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« Risposta #1 inserito:: Giugno 30, 2007, 07:34:33 pm » |
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Nel covo dei ragazzi-bomba di Kabul di Claudio Franco da Kabul
Viaggio nella base sotterranea alle porte della capitale afghana. Dove si addestrano i kamikaze che attaccano le truppe Nato Tutto è cominciato con mezzo quintale di cocomeri, in un mercato periferico di Kabul, direzione nord-ovest, verso le montagne che circondano la capitale. Eravamo appena arrivati, interprete e cronista, nervosi e sudati, con istruzioni precise: spegnere il motore e aspettare. Ci vuole pazienza: i talebani non hanno mai fretta. È passata solo una decina di minuti quando qualcuno comincia a bussare freneticamente sul vetro posteriore del nostro fuoristrada: "Ahmed, apri il baule per favore.". Nessuno di noi due si chiama Ahmed. L'interprete apre il finestrino, convinto di un errore, ma in un istante è tutto chiaro e lo sentiamo sbloccare la sicura delle porte. Un ragazzo apre lo sportello posteriore, saluta e comincia a caricare cocomeri: prima cinque, poi dieci alla fine saranno mezzo quintale. "Andiamo?", dice salendo in macchina. L'interprete mi rassicura, mormora con un filo di voce: "Si vede che conoscevano la nostra targa sin da quando abbiamo noleggiato la jeep. Tutto a posto. Andiamo avanti...". I telebani sono fieri di quanto riescono a essere invisibili a casa loro: amano stupirti rivelando una conoscenza minuta dei tuoi movimenti. Un metodo mafioso, diremmo in Italia: non hanno nessun bisogno di farsi notare, ma controllano il territorio. Sono quasi le sei quando riusciamo a uscire dal traffico di Kabul: il nostro contatto si occupa di togliere le batterie dei telefoni, poi rimuove la sim card, smonta il satellitare; tutto finisce in una busta di nylon e scompare nei suoi abiti. Dopo mezz'ora ci fermiamo ai lati della grande strada. Scende un silenzio pesante. Dietro un cespuglio ci aspettano in due: barba d'ordinanza e turbante da mullah, come i religiosi dei villaggi. Tutto avviene in un attimo. Il primo afferra il volante rapidamente e mi ordina di sedere dietro, il secondo abbraccia la giovane guida e sparisce.
Comincia così l'ultima fase del viaggio verso la base segreta dei talebani, quella in cui addestrano l'arma più importante: gli artificieri che preparano le trappole al tritolo contro le truppe della Nato e contro i battaglioni fedeli al governo Karzai. Guerriglieri votati al martirio, pronti a farsi saltare in aria per colpire dove e quando necessario. Ma che, contrariamente ai fondamentalisti del Sud, mettono al primo posto la liberazione dell'Afghanistan e non la guerra santa in nome dell'Islam. Qui alle porte di Kabul le squadre d'assalto dirette da Mohammed Khan usano i metodi di Al Qaeda come risorsa estrema: il loro modello rimane quello della resistenza contro i sovietici.
Il percorso verso la base è molto difficile. Il nuovo arrivato non lascia niente al caso. La sua priorità è rendere cieco lo straniero. Con calma, si prende cura dei miei occhi: ritaglia delle sagome ovali da un rotolo di adesivo da pacchi. Ripete l'operazione almeno tre volte e preme strato contro strato nelle orbite. Sento che mi mettono un paio di occhiali da sole a fascia, di quelli che coprono quanto possibile. Poi ordina con tono perentorio: "Devi far finta di vedere, devi guardarti intorno. Passeremo in mezzo a un villaggio tra poco. Volta la testa a destra e a sinistra, di tanto in tanto. Conta fino a 30 e poi girati verso il finestrino...", intima ancora. Sento voci, rumori di negozi, forse i suoni di un mercato: "Siamo nel nostro villaggio", dicono i due talebani sollevati e quel 'nostro' sembra scandito a lettere maiuscole. Perché in Afghanistan si divide tutto per appartenenza.
Superato il villaggio, procediamo per dieci minuti su un sentiero arduo anche per un fuoristrada. Quando la macchina rallenta, io credo si tratti di un semplice ostacolo sulla strada. Invece siamo arrivati: sento scattare lo sportello, qualcuno mi afferra per le spalle e mi trascina fuori, in silenzio. Stanno separando me dal'interprete. Distinguo una serie di mani che mi perquisiscono, voci concitate, sento il traduttore protestare in lontananza e prego che la smetta subito. I miei custodi mi stringono una sciarpa intorno a occhi e orecchie, così stretta da farmi perdere anche l'ultima briciola di orientamento. Adesso ci muoviamo, un uomo mi abbraccia con forza e mi conduce su un sentiero strettissimo: in un inglese frammentato mi sussura di stare attento a dove metto i piedi. Alla mia destra avverto il vuoto: "Se perdi l'equilibrio lasciati andare sulla sinistra, dimentica la direzione opposta". Procediamo a picccoli passi per qualche minuto e ci fermiamo: sento trascinare una porta, qualcosa si apre. È un rumore di sterpi, come un cespuglio trascinato. Scoprirò solo più tardi che si tratta di un'entrata nascosta da una parete di spine. Il mio custode mi schiaccia contro il suolo: devo essere in una galleria. Passa una manciata di secondi e siamo di nuovo in piedi, ma non faccio in tempo a ritrovare l'equilibrio che mi ritrovo a terra; questa volta si tratta di strisciare e con le dita e sento il metallo caldo di una lastra. Siamo sotto terra, in un tunnel. Per un istante ho paura, non sento i passi dell'interprete che mi dovrebbe seguire sotto scorta: lo chiamo ad alta voce, poi urlo il suo nome una seconda volta, ma non arriva risposta. Provo a chiedere che sta succedendo, ma fortunatamente siamo arrivati. Mi spingono verso il basso, questa volta per farmi sedere, e subito mi liberano gli occhi.
Davanti a me c'è lui: Mohammed Khan, 'il Comandante', che mi stringe nel tradizionale 'abbraccio dell'orso' e mi dà un benvenuto ironico: "Ho sentito molto parlare di te". Sono tre anni che cerco di incontrarlo, tomentando mediatori e conoscenti per arrivare a un'intervista. Mohammed Khan, e questo ovviamente è un nome di battaglia, dirige le azioni più importanti nella capitale: ai suoi ordini ci sono 350 uomini, gran parte dei quali esperti nelle trappole esplosive e pronti ad azioni suicide. Ogni mese le sue cellule compiono una decina di attacchi: a metà giugno hanno distrutto un autobus, assassinando almeno 25 poliziotti. Sarà lui uno dei generali dell'annunciata offensiva contro il cuore del potere di Hamid Karzai. Ma si occupa anche di addestrare le nuove reclute: sceglie e prepara i martiri per gli attacchi kamikaze. Il Comandante prima di tutto mi ricorda quello che rischio: "So bene che potresti avere un segnalatore satellitare nascosto dentro la telecamera, ma hanno garantito che di te posso fidarmi. E voglio fidarmi: ma tieni a mente che basta solo uno scherzo e non torni a casa. Non fare movimenti improvvisi, non avvicinarti agli esplosivi e non interferire. Puoi filmare la lezione liberamente, senza distrarre gli allievi: loro devono capire e non ci sarà tempo per ripetere le istruzioni". La lezione? "Oggi ci occuperemo di come si costruisce una bomba, uno di quegli ordigni che gli stranieri chiamano Ied. Ieri abbiamo lavorato sui meccanismi per farla esplodere da lontano, come micce e telecomandi". Chiedo di poter vedere le reclute degli attacchi suicidi. Si apre la porta ed entrano in sette: "Eccoli, sono tutti pronti al martirio. Ma le operazioni kamikaze si usano solo quando non ci sono alternative: a nessuno piace perdere un soldato se possiamo farne a meno. E questi sono mujaheddin di valore, addestrati per usare ordigni telecomandati. Gli abbiamo insegnato a combattere in campo aperto, nelle grandi offensive, o ad agire nella guerriglia casa per casa. Insomma, non sono carne da cannone. Certo, se non abbiamo altre strade per arrivare al bersaglio, per esempio per colpire un obiettivo di alto profilo come un ufficiale americano, allora affidiamo l'attacco a un kamikaze. Ma sacrifichiamo un solo uomo, non mandiamo al massacro l'intera cellula". Mohammed Khan è pragmatico: "La guerra contro i Russi l'abbiamo vinta senza azioni suicide. Oggi abbiamo un'arma in più, la vita di questi ragazzi, ma ciò non significa che li utilizziamo come le pallottole da un dollaro".
Nelle parole del Comandante non c'è nulla della retorica fondamentalista che riempiva i discorsi di altri leader talebani come Dadullah, il responsabile militare che ha sequestrato Daniele Mastrogiacomo, ammazzando il suo interprete e il suo autista, per poi saltare in aria nel sud dell'Afghanistan, appena cinque giorni dopo essere rientrato da oltreconfine. In questo emergono le radici di Mohammed Khan che non si è formato nelle scuole coraniche, ma tra i ranghi di Hizb-e-Islami, la fazione jihadista fondata dal capo Hekmatyar negli anni delle battaglie contro l'Armata rossa. Dal 2002 il Comandante si è unito ai talebani e oggi riconosce l'autorità suprema del mullah Omar, ma le sue reclute si sentono più guerrieri della libertà che ammazza-cristiani: vogliono scacciare gli stranieri dal Paese, non conquistare il paradiso dei martiri. Sono l'altra faccia dei talebani. E non sono i soli. Il riavvicinamente ad Al Qaeda voluto da Dadaullah e incoraggiato a suon di dollari dagli arabi di Miramshah, come sempre attraverso la famiglia Haqqani, signori e padroni del Waziristan settentrionale in Pakistan quanto delle province di Khost, Paktia e Paktika da questa parte del confine, non è stato apprezzato da un segmento importante, forse maggioritario, del movimento, unito però dalla lotta contro Karzai e contro le truppe occidentali.
Ma la politica è lontana dalla stanza sotterranea e la lezione deve cominciare: gli allievi prendono posizione intorno all'insegnante. Gli occhi che si affacciano dal passamontagna tradiscono l'età: si va dai 15 ai 38 anni, come ci confermano dopo. Versi del Corano che elogiano il martirio segnano l'inizio dei lavori. Poi si prega e le invocazioni non finiscono mai: obiettivo, leaders, mujaheddin e una litania di altre raccomandazioni che il mio pashto rudimentale non è in grado di cogliere. Le parole del maestro invece non hanno ambiguità: "Dunque, ieri abbiamo studiato il meccanismo per le esplosioni a distanza? Tutto chiaro? Oggi vedremo come costruire un ordigno. Non dovete distrarvi, si tratta di una procedura estremamente importante: anche il più piccolo errore, un contatto dei fili e salterete in aria". L'insegnante comincia ad estrarre dalla sua 'cartella' tutto il necessario per costruire le bombe più pericolose, quelle che hanno ucciso decine di soldati della Nato, assassinando anche militari italiani proprio sulle strade poco lontano da qui. Lentamente tira fuori batterie, cavi elettrici, micce detonanti, una discreta quantità di esplosivo di diverso genere: si tratta di Tnt e plastico C4, il pane quotidiano dei sabotatori. Infine una lattina, destinata a mimetizzare la trappola. I ragazzi sono perfettamente concentrati: nessuno si distrae per guardare lo straniero, nemmeno un'occhiata furtiva, pensano solo all'arma. Il maestro va avanti: unisce batterie e fili dell'innesco, spiega lentamente come distinguere i poli elettrici del detonatore. Poi passa alla carica e sbriciola un panetto di tritolo: "Deve essere come polvere; altrimenti l'esplosione è molto più debole". Sembra che il Tnt abbia un potenziale distruttivo più alto rispetto al plastico C4, ma spesso la soluzione micidiale consiste nel combinare le due sostanze. Il Comandante chiarisce che la lattina è solo un esempio: negli attentati si usano pentole a pressione costruite in Iran in lega di ghisa o, se si vuole demolire un edificio, fusti di benzina. La lattina è un modello in scala: la riempie di polvere di Tnt e plasma un tappo di C4 dove si inserisce il detonatore collegato al telecomando. Il tutto protetto da una coltre di nastro adesivo contro l'umidità: spesso queste mine sono nascoste nei canali ai lati delle strade o nelle fogne a cielo aperto delle città. Ma la bomba può essere usata per far scoppiare un'auto imbottita di altro esplosivo, come accade nelle azioni suicide. La lezione è di una semplicità choccante: bastano 15-20 minuti per completare un congegno devastante.
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