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Autore Discussione: GIORGIO NAPOLITANO. "No a meno diritti in nome del dovere di governare"  (Letto 2909 volte)
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« inserito:: Febbraio 21, 2008, 04:00:41 pm »

Quirinale, la destra e i voti

Giorgio Napolitano


Fu solo la sera prima del giorno di inizio delle votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica che mi venne chiesto, a nome dell’intero schieramento di centro-sinistra, di accettare che esso presentasse la mia candidatura. E diedi, dopo una rapida riflessione, la disponibilità che i miei interlocutori mi avevano chiesto tenendo conto, in particolare, dell’argomento su cui avevano posto l’accento: e cioè che in Parlamento si sarebbe potuto ottenere sul mio nome un arco di consensi molto più ampio del perimetro della maggioranza appena uscita dalle elezioni politiche di aprile. Confidavo, francamente, anch’io che le prove istituzionali da me offerte nel Parlamento italiano e in quello europeo con doti di equilibrio diffusamente riconosciutemi, superando limiti di parte e approcci partigiani, costituissero una garanzia anche per lo schieramento appena divenuto opposizione.

Ed è un fatto che ebbi affidamenti in tal senso - mentre iniziavano nell’aula di Montecitorio le votazioni per il Presidente - dai leader di importanti componenti della «Casa delle libertà». Le cose andarono diversamente: prevalse nell’opposizione la scelta, e la disciplina, di un voto contrario, ma ancora oggi riaffermo energicamente lo spirito della mia candidatura, non nata da una forzatura, e da una pretesa di autosufficienza, della coalizione di centro-sinistra.

D’altronde resi subito evidente - nel rivolgere, dopo il giuramento, il mio messaggio al Parlamento - che non mi sarei in alcun modo identificato con la maggioranza da cui avevo ricevuto sostegno e voti per l’elezione a Presidente, che avrei compiuto ogni sforzo per rappresentare l’insieme delle forze politiche impegnate in Parlamento e delle forze sociali operanti nel paese, tenendo conto delle diverse correnti d’opinione e dei diversi interessi in giuoco, mirando a individuare sempre l’interesse generale della società e della nazione. Resi subito evidente, cioè, che avrei avuto come sola bussola il rispetto dei princìpi e degli equilibri costituzionali.

A questa linea di condotta, improntata a indipendenza e imparzialità, mi sono scrupolosamente attenuto in questo mio primo periodo di attività presidenziale. Se ciò non è stato da tutti riconosciuto, posso solo rammaricarmene; ma ho la serena coscienza di aver agito secondo lo spirito e la lettera della Costituzione, senza pregiudizi di favore o di sfavore verso chicchessia, senza ombre o tentazioni di faziosità. Una diversa riflessione - «di sistema», come ho detto all’inizio - richiede poi l’ardua difficoltà incontrata nel perseguire il superamento del «clima di pura contrapposizione e di incomunicabilità, a scapito della ricerca di possibili terreni di impegno comune» instauratosi tra i due schieramenti in gara per la guida del paese. Mi auguravo, nell’assumere le mie funzioni, che fosse «venuto il tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza anche in Italia». Il mio appello in questo senso è stato da allora costante, ininterrotto: non mi sono stancato di rinnovarlo in ogni occasione, in rapporto a vicende, scadenze, tematiche della vita politico-istituzionale. Non ho mai temuto di essere frainteso, non ho mai ritenuto che dubbi e riserve - o sollecitazioni di vario segno - a proposito dei miei interventi pubblici, dovessero trattenermi da richiami e inviti che mi apparissero doverosi.

C’è piuttosto da chiedersi quanto del mio reiterato appello a una maggiore serenità, a un’intonazione più costruttiva, del confronto tra gli opposti schieramenti e, in concreto, tra governo, maggioranza e opposizione in Parlamento - del mio appello alla ricerca di limpide convergenze su temi di grande rilievo per la vita e il futuro della nostra democrazia, della nostra nazione - sia stato, in questo primo anno e mezzo della mia presidenza, effettivamente raccolto. Poco, debbo onestamente dire, e aggiungo - senza fare processi alle responsabilità dell’una o dell’altra parte - a causa del persistere di radicate conflittualità «soggettive» e di pesanti condizionamenti «oggettivi», insiti in meccanismi elettorali, legislativi, regolamentari che non si è voluto o potuto modificare.

Nello stesso tempo, ho potuto misurare quel che significa lo speciale carattere della figura del Presidente della Repubblica nel nostro ordinamento, l’insieme delle attribuzioni e dei vincoli che la caratterizzano. Vorrei essere chiaro: è mia antica convinzione, da cui non ho motivo di discostarmi, che sia un punto di forza della Costituzione repubblicana la previsione di un Capo dello Stato eletto dal Parlamento, non dotato di poteri esecutivi, concepito come supremo moderatore e garante di una corretta dialettica istituzionale. L’assenza di una figura siffatta, l’assimilazione del Capo dello Stato al leader di una maggioranza politica, investito col voto popolare da una parte del paese in contrapposizione all’altra, finirebbero per alimentare tensioni incontrollabili nel tessuto istituzionale e nella compagine nazionale. La collocazione del Presidente della Repubblica al di sopra delle parti, al di fuori della contesa politica e delle competenze di governo, comporta naturalmente una sostanziale limitazione dei poteri del Capo dello Stato. I poteri che gli assegna la Costituzione del 1948 sono non certo irrilevanti sotto il profilo dei rapporti col Parlamento (potere di messaggio; potere di rinvio di singole leggi; potere di scioglimento delle Camere) e per la titolarità dei provvedimenti di grazia, oltre che delle decisioni di nomina dei senatori a vita e di un terzo dei giudici costituzionali. Essi sono inoltre significativi e ben precisi in relazione ad alcune specifiche e delicate incombenze (comando delle Forze Armate e presidenza del Consiglio Supremo di Difesa; presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura).

Per tutto il resto, rinviano a un esercizio di moral suason. E ho potuto constatare come si tratti di un esercizio assai arduo, anche perché solitario, necessariamente discreto, ed esposto a diversi, spesso poco obiettivi apprezzamenti. Le ricadute, i risultati dell’impegno che si esplica attraverso i canali della moral suasion dipendono dalla validità degli argomenti spesi ma anche dalla sensibilità dei destinatari, dalla loro disponibilità a meditarne seriamente le sollecitazioni. Per quel che mi riguarda, alla luce dell’esperienza fin qui compiuta, non dispero dei frutti che a lungo andare questo esercizio può produrre, come ne ha prodotti a opera di miei predecessori.
Tratto dalla prefazione al volume «Dal Pci al socialismo europeo», edito da Laterza.

Pubblicato il: 21.02.08
Modificato il: 21.02.08 alle ore 12.39   
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 23, 2009, 10:35:42 am »

23/4/2009

La lezione di Bobbio
   
"No a meno diritti in nome del dovere di governare"

GIORGIO NAPOLITANO


Vorrei allargare la visuale della mia riflessione per cogliere – al di là dello specchio deformante delle dispute politiche italiane – questioni e dilemmi che attraversano, e già da tempo, il discorso sulla democrazia in Occidente.

Da decenni ormai si è aperto il dibattito generale sulla governabilità delle società democratiche: nelle quali, a una crescente complessità dei problemi e a un tendenziale moltiplicarsi delle domande e dei conflitti, non corrispondono capacità adeguate di risposta, attraverso decisioni tempestive ed efficaci, da parte delle istituzioni.

Nell’affrontare a suo tempo questo tema cruciale, Norberto Bobbio osservò che mentre all’inizio della contesa sul rapporto tra liberalismo e democrazia «il bersaglio principale era stato la tirannia della maggioranza», esso stava finendo per assumere un segno opposto, «non l’eccesso ma il difetto di potere». E Bobbio aggiunse, pur senza eludere il problema: «La denuncia della ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie». Un monito, quest’ultimo, che non si dovrebbe dimenticare mai. E dal quale va ricavata l’esigenza di tenere sempre ben ferma la validità e irrinunciabilità delle «principali istituzioni del liberalismo» - concepite in antitesi a ogni dispotismo - tra le quali -, nella classica definizione dello stesso Bobbio, «la garanzia di diritti di libertà (in primis libertà di pensiero e di stampa), la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche». E sempre Bobbio metteva egualmente l’accento sulla rappresentatività del Parlamento, sull’indipendenza della magistratura, sul principio di legalità.

Tutto ciò non costituisce un bagaglio obsoleto, sacrificabile - esplicitamente o di fatto - sull’altare della governabilità, in funzione di «decisioni rapide, perentorie e definitive» da parte dei poteri pubblici. Ho evocato - ed è di certo tra gli istituti non sacrificabili - la distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario); e mi sarà permesso di richiamare anche il riconoscimento del Capo dello Stato come «potere neutro», secondo il principio che, enunciato da Benjamin Constant due secoli fa, ispirò ancora i nostri padri costituenti nel disegnare la figura del Presidente della Repubblica.

Ho egualmente menzionato come essenziale la rappresentatività del Parlamento: a proposito della quale penso si possa dire che essa non viene fatalmente incrinata da regole vigenti in diversi paesi democratici, finalizzate ad evitare un’eccessiva frammentazione politica, ma rischia di risultare seriamente indebolita in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto col territorio e con gli elettori. In definitiva, non si può ricorrere a semplificazioni di sistema e a restrizioni di diritti in nome del dovere di governare. Grande è certamente la difficoltà del governare in condizioni di pluralismo sociale, politico e istituzionale, e ancor più in presenza, oggi, della profonda crisi che ha investito le nostre economie. Ma non c’è, sul piano democratico, alternativa al confrontarsi, al combinare ascolto, mediazione e decisioni, al giungere alla sintesi con la necessaria tempestività ma senza sacrificare i diritti e l’apporto della rappresentanza.

E a ciò non si sfugge nemmeno nei sistemi politico-istituzionali che sembrano assicurare il massimo di affermazione del potere di governo affidato a una suprema autorità personale. Mi riferisco naturalmente a sistemi e modelli autenticamente democratici come quello presidenzialista degli Stati Uniti d’America: dove, al di là del mutare o dell’oscillare, nel tempo, dell’equilibrio tra Presidente e Congresso, a quest’ultimo, cioè alla rappresentanza parlamentare, nella sua netta separazione dall’esecutivo, viene riservata sempre un’ampia area di influenza e di intervento - e in definitiva l’ultima parola - nel processo deliberativo. Anche nei momenti, aggiungo, di emergenza e urgenza nazionale, come ci dicono le recenti vicende del complesso rapporto - sul terreno legislativo - tra il nuovo Presidente, la nuova Amministrazione americana, e il Congresso degli Stati Uniti.

Estratto della lectio magistralis tenuta ieri dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Teatro Regio di Torino in occasione della Biennale della Democrazia

da lastampa.it
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