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Autore Discussione: Irene Khan Pakistan, un voto sul burrone  (Letto 2552 volte)
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« inserito:: Febbraio 12, 2008, 03:29:46 pm »

Pakistan, un voto sul burrone

Irene Khan


In tutto il sud dell’Asia, con la sola eccezione dell’India e del Bhutan, gli eserciti giocano un grande ruolo nella vita nazionale.

Nello Sri Lanka nel corso di due decenni di campagne militari contro i ribelli Tamil, l’esercito ha acquistato una posizione di forza all’interno della società. In Nepal dopo un conflitto durato dieci anni con i ribelli marxisti, l’esercito sta formalmente facendo un passo indietro mentre si lavora ad una soluzione politica tra i vari partiti con la nomina di un primo ministro civile, ma conserva pur sempre un ruolo significativo nella transizione. In Bangladesh il ruolo dell’esercito rimane poco chiaro impantanato come è in mezzo alle ipotesi e ai sospetti. Taluni auspicano che l’esercito possa fungere da levatrice della democrazia - aiutando il governo provvisorio ad organizzare elezioni libere e democratiche - mentre altri temono che l’esercito non intenda far nascere la democrazia, ma piuttosto manipolarla. In Birmania, invece, non c’è mai stato alcun dubbio sulla volontà della giunta militare di conservare il potere malgrado la condanna internazionale e le rivolte interne, quale quella recente dei monaci pacifisti. Relativamente a ciascuno di questi Paesi, a prescindere dalle ambizioni o dalle intenzioni dell’esercito, la comunità ha detto con chiarezza che vuole l’avvento della democrazia, dei diritti umani e dello Stato di diritto.

La sola eccezione nella regione è rappresentata dal Pakistan. Pervez Musharraf ha recentemente appeso al chiodo la divisa da generale dell’esercito per indossare abiti civili, ma continua a conservare tutto il potere e la pompa della dittatura militare con il pieno appoggio degli Stati Uniti e degli altri governi occidentali ribadito nel corso del viaggio da lui compiuto a gennaio nelle capitali europee.

Gli Stati Uniti e gli alleati occidentali giustificano il diverso - e privilegiato - trattamento accordato a Musharraf ritenendolo un alleato indispensabile nella lotta al terrorismo. Ma l’Occidente sta veramente favorendo la causa del contro-terrorismo in Pakistan sostenendo il regime di Musharraf? O piuttosto gli occidentali stanno giocando una “Grande partita” che, come quelle del passato, porterà ad una maggior instabilità e ad un incremento delle violazioni dei diritti umani?

I delegati di Amnesty International che hanno visitato il Pakistan hanno registrato una profonda sensazione di disperazione. «Il Pakistan è sull’orlo del disastro», hanno detto molti di quelli che hanno parlato con i rappresentanti di Amnesty International.

I pachistani - e il resto del mondo - si debbono ancora riprendere dallo shock del brutale assassinio di Benazir Bhutto. Dà il segno della disperazione del Paese che Benazir Bhutto, sebbene in materia di diritti umani avesse fatto molto poco quando aveva ricoperto la carica di primo ministro, fosse considerata da molti cittadini pachistani, compresi quanti sono attivi nel campo della tutela dei diritti umani, la migliore occasione di cambiamento positivo per il Pakistan.

Molti degli intervistati si sono detti convinti che le elezioni parlamentari previste per il 18 febbraio saranno una impostura e si svolgeranno nella illegalità. L’andamento delle elezioni sarà controllato da esponenti della magistratura che dovranno rendere conto alla Commissione Elettorale legata mani e piedi all’esecutivo e, in ultima analisi, al presidente della Corte suprema nominato dal presidente Musharraf.

Nell’ultimo anno la coraggiosa presa di posizione dei giudici e degli avvocati aveva fatto sperare molti pachistani in un futuro diverso caratterizzato dal prevalere dei diritti umani e dello Stato di diritto. Il presidente della Corte suprema, Iftikhar Chaundhry, si era allontanato dalla tradizione pachistana di connivenza del sistema giudiziario con l’esecutivo, mettendo in discussione le posizioni del governo su numerose questioni di grande rilievo.

È nota la decisione della Corte suprema di impedire a Pervez Musharraf di candidarsi alla presidenza conservando, al tempo stesso, l’incarico di comandante in capo dell’esercito. Meno nota, ma importante sotto il profilo dei diritti umani, è stata l’inchiesta della magistratura sul ruolo svolto dal governo nella scomparsa di numerosi sospetti nazionalisti e terroristi. Durante le udienze, il presidente della Corte Chaundhry ha dichiarato che vi erano «prove irrefutabili» secondo cui le persone scomparse erano in mano ai servizi segreti e che i responsabili sarebbero stato incriminati. Ma gli ottimisti avevano commesso un grosso errore di valutazione. Nel quadro della distorta strategia occidentale della “guerra al terrore”, Musharraf aveva la licenza di agire come nessun altro generale della regione. I diritti umani e lo Stato di diritto non hanno alcuna importanza nella “Grande partita” e se il sistema giudiziario non è disposto a giocare la partita, allora va decapitato.

Di conseguenza lo scorso novembre Pervez Musharraf ha accusato la magistratura di «lavorare contro l’esecutivo e il parlamento nella lotta contro il terrorismo e l’estremismo». Agendo nella sua veste di comandante in capo delle forze armate - ma abusando dei poteri a lui concessi - il generale Musharraf si è auto-nominato Legislatore Supremo con la conseguenza che le sue decisioni e le sue iniziative non potevano essere impugnate. Ha decretato lo stato di emergenza e sospeso le garanzie costituzionali poi ha proclamato l’Ordine Costituzionale Provvisorio sospendendo i diritti fondamentali, comprese le tutele in materia di arresto e detenzione, la sicurezza delle persone e la libertà di espressione, di riunione e di associazione. Ha rimosso Iftikhar Chaundhry dalla poltrona di presidente della Corte Suprema per la seconda volta e ha sospeso i vertici della magistratura a meno che non giurassero di rispettare l’Ordine Costituzionale Provvisorio. Queste iniziative hanno sollevato una ondata di proteste che non hanno sortito alcun effetto nei confronti di Musharraf.

Poche settimane prima delle decisioni di Musharraf in Pakistan, la giunta militare birmana aveva soffocato numerose manifestazioni di protesta. La reazione internazionale era stata molto diversa. La questione della Birmania era stato messa all’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il Segretario generale delle Nazioni Unite aveva inviato un suo emissario a Rangoon. Gli Stati Uniti e i governi della Ue avevano inasprito l’embargo sulla compravendita di armi e le sanzioni commerciali. Invece nel caso del Pakistan il silenzio è stato assordante.

Dopo che altri magistrati più compiacenti hanno confermato la sua eleggibilità alla presidenza, il generale Pervez Musharraf si è dimesso da comandante in capo dell’esercito, ha revocato lo stato di emergenza, ha insediato un nuovo governo provvisorio e ha fissato la data delle elezioni. La magistratura compiacente ha approvato una legge che sospendeva i diritti fondamentali e proibiva al sistema giudiziario di valutare l’azione di governo.

Sul fronte della “guerra al terrore” una recente intensificazione dell’attività militare nelle regioni di Swat e del Waziristan ha fatto sorgere persino tra i più tenaci difensori di Musharraf in seno al governo degli Stati Uniti, il sospetto che Musharraf negli ultimi mesi si sia dedicato più ad attaccare i giudici e gli avvocati che a combattere il terrorismo.

Mentre l’instabilità politica e la violenza degli estremisti si diffondono a macchia d’olio in Pakistan, la comunità internazionale farebbe bene a valutare con serietà la sconsideratezza di appoggiare militari dal pugno duro e politici corrotti che violano i diritti umani e lo Stato di diritto in nome della sicurezza nazionale. Sul lungo periodo c’è una sola alternativa: esercitare pressioni sul governo pakistano affinché restituisca l’indipendenza alla magistratura in modo da poter ripristinare il rispetto dei diritti umani e lo Stato di diritto.

In tutto il sud dell’Asia la società civile è stata una forza a favore del cambiamento sociale e politico e un argine contro i regimi autoritari. In Pakistan la fiammella accesa dagli avvocati e dai giudici passa ora nelle mani di altri.

Attivisti, giornalisti, studenti ed esponenti politici continuano a protestare, spesso correndo gravi rischi come dimostrato dall’attentato suicida dello scorso gennaio dinanzi al palazzo dell’Alta Corte. Riuscirà la società civile, in Pakistan come già è successo altrove nella regione, a chiudere il capitolo della dittatura militare?

[QUALIFICA]Irene Khan è Segretaria generale di Amnesty International

© IPS

Traduzione di

Carlo Antonio Biscotto

Pubblicato il: 12.02.08
Modificato il: 12.02.08 alle ore 10.08   
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