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Autore Discussione: Stefano Pistolini Il bello della politica  (Letto 2304 volte)
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« inserito:: Febbraio 08, 2008, 11:00:20 pm »

Il bello della politica

Stefano Pistolini


Corre l’anno 2008, quello in cui la campagna elettorale americana si trasforma in autentico movimento popolare, a dispetto della conclamata potenza della politica virtuale fatta di spot televisivi, che di colpo si trovano retrocessi ad accessori costosi e ridicoli.

Corre l’anno 2008 quello in cui non solo l’America, ma il mondo torna ad accalorarsi al valore del discorso sociopolitico, attraverso l’articolata rappresentazione delle Primarie Usa, come non capitava dalla caduta del Muro e dal riscatto sociale di Nelson Mandela.

Corre l’anno 2008, il primo nel quale, dopo 45 anni di onorato servizio nel consumismo delle nostalgie, perfino il fantasma di JFK torna a combinare qualcosa di politicamente fattuale, al di là dall’essere, come dicevano gli invidiosi compagni di partito, un sopravvalutato playboy prestato al servizio pubblico.

Corre l’anno 2008 e la sensazione è che da questi benefici influssi, da questa destabilizzazione interpretativa della politica, un ribalta d’acchito popolata di donne, neri, vecchi veterani, italoamericani, fortunatamente non siano immuni neppure le stanze del potere nella crisi italiana. Perché qualcosa si muove. E la direzione è la stessa.

Nessuno può davvero sapere come diamine si concluderà questa elezione presidenziale americana 2008. Chi tra un anno siederà alla Casa Bianca e con quale maggioranza governativa. Il che, come ci ha detto con malcelato entusiasmo il politologo Paul Berman, è formidabile garanzia dello stato di salute della democrazia in America, a dispetto di chi sostenga che il modello si è corrotto, che Tocqueville è archeologia, che gli Stati Uniti sono diventati un cupo progetto fascista. Al contrario, la lezione americana che corre lungo le primarie come la colonna vertebrale di un serpente, parla d’altro: di una nazione che ha riscoperto un gusto per la politica intesa innanzitutto come mandato fiduciario ad alcuni cittadini - a uno in particolare - allo scopo di salvaguardare il bene comune e perseguire il progresso. Politica intesa come luogo del confronto evolutivo e del superamento della crisi. Politica come riflessione sugli errori commessi ed elaborazione di soluzioni efficaci ma dignitose, che non calpestino gli sforzi già prodotti, seppure in direzioni non sempre limpidissime. Politica come perfezionamento della meccanica sociale, intervento nelle debolezze (sanità ed educazione) e revisione in base ad aggiornamenti necessari (l’indispensabile realismo per le politiche dell’immigrazione). Politica che quasi non porti addosso odore di partitismo, anzi se ne liberi, lasciando che la struttura dei grandi partiti appaia sempre più obsoleta, neutralizzata dalla capacità di aggregazione spontanea, provvisoria e immediatamente funzionale, che passa attraverso le strutture digitali dei candidati, la loro ramificazione, la loro inesausta riconfigurazione in base a scadenze, esigenze e sfide. Politica che, adesso, si avvicina alla scommessa più spericolata - che non è detto che sarà vinta, ma che pure è interessantissima per la riprogettazione del dibattito che trascina con sé: una specie di patto trasversale, per ora solo accennato, sospeso nell’aria, eppure visibile e accessibile a chiunque ne abbia voglia, che sottoscrive la convinzione che i problemi che stanno tartassando l’America d’oggi necessitino di soluzioni su cui i punti di vista politici possono apportare diversificazioni di sfumature, ma non radicali differenze d’interpretazioni.

Con gente come Clinton, Obama e McCain a contendersi gli ultimi traguardi, è inutile illudersi d’assistere a un confronto tra ideologie contrapposte, visioni antitetiche, allo scontro tra le due famose Americhe a cui spesso si ricorre per definire un americanismo conservatore (geloso dell’imprinting originale) e uno progressista (disponibile a nuove versioni di progettualità). Clinton, Obama e McCain, attingono e attingeranno a un serbatoio comune e a metodiche limitrofe, quando per uno di loro verrà il momento di tradurre in arte del governo il successo della propria campagna. Anche per questo, l’appuntamento col famoso e (ormai neppure troppo) annunciato confronto sulle issues, ossia sulle questioni basilari, sui problemi-chiave e sul programma di relative soluzioni, continua a slittare all’infinito - e per quanto possiamo prevedere continuerà a farlo in una distratta indeterminatezza, vedendosi preferire un raffronto di tutt’altro genere.

Perché a sfidarsi sul serio per le chiavi della Casa Bianca, è sempre più evidente che saranno le personalità e non i programmi - destinati, al di là della propaganda, a somigliarsi ben più di quanto sia accaduto nel dualismo democratico-repubblicano dell’era postreaganiana. Alcuni solchi sono segnati: il ridimensionamento della grandeur imposta dalla dottrina della diffusione della democrazia nel mondo. La coerenza di un rafforzamento della sicurezza interna che salvaguardi però il culto delle libertà individuali, pericolosamente carezzato da provvedimenti di recente emergenza. La redistribuzione della spesa pubblica. La difesa della classe media e soprattutto medio-bassa, esposta a turbolenze dal ridisegno degli equilibri economici mondiali. Il miglioramento dei parametri di qualità della vita, che poi sono la salute, l’istruzione, la casa, il lavoro e soprattutto il permanente accesso a quel «sogno» che resta marchio di fabbrica nazionale, offuscato eppure ancora attivabile (cos’è Obama, se non la sua incarnazione?) solo a rispolverare il lubrificante di ottimismo e determinismo americano.

Ecco: oggi, se si è capaci di tralasciare le partigianerie e le rocciosità di convenienza, non è difficile convincersi che Clinton, Obama e McCain siano personalità pronte a lavorare quasi in sintonia, o comunque in risonanza reciproca. Allora dov’è la forza di questa campagna? Dove brucia il fuoco che riscalda la passione ritrovata da milioni di americani per il discorso politico? Da dove vengono questi record di partecipazione, questo delirio sentimentale, questo slancio di partecipazione che fanno del 2008 un inatteso nuovo ’68 americano, intriso di voglia di costruire, di dispregio verso la politica distruttiva e insultante, di gusto per le meraviglie della retorica e per la forza dell’argomentazione? Tutto arriva dal fatto che silenziosamente l’America sembra essersi accordata sulla necessità d’individuare veramente il leader giusto che la piloti fuori dalle secche che per attribuire questa leadership debba dare strada a un confronto prima emotivo, fiduciario e solo in second’ordine competitivo - che misuri prima le personalità e poi le teorie, che paragoni prima l’ispirazione e poi l’esperienza. Chiunque vinca: l’Hillary ambiziosa, disciplinata ma meno gelida di quanto s’insiste a rappresentare; l’Obama che ormai neppure accenna più al «da farsi» nei suoi discorsi, ma incita solo al ritrovamento di un’unità mistica che rilanci un’empatia nazionale che tutto potrà spingere e tutto potrà creare; il John McCain che partendo da un’indolente campagna di retroguardia ha saputo affermare un magnetismo che raduna affidabilità, familiarità e classicismo americano. Perfino quel Mike Huckabee che restituisce volto umano e dialogante alla destra cristiana che da qui troppo spesso viene ingabbiata in odiose definizione preconfezionate.

Chiunque vinca, l’America pare sulla strada di una scelta saggia. E viene da pensare che fino alla fine gli americani si permetteranno il lusso di scegliere il futuro delegato al posto di comando prima di tutto in base al suo carisma, al potere della sua visione, alla limpidezza del suo sguardo. E questo formidabile procedimento ha del nuovo e introduce un passaggio a una postpolitica che ha il sapore dell’efficacia e della contemporaneità e non la superficialità del postmoderno. Ecco allora che seguire il dipanarsi della campagna elettorale americana in questo fatale 2008 diventa esperienza elettrizzante, un esperimento vertiginoso e un’avventura culturale. Il modello è là, in aggiornamento quotidiano. Non tradirlo banalizzandolo, percepirne la serietà e l’intensa matrice popolare, significa intraprendere un’esplorazione delle terapie salutari di cui anche il pietrificato scenario nostrano potrebbe beneficiare. Per ricominciare anche qui credere. E a passionalmente partecipare.

Pubblicato il: 08.02.08
Modificato il: 08.02.08 alle ore 8.13   
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