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Autore Discussione: Paolo MIELI  (Letto 11701 volte)
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« inserito:: Febbraio 08, 2008, 11:19:45 am »

IL PD E LA SCELTA DI ANDARE SOLO

La costrizione provvidenziale

di Paolo Mieli


La scelta del Partito democratico di presentarsi da solo alle prossime elezioni politiche non va tenuta nel conto di un espediente. È un fatto, certo, che se la coalizione di centrosinistra si fosse riproposta tal quale si era presentata nel 2006, l'esito sarebbe stato per lei disastroso. E questa catastrofe, va detto, si sarebbe avuta non già per la prova del governo Prodi che, anzi, nelle condizioni date ha offerto una prestazione di tutto rispetto. L'esito per il centrosinistra sarebbe stato molto negativo proprio per le «condizioni date» e cioè per la conclamata indisponibilità di micropartiti e piccole correnti a farsi carico della logica di coalizione, ovvero del rispetto del principio di maggioranza all'interno della coalizione stessa. Walter Veltroni, dunque, non poteva presentarsi alla guida di un partito legato a soci indisciplinati oltreché inaffidabili ed è costretto, sì costretto a correre in solitudine.

Ma, a questo punto della storia della sinistra italiana, si tratta di una costrizione provvidenziale che lo obbliga a tagliare con un colpo netto un nodo che altrimenti sarebbe rimasto ancora a lungo aggrovigliato. Di che cosa stiamo parlando? Dal 1861, dalla formazione del nostro Stato unitario, anche prima della nascita e dell'affermazione del Partito socialista, in Italia la sinistra di governo fu quella di ex adepti del movimento garibaldino e mazziniano (adepti di rango: Agostino Depretis, Giovanni Nicotera, Francesco Crispi) che lasciavano dietro di sé nel territorio di provenienza, un campo antisistema, parte consistente della loro legittimazione. L'identità forte restava appannaggio dei loro compagni rimasti sul terreno della radicalità: ai transfughi rimaneva un' identità dimidiata, la necessità di attestare di continuo una qualche fedeltà agli ideali di un tempo, l'obbligo morale di proporre misure in cui credevano poco, solo per dimostrare al loro elettorato potenziale rimasto fuori dal sistema di appartenere ancora a una stessa famiglia. E per avere libertà di manovra nella complicata arte del governo toccò loro, alla sinistra storica, persino di elevare a dottrina il trasformismo (1882).

Le questioni legate alla figura del transfuga che si stacca dal ceppo d'origine si proposero anche fuori dai nostri confini, ad esempio per Alexandre Millerand, il primo socialista francese che nel 1899 entrò nel governo di difesa repubblicana presieduto da Waldeck-Rousseau. Ma presto i socialisti di Francia vennero a capo di questo problema, dopo appena quindici anni, allorché nel corso della prima guerra mondiale — con Jules Guesde e Marcel Sebat in rappresentanza dell'intero partito — entrarono nel governo (di grande coalizione) presieduto da Viviani. In quegli stessi giorni i laburisti inglesi facevano il loro ingresso nei gabinetti (anche questi di coalizione) di Asquith e Lloyd George. E subito dopo la Grande guerra i socialdemocratici tedeschi Ebert e Scheidemann guidarono i primi governi della Repubblica di Weimar. In altre parole i socialisti dell'Europa più avanzata già all'inizio del Novecento, prima o a ridosso della Rivoluzione d'ottobre, si addossarono responsabilità ministeriali dandosi — in conformità all'occasione — una salda identità via via sempre più riformista.

Da noi le cose andarono diversamente. I primi socialisti che andarono al governo, Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi nel 1916, lo fecero anche loro da transfughi alla guida di una piccola formazione scissionista che si era staccata dal Psi quattro anni prima. E dopo il conflitto Filippo Turati, pur avendo capito fino in fondo che cosa si dovesse fare, non riuscì a divincolarsi per portare il suo partito in un gabinetto che grazie alla forza dei socialisti avrebbe potuto sbarrare la strada al movimento mussoliniano. Poi fu il ventennio dei fascismi e della stringente logica per cui i socialisti europei furono costretti ad aderire ai fronti popolari, cioè all'alleanza con i comunisti. Ma, finita la seconda guerra mondiale, i laburisti inglesi di Attlee, i socialisti francesi di Guy Mollet e Ramadier, quelli tedeschi di Schumacher ruppero subito con i comunisti staliniani riprendendo con ciò la loro identità originaria e con essa la via del governo. In Italia no. I socialisti nostrani ancorché (particolare non irrilevante) nel 1946 fossero il primo partito della sinistra italiana restarono, unici nell’Europa democratica, avvinghiati al Pci in un legame frontista. Si staccò, è vero, nel 1947 Giuseppe Saragat ma il suo piccolo partito socialdemocratico, come già era stato per Bonomi e Bissolati, portò con sé una parte infinitesimale della sinistra che pressoché al completo rimase egemonizzata dal Pci nel campo della radicalità antisistema. E quando negli Anni Sessanta i socialisti di Pietro Nenni andarono finalmente al governo, il grosso dell’elettorato (con annessa l’identità vera della sinistra italiana) restò con il Pci all’opposizione. Insomma qui in Italia non è mai accaduto che il principale partito della sinistra si mettesse nelle condizioni di candidarsi davvero a governare— con un programma coerente di riforme coraggiose sì ma compatibili —al riparo da veti e intrusioni da parte di entità politiche collocate su posizioni estreme. Mai.

L’unità nazionale (1976-1979) fu altra cosa e neanche l’Ulivo prodiano — che pure è stato il progenitore del Partito democratico — può essere considerato qualcosa di simile ai confratelli socialisti europei che dall’inizio del secolo scorso hanno avuto (ed esercitato in prima persona) responsabilità di governo. Se non altro perché l’Ulivo non si è mai candidato a governare libero da ipoteche di sinistra. Oggi, per la prima volta dopo centoquarantasette anni, questo accade anche da noi. E grazie al fatto che Rifondazione mostra di aver ben compreso — pur non facendolo proprio — il senso di questa evoluzione, il divorzio della sinistra riformista da quella massimalista e rivoluzionaria avviene in un clima che si può definire di separazione consensuale.

Quello che sta accadendo al Partito democratico (sempre che Veltroni riesca a tenere duro al cospetto delle irragionevoli obiezioni di alcuni dei suoi) è qualcosa che va al di là di ciò che si deciderà il 13 e 14 aprile. Se il suo partito uscirà consacrato da un risultato abbondantemente superiore al 30 per cento, anche in caso di sconfitta potrà dispiegare una politica potente in grado di dare frutti molto prima di quanto si pensi. È vero che la Casa delle libertà al nastro di partenza per la corsa del 13 aprile ha maggiori e non immeritate chances di vittoria ma è vero altresì che la coalizione berlusconiana è in grande ritardo sulla via della formazione di un partito unico. E questo, agli occhi di chi come noi ha a cuore la stabilità e la funzionalità del sistema politico italiano, peserà. Silvio Berlusconi è ancora in tempo per dare un’accelerazione a questo progetto che ha sempre dichiarato essere il suo. Se lo facesse questa sarebbe una seconda positiva sorpresa che darebbe un carattere storico a questa campagna elettorale.

08 febbraio 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Aprile 05, 2009, 11:19:11 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 21, 2008, 01:49:34 am »

A una settimana dal voto

La vera partenza


di Paolo Mieli



Sono passati quattordici anni da quando in Italia è stato introdotto il sistema maggioritario, quattordici anni nel corso dei quali due volte (1996, 2006) ha vinto il centrosinistra e tre (1994, 2001 e l'ultima una settimana fa) il centrodestra. Fin qui, in un ritmo di alternanza scandito quasi con il metronomo, a ogni tornata elettorale chi aveva governato nella precedente legislatura è stato mandato all'opposizione e chi aveva perso nella precedente consultazione è tornato al governo. Eppure, a dispetto di questa evidenza, in passato ogni volta i perdenti si sono lasciati andare a mesi e mesi di costernazione e di pianto quasi si trovassero al cospetto di un incipiente regime e di una esclusione definitiva dalle stanze del comando.

Fortunatamente stavolta le cose si stanno mettendo in modo, almeno parzialmente, diverso. E' come se la stagione 1994-2008 fosse stata un lungo, estenuante periodo di prova del funzionamento di un meccanismo e questa possa essere l'alba di una seconda o terza Repubblica. Appare chiaro a tutti (o quasi) che la vittoria di Silvio Berlusconi non ha niente di occasionale, che i due partiti che ne hanno fatto da architrave sono ben impiantati sul terreno, che la classe politica da essi generata nell'ultimo quattordicennio non ha più niente o ha molto poco di raccogliticcio e che ciò che negli anni scorsi si è detto e scritto per spiegare il successo berlusconiano non era sufficiente. Per quel che riguarda la destra, resteranno di questa campagna elettorale quattro momenti: la fusione immediata e a freddo tra Forza Italia e Alleanza nazionale che chiunque fino a un giorno prima avrebbe giudicato pressoché impraticabile; la vitalità della Lega a dispetto delle condizioni di salute di Umberto Bossi, segno che quel partito non è più da anni un'accozzaglia di protestatari ed è destinato a durare; il divorzio (o la momentanea separazione?) tra Berlusconi e l'Udc di Pier Ferdinando Casini che, sia pure in misura diversa, ha giovato a entrambi i coniugi; il successo del libro di Giulio Tremonti La paura e la speranza, un saggio assai dibattuto che ha scalato le classifiche editoriali e che ha dato grande lustro all'impresa.

Sul fronte opposto resteranno la decisione collettiva di fondere Ds e Margherita in un unico partito e la coraggiosa decisione di Walter Veltroni di avviare quella che si è detta una «separazione consensuale» dall'estrema sinistra nonché la scelta ancor più coraggiosa di «correre da solo». Quella decisione — «consensuale » in quanto voluta anche da Fausto Bertinotti — era frutto più di un giudizio sul fallimento delle due esperienze prodiane (si è ritenuto che così come era la coalizione non poteva ripresentarsi al cospetto degli elettori) che di un'idea strategica. E la pur discutibile decisione di lasciar spazio alla lista di Antonio Di Pietro si è dimo-strata, quantomeno sotto il profilo tattico, azzeccata. Se Veltroni avesse fatto una scelta analoga per i radicali e per i socialisti, è evidente che avrebbe compromesso il senso e l'immagine dell'operazione senza riceverne alcun apprezzabile beneficio.

Tornando poi alla Sinistra Arcobaleno va detto che è immaginabile sarà presto superato il trauma, a nostro avviso benefico, dell'uscita dal Parlamento (benefico perché come insegna la storia degli anni Sessanta è più agevole intercettare le realtà antagoniste da postazioni extraparlamentari); e se la sinistra estrema — anziché dilaniarsi— continuerà a evolversi nel solco non violento tracciato da Bertinotti ritroverà linfa e vita e non è escluso che, tornata a Montecitorio e a Palazzo Madama, giunga tra qualche anno a un ritrovato punto di incontro con quella moderata e riformista.

I limiti per Veltroni sono stati tre: quello di non avere una solida base culturale di riferimento (alla sinistra manca un Tremonti, cioè un politico di primo piano che produca analisi innovative in sintonia con quel che si dibatte nel resto del pianeta); quello di aver prodotto un eccesso di ammiccamenti a culture ed esperienze internazionali di complesso amalgama; quello ormai consolidato (nel senso che lo ha ereditato dai suoi predecessori) di non aver capito che il Nord merita un'attenzione strutturalmente diversa. Ribadisco: strutturalmente diversa.

A causa di ciò il Partito democratico è rimasto fin qui tutto dentro i confini angusti della sinistra e non ha praticamente giocato la partita del centro. Se aveva candidati in grado di parlare all'elettorato centrista li ha tenuti nascosti per timore che entrassero in contraddizione con quelli a carattere più identitario con l'effetto che la torta non ha lievitato. Adesso la sinistra centripeta ha davanti a sé due vie: la prima è quella di provare a fare con Casini quel che nell'estate del 1994 D'Alema fece con Buttiglione, cioè lusingarlo e attrarlo nella propria orbita; la seconda è quella di strutturarsi per occupare da sé il centro. Che dire? Della prima opzione non sapremmo, ma la seconda ci appare in prospettiva assai più redditizia. Ma le due insieme non sono facilmente combinabili perché come accadde nel '94 la dimensione tattica prende sempre il sopravvento sul profilo strategico.

Le elezioni del 13 aprile 2008 hanno l'aria di essere di quelle che passano direttamente nei libri di storia. E in quei libri di storia resterà chi saprà comprenderne il senso profondo, digerirle e — per quel che riguarda l'opposizione — chi anziché disperdere energie in iniziative avventate, ripetitive sarà in grado di dare senso compiuto all'idea nel nome della quale solo un anno fa fu fondato il Partito democratico.

20 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 05, 2009, 11:19:36 am »

ITALIA, ECONOMIA E GIORNALI


Prime luci oltre la crisi


di Paolo Mieli


Nei giorni in cui lascio la direzione del Corriere della Sera mi conforta constatare che all’orizzonte della grande crisi economica in cui siamo (non del tutto incolpevolmente) precipitati si intravede qualche bagliore di luce. Attenzione, non voglio in questa sede mostrarmi ottimista a dispetto delle evidenze. Quel che ci è dato di vedere adesso è il buio più buio: le stesse previsioni che provengono dai più qualificati osservatorii internazionali, dall’Ocse al Fondomonetario, sono discordanti sui tempi della ripresa, se già nel 2010 o decisamente più in là. Epperò già si vede qualche segno del fatto che qualcosa si muove in una direzione che fa ben sperare. A Milano ci sono quattrocento aziende che vorrebbero esporre al Salone del mobile di fine aprile e non riescono perché per consentire a tutti di presentare al pubblico la propria produzione ci vorrebbero altri trentamila metri quadri. In Scozia c’è una società di biotecnologie, la Angel Biotechnology, che dai primi di dicembre è salita in Borsa di oltre il 300 per cento.

In America il numero di persone che chiede sussidi di disoccupazione è da qualche settimana in costante discesa. Se poi si guarda al Nymex (la borsa del petrolio di New York), al Chicago Board of Trade (derrate tipo cereali, soia, riso), al London Metal Exchange (acciaio, alluminio, ferro) si può notare che i prezzi future a un anno delle materie prime sono dappertutto più alti: segno che da quelle parti si intravede, di qui a dodici mesi, una ripresa della produzione e dei consumi. E ancora: la circostanza che i grandi fondi sovrani, dalla Cina a Singapore, si disinteressino sì alle banche ma investano nei grandi gruppi minerari (ad esempio Rio Tinto, Anglogold) può essere interpretata come un segno del fatto che su quei terreni essi scorgono la base di una loro prossima espansione industriale. E come si spiega che l’import di rame dalla Cina sia salito nell’ultimo mese di oltre il 90 per cento?

La Cina sta imprimendo una forte accelerazione agli investimenti in infrastrutture e la Borsa di Shangai dall’inizio di quest’anno sta salendo in controtendenza sul resto del mondo. Certo, la Cina... Ma la Bank of America ha annunciato il rimborso dei contributi ricevuti dal Tesoro. Quantomeno l’inizio. Ripeto: tutto questo non significa che la notte è alle nostre spalle.Ma adesso abbiamo la certezza che ne usciremo prima forse di quel che avremmo potuto pensare. E ne usciremo con un mondo radicalmente cambiato, in meglio. Discorso che vale anche per il nostro Paese (toccato oltretutto da una crisi morale di cui qui e là si sono intravisti negli ultimi tempi evidenti segnali), almeno per quella parte del Paese che avrà saputo disfarsi delle vecchie categorie, anche quelle di questo ultimo quindicennio di transizione. E a maggior ragione vale per il mondo dei media, la carta stampata in particolare. Grazie a una proprietà, a un editore e soprattutto a una magnifica redazione che in questi ultimi anni è stata all’altezza dell’impresa, il Corriere della Sera è nelle migliori posizioni per modernizzarsi sempre di più e guadagnare l’uscita dalla crisi. Sono certo che sotto la guida di un professionista con i fiocchi che io ben conosco, Ferruccio de Bortoli, questo giornale, questo sistema- giornale sarà tra i primi a toccare il traguardo.

05 aprile 2009

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 22, 2011, 04:42:19 pm »

Intere popolazioni furono deportate per battere i ribelli

Tripoli, arido suolo di dolore e fallimenti

Il bilancio negativo del colonialismo italiano in Libia


Mai colonizzazione fu più sfortunata di quella italiana in Libia. E pensare che tutto era parso facile nell'ottobre del 1911, quando le truppe italiane inviate dal governo liberale di Giovanni Giolitti erano sbarcate a Tobruk, Derna, Bengasi e si erano avventurate in quella terra senza quasi incontrare resistenza da parte dei duemila mal equipaggiati soldati ottomani lasciati a presidio dalla Turchia. Casomai il nostro esercito ebbe qualche problema da parte dei senussi, gli islamici che, senza entrare in conflitto con Istanbul, dalla metà dell'Ottocento (nel 1843 Muhammad al-Sanusi si era stabilito a sud-ovest di Cirene), avevano dato alle genti della Tripolitania e della Cirenaica nuove forme di organizzazione politico-sociale (oltre a una versione del tradizionale credo religioso maomettano più moderna, più adatta alla mentalità e alle esigenze delle popolazioni beduine). Ma l'impresa italiana ebbe comunque successo e nell'ottobre del 1912 la Sublime Porta (il governo di Istanbul) firmò il trattato di Ouchy (Losanna) in virtù del quale la Turchia ritirava le proprie forze armate dalla Libia, lasciando il Paese all'Italia. Dopodiché la guerriglia della Senussia proseguì e - con l'aiuto di parte dell'esercito turco non rassegnato a rispettare le decisioni di Ouchy - avrebbe potuto crearci seri guai se le ripercussioni in loco della Prima guerra mondiale e un'epidemia di peste (tra il 1916 e il 1917) non ne avessero mortificato le ambizioni.

Così, terminato il grande conflitto, l'avventura della colonizzazione italiana in Libia poté riprendere. E procedere gradualmente alla conclusione che giustifica il titolo di un libro di Federico Cresti che l'editore Carocci si accinge adesso a dare alle stampe: Non desiderare la terra d'altri. La storiografia ci ha tramandato il racconto di un'Italia liberale che, dalla fine della guerra (1918) alla marcia su Roma (1922), tentò la via di una convivenza pacifica con i senussi e la popolazione locale; sarebbe stata poi l'Italia mussoliniana a riprendere la via delle armi. In parte le cose andarono così. Ma solo in parte. L'esperimento - successivo alla Prima guerra mondiale - di governo indiretto e di «associazione» dei locali, scrive Cresti, mostrò effettivamente «una volontà di conciliazione e di rispetto delle popolazioni della Libia che avrebbe forse potuto evitare, se applicata con continuità, gli eccidi e i disastri successivi». Ma già nel 1922, prima della marcia su Roma, all'epoca del governatorato di Giuseppe Volpi (quando era ministro delle Colonie Giovanni Amendola), da parte italiana, in Libia, si era tornati all'uso delle maniere forti. Sicché si può tranquillamente affermare che la seconda guerra italo-senussa, all'epoca enfaticamente presentata come la riconquista fascista della Cirenaica, era stata impostata prima dell'avvento del fascismo.

Anche se poi la stagione più cruenta del conflitto sarà riconducibile alla responsabilità del maresciallo Pietro Badoglio, il quale entrò sulla scena libica alla fine del 1928 affermando che non avrebbe dato tregua a chi non si fosse sottomesso («né a lui né alla sua famiglia né ai suoi armenti né ai suoi eredi») e a quella del generale Rodolfo Graziani, che dal marzo del 1930 diede avvio all'ultima e più dura fase di repressione della resistenza. In questo contesto furono organizzati spostamenti coatti di popolazione mai visti prima di allora. Scriveva Badoglio, poco dopo l'arrivo di Graziani: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben deciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa; non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa; ma oramai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo proseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». E Graziani prese l'ordine alla lettera, organizzando lo spostamento dell'intera popolazione della Cirenaica lungo la pianura costiera, tra il mare e le pendici dell'altipiano. Fu una marcia, in inverno, di centinaia e centinaia di chilometri. Si ebbe qualche gesto di pietà nei confronti delle popolazioni nomadi del Gebel? Pressoché nessuno. Badoglio così scrisse a Graziani nel 1932: «Non ricercare il rientro dei fuorusciti. È meglio perderli per sempre... Il Gebel deve essere dominato prevalentemente dal colono italiano... L'indigeno si convinca o, per meglio dire, si abitui a considerare quella (dei campi di concentramento lungo i territori costieri della Cirenaica e della Sirtica) come la sua destinazione permanente». Le direttive di Badoglio sul mantenimento delle popolazioni nei campi di concentramento, a meno che non fossero determinate da una precisa volontà di sterminio, erano insostenibili, osserva Cresti; «se si fossero concretizzate avrebbero portato, con ogni probabilità, alla progressiva distruzione delle popolazioni concentrate». Graziani fu più duttile.

Ma l'esito di quelle politiche fu in ogni caso drammatico. Impossibile calcolare con esattezza il numero dei morti, che furono numerosissimi. Oltretutto Badoglio ordinò di passare per le armi chiunque, tra i nativi, fosse stato trovato sul Gebel da dove la deportazione aveva avuto inizio. Nel settembre del 1931 Umar al-Muktar, l'anziano capo della resistenza (aveva quasi 70 anni), fu catturato e impiccato. Il 24 gennaio del 1932 Badoglio fu in grado di dichiarare che la ribellione era definitivamente stroncata e la Libia «del tutto pacificata». Secondo i dati ufficiali italiani i morti nelle operazioni contro la guerriglia erano stati, tra il 1923 e il 1932, 6.500. Ma già gli studiosi Giorgio Rochat e Angelo Del Boca, che negli anni passati hanno approfondito la questione, hanno calcolato che furono invece diverse decine di migliaia. Forse centomila. Molti, certo, anche se infinitamente meno di quelli indicati da esponenti politici libici contemporanei quali Salah Buissir (un milione e mezzo) o Gheddafi (750 mila) che corrisponderebbero nel primo caso al doppio, nel secondo alla quasi totalità della popolazione locale presente all'epoca del censimento ottomano del 1911. Ali Abdellatif Ahmida, uno studioso di origine libica che attualmente insegna negli Stati Uniti, stima che mezzo milione di suoi connazionali morì in battaglia o di malattia, fame e sete; altri 250 mila furono costretti all'esilio in Egitto, Ciad, Tunisia, Turchia, Palestina, Siria e Algeria. Un altro storico libico, Yusuf Salim al-Bargathi, sostiene che i morti per la deportazione furono tra i 50 e i 70 mila (laddove Rochat e Del Boca calcolano che furono circa 40 mila).

Il 13 agosto del 1932, su proposta del ministro per le Colonie Emilio De Bono, Luigi Razza viene nominato presidente dell'Ente per la colonizzazione della Cirenaica. Razza, già giornalista nel mussoliniano «Popolo d'Italia», sansepolcrista, ex segretario dei fasci d'azione, futuro ministro dei Lavori pubblici, vara un ambizioso piano per far giungere sul luogo italiani disposti al lavoro duro. Gente, in genere, con la fedina penale non immacolata. Non importa se pregiudicati a seguito di condanne politiche o per delitti comuni. Circostanza che costringerà in seguito Italo Balbo a «depurare», tra il 1938 e il 1939, quella corrente di immigrazione. Ma nella prima metà degli anni Trenta non si va per il sottile. Nel 1934 arriva in Cirenaica anche Amerigo Dumini, già condannato (anche se con una pena risibile: sei anni di cui quattro condonati) per l'uccisione, nel giugno del '24, di Giacomo Matteotti. Dumini, riarrestato in Italia per traffico d'armi, aveva cominciato a ricattare Mussolini e, su pressione del ministro dell'Interno Arturo Bocchini, era stato «accolto» in Libia. Arrivato lì, cominciò subito a lamentarsi dei terreni che gli erano stati assegnati e della riduzione dei finanziamenti che gli erano stati promessi. Poco dopo essere giunto in Libia, riprese a scrivere a Mussolini lettere sottilmente ricattatorie, i soldi arrivarono e nel giro di tre anni divenne un ricco possidente. Nel 1939 i terreni della sua azienda furono acquisiti dal governo della colonia e Dumini ne uscì con un lauto indennizzo. Restò in Libia dove, quando arrivarono gli inglesi, grazie alla sua padronanza della lingua (era nato negli Stati Uniti), per un breve periodo fece anche da interprete. Insomma se la passò più che bene. Ma per tutti gli altri che non avevano armi di ricatto nei confronti del Duce, fossero o meno pregiudicati, le cose andarono assai diversamente.

Pieno di difficoltà è già l'adattamento dei nuovi arrivati. Si registrano casi «di eccitamento delle varie funzioni organiche seguito da lieve stato depressivo... specialmente nel sesso femminile»; «qualche caso importante di malattia cronica... qualche caso di forme oculari contagiose croniche e qualche caso di tricofizia e di tigna, tutti però cronici e cioè non avvenuti per contagio con elemento indigeno»; frequenti disturbi artritici, malattie cardiache, lue; tra i bambini, linfatismo, scrofolosi, altre patologie cutanee, qualche sporadico caso di tubercolosi. A detta di Armando Maugini, che dirigeva l'Ufficio per i servizi agrari della Cirenaica, i pugliesi erano quanto di meglio l'Italia potesse offrire alla Libia per la loro capacità di affrontare la durezza delle condizioni di vita di quella fase pioneristica. «Il colono pugliese» scriveva Maugini in un rapporto «è molto indicato per tale tipo di colonizzazione, non solo per lo spirito di adattamento e per la notevole sobrietà, ma anche perché, essendo molto attaccato ai parenti, ed essendo proveniente da territori aventi requisiti agrologici molto simili a quelli del Gebel Cirenaico, esercita un'influenza di attrazione verso gli elementi rimasti nella Madrepatria, i quali pertanto potrebbero un giorno intensificare spontaneamente l'opera di popolamento delle zone già occupate dai pugliesi». Luigi Razza conferma: «La scelta delle famiglie è stata effettuata in un primo tempo nelle Puglie, e più largamente nel barese, perché il primo nucleo di sei famiglie di Corato trasferite al completo in colonia all'inizio delle attività, a titolo di esperimento, dettero ottimo risultato, e si ebbe quindi un primo punto di appoggio che avrebbe potuto funzionare come assimilatore qualora fossero stati messi a suo contatto elementi della stessa provenienza... I coloni sono già ambientati tutti benissimo e si sono attaccati alla loro terra, della quale hanno già potuto accertare le buone attitudini alla valorizzazione». In subordine vengono apprezzati abruzzesi e calabresi.

Le condizioni per avviare in colonia una nuova attività erano terribili. Agli inizi del 1935 una comunità di trenta pescatori fu trasferita a Zuetina. Ma già ai primi di giugno molti di loro chiedevano di tornare in Italia. L'isolamento e lo stato di abbandono della ridotta rendevano la vita assai difficile: un mobilio ridotto all'indispensabile, il pane che arrivava saltuariamente da Agedabia dove il piccolo forno funzionava poco e male per la mancanza di fornaio, farina e combustibile. Le imbarcazioni erano poche e si erano rovinate durante il tragitto dall'Italia. La calura lungo la costa sirtica, riferisce Cresti, era tale che già alla fine della giornata di lavoro una parte del pesce, ridotto in pessime condizioni, doveva essere buttata via. A terra le attrezzature di refrigerazione erano scadenti: uno dei locali della ridotta era stato trasformato in cella frigorifera, ma il ghiaccio disponibile era insufficiente. Ancor più difficile, prosegue Cresti, «si era dimostrata la vendita del pesce; la vettura disponibile non era attrezzata per il trasporto e si era dunque fatto ricorso ad un commerciante privato». Ma l'impresa si era rivelata poco remunerativa e il contratto era stato presto stracciato. In più i pescatori ebbero a lamentarsi dell'eccessiva fiscalità delle autorità locali dal momento che, una volta giunto a Bengasi e sottoposto al controllo dell'ufficio d'igiene, spesso il pesce era stato giudicato avariato e buttato via prima che potesse arrivare al mercato. Nel mese di settembre a Zuetina non rimanevano che quattro persone, anch'esse desiderose di rimpatriare al più presto. Nel tentativo di rilanciare l'esperimento furono presi contatti con una cooperativa di Trapani. Ma, a fine stagione, anche gli ultimi rimasti furono rimpatriati.

Il 1936 fu poi, in Tripolitania, causa la siccità, un anno pessimo per i raccolti. Si giudicò da quel momento un errore l'aver mandato in Libia famiglie numerose: la presenza di bambini e vecchi si era rivelata un peso morto per la bonifica. E si cambiò registro. Il 1938 fu l'anno dell'operazione cosiddetta dei «ventimila». Tanti dovevano essere, secondo Italo Balbo, i «non emigranti» da trapiantare in Libia. Perché «non emigranti»? Il fascismo aveva sempre fatto una politica antiemigratoria e non poteva smentirsi. Il trasferimento in Libia dei ventimila, racconta Cresti, «venne così presentato dai giornali italiani come l'esatto contrario di tutto ciò che era stata l'emigrazione sofferta fino ad allora da quanti partivano alla ricerca di condizioni di vita che l'Italia non poteva offrire: non più un evento triste, ma un'avventura eccitante - dove l'inatteso era fonte di curiosità e non di angoscia (ovvero dove l'inatteso, come fonte di angoscia, era eliminato) - piena di sorprese positive, allegra; non più separazione, unicamente, dal proprio ambiente di vita e dalla società in cui coloro che partivano erano vissuti fino ad allora, ma la possibilità di realizzare nuovi legami forti, di gruppo, con coloro che partecipavano allo stesso evento; non più continuazione della miseria nelle condizioni del viaggio, ma partecipazione al lusso della modernità; non più la prospettiva della penuria, ma quella dell'abbondanza; non più la fredda, sospettosa accoglienza riservata a stranieri alla frontiera, ma la manifestazione del calore di un'accoglienza fraterna in una terra che si affermava non essere più "Oltremare" ma parte costituente della madrepatria».

La partenza fu organizzata da Venezia il 28 ottobre, nell'anniversario della marcia su Roma. Grande fu la risonanza su tutti i giornali. Mussolini gradì fino a un certo punto l'enfasi che Balbo diede all'operazione. E, quando mancava meno di un anno all'inizio della Seconda guerra mondiale, cominciò a dare segni di insofferenza nei confronti dello stesso Balbo. L'Italia entrò in guerra solo nel giugno del 1940, ma l'andamento sfavorevole della stagione agricola aveva provocato notevoli difficoltà già alla fine del 1939. All'inizio del '40 si dovettero organizzare nuove spedizioni, in particolare di foraggio e di mangime per gli animali. Furono comprati più di mille buoi maremmani, ma molte bestie si ammalarono prima ancora di partire e dovettero sostare a lungo a Civitavecchia, con nuove spese per il foraggio che diventava sempre più caro. Il bestiame patì, nell'inverno del '40, di denutrizione a cui seguirono perdite di capi per mancanza di foraggio. Con il passare dei mesi, poi, era divenuto sempre più difficile trovare spazio per il trasporto delle merci. Nei mesi di aprile e maggio 1940 quasi tutte le navi erano state requisite per i servizi militari: in alcuni casi i beni e i materiali già imbarcati per la Libia erano stati scaricati a Siracusa e a Catania per liberare le navi. Un piroscafo carico di materiali agricoli partito da Genova nel mese di ottobre, a metà dicembre era ancora bloccato a Palermo in attesa di compiere la traversata. «In queste condizioni» nota l'autore «era sconsigliabile l'invio di merci deperibili, come le sementi o le talee di viti». Per cui, a ridurre le perdite, fu deciso di rivendere in Italia i materiali già acquistati per essere inviati in Libia. Una catastrofe.

L'Italia entra in guerra nel giugno del 1940 e il 28 di quello stesso mese cade, nel cielo di Tobruk, l'aereo su cui è imbarcato Italo Balbo (la morte desta qualche sospetto di un ancora non provato coinvolgimento di Mussolini). Prende il suo posto Rodolfo Graziani, che è subito impegnato dal Duce in un'offensiva contro l'Egitto. Segue, nei mesi di febbraio e marzo del 1941, la prima occupazione inglese che, scrive Cresti, «dette una violentissima scossa all'edificio ancora malfermo della colonizzazione in Cirenaica». Praticamente non c'è pace per la Libia che, quando dovrebbe raccogliere i primi frutti dell'opera dei «ventimila», si ritrova ad essere teatro di guerra. I coloni vengono presi dal panico e si accalcano all'istituto di credito per ritirare i risparmi, cercando di fuggire verso Tripoli e di rientrare in Italia. Man mano che avanzano le truppe alleate, gli arabi in loco - spalleggiati da un corpo senusso che combatte a fianco degli inglesi - saccheggiano ogni volta che gliene è offerta la possibilità. Si distinguono per assenza di scrupoli gli australiani. Scrive nel suo diario l'agronomo Paolo Sabbetta: «Militari australiani entrano, di giorno e di notte, nelle case coloniche chiedendo generi diversi pagandoli, alcuni, profumatamente, altri invece, quasi sempre ubriachi, saccheggiando e violentando le donne mentre tengono gli uomini a bada con le armi in pugno». E le testimonianze di queste violenze sono numerose. Dall'Italia il regime cerca di minimizzare e di promuovere l'immagine di una popolazione libica della Cirenaica solidale con i coloni. Ma tra il dicembre del 1941 e il gennaio del 1942 per gli italiani è l'inizio della disfatta. Ancora un anno terribile e il 23 gennaio del '43 le truppe britanniche fanno il loro ingresso a Tripoli. Tra Libia e Italia è interrotto ogni contatto. Qualche migliaio di italiani resta lì a lavorare fino alla fine della guerra e oltre. Anche dopo che nel '49 l'assemblea generale delle Nazioni Unite vota per il progetto di una Libia come Stato a sé e dopo la proclamazione, nel '51, dell'indipendenza. Va aggiunto che nel dopoguerra, venuta meno l'autorità italiana sulla regione, si registrano sanguinose manifestazioni arabe ostili alla comunità ebraica che era stata fin lì una colonna della presenza italiana, al punto che Balbo nel '38 aveva ottenuto una sorta di esenzione della Libia dalle leggi razziali.

I pogrom più sanguinosi saranno quelli del novembre 1945 (particolarmente raccapriccianti perché compiuti proprio nei giorni in cui, con l'uscita dei superstiti ebrei dai campi di concentramento d'Europa, il mondo veniva a conoscenza delle atrocità compiute nei lager nazisti) e del giugno del 1948, all'indomani della nascita dello Stato di Israele. Poi si ripeteranno nel 1967 all'epoca della guerra dei sei giorni. Nel 1956 un accordo tra Italia e Libia regola la presenza nella ex colonia dei nostri connazionali che si trasformano, la maggior parte, in piccoli possidenti. Ma saranno tutti cacciati dopo il colpo di Stato degli ufficiali liberi guidati da Gheddafi, che nel 1969 rovescerà la monarchia senussa. Nel frattempo la Libia, che ancora non conosceva la sua fortuna petrolifera, era tornata ad essere uno dei Paesi più poveri del mondo. I pastori-contadini della Cirenaica, una volta tornati sulle loro antiche terre, non potendo più avvalersi dei capitali, delle attrezzature e degli impianti italiani, avevano rapidamente ricondotto il Paese nel solco della tradizione. La Gran Bretagna, nel lungo periodo dell'amministrazione militare (1942-1951), aveva rifiutato di investire i propri soldi nella nostra ex colonia. E quando nel 1970 partirono gli ultimi italiani, il bilancio dei quasi sessant'anni di loro presenza in quella terra poteva vantare pochi punti al proprio attivo. Neanche quelli che hanno contrassegnato le esperienze coloniali negli altri Paesi del Terzo Mondo. Come se una punizione particolare si fosse abbattuta su chi aveva contravvenuto al comandamento inventato da Federico Cresti per il titolo del suo libro: Non desiderare la terra d'altri, appunto.

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Paolo Mieli

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« Risposta #4 inserito:: Settembre 23, 2015, 09:42:08 am »

Tsipras e la sinistra
Lezione di realismo da Atene

Di Paolo Mieli

L’ultimo giorno dell’estate 2015 passerà alla storia come il dì del trionfo di Alexis Tsipras, certo. Sul piano continentale, però, presto si capirà che le elezioni greche di domenica scorsa sono state vinte da Angela Merkel. È stata lei che ai primi di luglio ha preso per mano il leader di Syriza inducendolo a impiegare il successo conseguito al referendum in qualcosa di potenzialmente virtuoso per la Grecia e per l’Europa: l’accettazione delle dure condizioni per il terzo prestito europeo. Per ottenere l’assenso di Tsipras, la cancelliera tedesca ha dovuto convincere il suo ministro mastino Wolfgang Schäuble (che a leggere le memorie dell’ex segretario al Tesoro statunitense Tim Geithner voleva buttare Atene fuori dall’euro già dal 2012) e persino il vicecancelliere socialdemocratico Sigmar Gabriel che si era pronunciato per la cacciata dei greci, sia pure «solo» per un quinquennio. Ma ad essere decisiva, poco più di due mesi fa, è stata la velocità con la quale il capo del governo di Atene si è liberato del suo ministro Yanis Varoufakis e ha ratificato quella che, non senza malanimo, lo stesso Varoufakis oggi definisce la «resa del 13 luglio».

La storia è piena di leader di sinistra che, giunti al potere, si rendono conto di non poter mantenere le promesse elettorali e si vedono costretti a scaricare i deputati irriducibili prima di affrontare con la necessaria energia i problemi che si pongono. Con la necessaria energia e con modalità che quasi sempre non hanno alternative. Il caso più celebre - fatte le debite differenze con la Grecia - fu quello di François Mitterrand che vinse le elezioni presidenziali francesi del 1981, imbarcò nel governo presieduto da Pierre Mauroy i comunisti di Georges Marchais, suoi alleati, e fu costretto a contrattare con loro un gigantesco piano che prevedeva tra l’altro la nazionalizzazione di ben 729 aziende (contro le 1.400 pretese dal partito della falce e martello). Per qualche tempo Mitterrand vagheggiò addirittura di uscire dal Sistema monetario europeo. Nel marzo del 1983, il Presidente francese cambiò radicalmente il programma e ne adottò uno più consono alla bisogna; nel luglio del 1984 estromise dal governo i comunisti (reduci da una sconfitta alle elezioni europee e perciò felici di essersi liberati dell’ingrato fardello) e contemporaneamente cambiò anche il primo ministro Mauroy con il più docile Laurent Fabius. Troppo tardi. Alle elezioni politiche del 1986 il Partito socialista fu sconfitto e da quel momento Mitterrand dovette accettare la coabitazione con un primo ministro gaullista, Jacques Chirac che nove anni dopo gli sarebbe succeduto all’Eliseo. Mitterrand ci ha messo dai due ai tre anni prima di abbandonare l’ambizioso programma del 1981 e passare a fare i conti con la realtà. Il saldo di questo ritardo lo ha pagato la sinistra francese con una terribile batosta elettorale. Tsipras ci ha messo sei mesi ed è stato compensato con una clamorosa vittoria da un elettorato, il suo, che avrebbe avuto molte opportunità di scelte alternative e invece ha puntato su di lui.

A questo punto del discorso giunge puntualmente un’obiezione a cui ormai siamo abituati: vogliono dire queste considerazioni che un leader «di sinistra» può solo rassegnarsi a fare politiche «di destra»? No. Vogliono dire che in una stagione di crisi, se non ci si vuole abbandonare a una deriva sudamericana, le cose da fare sono pressoché segnate e alla sinistra tocca il compito enorme di farle e di difendere ad un tempo i diritti dei più deboli. Angela Merkel nel luglio scorso ha indicato a Tsipras la via per far riaprire le banche e per pagare gli stipendi pubblici a fronte dell’impegno a osservare le regole come tutti gli altri paesi europei. E il capo di Syriza - il quale sa di essere alla guida di un Paese in cui la sua pari grado del Pasok, la cinquantenne Fofi Gennimata, nel 2014 ha potuto mettersi in pensione (anche se adesso, da parlamentare, ha sospeso il ritiro dell’assegno) - ha preso l’impegno di stare ai patti imposti dal memorandum europeo. Del resto hanno scritto sul Wall Street Journal Jeremy Bulow e Kenneth Rogoff: «Rigettare le richieste di maggiore austerità da parte dei creditori suona bene; ma chi esattamente pagherebbe la minore austerità?». Nell’Unione europea ci sono dodici stati più poveri della Grecia, nell’eurozona sono sei su diciannove: perché un operaio di uno di questi Paesi dovrebbe lavorare un’ora in più per pagare la pensione alla giovane signora Gennimata?

Passato il mese di agosto, adesso anche Varoufakis riconosce alla Merkel, dopo l’atteggiamento che lei ha preso sull’immigrazione, «un incredibile livello di leadership». All’ex ministro greco dell’Economia ancora bruciano le sarcastiche parole con cui lo accolse Schäuble al loro primo incontro: «Per un politico come me è sempre un onore incontrare un accademico, un professore come lei». Gli risponde ora con una punta di veleno: «Mi piacerebbe che Berlino chiedesse alle sue imprese di stare lontane dai saldi greci». Intende dire che Schäuble, quantomeno per questioni di stile, dovrebbe dire apertamente ai tedeschi di astenersi dal prender parte a salvataggi e privatizzazioni del Paese che Tsipras dovrà rimettere in carreggiata. E, per rendere a Varoufakis l’onore delle armi, va detto che si tratta di una considerazione inappuntabile.

22 settembre 2015 (modifica il 22 settembre 2015 | 07:17)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_settembre_22/lezione-realismo-atene-505338be-60e6-11e5-9c25-5a9b04a29dee.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 08, 2015, 12:01:05 pm »

Condanne a morte
Il silenzio italiano sui sauditi
Il presidente francese Hollande si è invece pronunciato per salvare la vita al giovane oppositore Ali Mohammed al Nimr.
In Arabia Saudita in un anno 175 esecuzioni

Di Paolo Mieli

Non ha mandato soltanto i caccia Rafale a bombardare le basi dell’Isis in Siria, il presidente francese François Hollande si è anche solennemente pronunciato perché sia salvata la vita di Mohammed al Nimr. Il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, non ha fatto né una cosa, né l’altra. E se possiamo capire le ragioni di prudenza che hanno determinato la scelta di non correre il rischio di provocare un secondo «caso Gheddafi» (cioè l’abbattimento di una tirannide senza calcolare gli effetti di questa nobile impresa), non riusciamo a comprendere i motivi del mancato pronunciamento sul caso che riguarda l’Arabia Saudita. Tanto più che il giornale del Pd, L’Unità, si è meritoriamente impegnato, per la penna di Umberto De Giovannangeli, in questa battaglia civile. Scriviamo «meritoriamente» perché in generale la pena di morte fa notizia - soprattutto sulla stampa di sinistra - solo quando è inflitta negli Stati Uniti. Se invece è eseguita in un Paese arabo che è o potrebbe essere nostro alleato o partner commerciale, allora ci si distrae. Pessima usanza che non giova alle campagne internazionali contro la pena di morte.

Ali Mohammed al Nimr, nipote di un assai famoso oppositore sciita al regime dell’Arabia Saudita, aveva 17 anni quando, nel febbraio 2012, venne arrestato per aver preso parte a una manifestazione nella provincia di Qatif, ed è stato condannato a morte il 27 maggio scorso. Tra il 1985 e il 2013 oltre duemila persone sono morte in Arabia Saudita sotto la scure del boia. D a agosto 2014 a giugno 2015 le decapitazioni sono state, secondo Amnesty International, 175, una ogni due giorni. Degli uccisi, circa la metà erano stranieri che, non disponendo di un adeguato servizio di interpreti, mediante tortura venivano indotti a firmare confessioni per loro incomprensibili. Il ritmo delle esecuzioni si è intensificato al punto che nel maggio scorso è stato pubblicato un bando per il reclutamento di otto nuovi «funzionari religiosi» da adibire al taglio delle teste. Lo scrittore Tahar Ben Jelloun ha minuziosamente descritto cosa accadrà ad Ali al Nimr il giorno dell’esecuzione: «sarà decapitato, poi crocifisso, e infine lasciato agli uccelli rapaci e alla putrefazione». Come accadde, scrive Ben Jelloun, al grande poeta sufi del decimo secolo, Al Halla: il suo corpo fu evirato, crocifisso e lasciato marcire al sole. Un’abitudine non nuova, dunque.

E non c’è solo al Nimr. Il blogger Raif Badawi è incarcerato a Gedda dove deve scontare una pena a dieci anni di prigione. Il tutto su una base d’accusa di apostasia per aver cliccato «mi piace» su una pagina Facebook di arabi cristiani e per aver, su un suo blog Saudi Free Liberals Forum, mosso qualche critica (che nella sentenza viene definita «insulto») ad alcune personalità politiche e religiose. Gli viene rimproverato anche di «aver riportato alcune citazioni dai libri di Albert Camus». E per aver menzionato Camus, alla galera si accompagna, da quest’anno, una pena aggiuntiva: un migliaio di colpi di verga (Mille frustate per la libertà è il titolo del libro scritto da sua moglie Ensaf Haidar, rifugiata in Canada, dove si parla di questo ulteriore «dettaglio»). Dall’inizio del 2015 Raif riceve con regolarità una quantità terribile di colpi di sferza: cinquanta ogni «santo venerdì dell’Islam». E il supplizio continuerà finché, appunto, le frustate non saranno state mille. In una lettera al settimanale tedesco Der Spiegel, pubblicata a marzo, Raif ha raccontato di aver ricevuto la prima dose di scudisciate al cospetto di una folla plaudente di fronte alla moschea di Gedda e di non spiegarsi come è riuscito a essere sopravvissuto ai cinquanta colpi di un «bastone di legno bianco» con cui è stato battuto in ogni parte del corpo. E qui va fatta un’osservazione: l’11 gennaio scorso, due giorni dopo che Raif aveva ricevuto la sua prima razione di frustate, l’ambasciatore saudita a Parigi partecipava contrito alla manifestazione di solidarietà per gli uccisi della redazione di Charlie Hebdo. Grande e pressoché unanime fu il plauso mondiale per l’iniziativa di pubblico cordoglio senza che nessuno rilevasse quell’impropria presenza.

In giugno poi, meno di un mese dopo la condanna a morte di Ali al Nimr, il saudita Faisal bin Hassan Trad è stato nominato presidente del gruppo consultivo del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. E sono stati pochissimi a sollevare obiezioni. Ma le contraddizioni non si fermano qui. La scrittrice egiziana Nawal El Saadawi si è unita alla campagna dell’Unità a favore di Ali al Nimr: «Di fronte a vicende come la sua», ha scritto, «non è possibile accettare un’indignazione a corrente alternata: giustamente l’Occidente ha condannato con la massima durezza, almeno a parole, i tagliagole dell’Isis, inorridendo di fronte alle decapitazioni filmate. Ma anche il giovane saudita, se la comunità internazionale non agirà su Riad, sarà decapitato e crocifisso su una pubblica piazza. Forse non ci sarà un video che immortalerà questa barbarie, ma la sostanza non cambia».
Infine, su sollecitazione dei radicali torinesi il sindaco della città Piero Fassino, il presidente della Regione Sergio Chiamparino e l’assessore alla Cultura Antonella Parigi hanno chiesto al Salone del libro di rigettare l’ipotesi «scellerata» (così l’ha definita il partito di Marco Pannella) che l’Arabia Saudita sia «ospite d’onore 2016» del Salone stesso. La decisione definitiva sarà presa il 6 ottobre. Speriamo bene.

30 settembre 2015 (modifica il 30 settembre 2015 | 07:30)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_30/silenzio-italiano-sauditi-c8571f9a-672d-11e5-9bc4-2d55534839fc.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 08, 2015, 12:11:05 pm »

L’Occidente e Assad
Un despota alleato inevitabile

Di Paolo Mieli

Non c’è soltanto Romano Prodi. Anche l’ex ministro degli Esteri francese, fondatore di Médecins Sans Frontières, Bernard Kouchner, pur non avendolo mai apprezzato, ha riconosciuto che, nella partita siriana, il leader russo si è dimostrato «un grande giocatore di scacchi» e che «in questa fase sembra avere sempre una lunghezza d’anticipo». Laddove l’altro giocatore sarebbe il presidente degli Stati Uniti. In effetti c’è qualcosa che non torna nella strategia anti Isis dell’Occidente. Punto primo: definiamo il Califfato «nuovo nazismo», con ciò conferendogli - se le evocazioni storiche hanno un senso - il rango di nemico numero uno.

A questo punto la logica imporrebbe di considerare alleati pro tempore o in ogni caso non nemici tutti quelli che si oppongono all’Isis. A cominciare dal despota siriano Bashar al Assad (stendendo momentaneamente un velo sulle sue nefandezze scrupolosamente riepilogate qualche giorno fa sul Foglio da Daniele Raineri). Quell’Assad il cui potere adesso vacilla e che evidentemente Obama ritiene conveniente sia tolto di mezzo per bilanciare un fattivo impegno contro le milizie di al Baghdadi. Una bizzarria.

Come se, ai tempi dell’assedio di Stalingrado (luglio 1942-febbraio 1943) inglesi e statunitensi avessero sotto sotto tifato per la contemporanea sconfitta del generale von Paulus e del maresciallo Zukov. Anzi come se - in considerazione del fatto che ancor prima dell’ascesa al potere di Hitler (30 gennaio 1933) Stalin aveva già provocato la morte di almeno tre milioni di persone, tre le stava facendo fuori nel genocidio ucraino, e altre sei le avrebbe sterminate nel corso degli anni Trenta - come se, dicevamo, nell’ottobre del ‘42, allorché i tedeschi portarono gli scontri dentro la città che prendeva il nome da Stalin, gli angloamericani si fossero compiaciuti nel veder vacillare il potere sovietico. Invece i loro sentimenti furono opposti. E lo furono nonostante, ripeto, considerassero il dittatore georgiano alla stregua di un Satana e gli imputassero anche di aver facilitato quell’aggressione nazista alla Polonia da cui aveva avuto origine la Seconda guerra mondiale.

Certo, americani e inglesi all’epoca erano legati da un patto d’alleanza con i sovietici, ma erano consapevoli (quantomeno lo era Churchill) del fatto che, quando Hitler fosse stato debellato, il confronto con il leader del comunismo mondiale sarebbe stato assai duro. E seppero scegliere. Ebbero il coraggio di scegliere. L’Occidente di oggi no. Lancia proclami altisonanti contro l’Isis e sostiene milizie locali che si battono contro più di un nemico alla volta e che, fatta eccezione per quelle curde, non appaiono in grado di ottenere grandi risultati .

E come potrebbero ottenerli? Dove si reclutano persone disposte a combattere? Il New York Times ha calcolato che dal 2011 a oggi si siano trasferiti in Iraq e Siria circa trentamila foreign fighter, provenienti da oltre cento Paesi, per fare la guerra dalla parte dell’Isis. Thomas L. Friedman si è domandato se ha un senso che noi, per reclutare combattenti «nostri», andiamo alla ricerca dei moderati locali, «come un rabdomante fa per l’acqua con una bacchetta in mano». Se ha un senso doverli istruire, dal momento che nessuno deve addestrare i jihadisti i quali affluiscono in così gran numero e per giunta sono «ideologicamente incentivati». Ammettiamolo: «non esiste alcuna massa critica di siriani animati da ideali», scrive Friedman; «sì, combatteranno per le loro case e le loro famiglie, ma non per un ideale astratto quale la democrazia».

Noi «cerchiamo di sopperire a ciò con l’“addestramento” militare, ma non funziona mai». Esistono, chiede ancora Friedman, «veri democratici nell’opposizione siriana? Potete scommetterci, ma non sono abbastanza e non sono organizzati, motivati e spietati quanto i loro nemici». E si può immaginare che Friedman pecchi di ottimismo: ammesso che quel ceto medio riflessivo di Damasco esista davvero, si deve ritenere che sia già emigrato in Europa o si accinga a farlo, anziché impegnarsi in un’impresa alquanto ardua qual è quella di impugnare le armi. Soprattutto in quella parte del mondo.

Ancor più ottimista ci è parso poi Bernard-Henri Lévy, reduce da un viaggio in loco. Nell’anniversario dell’11 Settembre, Lévy ha pubblicato un articolo in cui ripeteva una dozzina di volte, a ogni capoverso, che quelli dell’Isis «saranno sconfitti». «Saranno sconfitti perché le truppe del presidente Barzani possono riprendere Mosul quando vogliono: i piani sono pronti; gli uomini sono pronti; basterà qualche ora per riconquistare la pianura di Ninive e consentire ai cristiani e agli Yazidi di ritrovare le loro case razziate. Le truppe aspettano un segnale, uno solo per sapere quando i sunniti rimasti a vivere sotto l’Isis ne avranno abbastanza di quei gangster e di quei teocrati assassini», i quali «finiranno come i khmer rossi con l’uccidersi a vicenda nella più grande confusione». «Saranno sconfitti infine perché la coalizione internazionale che si batte al fianco dei curdi un giorno si deciderà a dare il colpo di grazia».

Un giorno? Più o meno quando? È senz’altro lodevole l’intento di infondere speranza nei cuori dei lettori che poco conoscono delle dinamiche di quel conflitto. Ma è pericoloso spargere l’idea che nell’area del Daesh (è il nome che lo Stato Islamico dà a se stesso) la vittoria sia a portata di mano. Perché se poi le cose, di qui a qualche mese, non dovessero andare nei modi annunciati da Bernard-Henry Lévy, c’è il rischio che in quegli stessi lettori subentri un senso di demoralizzazione. E lo sconforto, com’è noto, è meno effimero dell’euforia.

6 ottobre 2015 (modifica il 6 ottobre 2015 | 07:00)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_06/siria-assad-desposta-alleato-inevitabile-occidente-6089a2c2-6be5-11e5-bbf5-2aef67553e86.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 04, 2015, 05:53:49 pm »

Tavecchio (ma non solo) e le crudeli «battute» sugli ebrei
Di Paolo Mieli

Due mesi fa, Sajid Javid, ministro britannico delle Attività produttive, si è detto testimone del fatto che ad alcune cene nei quartieri benestanti di Londra prendono parte «persone rispettabili della classe media che avrebbero un sussulto di orrore se fossero accusate di razzismo ma in quelle occasioni sono assai felici di ripetere calunnie sugli ebrei». Chissà se in qualcuno di quei convivi Javid ha incontrato il presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio, Carlo Tavecchio.

Più probabile che le «battute» sull’«ebreaccio» Cesare Anticoli e sugli israeliti che «è meglio tenere a bada» come, a suo dire, avrebbe suggerito Umberto Eco (questa poi è, se possibile, ancora più stravagante) le abbia riservate per il direttore di Soccerlife Massimiliano Giacomini. Un’esclusiva per noi italiani, insomma. Come anche le sue parole sui gay: «Io non ho nulla contro, però teneteli lontano da me; io sono normalissimo».

Non ci fossero state le sue precedenti sortite sui neri «mangiabanane» e sulle donne che «fino a qualche tempo fa si riteneva fossero handicappate», avremmo potuto pensare a un, pur gravissimo, incidente. Ma adesso siamo costretti a constatare che c’è del metodo in Carlo Tavecchio. Un metodo reso ancora più evidente dalle successive espressioni di rammarico: «È un ricatto», «Ho ottimi rapporti con la comunità ebraica», «Ho sostenuto la posizione di Israele nell’ultimo congresso della Fifa».

Manca solo quel che comunemente si sente ripetere in circostanze del genere: la mia famiglia fu contraria alle leggi razziste del 1938, abbiamo dato riparo a degli ebrei all’epoca delle persecuzioni naziste, il mio migliore amico degli anni di gioventù portava orgoglioso la kippah. Povero Tavecchio, ad ogni evidenza non sa quel che dice. E che sia giunto per lui il tempo di ritirarsi a vita privata, lo si è capito allorché dal Parlamento è scattato in sua difesa l’onorevole Carlo Giovanardi che da anni si distingue nel pervicace patrocinio delle cause più stravaganti. Il parlamentare ha dichiarato che contro il dirigente sportivo si sarebbe messa in movimento una «polizia dei costumi» intenzionata a procedere al suo «linciaggio». Ha poi rimarcato che in difesa di Tavecchio si sarebbero schierati l’ambasciatore di Israele Naor Gilon e Vittorio Pavoncello, presidente del Maccabi Italia, laddove i due si sono limitati a ricordare che Tavecchio si era opposto a una mozione palestinese per l’esclusione delle squadre israeliane dalle competizioni calcistiche. «Sul resto - ha precisato Gilon - non entro nel merito». Non sembra una gran difesa. Cosicché anche di Giovanardi si può dire che non misura alla perfezione le parole che pronuncia.

A questo punto però la cosa più sciocca sarebbe quella di pensare che quello del capo della Federcalcio sia un caso isolato e chiuderla qui. Pochi giorni fa sono state pubblicate alcune intercettazioni in margine alla vicenda dell’Ospedale israelitico di Roma, una truffa sui rimborsi per la quale la Regione Lazio intende adesso recuperare otto milioni di euro (chiede cioè la «restituzione» di un milione per ogni anno di spese fuori controllo, dal 2006 al 2013) e che ha portato all’arresto dell’ex direttore Antonio Mastrapasqua. Tramite una sua collaboratrice, Mastrapasqua cercava di convincere il recalcitrante Riccardo Pacifici (all’epoca presidente della comunità ebraica romana) che la richiesta di chiarimenti su quei rimborsi era frutto di un complotto dei fedayn. Con l’insinuazione che la dirigente della Regione che chiedeva lumi, Flori Degrassi, fosse «non filopalestinese, ma proprio Hamas al cento per cento». In altre parole una devota non già di Abu Mazen, bensì di Khaled Meshaal. C’è da domandarsi: e anche se fosse? Che c’entra con la richiesta di informazioni su conti che non tornano? Ma non è tutto. Dal momento che la comunità ebraica non intendeva accogliere la richiesta di dichiarare una sua supplementare guerra a Meshaal per interposta Degrassi, i dirigenti dell’Israelitico decidevano di passare a una sollecitazione ancor più impegnativa. In un colloquio tra il primario di geriatria, Stefano Zuccaro, e il direttore sanitario dell’Israelitico Luigi Spinelli, i due provano ad alzare la posta: «La questione è politica e la comunità deve mettere sul piatto della bilancia la Shoah», suggerisce il primo; «Sì, sì, devono comincia’ a fa’ i piagnoni come sanno fare benissimo», concorda il secondo.

Colpiscono varie cose in questo mini dibattito tra i dirigenti del nosocomio che, ne siamo sicuri, in più di un’occasione si saranno dichiarati grandi amici del popolo ebraico. In primo luogo, come è evidente, la noncuranza con cui si prova a toccare il nervo sensibile della tensione tra Israele e i palestinesi nell’assai modesto intento di evitare i controlli della Regione sulle loro spese. Una sproporzione destinata ad aumentare a dismisura quando si alza l’asticella fino alla Shoah. Potevano davvero pensare questi signori che rappresentanti ufficiali della comunità ebraica avrebbero potuto «fa’ i piagnoni» sul più grande, incommensurabile dramma del Novecento al fine di evitare accertamenti sulle loro attività? Che considerazione hanno degli appartenenti al mondo che li aveva voluti a quel posto? È questo il punto. Dal momento che può darsi che nei processi Mastrapasqua e i suoi amici vengano assolti o in qualche modo se la cavino riuscendo a dimostrare l’assenza di dolo in materia di conti maggiorati. Ma quelle loro parole contengono un tasso di cinismo e di crudeltà che in un Paese civile non dovrebbe essere lasciato passare sotto silenzio. È quello che viene fuori dalle cene londinesi denunciate dal ministro Javid. È ciò che si intravede sullo sfondo delle «battute» di Tavecchio. E che prende un’orribile consistenza nelle parole dei sodali di Mastrapasqua. Anche se questi ultimi godranno di minori luci della ribalta dal momento che in loro difesa, almeno per il momento, non ha ritenuto di pronunciarsi l’onorevole Giovanardi.

3 novembre 2015 (modifica il 3 novembre 2015 | 08:25)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_03/tavecchio-ma-non-solo-crudeli-battute-ebrei-faf1a458-81f3-11e5-aea2-6c39fc84b136.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Novembre 15, 2015, 08:48:26 pm »

IL COMMENTO
Gli attentati di Parigi e il tempo perduto
Undici mesi fa l’assalto al settimanale «Charlie Hebdo».
Lasciamo passare qualche settimana e vedremo chi ha appreso davvero la lezione del teatro Bataclan

Di Paolo Mieli

Questa volta, per carità, evitiamo di consolarci urlando «Siamo tutti al Bataclan». Sappiamo come andò undici mesi fa dopo l’attentato a Charlie Hebdo: due settimane di lutto e poi tutto tornò come prima. Per parlare del grado di consapevolezza a cui si era giunti giova ricordare che nei giorni precedenti alla sanguinosa notte di Parigi alcuni intellettuali francesi avevano trovato da ridire sul fatto che François Hollande avesse rifiutato di bandire il vino da una cena a cui era stato invitato l’iraniano Hassan Rouhani (era già accaduto nel 1999 con Jacques Chirac e Mohammed Khatami). Un piccolo episodio, certo. Che vale però un encomio al Presidente francese per il rifiuto a una di quelle forme di cedimento culturale e di sottomissione sempre più diffuse in Occidente e soprattutto in Europa.

Ma torniamo al gennaio scorso. A ridosso dell’attacco islamico a Charlie Hebdo, la Oxford University Press ritenne di emanare «linee guida» per i suoi autori in cui raccomandava di eliminare le parole «maiale» e «carne di maiale» (in tutte le forme: salsicce, salame, prosciutto e così via) nei testi scolastici «in modo da non offendere musulmani ed ebrei».

Molti israeliti presero le distanze dall’improvvida iniziativa. Passano cinque mesi e (come ha ben ricordato Pierluigi Battista) sei membri del Pen Club, Peter Carey, Michael Ondaatje, Francine Prose, Teju Cole, Rachel Kushner e Taiye Selasi si sono dissociati dal conferimento di un premio a Charlie Hebdo. A loro si sono uniti altri scrittori tra i quali Joyce Carol Oates con questa dichiarazione: «L’unica satira che conosco bene è quella inglese del Diciottesimo secolo, in particolare quella di Jonathan Swift che era a favore dei deboli irlandesi contro i potenti inglesi. La sua sì che è una satira indignata, morale e immaginata in maniera brillante. Nessun paragone con le vignette di Charlie Hebdo». «C’è una sporca, viscida correttezza politica qui», si scandalizzò il regista David Cronenberg. Inascoltato. Solo Ian McEwan ha protestato poi per il fatto che la Brandeis University avesse ritirato l’offerta di una laurea honoris causa ad Ayaan Hirsi Ali: qui ormai evitiamo di schierarci con Charlie Hebdo «perché potrebbe sembrare che approviamo la “guerra del terrore” di George Bush», ha detto. Secondo McEwan un tale atteggiamento va considerato come frutto di un «tribalismo intellettuale soffocante». Inascoltato anche lui.

Ha avuto molta più eco la scrittrice tunisina Azza Filali quando ha spiegato perché secondo lei Seifeddine Rezgui, aveva provocato, a fine giugno, l’orrenda strage sulla spiaggia di Sousse: Seifeddine, secondo l’autrice di Ouatann , era un ragazzo povero di Gaafour appassionato di danza che si era «offerto volontario per iniziare altri adolescenti della sua regione». Ma ecco che «un piccolo burocrate del comune prende una decisione amministrativa tanto rigida quanto imbecille»: fa chiudere la sala che serviva al ragazzo per allenarsi e dare lezioni ai compagni». «Cosa resta da amare a ventitré anni quando non si hanno mezzi ma tantissimi sogni?», si domandava Azza Filali. Per poi trarre questa morale: «Il killer di Sousse riassume in sé tutti gli elementi del fallimento di un sistema educativo che ha chiuso le porte agli studi umanistici e all’arte e ha condannato la danza, un’attività ove il corpo esulta». Ecco come e perché si diventa terroristi nel mondo islamico. E quanto a Charlie Hebdo, ha voluto aggiungere di recente Régis Debray, evitiamo di trasformarlo «in un erede di Carlo Magno». A luglio, il nuovo direttore di Charlie Hebdo Laurent Sourisseau (che ha preso il posto dell’ucciso Stéphane Charbonnier), capisce l’antifona e annuncia a Stern che non pubblicherà più vignette dedicate a Maometto o all’Islam. Dopodiché la sua rivista ha dato alle stampe una copertina con la quale ironizzava su Aylan, il bambino in fuga dalla Siria, trovato senza vita sulla spiaggia di Bodrum: «C’est la rentrée», era il titolo per una volta assai poco dissacrante del settimanale. A settembre, il cabarettista olandese Hans Teeuwen, amico del regista di Submission Theo van Gogh ucciso ad Amsterdam nel 2004 (ne aveva tenuto l’orazione funebre impegnandosi a continuare la battaglia contro i «fascioislamici»), annuncia che non si occuperà più di Islam nella sua satira.

E noi italiani? In circostanze di questo genere lasciamo passare il momento del cordoglio e poi annunciamo al mondo che il nostro contributo alla lotta al terrorismo è imperniato su un piano per il ristabilimento dell’ordine in Libia. Un piano che, per merito di noi italiani, è prossimo a realizzarsi. Ma Bernardino León il diplomatico spagnolo che per conto dell’Onu ha seguito fino ad ora le trattative di pace nel Paese che fu di Gheddafi, ha testé abbandonato il campo rivelando di aver accettato già dal mese di giugno il ruolo di direttore generale dell’«accademia diplomatica» di Abu Dhabi dove la sua famiglia si è prontamente trasferita. A dire il vero, il Guardian ha raccontato che a giugno era stata fatta a Leon una prima offerta e lui aveva chiesto più soldi. Il compenso soddisfacente sarebbe adesso di cinquantamila euro mensili (più spese di alloggio e varie). È stata anche resa pubblica una mail del rappresentante dell’Onu al ministro degli Esteri di Abu Dhabi, Sheik Abdullah bin Zayed, in cui è scritto: «Come lei sa non penso di restare a lungo ... Sono considerato come sbilanciato a favore di Tobruk; ho consigliato gli Usa, il Regno Unito e la Ue di lavorare con voi». Insomma León strizzava l’occhio a uno dei contendenti. E il presidente del Parlamento di Tripoli, Nouri Abu Sahmain dice adesso che approvare il suo piano equivarrebbe a «offendere i martiri della rivoluzione libica». Solo Angelo Panebianco su queste pagine e pochissimi altri si sono scandalizzati per questo caso increscioso.

Tristi storie di quelli che si dissero «Charlie». Se in queste ore di lutto vogliamo darci coraggio, ricordiamo il giorno in cui Hollande ha conferito la legion d’onore ai tre cittadini americani (Spencer Stone, Anthony Sadler, Alek Skarlatos) e al britannico Chris Norman che sabato 22 agosto bloccarono disarmati il ventiseienne terrorista marocchino Ayoub al-Quazzani mentre era in procinto di compiere un attentato nel treno superveloce sulla linea Amsterdam Parigi. Il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve aveva provato a dire che il primo ad aver «individuato» l’attentatore era stato un «cittadino francese». E pudicamente aveva evitato di soffermarsi su quegli uomini del personale che si erano blindati in uno scompartimento e avevano rifiutato di aprire la porta ai passeggeri impauriti. Che dire? Che al momento della verità i comportamenti dei concittadini di quegli eroi del treno sono, in genere, più coerenti. Quanto a noi, stavolta lasciamo passare qualche settimana e vedremo chi ha appreso davvero la lezione del teatro Bataclan.

15 novembre 2015 (modifica il 15 novembre 2015 | 07:47)
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« Risposta #9 inserito:: Novembre 30, 2015, 03:02:05 pm »

Aiutare i «moderati»
La guerra culturale al terrore

Di Paolo Mieli

Cosa vuol dire impegnarsi in una guerra culturale contro gli jihadisti? Per cominciare, significa aiutare coloro che, nel mondo islamico, sono impegnati a costruire un campo aperto all’interlocuzione con chi non segue la legge del Corano. Stiamo parlando di quello che convenzionalmente viene definito «Islam moderato», pur nella consapevolezza che di moderato c’è assai poco nelle realtà statuali o politiche a cui ci stiamo riferendo. Del resto abbiamo usato talmente tante volte quello stesso aggettivo per qualificare impropriamente formazioni d’ogni tipo presenti nel nostro Paese, che una in più non può farci male. In particolare se ci intendiamo, quantomeno approssimativamente, sul significato che diamo a quel termine. E allora, riprendendo il discorso iniziale, dobbiamo dirci apertamente che abbiamo fatto male a lasciar cadere le manifestazioni «not in my name» che il 21 novembre hanno portato in piazza a Roma e a Milano qualche centinaio di «islamici moderati». È vero, i partecipanti sono stati pochi, molto pochi. E qualche goccia di pioggia non basta a spiegare l’esito piuttosto deludente di un’iniziativa peraltro assai ambiziosa. Ma è stata la prima volta dopo qualche decennio di invocazioni a idee di quel genere che qualcosa ha poi preso corpo. E merita siano ricordati i nomi delle persone a cui l’accaduto è riconducibile: Khalid Chaouki, Izzedin Elzir, Abdellah Radouane, Mohamed Guerfi, Abdallah Massimo Cozzolino.

E ancora: il presidente di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, il segretario dei radicali Riccardo Magi. Più altri islamici e un gruppo abbastanza nutrito di politici e sindacalisti italiani (Casini, Camusso, Cicchitto, Manconi, Della Vedova, Fassina, Landini) che, proprio a ragione della sua eterogeneità, costituisce un positivo segnale dell’assenza, per una volta, di quelle partigianerie che tutto vorrebbero ricondurre al tran tran italiano.

Fossimo davvero impegnati non dico in una guerra ma almeno in una battaglia culturale contro lo jihadismo, non avremmo reagito a quella scesa in campo con un’alzata di spalle e qualche ironia. Semmai avremmo fatto osservare agli organizzatori che decidere di dare la parola in pubblico soltanto a uomini è stato un gravissimo errore. Un errore in sé e anche per l’evidente motivo che il ruolo subalterno in cui sono tenute le donne nel mondo islamico (compreso, anzi forse soprattutto, quello non radicale) è di ostacolo all’allargamento e all’espansione del campo «moderato».

Ma c’è dell’altro. Molti degli intervenuti hanno lamentato una disparità di trattamento tra musulmani e non. Ai primi sarebbe stata chiesta una dissociazione dal loro mondo, mentre per i cristiani questo non sarebbe accaduto neanche in «circostanze simili». Una ragazza di Roma convertita all’Islam più di vent’anni fa, Amina Salina, ha denunciato (su La Stampa) che «quando c’è stato Breivik che ha fatto tutti quei morti» nessuno ha chiesto ai cristiani di discolparsi. Amina si riferiva al trentaduenne Anders Breivik che nel luglio del 2011 uccise settantasette persone a Oslo e sull’isola di Utoya e l’anno successivo è stato condannato per quell’ecatombe a ventuno anni di prigione (massimo della pena previsto in Norvegia). Riferimento che curiosamente è tornato spesso in questi giorni: lo spirito di Breivik è entrato in più di un’occasione nel dibattito sul dopo Bataclan. Olivier Roy (su questo giornale) ha detto che gli assassini del 13 novembre gli ricordano l’assassino di Utoya in «modo impressionante»: «Uccidevano con sguardo freddo, con calma e metodo, senza neanche manifestare odio». Il «nichilismo, la rivolta radicale e totale, è - secondo Roy - comune a tutti questi episodi e in Europa prende la forma del jihadismo tra alcuni musulmani di origine o convertiti». Jürgen Habermas (su Repubblica) è riandato anche lui con la memoria a Utoya e ha suggerito di comportarci come fecero i norvegesi in quell’estate del 2011: resistettero «al primo riflesso, alla tentazione di ripiegarsi su se stessi di fronte a un’incognita incomprensibile, di dare addosso al nemico interno».

Curiosa comparazione che, pure, può offrire elementi per riflessioni non improprie. Ma alquanto strana dal momento che - tornando a quel che ha detto Amina - Breivik non aveva in alcun modo un rapporto con il mondo cristiano paragonabile a quello che gli attentatori del Bataclan avevano o, quantomeno, dicevano di avere con quello musulmano. È vero che nel suo memoriale di 1.518 pagine Breivik si era definito «salvatore del cristianesimo»; ma è vero altresì che i magistrati norvegesi lo giudicarono «affetto da disturbo narcisistico della personalità» mettendo in evidenza come la sua opera di «salvazione del mondo cristiano» fosse tutta incentrata su un’aperta polemica contro papa Benedetto XVI. Allora in che senso e perché un cattolico avrebbe dovuto prendere le distanze da lui?

E siamo al punto dell’inizio: una battaglia culturale consiste nel far sì che dopo quelle del 21 novembre ci siano altre iniziative simili a quella qui ricordata. Anche e soprattutto quando (come purtroppo sta già accadendo) l’eco dei fatti che hanno insanguinato la Francia tenderà ad affievolirsi e si tornerà a parlare in modi più astratti di Isis, Assad, Erdogan, Putin e Obama. Consiste nell’impegnarsi a far crescere quelle manifestazioni nel numero dei partecipanti. Ogni volta di più. E soprattutto consiste nel far capire ad Amina che ai nostri occhi lei e quelli come lei non devono discolparsi di nulla. Non deve essere questo il senso del loro uscire allo scoperto. In più dobbiamo convincerla che, anche se fosse, non è vero che a lei sia stato chiesto di dissociarsi da una parte del suo mondo con modalità che i cristiani, quando tocca a loro, non sono tenuti ad adottare. È questa la battaglia culturale: un genere di contributo fatto di fatica, pazienza, sforzo di persuasione, studio, riferimento a dati inoppugnabili. Certo, in momenti come l’attuale, è più facile metter mano alla fondina, lanciare proclami di guerra e minacciare sfracelli. Ma la storia degli ultimi quattordici anni insegna che le stentoree declamazioni della prima ora non portano a nulla. Talvolta portano al peggio.

29 novembre 2015 (modifica il 29 novembre 2015 | 08:38)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_29/guerra-culturale-terrore-b64d183a-9668-11e5-bb63-4b762073c21f.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 17, 2015, 07:32:46 pm »

Demonizzazioni
L’errore del fronte anti Le Pen

Di Paolo Mieli

Dopo una notte di brindisi e di euforia per la sconfitta del Front National al secondo turno delle elezioni regionali francesi, arriva il giorno delle fredde analisi e di qualche dubbio. Forse non è stato saggio da parte dei socialisti francesi evocare contro il partito della Le Pen schemi da fronte antifascista e scomodare addirittura il rischio di «guerra civile». Quando una formazione politica raggiunge le dimensioni del Front National, il buon senso dovrebbe imporre di continuare sì a contrapporsi politicamente senza tentennamenti ma anche di non ostinarsi a contrastarlo appellandosi all’emergenza repubblicana.

Le cose oggi in Francia sono molto diverse dall’analogo scontro alle presidenziali del 2002 allorché Jacques Chirac ottenne al primo turno cinque milioni e 665 mila voti (contro i quattro e 800 mila di Jean-Marie Le Pen) e stravinse al secondo conquistandone venticinque milioni e 537 mila (contro i cinque e 525 mila del Front). Adesso Marine Le Pen ha «perso» al Nord con il 42 per cento e sua nipote Marion al Sud (contro il potentissimo sindaco sarkozista di Nizza, Christian Estrosi) con oltre il 45. Tredici anni fa sì che era giustificato l’appello alla resistenza anche perché davvero il partito dell’estrema destra francese si presentava come erede di Vichy e nostalgico dell’Oas. Nel 2002, dal primo al secondo turno Chirac quintuplicò i suffragi, Le Pen li aumentò di poco.

Oggi quel che è uscito dalle urne è stato di proporzioni ben diverse, anche in virtù del fatto che quello di Marine Le Pen non è più il partito di suo padre: conserva ancora tratti odiosi di insofferenza verso gli immigrati, ma si distingue per una legittima (ancorché non condivisibile) avversione nei confronti delle élite dominanti, dei poteri finanziari e dell’Europa. In ciò che rappresenta e per lo spirito diffuso nel suo elettorato, appare assai più simile al Movimento Cinque Stelle che alla Lega. Ancor più se si considera l’indisponibilità (che li fa diversi dai seguaci di Salvini) ad allearsi con il partito più prossimo: quello di Sarkozy in Francia, quello di Berlusconi in Italia.

È dunque il movimento di Casaleggio ad essere destinato a raccogliere il testimone di questa staffetta europea dei partiti anti-sistema. Con un notevole vantaggio per gli adepti di Grillo che al secondo turno possono pescare elettoralmente nella maggioranza e nell’opposizione tradizionali, anche con un «concorso attivo» delle forze presentatesi alla prima prova ed escluse al secondo passaggio. In particolare, come già si può intravedere, quelle della sinistra più radicale. Per questo chi ha a cuore un buon funzionamento delle istituzioni (soprattutto in un momento come l’attuale di fortissime tensioni internazionali) dovrebbe sì continuare a tifare per la squadra politica del proprio cuore ma altresì evitare ogni eccesso di esorcismo nei confronti degli anti-sistema. E non nella speranza che, conquistato il diritto di amministrare qualche importante città, mostrino (come è accaduto a Parma, Livorno, Venaria, Assemini, Quarto, Porto Torres, Augusta, Bagheria, Gela, Pomezia, Ragusa e Civitavecchia) una qualche difficoltà a tradurre in realtà le ricette miracolistiche della campagna elettorale. Ma perché è incauto lasciare un partito di quelle proporzioni fuori dal recinto delle responsabilità, consentendogli di crescere senza doversi mai misurare con i concreti problemi di governo.

A convalida di questa tesi ci si può rifare ad un precedente. Fu indiscutibilmente saggio da parte della Democrazia cristiana «arrendersi» nel 1970 alla decisione di istituire le Regioni a statuto ordinario. Era quella una delle stagioni più difficili della storia d’Italia, a ridosso della seconda scissione socialista, dell’autunno caldo, della strage di Piazza Fontana. A dire il vero, che le Regioni avessero una vita a sé era previsto dall’ottava disposizione transitoria della Costituzione. Quella disposizione, però, prescriveva che il tutto fosse realizzato nel giro di dodici mesi dall’approvazione della Carta stessa, cioè entro il 1948; poi erano passati ventidue anni senza che se ne facesse niente, cosicché avrebbero potuto trascorrerne altrettanti prima che si procedesse all’attuazione di quella norma.

Si sarebbe potuto, insomma, soprassedere ancora per decenni, anche in considerazione del fatto che fino a quel momento i partiti anticomunisti avevano deciso di lasciar perdere non perché distratti, bensì per il fatto che non volevano, in piena Guerra fredda, consegnare al Partito comunista italiano l’Italia centrosettentrionale. Erano cioè consapevoli, Dc e partiti centristi, che istituendo le Regioni avrebbero assegnato quell’area (Toscana, Emilia-Romagna e Umbria) ad un Pci ancora legato a quell’Unione sovietica che appena due anni prima aveva invaso la Cecoslovacchia; allo stesso modo sapevano che, con quell’operazione, avrebbero messo in tensione il Partito socialista italiano, partner di governo nella instabile compagine guidata da Mariano Rumor dal momento che, inevitabilmente, in quelle regioni il Psi avrebbe dovuto «scegliere» di tornare all’intesa con i comunisti. Ma procedettero ugualmente. Sicché il Pci, partito di opposizione, e il Psi, partito di governo, conquistarono la Toscana (di cui divenne presidente il socialista Lelio Lagorio), l’Emilia (presidente fu il comunista Guido Fanti) e l’Umbria (con presidente il comunista Pietro Conti).

Risultato? Da quel passaggio il sistema uscì nel complesso più forte. Il Psi, come previsto, pagò un qualche prezzo al proprio interno, si ebbero disordini imprevisti per la scelta di qualche capoluogo, ma, in compenso, il Pci ebbe poi atteggiamenti responsabili a fronte delle gravi fibrillazioni che negli anni Settanta avrebbero portato l’Italia sull’orlo di un infarto. Dopodiché la Dc rimase in sala di comando per un altro ventennio: la consegna all’opposizione di responsabilità amministrative si rivelò, quantomeno per i democristiani, una mossa oltremodo azzeccata. E, quel che qui più ci interessa, lo fu soprattutto per il Paese.

15 dicembre 2015 (modifica il 15 dicembre 2015 | 07:27)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_15/errore-fronte-anti-pen-francia-f150ebce-a2f1-11e5-8cb4-0a1f343ea988.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Dicembre 29, 2015, 12:23:11 pm »

Meglio l’Italicum
La lezione elettorale di Madrid

Di Paolo Mieli

Passano i giorni e la Spagna è ancora senza governo. Quella Spagna che era abituata a conoscere l’identità di chi l’avrebbe guidata nei prossimi anni la «sera stessa del voto», è stata costretta - come capitava a noi nella Prima Repubblica ed è accaduto di nuovo nel 2013 - ad abbandonare questa consuetudine. Perché? A partire dal 1982 socialisti e popolari si spartivano più dell’80 per cento dei voti e (grazie all’effetto maggioritario del sistema a piccole circoscrizioni) fino al 90 per cento dei seggi. A turno socialisti o popolari governavano e gli altri guidavano l’opposizione. Adesso quell’80 per cento ce lo hanno in quattro: due domeniche fa, Psoe e Podemos hanno avuto, sommati, il 42,7, Popolari e Ciudadanos il 42,6. Una mela spaccata a metà, ma in quattro spicchi. Sicché, per governare, qualcuno di loro dovrà stringere alleanze a cui tutti si erano dichiarati più o meno indisponibili. Da noi qualcuno esulta: la Spagna dovrà ora apprendere quella che Roberto Ruffilli chiamava «la cultura delle coalizioni» (Gianfranco Pasquino). Ma non è proprio così. Un conto sono le «coalizioni naturali», quelle basate su un programma comune, che vengono prospettate agli elettori prima del voto.

Altra storia è quella delle «grandi coalizioni» che si può essere costretti a fare a seguito di un risultato elettorale incerto, tale da non consentire a nessun partito di governare da solo o in una «coalizione naturale». Questo genere di «grandi coalizioni», tra l’altro, assomigliano assai poco alla Grosse Koalition che governò la Germania tra il 1966 e il 1969 o a quella guidata in anni più recenti da Angela Merkel. Sono piuttosto accrocchi di emergenza come quelli che hanno sostenuto in Grecia Antonis Samaras (2012-2015) e in Italia Mario Monti (2011-2013) i quali, indipendentemente da come hanno governato, hanno avuto l’effetto di dar fiato alle formazioni anti sistema di Alexis Tsipras e Beppe Grillo, proprio perché Tsipras e Grillo si presentavano da antagonisti delle suddette combinazioni di governo.

Le cosiddette «grandi coalizioni» sfavoriscono inevitabilmente il partito di sinistra che ad esse partecipa (i socialisti sono usciti distrutti dall’accordo con la Merkel in Germania e con Samaras in Grecia) e favoriscono partiti e movimenti che le hanno osteggiate. I sistemi elettorali a doppio turno nascono per ovviare a questo inconveniente e trasformare le maggioranze relative in maggioranze assolute (in voti e in seggi). Perciò è difficile da comprendere la ricorrente obiezione: a Matteo Renzi e ai suoi ministri interessa solo che ci sia un vincitore chiaro, non che il vincitore rappresenti la maggioranza dei cittadini (Luca Ricolfi). Questo, come ha efficacemente sottolineato ieri su queste colonne Angelo Panebianco, accade in tutti ma proprio tutti i Paesi che hanno sistemi non strettamente proporzionali, anche da noi ai tempi del Mattarellum (1993-2005). E la maggioranza conquistata al secondo turno «vale» quanto il voto ottenuto al primo. Se la Spagna avesse avuto un secondo turno, oggi Madrid avrebbe un governo grazie proprio al voto della «maggioranza dei cittadini». Mentre, in assenza di quel sistema, la Spagna dovrà procedere con (finte) grandi coalizioni costrette a governare alla giornata e dovrà lasciare all’opposizione forze destinate a gonfiarsi alla prossima verifica nelle urne.

C’è infine chi paventa il rischio che con il doppio turno all’italiana «il primo populista» ne approfitti per arrivare a Palazzo Chigi (Sofia Ventura). Reso più esplicito, vuol dire che se in Francia va, sia pure per pochi voti, al secondo turno il Front National o in Italia il Movimento Cinque Stelle, può accadere che poi una di queste forze anti sistema vinca le elezioni. È così. Ed è normale che sia così. Anzi, è giusto che sia così. Del resto, l’intero centrosinistra (a partire da Pier Luigi Bersani ma, con lui, tutto il Pd) ha fatto del doppio turno un mantra per oltre un ventennio. Consapevole - immaginiamo - che avrebbe potuto passare al secondo turno e poi vincere Silvio Berlusconi. O, adesso, Matteo Salvini. Perciò, diciamocelo con la dovuta chiarezza, sarebbe un grave errore cambiare ora il modo di votare per impedire l’eventualità che qualcuno sia messo in condizione di governare così da costringerlo a piegarsi a coalizioni di emergenza. L’attuale sistema elettorale è stato consacrato dai due rami del Parlamento dopo dieci anni in cui non si riusciva a cambiare quello precedente - nonostante anche coloro che lo avevano dato alla luce dicessero di volerlo modificare - e a seguito di una sentenza della Corte costituzionale che ci ha imposto di procedere in tal senso. Se lo cambiassimo prima di averlo sperimentato almeno una volta, sarebbe un unicum che non ha precedenti nella storia e daremmo l’impressione (anzi, la certezza) che lo si è fatto non per migliorare le modalità di voto ma contro qualcuno che è già in campo.

Per carità, non riapriamo dunque il capitolo della riforma elettorale. Tanto più che ormai il dibattito, in materia, si è evoluto in modi imprevedibili. Nel mondo alla Huxley descritto in Veni Vidi Web di Gianroberto Casaleggio (edizioni Adagio) «si vota on line, ogni cinque anni, per una nuova costituzione», tutte le decisioni pubbliche sono «prese attraverso un referendum e leggi di iniziativa popolare» sotto la guida di «ministeri della Pace, della Vita e della Giovinezza» che, come tutte le altre «cariche politiche e istituzionali», saranno occupate da «cittadini estratti a sorte». Questo, precisa Casaleggio, non è ancora il programma del Movimento Cinque Stelle. Ancora per poco.
29 dicembre 2015 (modifica il 29 dicembre 2015 | 07:49)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_29/lezione-elettorale-madrid-76cfbb7a-adf3-11e5-a515-a44ff66ae502.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 09, 2016, 05:51:09 pm »

Re Magi e dintorni
L’offensiva dei troppo «corretti»
Il presepe di Madrid, con i Re Magi donna, ultimo esempio di una deriva discutibile

Di Paolo Mieli

La Spagna, che (sia detto per inciso) non è ancora riuscita a darsi un governo, tra due giorni sarà politicamente compensata da una straordinaria novità. La sindaca di Madrid, Manuela Carmena, eletta a maggio con l’appoggio di Podemos - reduce dall’aver vinto battaglie per il ridimensionamento del presepe nel Palacio de Cibeles e per la celebrazione del Natale multietnico con tamburi africani, poesia serba e musica palestinese - ha ottenuto che la sera del 5 gennaio debuttino i Re Magi donna. Come Conchita Wurst o Annie Girardot nel celeberrimo film di Marco Ferreri, Gaspare e Melchiorre saranno - nelle sfilate di Puente de Vallecas e Sans Blas-Canillejas - reinas magas con tanto di barba (Baldassarre no, perché è nero e farlo impersonare da una donna barbuta deve essere sembrato eccessivo). La sindaca madrilena gioisce in questi primi giorni del 2016 per i suoi personali trionfi che ne fanno un’eroina della guerra mondiale combattuta sotto le insegne del «politicamente corretto».

Già, perché in Spagna il presepe non viene soppresso per andare incontro a bambini di altre religioni (i quali, peraltro, né direttamente, né attraverso madri e padri, hanno mai chiesto di adottare questo tipo di misure). A Madrid non c’è motivo perché, come è accaduto da noi, un Matteo Salvini si presenti con mantello e turbante all’asilo di sua figlia: Cristianesimo e Islam non c’entrano; Manuela Carmena si è spesa esclusivamente per un’Epifania che contemplasse «un rapporto più equilibrato tra uomini e donne».

Va riconosciuto che da questo momento per il resto d’Europa (e del mondo intero) sarà arduo competere con questa apoteosi madrilena della correttezza politica. Certo, in anni recenti, altrove abbiamo assistito ad altri trionfi di questa inarrestabile offensiva: sono finiti sotto processo libretti di opere di Mozart, testi di Dante Alighieri, William Shakespeare, Herman Melville, Joseph Conrad. Il capitano Achab è stato messo all’indice in alcune università statunitensi perché «portatore di un atteggiamento sconveniente nei confronti delle balene». Lo scrittore nigeriano Chinua Achebe ha proposto la messa al bando di «Cuore di tenebra» in quanto «sprezzante nei confronti degli africani». La Columbia University ha aperto un contenzioso su Ovidio e sul «contenuto troppo violento» delle sue «Metamorfosi» che peraltro conterrebbero «scene erotiche tali da provocare traumi nei giovani lettori». Francis Scott Fitzgerald ha avuto, per così dire, seri problemi all’ateneo di Yale dove agli studenti è stato vietato di indossare una maglietta con una frase dell’autore del «Grande Gatsby» («Penso a tutti gli uomini di Harvard come a delle femminucce») considerata alla stregua di un «insulto omofobo». Ian McEwan ha denunciato inorridito le minacce subite dal poeta Craig Rane per alcuni versi sulle fantasie erotiche di un vecchio. Persino Andrea Camilleri ha avuto i suoi guai allorché la commissaria europea alla pesca, Marta Damanaki, gli ha intimato di vietare a Montalbano di indulgere all’abitudine, «inaccettabile nel Mediterraneo», di cibarsi di pescetti. E credo che lo scrittore si sia adeguato togliendo dai suoi racconti ogni cenno al novellame.

Potente è stata anche la carica contro i classici cinematografici. Il New York Post si è schierato per la censura di «Via col vento», quantomeno per il taglio di qualche scena del personaggio di Mami, interpretando il quale Hattie McDaniel fu la prima afroamericana a vincere l’Oscar. Visto che c’era, lo stesso giornale ha chiesto fosse tolta l’immagine di una domestica nera che campeggiava dal 1889 sulle confezioni di sciroppo da plumcake «Aunt Jemima» e quella del cameriere nero sul riso «Uncle Ben’s». Non sono stati risparmiati neanche i film di animazione. Quattro mesi fa, sulla piattaforma in streaming Netflix, lo stringatissimo racconto di «Pocahontas» è stato cambiato in fretta e furia. Già reso oscuro da un primo vaglio al setaccio del politically correct, recitava così: «Una donna indiana d’America è promessa sposa del guerriero più forte del villaggio, ma anela a qualcosa di più e incontra il capitano John Smith». Adrienne Keene, rappresentante di un’Associazione di nativi, ha obiettato che l’uso del verbo «anela» era «disgustoso». La Disney è corsa ai ripari e ha ottenuto il via libera dell’Associazione a costo di rendere quella minitrama pressoché incomprensibile: «Una giovane ragazza indiana d’America prova a seguire il suo cuore e proteggere la sua tribù, quando i coloni arrivano e minacciano la terra che ama». I produttori eredi di Walt Disney si sono piegati anche perché memori di seri problemi avuti anni fa: in primis con Paperino quando un’Associazione per la difesa del fanciullo pretese gli venisse tolto il battipanni con cui inseguiva Qui, Quo e Qua; poi con Mr. Magoo, il personaggio molto miope creato nel 1949 da John Hubley, allorché la Federazione dei non vedenti impose l’abbandono del progetto di trarne un cartone animato che avrebbe fatto «ridere sulla disabilità». Il compromesso fu raggiunto con un film di Stanley Tong (interpretato da Leslie Nielsen) in cui, però, lo spirito del fumetto andò quasi interamente perso. Da quel momento la Disney si è buttata sulla correctness più irreprensibile e pochi giorni fa ha prodotto uno spot natalizio di Frozen in cui due uomini tenevano in braccio un bambino. Ma non si può mai stare in pace. Dall’Italia i parlamentari Carlo Giovanardi e Eugenia Roccella hanno chiesto che quel filmato venisse eliminato dalla tv poiché non era chiaro chi fossero i genitori di quell’infante: «Figlio di chi? dov’è la mamma?», hanno domandato maliziosi i due rappresentanti del popolo italiano.

Qualcuno di quando in quando ha cercato di resistere al regime della correttezza. Antesignano di questi ribelli, lo scrittore Robert Hughes con un libro, «La cultura del piagnisteo» (Adelphi), che si è imposto come manifesto degli ostili a quella da lui descritta come «una sorta di Lourdes linguistica dove il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo». Tra i partigiani vanno annoverati l’anticipatore Saul Bellow, il cui testimone è passato a Philip Roth e poi a Martin Amis. Qui in Italia, merita una decorazione Umberto Eco che tempo fa sull’Espresso ha preso in giro l’ipercorrettezza degli antiberlusconiani suggerendo di alludere con queste parole ai problemi di statura e trapianto del loro bersaglio prediletto: «Persona verticalmente svantaggiata intesa ad ovviare a una regressione follicolare». Medaglia anche per Sergio Romano che, su queste colonne, ha lamentato la scomparsa dalla letteratura contemporanea di termini «straordinariamente espressivi» come «sciancato, storpio, orbo, zoppo, straccione, pezzente» e ha rivendicato il diritto di ripetere le parole pronunciate dal poeta messicano Francisco de Icaza al cospetto dell’Alhambra e del Palazzo della Madraza: «Nella vita non vi è pena maggiore dell’esser cieco a Granada». Sacrosanto. Anche se consideriamo una sofferenza più afflittiva dell’essere ciechi a Granada, quella di godere di una buona vista a Madrid. Quantomeno domani sera quando sfileranno le regine barbute di Manuela Carmena.

4 gennaio 2016 (modifica il 4 gennaio 2016 | 08:27)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_04/offensiva-troppo-corretti-c754cab2-b2a9-11e5-8f58-73f8cf689159.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 14, 2016, 06:43:14 pm »

L’Italia dei dietrologi
Un Paese che odia la scienza

Di Paolo Mieli

L’Italia sta diventando sempre più un Paese ostile al metodo scientifico e amante delle teorie del complotto. L’ennesima dimostrazione viene dal caso della «Xylella fastidiosa», batterio che produce grave nocumento all’ulivo, penetrato in Europa diciotto anni fa e più recentemente in Italia, nel Salento. Nelle Americhe la si combatte da un secolo, purtroppo senza successo. Il Consiglio nazionale delle ricerche di Bari ha lavorato sodo per scoprire origini e modo di debellare quello che prende il nome di CoDiRO (Complesso del disseccamento rapido dell’olivo). Prendendo in seria considerazione anche l’ipotesi di sradicare gli ulivi già colpiti per provare a sterminare gli insetti diffusori dell’infezione e creare un cordone sanitario che isoli le piante infette.

Ma la magistratura, con un’inchiesta della Procura di Lecce, si è opposta. Di più: ha accusato il Cnr barese di aver favorito la diffusione del batterio, ne ha fatto sequestrare il materiale sia informatico che cartaceo e ha deciso che gli ulivi malati restino lì dove sono. Ha poi anche denunciato «inquietanti aspetti» relativi al «progettato stravolgimento della tradizione agroalimentare e della identità territoriale del Salento per effetto del ricorso a sistemi di coltivazione superintensiva». In parole povere, i ricercatori avrebbero deliberatamente cospirato per abbattere i vecchi ulivi e soppiantarli con piante nuove. G li indagati sono accusati di diffusione colposa della malattia delle piante, violazione dolosa delle disposizioni in materia ambientale, falso materiale e ideologico, getto pericoloso di cose, distruzione di bellezze naturali. La «peste degli ulivi», secondo i magistrati leccesi, sarebbe stata volontariamente importata in Puglia dall’Olanda nell’ottobre del 2010 con un convegno ad essa dedicato. Poi, nel 2013, un professore barese, Giovanni Paolo Martelli, avrebbe messo in scena la «folgorante intuizione» di aver individuato la Xylella come agente patogeno del disseccamento degli ulivi salentini. Quindi il capo della Guardia forestale, Giuseppe Silletti, peraltro su sollecitazione dell’Unione Europea, avrebbe disposto il taglio di cinquemila alberi (così da salvarne un milione). In combutta con il professore di Agraria Angelo Godini fautore dell’eliminazione degli alberi infetti, in particolar modo, secondo l’accusa, «quelli monumentali». Accuse che hanno dell’incredibile.

Nature e Washington Post si sono scandalizzati per questo che a loro appare come un «processo italiano alla scienza». L’inchiesta del procuratore Cataldo Motta e dei pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci ipotizza che gli scienziati abbiano diffuso colposamente la malattia e abbiano poi presentato i fatti in modo da poter avallare come soluzione l’eradicazione delle piante malate, per legittimare lo sterminio degli ulivi salentini. Negli atti si parla anche di persone avvistate in tuta bianca a spalmare unguenti su alberi di ulivo, che successivamente sarebbero stati bruciati per cancellare le prove. Prove che avrebbero potuto portare al «grande vecchio» di questa cospirazione: la multinazionale dell’agroalimentare Monsanto. Persino l’ex Presidente del Tribunale di Bari Vito Savino ha preso le distanze da questa iniziativa giudiziaria e ha manifestato sulla stampa il proprio «sconcerto». Ma i magistrati - come sempre si fa in casi del genere - hanno ribattuto allargando il campo delle accuse ad un numero sempre più vasto di imputati, i quali (Savino, Godini, Martelli) avrebbero condiviso «un medesimo approccio culturale nell’Accademia dei Georgofili di cui fa parte anche il professor Paolo De Castro, già ministro dell’Agricoltura, attualmente eurodeputato, che ha riferito in commissione proprio sulla questione Xylella». Europa, Guardia forestale, Georgofili, ex ministri avrebbero dunque congiurato per distruggere gli ulivi salentini allo scopo di impiantare in quel di Gallipoli nuove coltivazioni. E gli scienziati dell’Università di Bari, del Cnr e dell’Istituto agronomico alimentare (Iam) avrebbero aderito (dietro compenso?) al complotto. Sulla Stampa Gilberto Corbellini e Roberto Defez hanno esortato coloro che in passato si sono indignati contro i tentativi di imporre per via giudiziaria le pseudo cure Di Bella o Stamina o contro il rinvio a giudizio e la condanna in primo grado della Commissione Grandi Rischi rea di non aver dato l’allarme per il terremoto dell’Aquila, a «insorgere per quanto sta accadendo nel Salento». Ma il loro appello è caduto nel vuoto.

Qualcuno ha messo in evidenza come l’inchiesta della procura di Lecce si basi su una grande contraddizione logica: da un lato i magistrati sostengono che non esiste «un reale nesso di causalità tra il batterio e il disseccamento degli ulivi», dall’altro accusano i ricercatori di aver diffuso il batterio. Saremmo quindi in presenza di «untori di una peste innocua» (ha ironizzato Luciano Capone sul Foglio). Lo Iam è accusato, come si è detto, di aver dato inizio al contagio con le provette olandesi fatte giungere a Bari per il convegno scientifico del 2010. L’Istituto ha risposto dimostrando che i campioni introdotti in Italia per quell’incontro scientifico erano tutti di una sottospecie diversa da quella ritrovata nel Salento. Ma, con logica acrobatica, l’accusa ha trasformato anche questa in un’ammissione di colpa: fu «priva di plausibile giustificazione l’introduzione da parte dello Iam di tutte le sottospecie di Xylella conosciute a eccezione di quella individuata nel Salento» che c’era già, tenuta ben nascosta, e non aveva perciò bisogno di essere importata. Incredibile. L’inchiesta cita poi un’affermazione dell’esperto mondiale di Xylella, Alexander Purcell di Berkeley - «Contro la Xylella gli abbattimenti non servono a nulla» - che lo stesso Purcell nega di aver mai pronunciato ed è stata riferita da un’europarlamentare grillina. Il Movimento Cinque Stelle ha contemporaneamente depositato una mozione di sfiducia nei confronti del ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina colpevole di non aver ostacolato il complotto.

Nel frattempo l’Unione Europea ha avviato nei confronti dell’Italia una procedura d’infrazione per i ritardi nell’attuazione del piano di guerra contro il flagello salentino. A questo punto non è lecito nutrire dubbi: vincerà la Xylella e gli italiani si troveranno a dover pagare una multa all’Europa. Poi, come sempre accade, tra un decennio verrà il tempo delle pubbliche scuse ai ricercatori che hanno fatto il loro dovere e per questo hanno avuto dei guai. Così vanno le cose nel nostro Paese.

11 gennaio 2016 (modifica il 11 gennaio 2016 | 08:57)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_11/paese-che-odia-scienza-ae2419ca-b827-11e5-8210-122afbd965bb.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Novembre 20, 2016, 11:46:15 am »

   Interviste
Sergio Staino   
@SergioStaino
· 19 novembre 2016

Mieli: “L’avversario non è un demone. La sinistra superi il pregiudizio”

“Siamo reduci da una guerra civile a cui tutti abbiamo partecipato e anche nel giornalismo è necessario un raffreddamento degli animi”

Tutti coloro che si interessano di editoria, più o meno direttamente, mi dicono: “Ma come fai? La carta stampata è in crisi, i giornali stanno calando le vendite, e tu riapri un giornale? ”

«È vero che la carta stampata è in crisi, però è l’unica cosa governabile con razionalità. Il resto del mondo, cioè il Web, non ha espresso una sua razionalità riconducibile alle categorie nostre, con cui siamo vissuti. E con “noi” non intendo solo i più adulti ma anche i più giovani. Nel senso che il Web è un mondo anarchico, dove ci può essere di tutto, molto potente, molto più influente della carta stampata… Però ti porto fuori tema».

No, è proprio quello che mi interessa perché confermi la mia scelta che è quella di fare non un giornale generalista ma militante.

«Sì, penso che questo faccia bene alla carta stampata, perché i quotidiani cartacei stanno già cominciando ad abbassare la cresta e molto ancora la abbasseranno. Non è più un centro di potere ma un centro di orientamento che, come grado di onestà, assomiglia più ai libri, ai saggi, alla letteratura. È un luogo dove la mente sfugge ai tempi concitati. Oggi un direttore di giornale o anche un giornalista è infinitamente meno potente di quanto lo fosse dieci o venti anni fa. Però questo ridimensionamento lo riavvicina al mondo, e secondo me la carta stampata si ricomincerà a usare nel senso che tu dici: non semplicemente per aggiornarsi su come si muovono i poteri, ma per capire le cose, per leggere gli approfondimenti. Quindi io confido molto in un futuro di qualità della carta stampata, e secondo me il tragitto è già iniziato. Certo il cammino deve partire da un necessario raffreddamento degli animi perché in Italia siamo reduci da una lunghissima guerra civile, alla quale abbiamo partecipato tutti».

C’è ancora una guerra civile. È un dato di fatto che alcuni dirigenti della minoranza del Pd vogliono distruggere Renzi…

«Da quando sono bambino non ricordo mai, essendo sempre stato di sinistra, che dall’altra parte ci fosse un avversario con cui avere una leale competizione. Ma sempre un nemico da distruggere, del quale segretamente sognare la morte, e, alla fine di questo lungo itinerario, questo virus l’abbiamo portato al nostro interno. Lo dico da analista non da tifoso. Ci scanniamo perché la morte di quello che non ci piace apre, o dovrebbe aprire, orizzonti. Ma in realtà, oggi lo riconosciamo, la morte di quello che non ci piace non crea nessun nuovo orizzonte, ci lascia soltanto in mezzo a un deserto. È un male comune a tutta l’Europa. Per cui cerco nel mio piccolo di lodare o compiacermi con le intelligenze che vanno in contro tendenza».

Ne abbiamo visti molti di avversari dipinti come cattivi da abbattere…

«Come no? L’avversario da sconfiggere in Italia è sempre stato un demone… Lo è stato Fanfani, poi è stato Andreotti, per un periodo fu il Cesis…».

E poi Craxi…

«E poi fu Cossiga e poi Berlusconi. Possibile che l’Italia sia un paese che produce demoni a ripetizione? Nel ventennio cosiddetto berlusconiano ci siamo lasciati un p o’ andare.. Sia chiaro, io per Berlusconi non ho mai avuto neanche un momento di simpatia però durante questi anni il Cavaliere è stato alla guida del governo per nove anni e per undici è stato avversario… Già questo ci fa capire che certi paragoni con Hitler, con Gengis Khan, con Nerone erano quantomeno esagerati… Sono sicuro che, anche quando non ci sarà più Renzi, o ci faremo coraggio o finiremo per trovare un passante a cui capiterà l’occasione di fare quello che deve fare un politico, cioè fare il leader, avere capacità di scegliere, di decidere, pure lui».

Ma secondo te c’è qualcuno nella sinistra che ha compreso questo rischio?

«Innanzitutto Gianni Cuperlo che ha una storia… È stato l’oppositore esplicito di Renzi, era presidente del partito e si è dimesso, poi ha avuto sempre un comportamento battagliero, sempre coerente, ma più temperato di altri».

Ma non è il fascino dell’eroe perdente quello che ci muove a un giudizio così?

«Penso che Cuperlo sarà un personaggio a cui si restituirà onore. A qualcuno è già arrivato il suo messaggio. Ad esempio Fassina è stato il primo a porsi quantomeno dei dubbi dopo la vittoria di Trump e a fare una riflessione più ampia senza portare per forza acqua al suo mulino. È cosa rara in un’Italia in cui tutti affermano di aver previsto ogni cosa il giorno prima e non fanno che ripetere: “Questo dimostra che avevo ragione io”. Non voglio prefigurare scenari da dittatura ma andando avanti così si rischia di non tener conto delle esperienze passate».

Non ricordo negli anni passati un atteggiamento così egoista, così personalista. In persone della sinistra ad esempio come Civati, come Gotor, ma anche Stefano Rodotà (i nomi li faccio io non tu), mi sembra ci sia una dose di autoreferenzialità continua, che li porta poi a falsare ogni lettura oggettiva della realtà.

«Nel mondo in cui siamo cresciuti noi, nel momento decisivo, prevaleva un senso di lealtà. Alcuni ricordano che Fausto Gullo o Concetto Marchesi ebbero delle obiezioni durante il processo costituente. Fausto Gullo presentò parecchi emendamenti, alcuni molto polemici. Ma al momento della verità, al momento del voto, nessuno si sognava di avere comportamenti difformi da quelli del partito, se non quando fosse sicuro che questi comportamenti erano solo di testimonianza. Nella battaglia del Pci, battaglia sbagliata che comunisti e socialisti fecero contro la legge maggioritaria del ‘53, nessuno venne meno al principio di lealtà. A nessuno venne in mente di fare una battaglia contro il partito, o anche solo di dichiarare la propria contrarietà. C’era un principio di lealtà. Ciò che colpisce è che oggi questo atteggiamento non esista più e ogni volta si dica “va bene, per tutto il resto è leale, ma su questa cosa qua, tana libera tutti”. Ma allora a che serve un partito? Un partito è un’organizzazione dove vige il principio di maggioranza, si fanno delle battaglie interne, ma poi si tiene alla vittoria del partito. E se questo partito per di più, come oggi accade, ha in mano la presidenza del Consiglio, tranne che in casi eccezionali, sarebbe buona norma fare battaglie interne e poi al momento decisivo avere un comportamento leale. La parola centrale è severe, quello che per gli inglesi è la lealtà».

Che poi coincide con il rispetto delle istituzioni, con tutto l’apparato statale.

«Infatti mi domando: chi oggi ha condotto questa battaglia (guarda che la rispetto, a me interessano più le posizioni degli oppositori che quelle dei seguaci di Renzi, le studio con attenzione) come si immagina che sia il futuro di un formazione di sinistra dopo la prova di una così costante battaglia? Al prossimo toccherà un trattamento analogo, ma basterebbe il 10% di questo trattamento per renderlo impossibile. Spero di sbagliarmi ma penso che quando salterà questa esperienza politica, prima che la sinistra torni al governo passerà un bel po’ di tempo. Sta montando l’on – da anti-sistema e noi diamo i picconi contro la sinistra moderata al governo. E poi già sento l’obiezione: “Eh ma quello non è di sinistra” … Ma è sempre stato così, ogni volta chi vuole distruggere troverà sempre che quello non è di sinistra. Sono curioso di vedere il dopo».

Curioso ma anche molto preoccupato del dopo.

«Certo. Ho letto una cosa incredibile su l’Unità pochi giorni fa di una persona che stimo, una giornalista come Marcelle Padovani, e voi l’avete pubblicata no?».

L’ho considerato un grandissimo contributo al giornale.

«Marcelle Padovani, che ha tutta una storia militante e che conosce benissimo il percorso della sinistra italiana e francese, era anche lei sgomenta del tasso di litigiosità omicida che c’è nella sinistra. Continuiamo così… Capiamoci: la mia non è un’analisi del tipo “buoni, state buoni non litigate”. Non è questo assolutamente. Io dico: “litigate pure, però quando individuate un fenomeno che vi preoccupa a quel punto fate barriera, è come essere in guerra”».

E quelli che minimizzano lo scontro attuale?

«È un’ipocrisia dire sul referendum: “Ma no, anche se vince il No non cambia nient e”. Non penso che il risultato sarà irrilevante. Penso sia rilevante la vittoria del Sì e anche la vittoria del No, e tra le due opzioni il risultato cambia molto»

Da - http://www.unita.tv/interviste/staino-intervista-mieli-lavversario-non-e-un-demone-la-sinistra-superi-il-pregiudizio/
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