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Autore Discussione: LUCIO CARACCIOLO.  (Letto 35281 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Novembre 04, 2009, 11:17:26 am »

Ma la Cina non è vicina

di Lucio Caracciolo


Sull'Afghanistan abbiamo una sola certezza: prima o poi gli americani e i loro alleati se ne torneranno a casa. Il problema è che tale convinzione è condivisa da tutti gli afgani, a cominciare dai tagliagole di vario orientamento che se ne spartiscono il territorio  Berlusconi e Hu JintaoSull'Afghanistan abbiamo una sola certezza: prima o poi gli americani e i loro alleati se ne torneranno a casa. Il problema è che tale convinzione è condivisa da tutti gli afgani, a cominciare dai tagliagole di vario orientamento che se ne spartiscono il territorio. Sicché tutti, da Karzai in giù (o in su, se guardiamo alle gerarchie effettive e non solo nominali), i signori della droga e della guerra preparano il giorno in cui regoleranno i conti fra loro. All'ombra dei tradizionali 'protettori' esterni, quelli che storia e geografia condannano a occuparsi di Afghanistan: Iran, India e Pakistan anzitutto, ma anche Cina, Russia e Stati dell'Asia centrale post-sovietica.

Su questo sfondo conviene interpretare il deterioramento quasi lineare della crisi afgana negli ultimi quattro-cinque anni. Le elezioni farsa che americani ed europei hanno allestito per creare l'illusione di un governo legittimo cui affidare la responsabilità dell'Afghanistan stanno rivelandosi un boomerang. In ogni caso, a Kabul non si insedierà un presidente credibile. E allora?

Alla Casa Bianca, se potessero, avrebbero già dato il segnale della ritirata. E rischierato le truppe in aree vicine, più sicure e più economiche, da cui proiettarsi in operazioni mirate (antiterrorismo o di altro genere). Ma come mascherare questa ritirata da successo?

In ogni caso, per Obama più che l'Afghanistan conta il Pakistan - di qui la sigla 'Afpak' oggi di moda - con il suo apparato nucleare che rischia di slittare in mani jihadiste. Ma la cruda umiliazione che gli Stati Uniti stanno sperimentando in Afghanistan si riverbera a Islamabad e dintorni, minacciando quel poco di residua statualità ancora visibile in Pakistan.

Negli ultimi mesi, gli strateghi del Pentagono e della Nato hanno guardato con interesse alla
 Cina come a una possibile risorsa strategica da spendere sul terreno afgano. E i dirigenti cinesi hanno informato gli americani di essere disposti, in linea di principio, a dare una mano nella repressione dei talebani e dei loro sponsor pakistani. In questo l'interesse cinese è regionale e insieme globale.

Per Pechino è fondamentale proteggere la frontiera occidentale a ridosso dell'Afpak e dell'India, dove vivono le minoranze musulmane uigure (Xinjiang) e hui (Tibet), dalle infiltrazioni jihadiste provenienti da Afghanistan e Pakistan. Inoltre, i cinesi che operano in Afpak sono da tempo nel mirino di insorti e terroristi. Specie quelli attivi nel settore minerario, in Afghanistan, e delle infrastrutture, in Pakistan.

Oltre a tale convergenza specifica fra gli interessi americani e quelli cinesi in Afpak, a Pechino si sostiene che la collaborazione in quel teatro strategico servirebbe gli interessi globali della Cina. Sarebbe la prova generale di un'intesa non più solo economica, ma geopolitica e strategica, fra Cina e Stati Uniti. A Obama era stato fatto sapere fin dai primi giorni di presidenza che Pechino sarebbe stata disposta a considerare l'invio di proprie truppe ad affiancare il contingente internazionale a guida Nato (ossia Usa). Stesso concetto espresso al segretario generale della Nato, il danese Rasmussen. Ma la situazione è talmente deteriorata, e l'incertezza strategica americana tanto palese, da avere indotto i leader cinesi a moderare le velleità interventiste. Se l'America non sa che cosa vuole - dicono a Pechino - non può aspettarsi che glielo spieghi la Cina.

(30 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 08, 2010, 11:43:27 pm »

Rimpiangeremo Bush?

di Lucio Caracciolo


A quasi un anno dal suo ingresso alla Casa Bianca, Obama mette la retromarcia. Di fronte a un attentato fallito il presidente non ha tenuto fede alla sua fama di uomo controllato, calmo e prudente
 
Dunque ci risiamo? Siamo tornati in piena 'guerra al terrorismo'? Obama sembrava aver scartato questo termine dal suo vocabolario, e ancora oggi rilutta a impiegarlo quanto il suo predecessore. Ma la psicosi da attacco terroristico che agita l'America dopo il fallito attentato di Natale sul volo Amsterdam-Detroit rivela che il trauma dell'11 settembre stenta ad essere assorbito. Soprattutto, dimostra che da quello spartiacque storico gli americani, o almeno i loro leader, non hanno tratto la lezione di fondo. E cioè che il terrorismo si vince non avendone paura. Dimostrando, come avrebbe detto Churchill, che la vittoria sarà nostra perché "resisteremo un minuto più del nemico".

A differenza dell'Inghilterra bombardata a tappeto dalla Luftwaffe, l'America ha dovuto subire un solo colpo sul proprio territorio, quello che ha spazzato via le Torri Gemelle e danneggiato il Pentagono. Poi nulla di serio, se non gli effetti della psicosi da Al Qaeda che intralcia e intristisce la vita quotidiana negli Stati Uniti. Migliaia di americani, molti più di quanto hanno lasciato la vita l'11 settembre, sono morti e continuano a morire nelle campagne militari lanciate da Bush in Afghanistan e in Iraq sotto la sigla 'guerra al terrorismo'. Uno sforzo militare e finanziario immane, che ha contribuito a scavare il pozzo del debito nelle finanze pubbliche e nel portafogli dei cittadini americani. Costringendoli a dipendere sempre più dal mondo esterno, in specie dalla Cina. A definire il paradosso per cui la maggiore potenza dipende dal credito altrui, in specie da quello del suo concorrente per la primazia planetaria in questo secolo.

Obama sembrava aver capito che la conquista di Kabul e di Baghdad non ha migliorato la sicurezza degli Stati Uniti. E che in ogni caso non vale gli enormi sacrifici dei soldati e dei cittadini statunitensi, oltre che quelli minori dei loro 'amici e alleati'. Di qui la decisione di chiudere Guantanamo, di riverniciare l'immagine degli Stati Uniti nel mondo presentandosi come un leader che sa ascoltare, intende negoziare col nemico e cerca la collaborazione di tutti. Per riportare al più presto i ragazzi a casa. La nuova amministrazione annunciava dunque di voler premere il pulsante reset.

A quasi un anno dal suo ingresso alla Casa Bianca, Obama si aggrappa invece al tasto reverse. Di fronte a un attentato fallito, nel quale non si ha nemmeno la certezza che il presunto kamikaze volesse farsi saltare in aria con tutto l'aereo, il presidente non ha tenuto fede alla sua fama di uomo controllato, calmo, prudente. Ha lanciato un allarme a 360 gradi sulla sicurezza nazionale, evocando misure militari per colpire le cellule di Al Qaeda nel nuovo epicentro del terrore, che sarebbe lo Yemen. Alcuni immaginano persino una spedizione militare sul terreno, del tutto improbabile non fosse che per carenza di forze e di fondi. Allo stesso tempo, Guantanamo non chiude e in Afghanistan arrivano i rinforzi, solo per annunciare di voler cominciare a ritirarsi fra un anno e mezzo. Non parliamo dell'abortito dialogo con l'Iran e del fallimentare approccio alla questione israelo-palestinese, dove l'amministrazione è riuscita a scontentare tutti. Forse non si chiamerà più 'guerra al terrorismo', ma il risultato disastroso, per l'America e per noi occidentali, resta. Rimpiangeremo Bush?

(08 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Gennaio 16, 2010, 02:57:41 pm »

L'ANALISI

La speranza di molti haitiani sopravvissuti al terremoto è probabilmente quella di assoggettarsi a un protettorato internazionale

Nelle braccia dell'Occidente

di LUCIO CARACCIOLO


"QUESTA tragedia è una cosa buona per noi, perché ci fa pubblicità". La frase sfuggita a George Samuel Antoine, console di Haiti a San Paolo del Brasile, davanti alle telecamere dell'emittente Sbt, a prima vista appare un distillato di puro cinismo. Ma rivela probabilmente la speranza di molti haitiani sopravvissuti al terremoto: assoggettarsi a un protettorato internazionale. Nel senso pieno del termine. Meglio un governo di stranieri che l'anarchia e le vessazioni dei banditi. Se poi questi stranieri sono americani, capofila di una cordata con Brasile, Francia e Canada, investiti delle responsabilità primarie in quanto potenze più influenti sull'isola, tanto meglio.

Le assicurazioni della Casa Bianca di non voler governare Haiti, obbligate dal bon ton diplomatico, passano in second'ordine di fronte all'immediato, robusto e assai esibito impegno americano nel dopo-terremoto. Per il primo paese indipendente dell'America Latina (1804), nel quale Simon Bolivar trovò rifugio e assistenza, sperare nella colonizzazione nordamericana è un bel paradosso. E forse si rivelerà una chimera, quando fra non molto i riflettori dei media saranno spenti. Ma nell'ora più triste e insieme più globale di quella terra miserrima, come negare ai sopravvissuti il sogno di un futuro diverso? Di diventare un altro Puerto Rico?

La catastrofe che il 12 gennaio si è abbattuta su Port-au-Prince e su milioni di haitiani ha scatenato una nobile competizione fra nazioni, organizzazioni internazionali e associazioni private a chi soccorre prima e meglio i superstiti. La solidarietà di cui siamo testimoni esprime quel senso di appartenenza al genere umano - al di là di razza, credo, storie e frontiere - che solo le grandi emergenze sanno suscitare. Nelle scelte dei maggiori leader mondiali e regionali si possono però intravedere anche le strategie geopolitiche che segnano questa competizione non solo umanitaria.

A cominciare da Obama: "Questo è un momento che richiede la leadership dell'America". La mobilitazione militare e civile, l'impegno personale del presidente, la formidabile eco mediatica rivelano che lo spirito missionario degli americani, pur in tempi di crisi, resta vivo. Su questo slancio, Obama si propone di raggiungere tre obiettivi.

Primo e principale: non ripetere l'errore di Bush, che di fronte allo tsunami asiatico del 2004 e soprattutto al disastro provocato l'anno dopo dall'uragano Katrina, si mostrò torpido e distratto. Confermando l'immagine di una superpotenza egoista e declinante. E destando il sospetto che asiatici e neri americani - le vittime "invisibili" dello tsunami e di Katrina - non fossero per Bush meritevoli di attenzione. Da quella pessima performance del suo predecessore, più ancora che dal disastro iracheno, Obama trasse la convinzione di poter competere per la Casa Bianca. Oggi che la sua stella non brilla come i suoi sostenitori speravano un anno fa, il presidente non poteva farsi cogliere impreparato da una simile emergenza.

Secondo: dare profilo specifico alla sua visione - finora piuttosto retorica - degli Stati Uniti come potenza capace di esprimere la propria egemonia non attraverso l'esibizione o peggio l'impiego della forza, ma raccogliendo intorno a sé ampie coalizioni internazionali. E assumendosi la responsabilità di guidarle. Sotto questo profilo, Haiti è il caso perfetto: un'impresa umanitaria dall'eco planetaria, circoscritta nel "cortile di casa" americano, lo spazio caraibico. Dove non esistono potenze in grado di competere con il colosso a stelle e strisce. La Cina è lontana. Degli europei conta solo la Francia, sollecitata in questo caso dal richiamo storico e culturale della francofona Haiti. Riferimento che spiega anche l'interesse canadese, o meglio del Québec, che per rafforzare la sua impronta francofona ha importato una vasta colonia haitiana. Parigi e Ottawa peraltro si muovono di concerto con Washington.

Terzo: impedire che forze nemiche o inaffidabili prendano piede a Haiti. Un classico Stato fallito, di fatto non governato da nessuno. Haiti non è la Somalia, certo. Ma i recenti corteggiamenti venezuelani al presidente Préval, sostanziati da forniture energetiche e progetti infrastrutturali, miravano a calamitare Haiti nell'Alba, l'asse antiamericano guidato da Caracas e L'Avana. L'intervento di Obama, che intende porre gli haitiani sotto la provvisoria (?) tutela statunitense, serve anche a stroncare tali velleità. Intanto, Cuba ha aperto il suo spazio aereo ai voli di soccorso americani. Mentre la base di Guantanamo - più nota come prigione per terroristi che Obama prometteva di chiudere e non ha chiuso - funge da hub logistico per le operazioni Usa nell'isola terremotata, da cui la separa solo uno stretto di un centinaio di chilometri, il Windward Passage.

Il principale partner degli Stati Uniti in questa operazione è il Brasile. Insieme ai primi soccorsi, Lula ha inviato sul posto il ministro della Difesa Nelson Jobim. A Haiti sono schierati 1.266 soldati brasiliani impegnati nella missione Onu di stabilizzazione (Minustah), a guida verde-oro. L'impegno che si protrae da sei anni, con scarso successo, non è unicamente volto a riportare l'ordine a Haiti. Vuole anche illustrare le ambizioni brasiliane di potenza non solo sudamericana ma tendenzialmente panamericana. Dunque proiettata anche verso i Caraibi e l'America centrale. In un rapporto di cooperazione/competizione con gli Stati Uniti, da cui pretende un trattamento paritario. Brasilia peraltro resta refrattaria alle gesticolazioni neobolivariste di Chavez e alla sinistra radicale di Ortega (Nicaragua), Morales (Bolivia) e Correa (Ecuador).

Quando l'emergenza haitiana sarà trascorsa, speriamo con duraturo sollievo per quella popolazione, potremo procedere a una doppia verifica geopolitica. Per l'America, vedremo se avrà dimostrato con successo che non intende tollerare Stati falliti nell'"estero vicino". Destinati forse un giorno a fungere da trampolini di lancio di potenze ostili od organizzazioni terroristiche. Quanto al Brasile, stabiliremo se la sua proiezione di potenza oltre la frontiera sudamericana può sostanziarsi in una sfera d'influenza privilegiata, magari in coabitazione con gli Stati Uniti. Così ponendo fine all'assoluta, bisecolare egemonia a stelle e strisce sull'emisfero occidentale.

© Riproduzione riservata (16 gennaio 2010)
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« Risposta #33 inserito:: Febbraio 03, 2010, 04:36:25 pm »

Se Berlusconi lancia l’offensiva anti Iran

di Lucio Caracciolo


RUBRICA IL PUNTO. Teheran è la prova del nove dei nostri rapporti con Israele. Gli attacchi del premier arrivano nel momento in cui si decidono nuove sanzioni. Se queste falliranno sarà più forte il partito del bombardamento all'Iran. In caso di attacco l'Italia subirà le prime conseguenze.

Gli attacchi senza precedenti di Silvio Berlusconi al regime iraniano rappresentano probabilmente anche il frutto dei suoi recenti incontri con i dirigenti israeliani. In Israele, più ancora che in Occidente, la minaccia dell’atomica persiana è considerata esistenziale. Per un paese come il nostro, che si è sempre considerato amico dello Stato ebraico e che oggi, con Berlusconi, si pretende portabandiera degli interessi israeliani in Europa, il fronte iraniano è la prova del nove.

Nel nostro rapporto con Gerusalemme verremo valutati soprattutto per quello che vorremo e sapremo fare contro Teheran. In particolare, bisognerà vedere fino a che punto saremo disposti a sacrificare i nostri tradizionali, corposi vincoli economici e commerciali con l’Iran. Spesso, in modo informale, gli alleati americani ci hanno fatto capire come sia necessario ridurre la nostra esposizione economica nei confronti dello Stato iraniano. Proprio nelle settimane in cui si discutono i dettagli di un nuovo giro di sanzioni contro il regime dei pasdaran e in cui l’America, per ordine di Barack Obama, rafforza la sua presenza navale nel Golfo, in funzione dichiaratamente anti-iraniana, questo capitolo diventa per noi specialmente delicato.

Berlusconi ha fra l’altro rimarcato la necessità di sostenere l’opposizione in Iran. Non sarà facile. Innanzitutto perché l’“onda verde” sembra in fase di ristagno. In secondo luogo, perché i principali leader del movimento sorto l’estate scorsa per rigettare la rielezione di Mahamud Ahmadinejad alla presidenza del paese si sta dividendo. Terzo, perché non è detto che la nostra volontà di aiutare in qualche modo gli oppositori possa essere realmente di sostegno alla loro battaglia. Nel clima di nazionalismo parossistico in cui si trova oggi l’Iran, essere in odore d’intelligenza con l’Occidente può essere uno svantaggio, più che una risorsa.

In ogni caso, i prossimi mesi saranno decisivi. Se le sanzioni non ci saranno o saranno inefficaci, è possibile che non solo in Israele, ma anche negli Stati Uniti torni a farsi sentire il partito del bombardamento, come unica alternativa alla bomba atomica iraniana. In quel contesto, evidentemente, noi italiani avremmo poco da dire. Ma certamente saremmo tra i primi a subire direttamente e indirettamente le conseguenze di una guerra. I nostri uomini in Libano e Afghanistan sono, di fatto, sotto un ambiguo ombrello di protezione iraniano. È ovvio che, in caso di conflitto, questa protezione cadrà. I nostri contingenti sarebbero probabilmente oggetto delle prime rappresaglie iraniane. Ma non è detto che queste considerazioni siano state presenti a Berlusconi nel momento in cui si lanciava nell’offensiva verbale contro Teheran.

(3/02/2010)
da  http://temi.repubblica.it/limes/se-berlusconi-lancia-loffensiva-anti-iran/10777
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« Risposta #34 inserito:: Aprile 11, 2010, 11:41:47 pm »

IL COMMENTO

Il destino di una nazione

di LUCIO CARACCIOLO

"IL CAMPO da gioco di Dio". Così Norman Davies volle titolare i due volumi oxfordiani della sua "Storia della Polonia", lo standard in materia. Qualcosa di davvero soprannaturale sembra segnare il destino della nazione polacca, almeno dall'avvento di papa Karol Wojtyla in avanti. La tragedia consumata ieri mattina in un bosco nebbioso presso l'aeroporto russo di Smolensk è talmente carica di simbolismi da scuotere gli animi più disincantati.

Quattro coincidenze fanno pensare. Cominciamo dalla più palese. A bordo del reattore presidenziale di fabbricazione sovietica  -  cui Kaczynski pare fosse molto affezionato, tanto da ritardare l'avvicendamento con un jet più moderno  -  i più alti rappresentanti della Polonia stavano recandosi a commemorare i settant'anni dal massacro di Katyn. Qui, a pochi chilometri da Smolensk, oltre 4 mila ufficiali polacchi furono trucidati nell'aprile 1940 dalla polizia segreta (Nkvd) di Stalin, in base a un ordine firmato dal dittatore e dal politburo del Partito comunista. Altri 17 mila fra funzionari, guardie di frontiera e ufficiali dell'esercito polacco catturati dall'Armata Rossa fecero in quei giorni la stessa fine. L'obiettivo era liquidare l'élite di quello Stato che Molotov, il braccio destro di Stalin, aveva sdegnosamente classificato come "misera creazione del Trattato di Versailles".

Crimine negato dai sovietici fino alla coraggiosa ammissione di Gorbaciov, nell'aprile 1990. Crimine sul quale le autorità russe  -  Putin in testa  -  stentano tuttora ad articolare parole chiare e nette. Sicché Katyn resta oggetto di recriminazioni, sospetti e manipolazioni che tuttora minano le peculiari relazioni russo-polacche.

Legata a questa, la seconda impronta del destino: Smolensk è stata scelta ufficialmente due anni fa come una delle due sedi (l'altra è Varsavia) delle Case della storia polacco-russa. Monumenti volenterosi quanto improbabili che, sull'impulso del lavoro di un gruppo di storici, giornalisti e politici dei due paesi, dovrebbero marcare la conciliazione fra due opposte letture del passato comune. E siccome a est di Berlino, fra le nazioni strette da secoli nella morsa russo-tedesca, la storia è sempre contemporanea e quasi mai condivisa, persino questa tragedia, frutto di un banale errore umano, risveglia memorie lacerate. Già Lech Walesa parla di "secondo disastro di Katyn", tracciando una parabola impropria ma suggestiva fra il massacro staliniano e l'incidente aereo di ieri.

In terzo luogo, i cabalisti non mancheranno di osservare che il sacrificio del "gemello" Kaczynski coincide con l'avvio della costruzione dell'ardito gasdotto sottomarino Nord Stream, che connetterà Vyborg, presso Pietroburgo. a Greifswald, nel Meclemburgo, per pompare direttamente gas russo verso la Germania, scavalcando le repubbliche baltiche e la Polonia. A Varsavia l'hanno ribattezzato "gasdotto Molotov-Ribbentrop", ad echeggiare il patto tra Unione Sovietica e Terzo Reich che precedette di pochi giorni la doppia invasione della Polonia, prima tedesca e poi sovietica, nel settembre 1939.

Quarta beffa: a bordo dell'aereo presidenziale viaggiava il novantunenne Ryszard Kaczorowski, ultimo presidente del governo in esilio a Parigi e poi a Londra, che durante la seconda guerra mondiale tenne accesa la fiaccola dell'indipendenza. Quel governo della Seconda Repubblica cui Stalin impedì nel 1945 il ritorno nella Varsavia "liberata", ma che per molti polacchi, nei decenni del comunismo, rimase l'unico esecutivo legittimo. Tanto che dopo aver vinto le elezioni presidenziali nel 1990, Walesa rifiutò di ricevere le insegne del potere dal generale Jaruzelski, convocando in sua vece lo stesso Kaczorowski. Il quale dichiarava contemporaneamente disciolto il "governo di Londra", quasi che la Repubblica satellite di Mosca, quella dei Gomulka e dei Gierek, non fosse mai esistita.

Sullo sfondo di queste curiose combinazioni del destino, varrà ricordare che nessuno più di Lech Kaczynski ha incarnato la versione schiettamente reazionaria e profondamente russofoba del nazionalismo polacco. Una visione della Polonia e del mondo piuttosto influente nelle élite e nell'opinione pubblica del paese che seppe dare la spallata decisiva all'impero sovietico.

Nemmeno due anni fa, mentre fra Georgia e Russia tuonavano i cannoni d'agosto, Kaczynski capeggiò un non improvvisato "gruppo dei cinque" - con Ucraina, Lettonia, Estonia e Lituania  -  che smarcandosi dagli equilibrismi di Sarkozy e della Vecchia Europa si schierò a fianco di Saakashvili nella sua breve avventura contro la Russia "imperialista" e "revisionista". Per l'occasione, il presidente polacco proclamò l'"inizio della lotta" contro Mosca, quasi si augurasse che l'incendio caucasico fosse il prodromo della resa dei conti finale con l'orso russo.

Negli ultimi tempi, i sempre tormentati rapporti polacco-russi hanno segnato qualche miglioramento, di atmosfera e di sostanza. Merito soprattutto del pragmatico premier Donald Tusk, che Kaczynski non poteva soffrire. Quando fra poche settimane i polacchi sceglieranno il successore del presidente caduto nel rogo di Smolensk, sapremo se questo incidente senza precedenti  -  mai tanta parte dell'élite di un paese era scomparsa d'un colpo - marcherà non solo una devastante tragedia umana, ma anche il tramonto di una certa idea della Polonia.

© Riproduzione riservata (11 aprile 2010)
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« Risposta #35 inserito:: Maggio 08, 2010, 02:57:41 pm »

Tentazione tedesca

di Lucio Caracciolo
 

La crisi greca è un rivelatore geopolitico. Perché rivela la vera natura dell'euro e allo stesso tempo la collocazione economica e geopolitica dei vari paesi in Europa.

Per quanto riguarda il fattore euro, il default mascherato di Atene ne porta in evidenza il limite strutturale di divisa senza Stato. Dunque non governata e non garantita. Non si tratta di un incidente, ma del frutto di un compromesso stipulato a Maastricht tra Francia e Germania, subito dopo l'unificazione tedesca. I francesi volevano evitare che il marco diventasse di fatto la valuta europea, e per questo scambiarono il loro tardivo assenso alla 'Grande Germania' contro la cessione del marco. Così generando una moneta che per la prima volta nella storia universale non era battuta da uno Stato. Figlio di molti genitori, l'euro è stato abbandonato al suo destino, sicché nella migliore delle ipotesi dovremo prepararci a sue ricorrenti fibrillazioni, nella peggiore alla sua fine.

Alcuni pensavano o tuttora pensano che, in ultima istanza, sia la Germania a garantire per la stabilità dell'euro. E quindi si aspettavano un suo deciso intervento per salvare i greci, così come si attendono che altri 'prestiti' seguiranno in caso di ulteriori crisi. Invece la signora Merkel ha impiegato due mesi abbondanti per decidersi a dare luce verde a un 'prestito', probabilmente a fondo perduto, tanto più corposo quanto più ritardato. Ed è molto improbabile, stanti gli umori dell'opinione pubblica tedesca, che di fronte a un 'effetto domino' la cancelliera possa rimettere mano al portafogli. Equivarrebbe a presentare le sue dimissioni, non dal governo ma dalla scena politica germanica.

Forse non ce ne siamo ancora resi conto, ma alla Germania questa Europa non sollecita più quello spirito comunitario che animava gli Adenauer, gli Schmidt e i Kohl. Berlino guarda oltre, e non intende farsi condizionare più di tanto da quella che resta pur sempre la sua area commerciale privilegiata, oltre che monetaria. La tentazione di un 'nucleo duro', che faccia coincidere l'area commerciale primaria con quella dell'euro, traspare di tanto in tanto anche nelle dichiarazioni pubbliche di
Frau Merkel e del ministro delle Finanze Schaeuble, che dell'Euronucleo fu il primo teorico. In tal caso, alla Germania farebbero corona, oltre a Francia e Benelux, anche Austria e Slovacchia, e forse altri due o tre paesi dell'ex Est europeo.

Quanto alla Francia, ha brillato per il suo imbarazzante silenzio. Non è solo la debolezza di Sarkozy: è che Parigi non ha più una strategia europea. Finora Europa (ed euro) avevano significato per i francesi tenere sotto controllo la Germania e moltiplicare la potenza della Grande Nation nel mondo. Entrambi gli effetti paiono da tempo esauriti.

Ma la perversa correlazione fra crisi economica, crisi finanziaria e crisi monetaria incide soprattutto nella fascia meno robusta dei paesi euro, i famigerati Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna). Il nostro Paese, gravato di un debito formidabile, non può sentirsi al sicuro. E se dovesse tornare a profilarsi il fantasma dell'Euronucleo, con esso riapparirebbero i riflessi separatisti a suo tempo alimentati dal primo Bossi: quello che l'euro lo voleva per spaccare l'Italia. Nel dibattito nostrano sulla moneta europea, sarà utile tenere ben presente tale sfondo geopolitico, salvo farsi sorprendere da pulsioni compresse ma tutt'altro che estinte nel Nord, non fosse che per la sua integrazione di fatto nell'area di influenza economica tedesca.

(06 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tentazione-tedesca/2126503/18
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« Risposta #36 inserito:: Maggio 09, 2010, 09:22:33 am »

Tentazione tedesca

di Lucio Caracciolo
 

La crisi greca è un rivelatore geopolitico. Perché rivela la vera natura dell'euro e allo stesso tempo la collocazione economica e geopolitica dei vari paesi in Europa.

Per quanto riguarda il fattore euro, il default mascherato di Atene ne porta in evidenza il limite strutturale di divisa senza Stato. Dunque non governata e non garantita. Non si tratta di un incidente, ma del frutto di un compromesso stipulato a Maastricht tra Francia e Germania, subito dopo l'unificazione tedesca. I francesi volevano evitare che il marco diventasse di fatto la valuta europea, e per questo scambiarono il loro tardivo assenso alla 'Grande Germania' contro la cessione del marco. Così generando una moneta che per la prima volta nella storia universale non era battuta da uno Stato. Figlio di molti genitori, l'euro è stato abbandonato al suo destino, sicché nella migliore delle ipotesi dovremo prepararci a sue ricorrenti fibrillazioni, nella peggiore alla sua fine.

Alcuni pensavano o tuttora pensano che, in ultima istanza, sia la Germania a garantire per la stabilità dell'euro. E quindi si aspettavano un suo deciso intervento per salvare i greci, così come si attendono che altri 'prestiti' seguiranno in caso di ulteriori crisi. Invece la signora Merkel ha impiegato due mesi abbondanti per decidersi a dare luce verde a un 'prestito', probabilmente a fondo perduto, tanto più corposo quanto più ritardato. Ed è molto improbabile, stanti gli umori dell'opinione pubblica tedesca, che di fronte a un 'effetto domino' la cancelliera possa rimettere mano al portafogli. Equivarrebbe a presentare le sue dimissioni, non dal governo ma dalla scena politica germanica.

Forse non ce ne siamo ancora resi conto, ma alla Germania questa Europa non sollecita più quello spirito comunitario che animava gli Adenauer, gli Schmidt e i Kohl. Berlino guarda oltre, e non intende farsi condizionare più di tanto da quella che resta pur sempre la sua area commerciale privilegiata, oltre che monetaria. La tentazione di un 'nucleo duro', che faccia coincidere l'area commerciale primaria con quella dell'euro, traspare di tanto in tanto anche nelle dichiarazioni pubbliche di
Frau Merkel e del ministro delle Finanze Schaeuble, che dell'Euronucleo fu il primo teorico. In tal caso, alla Germania farebbero corona, oltre a Francia e Benelux, anche Austria e Slovacchia, e forse altri due o tre paesi dell'ex Est europeo.

Quanto alla Francia, ha brillato per il suo imbarazzante silenzio. Non è solo la debolezza di Sarkozy: è che Parigi non ha più una strategia europea. Finora Europa (ed euro) avevano significato per i francesi tenere sotto controllo la Germania e moltiplicare la potenza della Grande Nation nel mondo. Entrambi gli effetti paiono da tempo esauriti.

Ma la perversa correlazione fra crisi economica, crisi finanziaria e crisi monetaria incide soprattutto nella fascia meno robusta dei paesi euro, i famigerati Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna). Il nostro Paese, gravato di un debito formidabile, non può sentirsi al sicuro. E se dovesse tornare a profilarsi il fantasma dell'Euronucleo, con esso riapparirebbero i riflessi separatisti a suo tempo alimentati dal primo Bossi: quello che l'euro lo voleva per spaccare l'Italia. Nel dibattito nostrano sulla moneta europea, sarà utile tenere ben presente tale sfondo geopolitico, salvo farsi sorprendere da pulsioni compresse ma tutt'altro che estinte nel Nord, non fosse che per la sua integrazione di fatto nell'area di influenza economica tedesca.

(06 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tentazione-tedesca/2126503/18
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« Risposta #37 inserito:: Maggio 23, 2010, 10:59:27 am »

L'errore di Obama

Lucio Caracciolo
 

Nove mesi fa il generale Stanley McChrystal aveva avvertito il suo ministro, Robert Gates, che in assenza di una radicale svolta sul terreno, la guerra in Afghanistan rischiava di finire fuori controllo entro un anno. Mancano tre mesi alla scadenza. Rispetto all'estate scorsa la campagna americana e alleata non solo non dà segni di successo, ma sembra avvitata in una logica di sconfitta. McChrystal proponeva di spostare l'accento dalla guerra contro i talebani alla protezione della popolazione. Allo stesso tempo, si preoccupava di "vendere" una mezza sconfitta come una vittoria, riportando qualche significativo successo militare. Per questo chiedeva più soldati e cercava di affinare gli strumenti di propaganda. Obiettivo, afghanizzare il conflitto e poi affidare ai locali la responsabilità della gestione di un Paese segnato da trent'anni di guerra. Obama gli concedeva una buona parte dei rinforzi richiesti, ne approvava il concetto strategico, ma contemporaneamente annunciava la volontà americana di ritirarsi a partire dal luglio 2011, in modo da "deafghanizzare" la campagna elettorale per la sua rielezione alla presidenza. L'errore più grave commesso dal presidente era di dichiarare contemporaneamente l'attacco e la ritirata.

Risultato: tutti gli attori del conflitto, diretti o indiretti, interni o esterni all'Afghanistan, fanno i loro calcoli sul dopo-ritiro. A cominciare dallo stesso presidente Karzai, che da fantoccio americano si è travestito da fiero nazionalista. Fino a proporsi come interlocutore diretto del mullah Omar e degli altri capi insorti. Ne sta derivando la crescente frammentazione del campo di battaglia. Fra gli alleati, gli olandesi sono sul piede di partenza, i canadesi seguiranno entro breve. Molti paesi impegnati nella missione Isaf per compiacere gli americani si interrogano seriamente sull'opportunità di restare ancora in un teatro dal quale gli Stati Uniti vogliono andarsene. Nella galassia degli insorti, la svolta di Obama ha sparpagliato gli attori, tanto che oggi si contano almeno una dozzina di formazioni combattenti contro gli stranieri, ben al di là dei talebani doc. Tra le potenze regionali, infine, India e Pakistan si preparano ad affilare le armi per risolvere la disputa su chi fra loro abbia il diritto di esercitare un'egemonia indiretta sull'Afghanistan, mentre l'Iran ragiona su come usare il territorio afghano in caso di
aggressione israeliana/americana. Quanto ai russi, pagherebbero volentieri di tasca loro i militari occidentali affinché restassero a tempo indeterminato in Afghanistan, per impedire che il radicalismo islamico ne faccia una punta di lancia contro il ventre molle della Russia meridionale. Pechino condivide dal suo punto di vista i timori russi, ma appare sconcertata dalle oscillazioni di Washington.

E noi? Ogni volta che un soldato italiano cade, si riaccendono i riflettori su una missione ormai impopolare o peggio incomprensibile all'opinione pubblica. Salvo poi spegnere le luci e affidarsi all'inerzia, fino al prossimo caduto. Non è mai troppo tardi per rendersi conto che questa passività è irragionevole e pericolosa. Governo e opposizione dovrebbero finalmente raccontare almeno parte della verità su ciò che i nostri soldati stanno facendo in terra afghana. E soprattutto spiegare perché vogliono tenerceli. Possibilmente non trincerandosi dietro gli slogan.

(20 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lerrore-di-obama/2127422/18
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« Risposta #38 inserito:: Giugno 04, 2010, 06:44:47 pm »

L'ora degli estremisti

Lucio Caracciolo
 

La più grave e immediata conseguenza geopolitica dell'arrembaggio israeliano alle navi dei pacifisti è la fine dell'asse Ankara-Gerusalemme. Un'intesa cementata negli anni Novanta in nome della comune diffidenza per gli arabi e della comune alleanza con l'America.
Che qualcosa non funzionasse più nel matrimonio turco-israeliano era apparso evidente durante la guerra di Gaza (dicembre 2008 - gennaio 2009), che portò allo scontro pubblico fra il premier turco Erdogan e il presidente israeliano Peres durante la successiva conferenza di Davos. In quest'anno e mezzo tensioni e incomprensioni reciproche hanno poi prodotto l'implosione finale, con lo scontro marittimo fra forze speciali israeliane e pacifisti più o meno pacifici al largo di Gaza.
Perché le due potenze regionali sono entrate in collisione? Decisivo è stato il graduale cambio della guardia ad Ankara fra il potere dei militari e quello del leader islamico Erdogan. Quest'ultimo ha saputo abilmente giocare la carta europea per costringere le Forze armate, autoproclamate garanti del laicismo, a rinunciare alla loro egemonia in nome delle riforme richieste da Bruxelles per ammettere Ankara in Europa. Siccome l'intesa fra Israele e Turchia era soprattutto l'intesa fra le rispettive Forze armate, l'eclissi dei militari turchi ha eroso uno dei pilastri che sorreggeva questo fondamentale ponte strategico.

Da parte israeliana, il percorso è stato parallelo. Tanto più Erdogan portava la Turchia verso l'obiettivo di affermarsi come perno geopolitico del Medio Oriente, tanto meno i leader israeliani ritenevano di potersi fidare di un leader islamico che flirtava con Hamas.
È molto improbabile che l'asse spezzato possa essere ricostituito. La sfiducia reciproca è slittata in guerra fredda e ora quasi calda, a causa dell'imperizia dei marinai israeliani. In questo modo lo Stato ebraico non solo perde l'unico rilevante alleato nella regione, ma lo regala al suo attuale nemico mortale, l'Iran.

Mentre si allontanava da Gerusalemme, infatti, Ankara si avvicinava a Teheran, con cui intesseva un'intesa poco trasparente ma apparentemente solida. Se fino all'anno scorso Netanyahu pensava di poter allestire una strana alleanza fra israeliani e musulmani sunniti in nome della comune avversione per l'Iran sciita, oggi un'architettura del genere non è più immaginabile.
Questi veloci riallineamenti delle costellazioni mediorientali marcano ancor più lo sbandamento americano. L'omologia d'interessi fra Washington e Gerusalemme è finita con Bush e Olmert. Tra Netanyahu e Obama domina la sfiducia reciproca. Ciò che rende fra l'altro improbabili i patetici sforzi della diplomazia statunitense per rianimare il cadavere del cosiddetto processo di pace. Ora più che mai, in Medio Oriente il futuro sembra appartenere agli estremisti.

(03 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lora-degli-estremisti/2128372/18
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« Risposta #39 inserito:: Luglio 29, 2010, 05:22:31 pm »

IL COMMENTO

La guerra "giusta" di Obama ormai perduta

La posta rimasta in gioco è una sola: a chi attribuire la responsabilità della sconfitta?

I file di WikiLeaks dimostrano la frustrazione di chi sta al fronte senza coperture


di LUCIO CARACCIOLO

La guerra "giusta" di Obama ormai perduta Militari americani a Kandahar

La guerra in Afghanistan è persa da tempo. Eppure continua. Non perché sia possibile vincerla, ma perché chi l'ha persa non trova il coraggio di ammetterlo.

E di assumersene la responsabilità. Sicché sul fronte afgano-pachistano si uccide e si muore come mai in questi nove anni di un conflitto apparentemente interminabile.

Ieri è toccato a due nostri soldati 1, impegnati in una missione che il nostro governo non trova il coraggio di chiamare con il proprio nome: guerra. Peggio, una guerra di cui non sappiamo chiarire l'obiettivo, se non slittando in una retorica che suona ormai peggio che falsa, offensiva per i nostri caduti e per la nostra democrazia.

Se vogliamo dare un senso al sacrificio dei nostri militari dobbiamo capire perché oggi stiamo molto peggio che all'inizio di questa campagna. E stabilire come uscire da un meccanismo infernale che non siamo in grado di controllare.

Noi italiani in Afghanistan ci stiamo per l'America. Ma l'America non è più sicura delle ragioni per cui pensava di doverci stare. Se prima potevamo fare l'economia di un nostro punto di vista, oggi non più. I nostri alleati l'hanno capito e stanno definendo una posizione propria, visto che quella americana è piuttosto nebulosa. Lo hanno fatto prima canadesi e olandesi, poi tedeschi e financo inglesi, tutti alla ricerca di una via e di una data di uscita dalla trappola afgana. Quanto a noi, restiamo a rimorchio di un convoglio impazzito, con diversi vagoni già deragliati.

Perché la novità degli ultimi mesi è che i militari americani cominciano a non poterne più, a non credere nella propaganda che d'ufficio sono costretti a disseminare. I leader politici lo sanno bene, ma si dividono su come affrontare l'emergenza di un conflitto invincibile. Oltre alla guerra calda, contro gli insorti, è in corso una guerra fredda fra capi militari e politici. Sul terreno questo si traduce nel caos operativo, fatto di ordini e contrordini, di scelte proclamate e subito rivedute, di rivalità personali e di corpo.

Prima il caso McChrystal, poi, in stretta sequenza, i 91.731 documenti più o meno segreti trapelati attraverso le larghe maglie dell'intelligence Usa, rivelano la frustrazione di chi sta al fronte senza sentirsi le spalle coperte. Anzi, teme di finire vittima delle faide di Washington. E dunque vorrebbe andarsene al più presto. Questo clima può contribuire a spiegare una tale fuga di notizie riservate: un modo scelto da alcuni militari per alimentare lo scetticismo dell'elettore americano, per sbattere in faccia ai decisori i fatti e non le pietose bugie che amano ripetere, ad esempio riguardo all'"alleato" pachistano.

Difficile bere la favola della talpa ventiduenne incistata in una base a nord di Bagdad, che avrebbe trasmesso quella miniera di informazioni classificate all'attivista australiano Julian Assange, sulfureo capo di WikiLeaks. Le dimissioni dell'ex comandante del fronte afgano scelto da Obama e le rivelazioni del sito pirata sono le punte emerse della furibonda battaglia intestina che sta scuotendo l'intera Amministrazione, nei suoi centri nervosi militari e politici.

I rapporti pubblicati da WikiLeaks non cambiano il quadro afgano-pachistano già noto al pubblico più accorto, ne accentuano solo le tinte fosche. Ma hanno un notevole impatto politico-mediatico. Perché illustrando con inediti dettagli il fallimento afgano, demoliscono il teatrino che Obama stava allestendo per fingere di vincere la guerra persa. Il "cambio di strategia" partorito a fine 2009 dopo mesi di scontri fra le diverse branche dell'amministrazione e fra i troppi Napoleoni che si affrontano negli alti comandi delle Forze armate Usa, aveva infatti un solo obiettivo: "oscurare" l'Afghanistan prima dell'inizio della campagna presidenziale del 2012.

Il cuore della famosa controinsurrezione - la bibbia strategica di Petraeus e McChrystal - consiste infatti nell'imporre la propria "narrativa", ossia la propria propaganda, come vera. Una paradossale controinformazione ufficiale. Obiettivo: trasformare qualche successo tattico in Vittoria, fingere di aver allestito uno Stato non indecente a Kabul, e ritirare il grosso delle truppe prima del voto. Non molto diversamente da quanto Bush aveva immaginato di fare appena presa Bagdad.

L'ironia della storia vuole che oggi Bush possa apparire come colui che ha raddrizzato in extremis la disastrosa guerra mesopotamica - la "guerra sbagliata" secondo Obama - mentre l'attuale inquilino della Casa Bianca è additato come responsabile di un disastro maturato sotto il suo predecessore, come martellano le rivelazioni di WikiLeaks. Percezione accentuata dal fatto che Obama ha subito fatto sua la "giusta" guerra afgana, quando già appariva perduta, mentre criticava la campagna irachena, anche quando a Baghdad l'orizzonte pareva schiarirsi (o meglio, la controinformazione ufficiale ne offriva con successo, e con qualche fondamento, una fotografia rassicurante).

Obama sperava di potersene andare avendo salvato la faccia con qualche successo modesto ma ben rivenduto. Come ad esempio la troppe volte annunciata e poi rinunciata presa di Kandahar, eretta a Berlino talibana. Il guaio è che il trucco non funziona. Il teatrino non è credibile. La ribellione di McChrystal e le rivelazioni affidate a WikiLeaks dimostrano che la posta in gioco non è più la sconfitta o la vittoria, ma la responsabilità della sconfitta. Il cerino è acceso e sta girando di mano in mano, tra Casa Bianca, Pentagono, Dipartimento di Stato e dintorni.

Su questo sfondo, suona sempre più patetica la tesi per cui la nostra presenza in Afghanistan serva a impedire che vi si installino i terroristi. Come confermano in abbondanza i documenti dell'intelligence Usa, non solo la campagna ha rafforzato i Taliban, ma ha contribuito a destabilizzare il Pakistan. Più che nelle caverne o nelle gole afgane, è nel vespaio pachistano che bisognerà scavare, se davvero intendiamo limitare il rischio, mai sradicabile, di un nuovo 11 settembre. Rischio aumentato, non diminuito, dalla guerra in corso.

Un giorno, temiamo non vicino, ce ne andremo. Non perché avremo compiuto la missione (quale?). Per esaurimento. Con questa inerzia, dall'Afghanistan non ci ritireremo: lo evacueremo.

(29 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/07/29/news/guerra_perduta-5911041/?ref=HREC1-5
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« Risposta #40 inserito:: Agosto 21, 2010, 03:58:45 pm »

IL COMMENTO

La scommessa di Obama sul Medio Oriente

di LUCIO CARACCIOLO

Adesso per Obama o la va o la spacca. O riesce a ottenere entro un anno da Netanyahu e da Abu Mazen un accordo di pace, o perde la faccia.
E con essa, fra due anni, forse anche la Casa Bianca.

La decisione di convocare il primo ministro israeliano e il presidente dell'Autorità nazionale palestinese a Washington il 2 settembre, per avviare il negoziato che dovrebbe sfociare entro un anno nell'ormai mitica soluzione "due Stati per due popoli", è un atto di coraggio del leader americano. Il coraggio della disperazione. Perché le possibilità di successo appaiono molto modeste. Tutto, sul terreno, sembra cospirare contro la pace. Eppure il presidente ha deciso di giocare il jolly, spingendo israeliani e palestinesi a discutere dello status finale dei Territori occupati. Comprese le questioni apparentemente irresolubili, a cominciare da Gerusalemme.
Della buona fede di Obama non merita dubitare. Così come della sua convinzione che il contenzioso israelo-palestinese sia il cuore di tutte le crisi mediorientali. Sicché risolverlo è priorità di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti. Solo disinnescando quella mina permanente, che alimenta il jihadismo e l'antimericanismo nel mondo islamico, si potrà stabilizzare il Medio Oriente e riaffermarvi il primato di Washington. Teorema forse troppo cartesiano, ma di cui questa Casa Bianca pare convinta.

L'impegno di Obama per la pace in Terrasanta scaturisce quindi dalla necessità di proteggere vitali interessi americani. Il presidente e la sua squadra diplomatica non intendono limitarsi a incoraggiare il dialogo a due. Si considerano mediatori attivi, con il sostegno di una variopinta coalizione di "amici e alleati", arabi filoccidentali in testa. Una rivendicazione importante, perché, se intesa seriamente, implica che per sbloccare lo stallo fra le parti gli Usa avanzeranno proprie proposte di soluzione. Con il rischio di vedersele rigettare e di fungere quindi da capro espiatorio del fallimento prodotto dalle altrui intransigenze. Distruggendo la residua credibilità di cui ancora dispongono in una regione dove negli ultimi anni sono passati da un disastro (Iraq) all'altro (Afghanistan).

La scommessa di Obama non ha perciò nulla a che vedere con il "processo di Annapolis" allestito in extremis da Bush figlio e abortito dopo pochi mesi. In quel caso il mantra dei "due Stati" non intendeva spingere Gerusalemme a concessioni di fondo, ma a costruire una coalizione fra israeliani e arabi sunniti contro l'Iran. Oggi, oltre a sciogliere il nodo israelo - palestinese, si tratta semmai di prendere altro tempo nella partita persiana, evitando un attacco preventivo dello Stato ebraico contro Teheran, dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche.

Il problema oggi non sta più nella volontà della leadership americana, ma nel logoramento complessivo della superpotenza e nella personale debolezza di Obama, il cui declinante prestigio interno ed esterno parrebbe inadeguato all'altezza della sfida. Per gli israeliani  -  e soprattutto per buona parte dell'opinione pubblica Usa, che continua a identificarsi con lo Stato ebraico  -  il presidente non è un mediatore equilibrato. Molti lo dipingono come un cripto-musulmano.

Netanyahu poi non è solo il primo ministro di Israele, ma un attore della vita politica americana, da sempre schierato con i "falchi" repubblicani. Dunque un avversario interno di Obama. Ossia un amico di chi conta di mandarlo a casa nel 2012. Operazione cui Netanyahu darebbe volentieri il suo contributo. Mentre alla Casa Bianca brinderebbero se Netanyahu cadesse, o almeno accettasse di liquidare l'ala più oltranzista del suo governo (Lieberman) per formare una coalizione di "unità nazionale" allargata ai centristi di Tzipi Livni.
Ma il vero punto critico dell'architettura che la Casa Bianca sta allestendo è l'inesistenza di un credibile interlocutore palestinese. Nessuno considera Abu Mazen il rappresentante di tutto il suo popolo, nemmeno di una sua maggioranza. Qualsiasi accordo da lui firmato non varrebbe la carta su cui è scritto. Se si vuole davvero la pace, prima o poi sarà inevitabile coinvolgere Hamas. In un modo o nell'altro, la frattura tra Cisgiordania e Gaza dovrà essere sanata. Almeno una parte dell'amministrazione americana ne sembra convinta  -  oltre, per quel che (non) contano, a diversi leader europei. Ma mettere insieme le diverse bande e mafie che scorrazzano per la Palestina anche grazie alle regalie europee e alle manipolazioni israeliane e americane, è forse più difficile che imporre la pace allo Stato ebraico e ai suoi vicini arabi.

Per creare la Palestina mancano dunque le condizioni. Non c'è territorio sufficiente, perché Gaza resta in mano a Hamas mentre in Cisgiordania avanzano i coloni israeliani, contro i quali Netanyahu non ha certo intenzione di scatenare la guerra civile. Non c'è unità politica, né tantomeno una leadership presentabile. Esiste un popolo palestinese, sofferente e largamente in diaspora, non una nazione. Mentre ci sono, nel mondo arabo e in quello musulmano (Iran in testa), potenze e milizie pronte a far deragliare qualsiasi convoglio muova verso la pace.

Né pare possibile un'operazione di mero illusionismo, ossia il battesimo di una pseudo-Palestina con uno pseudo-governo, priva di fatto degli attributi della sovranità, come (forse) Netanyahu sarebbe disposto ad accettare e (forse) Abu Mazen ad autoproclamare. Un pasticcio del genere non reggerebbe. E soprattutto non risolverebbe il problema di sicurezza nazionale che interessa Obama. Perché fra arabi e musulmani  -  non solo jihadisti  -  una Palestina finta non avrebbe la minima credibilità. Anzi, rischierebbe di produrre l'effetto opposto, delegittimando ulteriormente gli Stati Uniti e i loro alleati mediorientali e occidentali che si prestassero a tale mascherata.

Parrà un paradosso, ma la vera forza di Obama in questa decisiva partita è di essersi tagliato tutti i ponti dietro le spalle. Il presidente degli Stati Uniti ha posto l'asticella talmente in alto che se la passerà sarà un trionfo. Altrimenti un disastro. Non solo personale.
Se il negoziato abortirà, non si tornerà al precario equilibrio attuale. Nuove guerre in Medio Oriente sarebbero la probabile conseguenza della pace mancata.

(21 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/08/21/news/mo_scommessa-6407408/?ref=HREC1-1
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« Risposta #41 inserito:: Dicembre 02, 2010, 11:49:24 pm »

L'ANALISI

Il buon alleato è un incapace

di LUCIO CARACCIOLO

Berlusconi può essere insieme "incapace, vanitoso e inefficace" e il "migliore amico degli Stati Uniti"?

I messaggi riservati dell'ambasciata Usa a Roma sono coerenti con la esibita santificazione del nostro presidente del Consiglio da parte di Hillary Clinton, ieri ad Astana? Paradossalmente sì. Anzitutto sotto il profilo formale.

I cablogrammi di Palazzo Margherita sono riservati, come tali sinceri. Le dichiarazioni del segretario di Stato sono per i media, come tali difficilmente sincere.

Se esprimono un'autorevolezza assai superiore a quella dell'ormai celebre signora Dibble - autrice materiale del non lusinghiero ritratto di Berlusconi - non necessariamente debbono riflettere il pensiero della Clinton. Malgrado Assange - anzi oggi più che mai - un certo grado di doppiezza fra linguaggio pubblico e privato resta costitutivo della diplomazia e della politica. Sotto ogni latitudine.
Non ci meraviglieremmo perciò se fra qualche tempo scoprissimo che mentre la signora Clinton lodava il capo del nostro governo, nei suoi stessi uffici circolavano giudizi meno estasiati su Berlusconi e sulla sua politica estera.

Ma anche nella sostanza, Dibble e Clinton non sono incompatibili. Perché proprio la debolezza di Berlusconi e del paese che rappresenta può essere utile agli Stati Uniti. Come per esempio in Afghanistan, dove contrariamente ad altri alleati abbiamo rafforzato la nostra presenza militare. In cambio di nulla. Perché ciò che ci distingue nel mondo brusco e malizioso delle relazioni internazionali è lo spirito francescano. Diamo senza nulla chiedere. Magari poco, ma sempre gratis. Al massimo, in cambio di una photo opportunity. Se vantaggi ci sono, riguardano la sfera privata, certo non lo Stato. E che cosa può attendersi di meglio l'America, o qualsiasi altro paese, da noi o da chiunque altro? Nell'arte del dono siamo imbattibili. Peccato che ne consegua l'irrilevanza. Perché la logica della cessione gratuita di sovranità può essere certo sfruttata da chi ne fruisce, ma non apprezzata. Appare infatti come una forma di immoralità politica.

Di più: suscita il dubbio della slealtà. Dai lanci di WikiLeaks emerge infatti che alcuni consiglieri forse troppo dietrologi della Clinton adombrino il sospetto che tanta liberalità celi fini reconditi. Altrimenti perché la stessa responsabile della diplomazia Usa avrebbe chiesto di approfondire il profilo personale di Berlusconi, i suoi eventuali affari privati con Putin?

I sospetti, se non le certezze, riguardano soprattutto i rapporti del nostro presidente del Consiglio con il primo ministro russo, di cui "sembra essere il portavoce" (Dibble). Il caso Georgia, quando Berlusconi, più ancora di Sarkozy, difese le ragioni della Russia, e ancor più il suo forte impegno nel progetto di gasdotto South Stream, tanto caro a Putin, hanno irritato prima Bush e poi Obama. Poco importa se in entrambi i casi Berlusconi si muovesse nel solco di un'antica tradizione filorussa delle nostre élite politiche e industriali, confermata anche dagli ultimi governi di centrosinistra. Quel che stona, a occhi e orecchi americani, è l'intimità fra il "vanitoso" Berlusconi, con la sua "inclinazione ai party", e il leader di una grande potenza di cui Washington continua a diffidare.

Conclusione: Berlusconi è utile finché conta poco e pretende meno. Almeno in veste di capo dell'Italia. Se e quando pesasse di più, risultando più ingombrante per gli interessi americani, scatterebbero le contromisure. O sono già scattate?
 

(02 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/02/news/alleato_incapace-9746632/?ref=HREA-1
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« Risposta #42 inserito:: Aprile 27, 2011, 02:40:55 pm »

L'ANALISI

Il presidente Zelig

di LUCIO CARACCIOLO


SILVIO Berlusconi non delude mai i suoi interlocutori. Tanto meno l'amico Nicolas Sarkozy. Contrasti sulla guerra di Libia? Rimpallo dei migranti alla frontiera di Ventimiglia? Insofferenza per l'istinto predatorio dei gruppi francesi in settori più o meno strategici della nostra economia? Avevamo scherzato. Ieri, al termine di un vertice "molto molto positivo" (Berlusconi) fra "paesi fratelli" (Sarkozy), ogni ostacolo pareva superato. E quasi sembrava prefigurarsi un'intesa privilegiata fra Roma e Parigi. Tanto che verso sera il ruvido ma non sprovveduto Bossi ha sintetizzato la giornata con queste parole che devono essere sembrate ben poco affettuose alle orecchie del suo alleato Silvio: "Ormai siamo diventati una colonia francese".

Ecco allora l'allineamento italiano sulla posizione francese in Libia, poche settimane dopo che il capo del nostro governo si era confessato "dispiaciuto" per il disturbo recato all'amico Gheddafi dall'intervento armato sponsorizzato dalla Francia. Quanto alla gestione dei flussi umani dal Nordafrica, bisogna mettere mano a Schengen per ripristinare i controlli alle frontiere "in circostanze eccezionali". Tale sarebbe l'esodo di venticinquemila anime in tre mesi attraverso il Canale di Sicilia. E mentre Tremonti stava allestendo le barricate contro gli assalti transalpini ad alcune pregiate aziende nostrane, ecco l'annuncio dell'Opa di Lactalis per l'intero capitale di Parmalat. Coincidenza fortuita, certamente. Di cui altrettanto sicuramente Sarkozy era all'oscuro. E che naturalmente
aprirà la strada ad altre formidabili integrazioni industriali franco-italiane. Peccato che d'abitudine i nostri vi fungano da ascari. L'appoggio di Parigi alla candidatura di Mario Draghi per la guida della Banca centrale europea è importante, ma in buona misura scontato. Nel rispetto dei rapporti di forza, lo scambio fra Italia e Francia risulta alquanto ineguale.

Ma rispecchia lo stile dei due presidenti. Entrambi credono nella diplomazia personale, non amano perdersi nei dettagli, parlano all'elettore, non al cittadino. La differenza è che Sarkozy ha dietro uno Stato capace - non sempre: Libia docet - di assorbire le sue alzate di testa. Berlusconi no. Il nostro presidente-Zelig non è sovrastimato dai suoi colleghi, alcuni dei quali, come la signora Merkel, pagherebbero di tasca loro pur di non essere da lui intrattenuti. Ma alla fine nessuno saprebbe farne a meno: dove lo trovi oggi un leader che ti dice sempre sì? E che è persino capace di vantare un bluff, come quando ieri si è prodotto in un peana per il nucleare - e per i relativi contratti Enel-Edf - spiegando di aver voluto evitare il referendum perché si vota solo quando si è certi di vincere.

Sarà senza dubbio la sua indole generosa. Il guaio - per noi - è che acconsentendo a ogni altrui richiesta, che venga da Obama o da Putin, da Erdogan o da Netanyahu e fino a ieri anche da Gheddafi (ma prima o poi il Colonnello capirà che deve richiamare l'amico di Palazzo Chigi), Berlusconi finisce per sostenere tutto e il contrario di tutto. È vero, spesso il proclama si esaurisce nell'etere. Ma gli interlocutori del nostro premier sono professionisti: non mollano la presa finché non ottengono soddisfazione.

La tendenza di Berlusconi ad assecondare le pretese altrui è tanto più pericolosa quanto serio è il tema. Nella guerra di Libia - fortemente voluta da Sarkozy per sue ragioni elettorali, nella convinzione che il Colonnello sarebbe caduto in un paio di giorni - Berlusconi si è esibito al suo massimo. Dapprima, soffrendo per Gheddafi e per la triste fine del Trattato d'amicizia italo-libica fresco d'inchiostro, ha subappaltato la gestione della crisi ai ministri Frattini e La Russa. I quali hanno finalmente potuto dare sfogo al protagonismo represso all'ombra del leader, dichiarando di tutto e di più. Facendoci passare, almeno a parole, da vedove di Gheddafi a entusiasti supporter del gruppo di Bengasi. Di cui continuiamo a sapere pochissimo, se non che vi si combattono guerriglie intestine con maggiore intensità di quanta ne impieghino le sue sgangherate milizie per aprirsi la via di Tripoli.
Poi Berlusconi ha ripreso in mano le redini con l'annuncio di Pasquetta, quando ha detto sì a Obama, annunciando che colpiremo la Libia con attacchi "mirati". Quasi che gli altri sgancino bombe a vanvera. Se la congiuntura non fosse terribilmente seria, e noi non fossimo in ogni caso le prime vittime (dopo i libici) di questa guerra, verrebbe da sorridere, tanto palese è il teatro e quasi nulla la sostanza. Certo non si divertirà Tremonti quando gli verranno presentati i conti di una campagna aerea velleitaria quanto onerosa.

Nel frattempo si è assai alterata la Lega, che minaccia fuoco e fiamme contro i "bombardamenti", malgrado il capo del governo abbia spiegato che tali non sono le cadute di nostro esplosivo dal cielo perché noi non facciamo male alla gente. Si può scommettere che anche questa volta Bossi rientrerà nei ranghi in attesa della prossima occasione per smarcarsi da un premier non troppo popolare. Ma questa è la politica oggi, nell'èra di Berlusconi, Sarkozy e non solo.
 

(27 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/27/news/
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« Risposta #43 inserito:: Marzo 11, 2012, 11:06:08 am »

La politica estera italiana e il teatrino dell’ignavia

di Lucio Caracciolo

RUBRICA IL PUNTO. Non sorprende che Cameron abbia deciso il blitz nigeriano senza consultare il governo italiano. Londra non riconosce a Roma il ruolo di alleato paritario, nè Roma si fa rispettare come tale.

Preferiamo vivere in un mondo ideale pur di non prenderci le nostre responsabilità. [articolo pubblicato su la Repubblica il 10/3/2012]

Non c'è nulla di sorprendente, tanto meno di inspiegabile, nella decisione britannica di non consultare il governo italiano prima di lanciare il raid in Nigeria nord-occidentale, finito con l'uccisione degli ostaggi Chris McManus e Franco Lamolinara.

 

Sorprendente sarebbe stato il contrario, con Cameron a chiedere a Monti se pensasse che il blitz - eufemismo per battaglia campale di alcune ore - sarebbe stato necessario. Delegando eventualmente i responsabili della Difesa a definirne i dettagli. Ciò sarebbe avvenuto se Londra riconoscesse a Roma il rango di alleato paritario. E se Roma si facesse rispettare per tale.


Nella storia delle relazioni italo-britanniche, dal Risorgimento in avanti, siamo stati amici o nemici. Mai però sullo stesso piano. Questione di rapporti di forza. Fondati sulla psicologia collettiva, sugli stereotipi del “carattere nazionale”, più che su fattori oggettivi, misurabili. Tanto che quando, negli anni Ottanta, il volume della nostra economia superò quello britannico, Londra reagì con piccata rimozione: non poteva che trattarsi di errore statistico.


Se sotto il profilo economico e demografico Italia e Gran Bretagna possono essere grosso modo assegnate alla medesima categoria, quando il gioco si fa duro la contabilità cambia. Non è solo questione di potenza militare, di intelligence, di proiezione della forza - tutti campi in cui Londra, pur declinante, ci sopravanza da sempre. Valgono soprattutto la cultura strategica, la tradizione militare.


Gli inglesi amano esibire la forza, anche a costo di rendersi tragicamente ridicoli, come nel caso nigeriano. A noi non salterebbe in mente di spedire una squadra navale per i sette mari onde preservare la sovranità su quattro scogli, come nell'epopea delle Falklands. Se ci tirano addosso qualcosa, come Gheddafi a Lampedusa, preferiamo far finta di nulla.


Per sicurezza, baciamo l'anello. E se proprio ci capita di far la guerra, dai Balcani all'Afghanistan o alla Libia, non l'ammettiamo neanche a noi stessi. I nostri soldati uccidono e vengono uccisi, alcuni eroi vengono decorati. Ma come fossero pompieri, perché sempre operatori di pace sono.


Italia e Gran Bretagna hanno difficoltà a intendersi in tempi di ordinaria amministrazione. Se poi la parola passa alle armi, il dialogo è fra sordi. Certo, siamo tutti soci della Nato. In assenza del Nemico contro cui forgiammo l'asse transatlantico, ognuno si sente però libero di interpretare a suo modo questa strana “alleanza”. Lo abbiamo visto di recente nella guerra di Libia, pensata e confezionata a Parigi e a Londra. Lo vediamo confermato nello pseudo-blitz britannico-nigeriano, che sembra tratto da un manuale d'età coloniale.


Non ci stiamo facendo mancare la consueta cacofonia politichese tra ciò che resta dei partiti nostrani. Dopo tre mesi in cui ci si è dovuti concentrare su urgentissimi affari concreti, è naturale che i dichiaratori di professione non si lascino sfuggire tanta occasione. Costoro attribuiscono l'affronto britannico all'insipienza di questo o quel ministro, se non del governo tutto. E ci assicurano che qualora fossero stati loro su quelle poltrone, non avremmo subìto lo schiaffo di Londra.


Con il dovuto rispetto per l'onorevole La Russa, la cui competenza in materia militare è fuori discussione, e per i suoi esimi colleghi pidiellini o leghisti, temiamo non sia così. Questo governo ha le sue responsabilità nel caso nigeriano: si è fatto giocare.


Ne ha molte di più nel caso indiano, con i nostri marò in mano alla magistratura locale per effetto delle negligenze in serie prodotte da apparati di sicurezza e diplomatici che stentano a comunicare fra loro né brillano per spirito d'iniziativa. Se vi sono colpe, pur solo di omissione, vanno individuate e i responsabili puniti. Dubitiamo che ciò accada: la vicenda del nostro console ad Osaka, rockettaro neonazista tuttora impunito, ci ricorda quanto possano le corporazioni quando sentono minacciati i loro privilegi.


Un passo avanti lo faremo quando cesseremo d'inventarci un mondo ideale, in cui vige il diritto internazionale, gli indiani valgono i somali, gli “alleati” agiscono di concerto. In cui gli Stati non battono moneta ma la cogestiscono in armonia, né sparano, perché siamo nell'èra della globalizzazione. In cui le frontiere non dividono ma affratellano. In cui gli europei lavorano gli uni per gli altri perché insomma siamo tutti europei. In cui noi italiani siamo concordemente amati perché brava gente che non fa la guerra nemmeno quando la fa, distribuendo equamente caramelle e pallottole.


In cui per sentirci grandi ci aggrappiamo alla tavola dei Grandi, pronti ad apparecchiarla e sparecchiarla pur di esserci, in quella stanza e su quella sedia, non importa se nell'altrui indifferenza.


Nessuno ci impedirà di crogiolarci nel comodo teatrino che abbiamo allestito a misura della nostra ignavia. E di continuare a sorprendere i detrattori per la nostra abilità, una volta toccato l'orlo del baratro, di improvvisare un'acrobazia in extremis, finché non ci spezzeremo l'osso del collo. Produrremo di certo altri eroi, della cifra di Falcone o di Calipari. Tutto pur di non scendere a patti con la realtà. E con le responsabilità che ne derivano.


Davvero pensiamo di poterle sempre addossare a Mamma America o alla mitica Europa? D'accordo. Ma almeno evitiamo di sorprenderci.

 

L'Italia dopo l'Italia | Enrica Lexie, i marò e il colonialismo
(10/03/2012)

da - http://temi.repubblica.it/limes/la-politica-estera-italiana-e-il-teatrino-dellignavia/33090?ref=HREA-1
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« Risposta #44 inserito:: Novembre 09, 2012, 05:47:58 pm »

Guerre Imperiali

   
di Lucio Caracciolo, La Repubblica, 8 novmebre 2012


Barack Obama è stato eletto per salvare l'America da un'altra recessione, non per cambiare il mondo. E lui lo sa bene.

In cima alla sua agenda tre parole: jobs, jobs, jobs.


Ma posti di lavoro e benessere sociale non sono funzione solo del ciclo e della politica economica. Sempre più dipendono dal modo in cui l'America sta al mondo. Dalle relazioni politiche, commerciali e finanziarie con il resto del pianeta, Cina in testa, che non accetta più il Washington consensus e non dimentica che la crisi in corso è nata a Wall Street. Ma anche dalle guerre che l'America deve o dovrà combattere, anche se ne farebbe volentieri a meno. A cominciare dalla guerra al terrorismo, giunta al suo undicesimo anno. Per continuare con il possibile attacco preventivo all'Iran, d'intesa o meno con Israele, che Obama farà di tutto per evitare ma che potrebbe scoppiare per decisione di Gerusalemme e per il rifiuto iraniano di negoziare sul serio.

La differenza fra politica interna e politica estera è che l'agenda domestica si può largamente progettare, mentre il mondo è troppo vasto e imperscrutabile per chiunque pretenda di modellarlo. Fosse anche il presidente degli Stati Uniti. Specialmente un leader al secondo mandato, eletto da un paese polarizzato fra destra nostalgica della superpotenza solitaria e solipsista che fu - reazionaria in casa e bellicosa nel mondo - e centro-sinistra che vorrebbe curare il malandato orto di famiglia e riportare a casa quanti più soldati possibile. Con le casse pubbliche semivuote e con un Congresso spaccato fra Camera in mano a repubblicani spesso estremisti e Senato a maggioranza democratica limitata.
L'unico non indifferente vantaggio rispetto al primo quadriennio è che Obama non può essere riconfermato, sicché deciderà senza farsi condizionare da pedaggi elettorali.

Ad oggi, l'agenda mondiale del presidente reca tre comandamenti. Primo: stabilire che cosa fare o non fare con la Cina. Secondo: decidere se attaccare o meno l'Iran, con o senza Israele. Terzo: adattarsi al terremoto in corso nella galassia islamica - le ormai autunnali “primavere arabe” - per cercare di influenzarlo e modulare di conseguenza la guerra al jihadismo, basso continuo dell'impegno militare a stelle e strisce. Con un occhio all'eurocrisi, se dovesse rimettere in questione non solo la stabilità sociale e geopolitica europea ma la ripresa dell'economia americana.Quanto alla Cina. A Pechino si tifava Romney. Perché Obama appare ai “mandarini rossi” come un leader inaffidabile, che finge di dialogare mentre riarma Taiwan o li attacca sulla politica ambientale. Peggio: minaccia di trattare la Repubblica Popolare come un tempo l'Unione Sovietica, strigendo attorno a Pechino insieme agli alleati e a veri o presunti amici asiatici - Australia, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, India - una cintura di sicurezza destinata a contenerne le ambizioni. Peraltro, oggi si apre il cruciale congresso del Partito comunista cinese, all'insegna di una lotta di potere che investe la nomenklatura e che ridefinirà l'approccio agli Stati Uniti e al mondo. Nei prossimi mesi, quando Obama avrà incontrato Xi Jinping, suo neo-omologo designato, potremo capire se i numeri uno e due al mondo sono destinati a cooperare o a scontrarsi.

Sul fronte Iran, Obama farà di tutto per non impelagarsi in un'avventura bellica dalle conseguenze potenzialmente disastrose. Una nuova guerra del Golfo rischierebbe di soffocare i sintomi di ripresa nell'economia americana, di stroncare la crescita asiatica, di sprofondare l'Europa nella depressione e nel caos. In questi ultimi mesi emissari della Casa Bianca hanno cercato di sondare la disponibilità di Teheran a un compromesso sul suo programma nucleare, in cambio della fine delle sanzioni e della riammissione della Repubblica Islamica nel circuito economico e politico internazionale. Ma Netanyahu, probabilmente il leader mondiale meno entusiasta del mancato cambio della guardia alla Casa Bianca, resta convinto che di pasdaran e ayatollah Israele non abbia il diritto di fidarsi. Le probabilità di una guerra che segnerebbe il secondo mandato di Obama, e non solo, paiono ad oggi superiori alle speranze di pace.

Intanto, la guerra al terrorismo continua. Il maggior successo del comandante in capo Obama è stata l'esecuzione di Osama bin Laden, insieme al ritiro dall'Iraq e al contenimento delle perdite in Afghanistan. Ma le conseguenze impreviste delle “primavere arabe” stanno aprendo nuovi fronti bellici.

Ad esempio in pieno Sahara, dove una manciata di terroristi narcotrafficanti ha piantato il vessillo di al-Qa'ida nel Mali settentrionale per farne una base del jihadismo globale. Questa almeno è la visione dominante a Washington e a Parigi (ex capitale coloniale), sancita dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che ha dato via libera a una guerra di riconquista del Sahara perduto, teleguidata da Stati Uniti e Francia. Più in generale, le convulsioni che stanno scuotendo i paesi arabi e islamici costringono Obama a inseguire gli eventi. A conferma che Washington non è in grado di determinare il futuro del Medio Oriente.

Vent'anni fa Henry Kissinger stabilì i termini del dilemma strategico Usa dopo la guerra fredda: «Viviamo l'epoca in cui l'America non può dominare il mondo né ritrarsene, mentre si scopre a un tempo onnipotente e totalmente vulnerabile». Undici anni dopo l'11 settembre, dal suo studio ovale Obama, a dispetto dell'irrinunciabile grandiosità retorica, continua a scrutare l'orizzonte attraverso quel prisma. L'audacia della speranza convive con la cognizione della realtà.

(8 novembre 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/guerre-imperiali/
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