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Autore Discussione: Giancesare Flesca Il rebus del ticket  (Letto 2366 volte)
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« inserito:: Febbraio 08, 2008, 11:10:13 pm »

Il rebus del ticket

Giancesare Flesca


Cinici come sono i giornalisti americani, hanno trasformato presto lo slogan elettorale di Barack Obama «yes,we can», in un’altra versione maligna «yes, a show». Sarà come dicono loro perché ai discorsi corti o lunghi del senatore d’origine afroamericana si raccoglie una folla sempre maggiore. Ma sarà anche - aggiungiamo noi - perché dal pittoresco Barnum della corsa per le nomination ha messo le ali soltanto quell’«yes, we can» volando attraverso tutta l’America e addirittura attraversando l’Atlantico. Questa corta frase ha acquisito la forza del celebre «I have a dream» o dello «We shall overcome» di Martin Luther King.

Accompagna come in passato i sogni e le illusioni della popolazione nera, come ci si aspettava. Ma in più sta mietendo entusiasmi fino a ieri insospettabili fra i giovani bianchi o neri che siano, di famiglia ricca o povera non importa. E tradotto in politica tutto ciò vuol dire che Obama prosegue il suo testa a testa con Hillary Clinton, ma non accetterà mai di correre come suo vice. Dal frastuono delle nomination è nata infatti la favoletta del «ticket dream», la bella signora Presidente e lui suo Vice. Ma questo giovane senatore non ha voglia di dividere la sua vittoria con nessuno, tanto meno con una ex first lady così lontana da lui sotto quasi tutti gli aspetti. A differenza della signora, Obama ha molto tempo innanzi a sé, può ritardare il suo colpo grosso almeno per altri due mandati presidenziali. Insomma per lui la Casa Bianca può attendere, per lei no.

In questa strabiliante lotta per la nomination democratica cadono molte certezze, gravano cadaveri eccellenti. La vittoria della Clinton nel Massachusetts calpesta -con gioia sincera-uno fra i più ricorrenti miti americani, quello dell’immenso potere del clan dei Kennedy. Caroline, la figlia di JFK e Ted, fratello dell’ex presidente hanno vanamente sostenuto in ogni modo Obama, forse per restare solo loro «La» famiglia degli Stati Uniti. L’evidenza porterebbe a credere che in questo momento ci sono almeno due famiglie più popolari di loro. Per prima quella dei Bush. Ma poi quella dei Clinton.

Se Hillary vincesse, conquistando magari il secondo mandato, i Clinton e i Bush assieme-scrive allarmato un lettore del New York Times-avrebbero totalizzato 28 anni di presenza alla Casa Bianca. Il problema è stato posto da un libro di Nicholas Kristof intitolato appunto «The dynastic question». La verità è che Bill e Hillary Clinton non sono una dinastia. In una dinastia deve esserci la componente ereditaria. Un marito e una moglie senza eredi non sono una dinastia, come Mcbeth e Lady Mcbeth non lo furono.

Tornando ai nostri giorni ecco che cadono, come si diceva, anche molte certezze. Una è sicuramente quella che il supermartedì è il giorno decisivo. Era luogo comune infatti che il voto dell’altro ieri avrebbe risolto la vicenda in favore dell’una o dell’altro. Invece Barack e Hillary sono sempre lì gomito a gomito, lui avendo raccolto più voti popolari, diremmo noi, lei conquistando più delegati. Anche se Obama afferma che è lui ad aver ottenuto più delegati. Tutti sappiamo quante probabilità di brogli ha il complicato sistema elettorale americano. Alle ultime presidenziali il candidato democratico John F. Kerry ebbe più voti di George W Bush, ma fu George W. a vincere con il determinante e discutibilissimo appoggio in Florida, lo stato governato da Jeb Bush: questa famiglia sì, ha spiccati quanto infidi caratteri dinastici.

Ma se lo schema dovesse ripetersi ancora nei 25 Stati dove si dovrà votare da qui fino a luglio (in quel mese è fissata la convention democratica) ciò significa tre cose. Primo, suo marito Bill sta battendo a tutte le porte e usando tutti i metodi possibili per aiutare la signora. Secondo, il partito,o per meglio dire la nomenklatura del partito dopo alcune incertezze iniziali ha finito per aiutare lei: e questo significa moltissimo, anche in relazione ai sindacati-già orientati per Obama-che rappresentano un grande deposito di voti e di quattrini. E qui veniamo al terzo punto. Sui soldi raccolti in suo favore, un giornalista del Los Angeles Times ha fatto una ricerca accurata, dalla quale Hillary esce assai poco trasparente. Sia come sia, lei ha più quattrini (89 milioni di dollari) e lui non tanti in meno (79 milioni).

Se di riffa o di raffa la ex first lady tornerà alla Casa Bianca una buona parte dell’elettorato sarà soddisfatto: lei ricorda alle famiglie più povere quei progetti di assistenza medica per tutti che aveva già tentato di far passare come moglie del Presidente, fallendo però drammaticamente. E in fondo una «presidenta»-come direbbero in Argentina- farà certamente qualcosa per le donne che, pur essendo il 50% della popolazione hanno solo il 17% di deputati e senatori.

Ma per Obama niente è perduto:yes,possiamo ancora farcela. Certo, se Obama dovesse vincere, il cambiamento sarebbe davvero rivoluzionario. Hillary è cresciuta a Washington e a Manhattan, nel grembo del potere,mentre Obama stava normalmente in periferia.

Si può sperare soltanto che nei prossimi meeting elettorali gli ispanici abbandonino il radicale pregiudizio che hanno verso i neri. Fra l’altro sul ritiro dall’Iraq la senatrice è abbastanza cauta, il senatore no, vuole il ritiro immediato.

Finora abbiamo parlato solo di democratici. In barba ai suoi 72 anni i repubblicani hanno scelto come «front runner» John Mc Cain, ma non tanto per le sue brillante attività congressuale contro i monopoli, quanto perché è un eroe del Vietnam. Per lontani che siano i tempi di quella guerra, molti elettori ne sono ancora suggestionati. O forse cercano di esorcizzare coi ricordi dell’altro ieri la drammatica realtà dell’oggi.

Pubblicato il: 07.02.08
Modificato il: 07.02.08 alle ore 8.06   
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