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Autore Discussione: Siegmund Ginzberg Diritti e paure  (Letto 2388 volte)
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« inserito:: Febbraio 09, 2008, 05:45:50 pm »

Diritti e paure

Siegmund Ginzberg


I detrattori lo temono come un passo verso la teocrazia. I fautori lo vedono come misura di libertà, passo obbligato di democrazia. Forse hanno un po’ ragione entrambi, anzi hanno torto entrambi. A me evoca un tiro alla fune - pardon, un tiro al fazzoletto - sull’orlo di un precipizio. Per la Turchia, se il fazzoletto si rompe, il rischio è di perdere l’equilibrio, finire davvero nella padella islamista o nella brace di una nuova dittatura dei generali.

A prima vista l’emendamento costituzionale approvato dal Parlamento di Ankara suona ineccepibile: «Nessuno può essere privato del diritto di accedere all’istruzione superiore». È accompagnato da una conseguente modifica dei regolamenti per le Università che revoca il divieto alle studentesse di indossare in aula il tradizionale foulard che copra i capelli. Intendiamoci: non obbliga nessuno a indossare il velo islamico, così come una legge sul divorzio non obbliga nessuno a divorziare e una legge sull’aborto non obbliga nessuno ad abortire. Non modifica neppure, al momento, il divieto esibire la propria identità religiosa nei pubblici uffici - la laicizzazione introdotta da Atatürk nel 1923 per cui nessun religioso di nessuna religione poteva andare per strada in abito talare, e nelle foto di quando era nunzio apostolico a Istanbul anche Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII, appare sempre in abiti «civili». Toglie una proibizione che peraltro era stata estesa tardivamente alle università negli anni Ottanta, dopo il golpe militare, per «ripulire» sbrigativamente gli atenei da estremisti islamici e di sinistra.

Elimina una situazione di frizione con una parte della popolazione. In pratica significa che se una studentessa, per motivi anche religiosi, vuole coprirsi il capo, lo potrà fare senza dover per questo rinunciare agli studi universitari - come ha dovuto fare anche l’attuale First lady turca, la moglie del nuovo presidente - o senza dover andare a studiare in America - come è successo alle figlie dell’attuale premier. Il 60 per cento, quasi due terzi dell’opinione pubblica turca pare siano d’accordo a considerarlo un fatto positivo, un dovuto riconoscimento di un diritto civile. Il ministro degli Esteri turco, del partito islamico al governo, ha spiegato che si tratta di una riforma che va incontro a quel che l’Europa si attende dalla Turchia.

Dov’è il problema, allora? Nel fatto che un’altra parte dell’opinione pubblica turca, i laici, i nazionalisti, molti intellettuali, l’establishment militare e giudiziario, lo denunciano - e certamente molti lo temono sinceramente - come un primo passo verso l’islamizzazione della Turchia e verso la rinuncia alla sua tradizione laica. Per gli ultrà si tratta di un tradimento che farebbe addirittura rivoltare nella tomba Atatürk (che aveva abolito il fez e imposto i copricapi occidentali e si affidava al principio per cui «la religione è una questione privata tra la persona e Dio»). «Si comincia così, poi si finisce come in Iran», è il timore espresso a gran voce.

In effetti, tanto per restare all’argomento Iran, era Stato l’allora Scià Reza a prendere negli anni ’30 da Atatürk l’idea di proibire il velo. Creando però di fatto l’accumulo di tensioni che sarebbe poi esploso nella rivoluzione khomeinista e, anziché nella libertà di poter indossare o meno il velo, nell’imposizione brutale del ciador a tutte le donne. Poter indossare il foulard quando è proibito è libertà, doverlo indossare per forza è odiosa tirannia. Ma il guaio è che non è sempre chiaro dove finisce una cosa e comincia l’altra.

C’è poi anche un’altra complicazione. La liberalizzazione del velo nelle università era stata annunciata nel quadro di un complesso assai più vasto e ambizioso di emendamenti costituzionali e legislativi, volti a rendere più moderna e «più europea» la Turchia. Tra questi: l’introduzione, senza più ambiguità, nella Costituzione del principio di sovranità del «popolo», e non più dello «Stato», il riconoscimento esplicito della cittadinanza non solo dei Turchi veri e propri ma anche dei turchi curdi, o armeni, o ebrei; l’abrogazione delle leggi che limitano la libertà di espressione (gli addetti ai lavori giuridici ne hanno contato diverse decine), e in particolare del famigerato articolo 301 di una legge del 1951, quello in base alla quale continuano ad essere processati (e talvolta ancora anche condannati) coloro che si azzardano a parlare di genocidio di Armeni e repressione dei Curdi, a «vilipendere» in qualsiasi modo la «turchicità», la Turchia, i suoi magistrati, o le sue Forze armate.

Era uno degli impegni del partito islamico ora al governo. Ma per gli emendamenti costituzionali occorre una maggioranza parlamentare di due terzi. Di fronte alla possibilità di ottenere i voti decisivi del partito nazionalista MHP per approvare il solo provvedimento sul velo, separato dagli altri, il partito islamico AKP di Erdogan ha preso al volo l’occasione. Ma questo comporta il rinvio di almeno un paio di anni per la discussione e la revoca della 301 e delle altre leggi molto più vergognose del bando al foulard. Il sospetto, tremendo, è che, ottenuto quello che gli premeva, la libertà di foulard, il partito religioso rinvii sine die, o lasci addirittura perdere il resto, su cui gli alleati nazionalisti nicchiano e gli avversari ultra nazionalisti, i militari e i giudici, sono ancora più ostilmente arroccati.

Senza contare che, come succede nelle migliori famiglie in politica, a tutte le latitudini, un conto sono le buone intenzioni dichiarate, un altro il dove si rischia di finire a parare, o il come una riforma annunciata viene percepita. Tra le novità «progressiste» preannunciate nella nuova Costituzione cui sta lavorando un comitato di sei saggi - tra cui una donna - c’è la proposta di un articolo che stabilisce la necessità di una «protezione speciale» per le donne, così come per gli anziani, i bambini e gli handicappati. Meraviglioso, non fosse che molte organizzazioni femminili sono già sul piede di guerra, facendo sapere di non sentire il bisogno di «alcuna protezione speciale», e non certo di quella che vorrebbero continuare a imporgli gli uomini, i padri i mariti e gli altri guardiani.

Era in termini di «protezione» delle donne che il governo del partito islamico aveva tre anni fa presentato una proposta di criminalizzazione dell’adulterio, che poi furono costretti a lasciar cadere. In Turchia le donne votano dal 1934, cioè da prima che in Francia e in Italia. Si presume che possano fare a meno di certi «protettori».

«La questione del velo in Turchia non ha a che fare con il fondamentalismo islamico. È una tradizione. E comunque è sbagliato imporre soluzioni dall’alto. I veri problemi della Turchia sono altri», dice a proposito lo scrittore Orhan Pamuk, sempre più saggio (e prudente) da quando gli hanno dato il Nobel (e qualcuno vuole sparargli). Sarei portato a dargli ragione, soprattutto per quanto riguarda l’ultima affermazione. Nel senso che il vero problema è il rischio di cadere dalla padella islamica alla brace di una dittatura militare. Molti dei turchi con cui mi capita di parlare propendono per il «meglio i militari» che «i verdi» (gli islamici) o il caos. Quando gli obietto che un golpe militare equivarrebbe a dire addio per sempre all’Europa, la risposta è: «Tanto in Europa non ci andiamo lo stesso, non ci vogliono».


Pubblicato il: 09.02.08
Modificato il: 09.02.08 alle ore 9.38   
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