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Autore Discussione: Bruno Gravagnuolo Il 25 aprile che manda in tilt il Cav  (Letto 3221 volte)
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« inserito:: Febbraio 08, 2008, 10:48:28 pm »

Foibe, la tragedia di due popoli contro

Bruno Gravagnuolo


Qualche settimana fa, nel recensire un libro di Eric Salerno sugli ebrei libici italiani internati nel lager di Giado, Dario Fertilio sul Corsera scriveva che «nessun altro luogo, includendo l’isola di Arbe nel Quarnaro, fu teatro di stragi italiane numericamente più rilevanti». In realtà a Giado i morti di stenti furono «solo» 560, benché per un ordine iniziale, per fortuna revocato, i circa mille internati dovevano essere uccisi tutti, prima dell’arrivo degli inglesi nel 1943. Ebbene quel che colpisce, nel resoconto, sono l’incipit e l’inciso: «Nessun altro luogo, includendo l’isola di Arbe... ».

Eppure Giado fu una «piccola» cosa in confronto ad Arbe, e a Gonars, Visco, Monigo, Renicci. Campi slavi, dove morirono più di 7mila sloveni di stenti, malattie, e maltrattamenti, inflitti loro dagli italiani occupanti in Slovenia, Croazia e Dalmazia. E anche «piccola» cosa in relazione alle 13 mila vittime degli italiani nella sola zona di Lubiana in quegli anni. In una guerra d’occupazione che costò all’ex Jugoslavia oltre 250mila morti.

Ora, non intendiamo farne colpa grave a Fertilio, ottimo collega e per solito informato, oltre che bravo narratore. Ma l’incipit e l’inciso su Giado ed Arbe, sono un sintomo ben preciso, con cui occorre pure fare i conti. Sono il segnale di una dimenticanza ben precisa, che in tutto questo dopoguerra ha assunto i tratti di una vera e propria rimozione. Destinata ad alimentare comodi schematismi ed equivoci, sia in ordine ai crimini italiani nella seconda guerra mondiale («gli italiani brava gente»), sia in relazione ai crimini subiti dagli italiani in quella grande tragedia. E il discorso è tanto più rilevante oggi, alla vigilia del 10 febbraio, giornata del ricordo in cui si celebreranno i torti e le ingiustizie patiti dalle genti giuliano-dalmate, espulse dai loro territori, dopo il trattato di pace con la Jugoslavia e a seguito della persecuzione jugo-comunista, che costrinse quelle genti ad emigrare forzosamente. Con in più lo spregio dello scherno a sinistra, e dell’incomprensione della madre-patria, che doveva accoglierle come masse di profughi, indesiderati e imbarazzanti.

Ecco spiegata la ragione forte che ci ha indotti, in occasione del 10 febbraio, a voler celebrare quel giorno con un volume scomodo e imbarazzante delle «Chiavi del tempo», ma altresì rigoroso: Pierluigi Pallante, La tragedia delle foibe. Memoria e Storia. In edicola con l’Unità domani 9 febbraio (pp. 275, euro 7,50, più il prezzo del quotidiano). Un gesto editoriale spigoloso, ma dovuto. Alla memoria dei vivi e dei morti del grande dramma dalmata-giuliano, culminato prima con le foibe, e poi con l’espulsione di circa 350mila italiani. Gesto di cui è autore in primo luogo uno storico che da anni si occupa della questione nazionale, con particolare riferimento al Friuli Venezia Giulia. Già collaboratore di Storia contemporanea al tempo in cui era diretta da Renzo De Felice con cui si laureò, e allievo di un altro grande storico scomparso come Paolo Spriano.

Il libro è un dossier attualissimo e aggiornato di tutta la vicenda, dall’annessione italiana dell’Istria già a partire dal 1919, fino all’esodo che si protrae al 1954, anno del ritorno di Trieste all’Italia. Con in più cartine dei confini e territori, indice dei nomi e ricchissima appendice documentaria, in particolare centrata sui rapporti tra il Pci e i comunisti jugoslavi. Libro quindi non reticente ed esaustivo sui passaggi fondamentali del dramma. E senza sconti alle stesse ambiguità del Pci, che benché attestato sin dagli anni trenta sulla difesa dell’italianità di Trieste e dell’entroterra, mostrò ambivalenze e oscillazioni in quel contesto dominato dalla pressione dell’armata jugoslava. E finì con il non opporre un contrasto risolutivo all’annessionismo titino, sino a rompere con il Cln e a risultare diviso internamente, rispetto all’egemonia jugoslava.

Le foibe. Nel saggio di Pallante, che mette a frutto una ricca storiografia di sinistra in opera da più di trent’anni, esse appaiono come implosione distruttiva sul nemico «etnico» e «sociale», che convoglia decenni di rancore e risentimento repressi nell’elemento slavo. E in una terra mistilingue, in bilico dai tempi di Venezia su due possibilità: incontro fruttuoso e multietnico, e inimicizia nazionale contrapposta. Trieste è un po’ il simbolo di questa ambivalenza. A prevalenza italiana, come Zara, Pola e le città rivierasche, era pur sempre ancora nel 1915 la più grande città slovena, con 56 mila abitanti di quel «ceppo».

Lì, e prima nell’entroterra a prevalenza slava, si consuma la tragedia. In due fasi. Inizialmente, con lo sbandamento dell’esercito italiano dopo l’8 settembre, ci sono gli infoibamenti degli italiani sull’onda della jacquerie popolare, che non fa distinzioni di sorta tra le responsabilità, nell’elemento occupante alleato dei nazisti. Dopo invece, con l’entrata a Trieste il 30 aprile 1945 della IV armata del generale Dprasin, coadiuvata dal VII e dal IX corpus sloveni, avverrà la mattanza degli italiani: alcune migliaia nelle foibe carsiche. Altre, sino a un numero di 10mila, destinate a scomparire nei campi di internamento titino. Difficile quantificare il numero degli infoibati, uccisi spesso da vivi con le mani legate ai morti fucilati. Una commissione italo-sloveno-croata ne calcola l’ammontare presuntivo a 4-5mila.

Ma il punto vero è un altro. Perché tanta furia? Certo, la vendetta. Il furore convogliato da anni di oppressione, fucilazioni e rastrellamenti legati all’occupazione italiana. Che aveva installato in Croazia un dittatore sanguinario croato come Ante Pavelic. Che con i suoi generali inflessibili - Roatta, Ambrosi, Pirzio Biroli, Robotti - incitava i soldati a non fare del sentimentalismo: 50 slavi per ogni italiano ucciso. Ovvero, come telegrafava Mussolini: «Non siate padri di famiglia in Montenegro!». E poi giocavano nella memoria slava i lunghi anni di snazionalizzazione. Con la cancellazione dei nomi sulle tombe, la proibizione di parlare serbo-croato. La cacciata del clero slavo e la distruzione politico-sociale della società civile locale, in una con il «rinsanguamento» italico forzoso. Ma detto tutto questo, verità non smentibili e documentate da Pallante, vi fu dell’altro. Vi fu il progetto titino di nazionalizzazione jugoslava dell’Istria, congiunto alla trasformazione collettivista. Rispetto a cui, come avvisava Kardelij braccio destro di Tito, andava rimosso ogni ostacolo italiano, foss’anche antifascista (perciò più pericoloso). Fu così che l’iniziale collera etnica divenne pulizia politica preventiva. Era un disegno coerente con il ruolo egemone e «bolscevico» che il comunismo titino si assegnava in centro-europa, e che Stalin stesso dovette arginare. Poi per paradosso, proprio la Jugoslavia divenne la faccia antistaliniana e più tollerante del comunismo dell’est. Ma nel frattempo il dramma s’era consumato. E l’Italia ormai nella Nato non aveva nessuna voglia di ricordare una vicenda amara, che pur dentro la sconfitta e il prezzo pagato non la vedeva esente da colpe.

Pubblicato il: 08.02.08
Modificato il: 08.02.08 alle ore 8.15   
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 26, 2009, 12:17:34 am »

Il 25 aprile che manda in tilt il Cav


di Bruno Gravagnuolo


Due polemiche, questa settimana. La prima, lanciata da Angelo d’Orsi su Liberazione: «Si può archiviare ormai l’antifascismo?». La seconda, promossa da Pierluigi Battista sul Corsera: «Perché a nessuno interessa Katyin?». E Katyn è il film di Wayda dai pochi incassi. Dove si narra il massacro stalinista di 20mila ufficiali polacchi al tempo della spartizione della Polonia tra Terzo Reich Urss. Alla prima domanda la risposta è no. E non perché ci voglia antifascismo militante, contro un fascismo risorgente. Sarebbe roba da fissati.

E però l’antifascismo come memoria, Grund Norm ideale, per dirla con Kelsen, ci vuole eccome! Ci vuole come paradigma culturale, che rinvia a un modello istituzionale e a valori nati da una frattura storica. Da cui nasce e si diparte la Repubblica italiana. E si diparte contro l’affossamento del Parlamentarismo, che ha dentro divisione dei poteri, partiti, e istanze egualitarie di Welfare. Ottima medicine queste contro una destra post-politica, presidenzialista e autoritativa. E contro la smemoria per cui rossi e neri erano eguali e quel 1943-45 fu orrenda guerra fratricida da rimuovere, con tutto quel che ne derivò, etc. etc. Ci sarà pure un motivo per cui il Cesare-Cav detesta la Resistenza, o no? E tutti noi lo conosciamo quel motivo: mutare la «Costituzione sovietica», come lui dice, con tutto ciò che ne deriva... E veniamo a Battista. Deploriamo noi pure che Katyn non sia visto nelle sale, né ci consola il frivolo motivetto mercatista: «È il mercato bellezza!» .

E però se si parla di storia andrebbe ricordato ciò che segue. Gli Alleati seppero dalla Croce Rossa che colpevoli erano stati i sovietici. Mentre dopo Monaco l’occidente democratico aveva lasciato sfogo ai nazisti verso Est, aizzando la criminale Real-Politik di Stalin. Infine il Comunismo (come il capitalismo) fu tante cose, oscene e gloriose. E tra le ultime ci fu il Pci, sì il Pci. In cui non è vergogna aver militato, ma vanto. Vanto esserci stati e pure averlo superato. La vergogna? È dei propagandisti faziosi, e dei trasformisti senza biografia.

25 marzo 2009
da unita.it
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