio che una crisi come quella si possa ripresentare oggi. Rispondo subito di no, ma è bene fare attenzione. Negli Usa la crisi toccò l’apice tre anni dopo, nel ‘32, con effetti devastanti: un Pil quasi dimezzato, il 25% di disoccupazione e durò nove anni. Quella crisi investì tutto il mondo capitalista sino all’Italia, con caratteristiche simili.

Il Pil italiano crollò di molti punti e impiegò otto anni per tornare ai valori reali del 1930.

Oggi, di meglio, c’è il pronto intervento delle autorità bancarie e governative di qua e di là dell’Atlantico che allora mancò in America; di peggio, c’è una panoplia di titoli “tossici” o Hedge Fund diffusi in tutto il mondo, che allora non c’erano.

Sul Big Crash del ‘29 in America sono state fatte molte analisi e, oltre ad errori governativi e delle autorità monetarie che brillarono per assenza, la maggioranza degli economisti mette sul banco degli accusati la concentrazione della ricchezza come prima causa strutturale di una crisi che da normale recessione ciclica si trasformò in grande depressione. Nel decennio precedente, dominato da due presidenti repubblicani, ci furono quattro interventi governativi di riduzione delle imposte a favore di imprese e di ceti abbienti che determinarono un forte spostamento di ricchezza dai ceti medi e poveri alle famiglie più ricche. Nel 1920 l’1% delle famiglie deteneva il 31,6% della ricchezza immobiliare e finanziaria americana, nel 1929 la quota era salita di 5 punti al 36,6%. Un balzo gigantesco nella distribuzione della ricchezza che normalmente sconta variazioni assai più piccole, che il professor Ravi Batra (The Great Depression, Simon e Shuster, 1987) ed il Nobel Lester Thurow indicano come causa strutturale del Big Crash: «Primo, quando il numero di persone con scarso reddito cresce, cresce anche il numero di Bad Credits concessi dalle banche ed il conseguente rischio di fallimento delle stesse.

Secondo effetto della concentrazione di ricchezza è l’aumento degli investimenti speculativi e non produttivi. Un terzo effetto della concentrazione di ricchezza è il calo della domanda interna per l’impoverimento di ceti medi e poveri». Come stiamo oggi a concentrazione di ricchezza e a disuguaglianze nei redditi? Siamo messi molto male, perché a partire dagli anni Ottanta, dall’avvento della Tatcher in Gran Bretagna e di Reagan in America, le disuguaglianze sono fortemente aumentate in tutti i Paesi industriali, ad eccezione dei Paesi nordici e dell’Olanda, in conseguenza delle domande di deregolazione, privatizzazioni e meno tasse del liberismo governante. Nei Paesi anglosassoni più del 40% della ricchezza nazionale è posseduta dall’1% delle famiglie mentre nel resto d’Europa la percentuale si aggira intorno al 30%. La concentrazione della ricchezza è conseguenza delle disuguaglianze dei redditi.

In Italia, tra il 1993 ed il 2003 ben sette punti percentuali del reddito nazionale sono passati dal lavoro al capitale, cioè da salari e pensioni a rendite e profitti e questo significa quasi 4mila euro l’anno sottratto a ciascuno dei 22 milioni di lavoratori, autonomi inclusi. Anche se il sacrificio maggiore è stato sostenuto dai lavoratori dipendenti, il cui reddito in termini reali tra il 2000 ed il 2006 è rimasto fermo (+0,3%) malgrado un aumento del Pil del 5,3%, mentre quello degli autonomi è aumentato del 13%. Nel 1986 il professor Valletta presidente della Fiat, guadagnava 60 volte la media, l’attuale presidente con 8 milioni l’anno guadagna 300 volte i suoi operai.

Quanto a concentrazione di ricchezza e disuguaglianze sociali, le condizioni delle nostre economie assomigliano a quelle degli anni della grande depressione. Per quanto riguarda l’Italia, basta vedere i dati sul calo dei consumi, a popolazione crescente, per rendersi conto che i redditi stagnanti di ceti medi e poveri non sono in grado di alimentare la domanda interna, da dieci anni quella che in Europa ha meno contribuito alla crescita del Pil. Oggi non c’è il rischio che una crisi devastante come quella del ‘29 si possa ripetere, perché il mondo che produce non è limitato all’Occidente e perché, come si è visto sino ad oggi, dagli Stati Uniti all’Europa autorità monetarie e governi non sono rimasti passivi.

Questo non significa che in Italia non subiremo danni. Effetti negativi non mancheranno sia per le imprese - più difficoltà nell’export e una stretta creditizia -, sia per la massa di cittadini soffocati da redditi e pensioni basse e stagnanti con prezzi crescenti. Se il governo non pone riparo a questa situazione, la crescita del Paese continuerà a soffrire di un apporto insufficiente della domanda interna.

Berlusconi fa bene a vigilare sulla salute delle nostre banche, che non è la prima preoccupazione del momento, fa male a sottovalutare l’impoverimento di salari e pensioni, oggi il più acuto fattore di crisi del Paese. Per concludere, la lezione della Grande Depressione non va dimenticata perché il mondo capitalista si è messo su una china simile al ‘29, di disuguaglianze sociali e di concentrazione di ricchezza non solo eticamente condannabili ma anche economicamente dannose e perché, sotto la spinta del liberismo, troppi controlli sulla finanza si sono allentati.

Il liberismo con Stato debole e senza controlli, che produce concentrazione di ricchezza e grandi disuguaglianze sociali, anche se umiliato, rischia di fare ancora più danni dei titoli spazzatura.

Pubblicato il: 02.10.08
Modificato il: 02.10.08 alle ore 14.47   
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« Ultima modifica: Ottobre 14, 2008, 10:50:50 am da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 23, 2008, 06:34:04 pm »

Così si mette il Paese in ginocchio

di Nicola Cacace


Da anni le disuguaglianze sociali stanno scavando nella carne viva della gente ed il fondo è stato toccato in coincidenza di una crisi finanziaria responsabile in minima parte della depressione in atto. Ora l’Istat ci ricorda che ci sono più famiglie (dal 4 al 5 per cento)con risorse insufficienti per il cibo, più famiglie (dal 14 al 15 per cento) che con i loro redditi non arrivano a fine mese e almeno quattro regioni del Sud, Calabria, Sicilia, Campania e Puglia con difficoltà vitali che toccano ormai le masse.
Da anni la Banca d’Italia ci avverte sulla concentrazione di ricchezza, col 10 per cento delle famiglie che possedeva il 44,5 per cento delle ricchezza nazionale nel 1995, il 47,5 per cento nel 2000, quasi il 50 per cento oggi.

Anche se Tremonti non lo sa, da anni economisti di sinistra e liberal, da Solow a Stiglitz, da Reich a Krugman, da Ruffolo ad Andriani avvertono sui danni della finaziarizzazione e delle disuguaglianze che producono una minoranza di ricchi che punta su investimenti speculativi invece che produttivi e la grande maggioranza della popolazione impoverita che porta al calo dei consumi, responsabile numero uno della crisi mondiale di oggi come di quella del ’29.
Non è un caso se i paesi del mondo a più alta concentrazione di ricchezza - Stati Uniti, Gran Bretagna ed Italia - siano anche i paesi dove la crisi sta mordendo più che altrove. L’Italia è il paese più povero con le famiglie più ricche, essendo il paese industriale più indebitato con famiglie che sono, nella media, le più ricche al mondo.

Con una ricchezza delle famiglie pari ad otto olte il prodotto interno lordo, gli italiani, meglio dire una minoranza degli italiani, sono  relativamente assai più ricchi di americani e tedeschi. Perciò urge una politica fiscale fortemente progressiva, che faccia pagare i  più ai ricchi e recuperare, con detrazioni fiscali, ai ceti medi. Solo così potremo risalire dal fondo in cui ci troviamo.


23 dicembre 2008
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 28, 2008, 11:40:00 pm »

Orario ridotto. Un tabù da sfatare

di Nicola Cacace


Da sempre la produttività oraria aumenta sul lungo periodo più della produzione. In Italia tra il 1900 ed il 2000 essa è aumentata del 2,8% annuo e la produzione solo del 2,6%. Se gli orari annui non si fossero ridotti da 3000 a 1700 ore gli occupati sarebbero diminuiti invece di aumentare da 15 a 21 milioni.

I tedeschi oggi sono stati i primi a imboccare la via dei contratti di solidarietà (dopo i tessili italiani anni fa) scambiando alla Daimler la dismissione di 2000 lavoratori con una riduzione di orario per 20mila. VW, Opel e altre fabbriche stanno trattando. Gli effetti occupazionali della riduzione di orario sono diversi da settore a settore. Gli Studi principali (Bit, Ue, governo francese, etc.) documentano che una riduzione di orario ha effetti medi sull’occupazione del 65% (riduzione del 10% di orario, +6,5% dell’occupazione).

In Italia la nostra cultura imprenditoriale è all’anno zero sul tema; le massime elaborazioni sono del tipo "la riduzione non ha effetti occupazionali" e "la riduzione costa troppo". Ma se sono così bravi a fare la stessa produzione con orari ridotti senza nuovi occupati perché essa costa? Mistero!
Anche la sinistra italiana ha un ritardo culturale grave sulla questione tempi di lavoro.

La sconfitta più recente risale al primo governo Prodi, quando a difendere la proposta di legge sulle 35 ore fu Bertinotti e la sua pretesa, sbagliata, di volere una legge prescrittiva e antisindacale e non di orientamento della contrattazione come voleva Prodi.

Nelle intenzioni di Prodi doveva trattarsi di una legge alla francese, loi d’orientation et d’incitacion alla contrattazione. Infatti l’unica "coercizione" della legge francese tuttora in vigore era ed è costituito dal sovraprezzo degli straordinari che Sarkozy ha solo ridotto. L’Italia invece è l’unico paese al mondo dove l’ora di straordinario costa meno con effetti negativi sull’occupazione documentati anche da uno Studio Bankitalia. Per la sinistra europea ed anche americana "il tempo è vita", mentre per le destre di tutto il mondo "il tempo è danaro".

R.Reich, già ministro del lavoro di Clinton, riconosce che oggi si lavora più di ieri per la continua riduzione di salari e condizioni di lavoro e per l’aumento delle disuguaglianze.

In Italia sono maturi i tempi per negoziare contratti di solidarietà alla tedesca, dove i contributi disponibili per la Cig potrebbero essere impiegati per retribuire in una certa quota (in Germania è il 65 per cento) il mancato guadagno da orario ridotto.


27 dicembre 2008
 
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