LA-U dell'OLIVO
Aprile 19, 2024, 03:24:16 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1] 2
  Stampa  
Autore Discussione: ETTORE MO.  (Letto 22664 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Febbraio 08, 2008, 11:13:09 am »

Anticipazioni

Esce «Fantasmi», raccolta di dispacci del giornalista scomparso.

Terzani in Cambogia: l'illusione e l'autocritica

Nel libro postumo altre denunce sugli orrori dei khmer

di ETTORE MO

 
È davvero emozionante, per me, ripercorrere la carriera e la vita (che vita!) di Tiziano Terzani, sfogliando le pagine del suo libro postumo che s'intitola Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia (Longanesi) dove sono condensati i messaggi, i telegrammi, le corrispondenze — brevi e lunghe — che per anni ha inviato da quel Paese in guerra ai giornali con cui collaborava: a cominciare da Der Spiegel, di cui era corrispondente fisso dall'Asia, quindi al Giorno, all'Espresso,al Messaggero, alla Repubblica e, dal 1988, al Corriere della Sera. Nell'ampia prefazione la moglie Angela Terzani Staude racconta con dovizia di particolari ed episodi toccanti le tappe di quel lungo peregrinare in Indocina, Vietnam, Laos, Cambogia. Ma i suoi dispacci provengono soprattutto da questa contrada, dove ha rischiato di morire fucilato dai khmer rossi nella cittadina di confine (con la Thailandia) di Poipet, appena invasa dai guerriglieri di Pol Pot: esperienza non condivisa con nessuno, essendo il solo giornalista presente, ma dalla quale esce affranto. Rientrato a Singapore, «gira per casa come un leone malato — ricorda la moglie —, un leone che ha perso l'orientamento». Tiziano comincia a «coprire» (come si dice nel gergo) la Cambogia all'inizio del '73 e «s'innamora di Phnom Penh, la più bella delle tre capitali costruite dai francesi in Indocina », davanti al fiume Mekong «immenso e luminoso»: nella capitale cambogiana arrivano presto anche i giornalisti delle grandi testate internazionali, New York Times, Washington Post, Le Monde: ma vi sbarca pure un inviato italiano, Bernardo Valli, che diventerà suo amico, esperto di guerre che stava «a letto a leggere I tre moschettieri ». E tuttavia, in mezzo al frastuono o fracasso di cannonate e bombe, Valli rievocherà quei giorni con un sorriso: «Ci siamo divertiti da pazzi».

Terzani aveva 33 anni e nella sua testimonianza Angela ricorda che quelli erano i suoi anni felici. Dei khmer rossi all'epoca si sapeva poco o nulla, ma Tiziano è tra i primi a fornire qualche informazione sulla loro esistenza ai giornali europei. Per Terzani, «nel 1970 la Cambogia era un Paese piccolo e insignificante con 6 milioni di abitanti... Era un Paese che viveva in pace, governato da un estroso e astuto principe, Sihanouk, un signore feudale che considerava la Cambogia come sua proprietà e i cambogiani come i suoi "figli"». Il governo era nelle mani di Lon Nol, che godeva di scarse simpatie tra la popolazione. Sihanouk è un re-playboy che s'era anche rifugiato a Pechino e a Pyongyang, e che Tiziano definisce «un uomo senza grandezza». Aggiungendo: «Non l'ho mai sentito fare una riflessione umana intelligente sulla storia di questi anni, sui khmer rossi, sul ruolo degli uomini nella tragedia. C'è in quest'uomo una piccolezza spaventosa, una mancanza di grandezza umana. È un re, un despota». In un articolo per L'Espresso inviato nell'agosto del '73, Terzani così descrive le condizioni sociali dei cambogiani più poveri: «Davanti all'albergo Le Phnom, sulla cui veranda si riposano gli ufficiali e i mercanti di questa Repubblica arricchiti dalla guerra, ho visto donne che scortecciano gli alberi per fare legna per cucinare... Ho visto cenare una famiglia di sei bambini.

La madre ha ciucciato per prima una palla di riso che è poi passata di bocca in bocca». In un altro dispaccio del febbraio del '74, l'incipit è il seguente: «Il coprifuoco comincia alle sette e nemmeno i cani restano per le strade perché in queste settimane di assedio e di fame la gente ha finito per mangiarseli». In un successivo messaggio, riprende le parole di un ufficiale che dice: «Prima della guerra i turisti venivano in Cambogia per vedere le rovine di Angkor Wat. Quando ci sarà di nuovo la pace — ne verranno molti di più, perché allora la Cambogia sarà un Paese di rovine». E ancora: «Siamo tutti khmer eppure ci ammazziamo a vicenda. La Cambogia è il nostro Paese eppure lo stiamo distruggendo». Quando i khmer rossi entrarono a Phnom Penh, la città era senza riserve di cibo. I suoi due milioni di abitanti erano tenuti in vita giorno per giorno dal ponte aereo americano. L'unico modo di sfamare la gente era mandarla nelle campagne, dove anche le radici di alcune piante potevano, in un primo momento, tenerle in vita. L'evacuazione fu una misura radicale, draconiana. «Oggi — scrive Terzani in un articolo del giugno '76 — la Cambogia produce più riso di quanto ne consuma e ha cominciato l'esportazione. "Il Paese è un'immensa officina", dice Radio Phnom Penh. "È un campo di concentramento", ribattono i rifugiati», che «hanno trovato "atroce" l'evacuazione verso la campagna e ancor più terribili le dodici ore di lavoro al giorno richieste a ognuno, compresi bonzi, donne e bambini». E con riferimento all'immagine di una Cambogia retta dai sanguinari khmer rossi, ricorda che Radio Phnom Penh conclude la trasmissione quotidiana intonando l'inno nazionale, che è un truce peana con versi come questi: «Oh, sangue rosso, sangue brillante che copri le città e le pianure della patria...». 20 ottobre 1979. Altra raccapricciante corrispondenza: «La razza khmer sta per scomparire dalla faccia della terra. Nel 1975, alla fine di cinque anni di guerra americana, che aveva fatto un milione di vittime, i cambogiani erano almeno sette milioni. Dal 1975 alla fine del 1978, i khmer rossi, col loro folle comunismo, hanno massacrato e lasciato morire di stenti da due a tre milioni di loro compatrioti. Ora, altri due milioni stanno per morire di fame, di malaria, forse di peste, in un Paese i cui campi sono abbandonati e dove la guerra continua, giorno dopo giorno. Contrariamente ad altri popoli, i cambogiani non si riproducono più. La maggior parte delle donne, come le risaie, non sono più fertili. Accanto alle fosse comuni scavate in passato, per seppellire le vittime torturate, soffocate, impalate, bastonate dai soldati di Pol Pot, si scavano ora le fosse comuni per le vittime della lenta morte per inedia».

Pol Pot è morto impunito nell'aprile del 1998. «È morto — scrive Terzani — senza che nessuno facesse i conti con lui». Le stragi da lui commesse, la montagna di teschi del centro di tortura di Toul Sleng, diventato ora il Museo del genocidio, erano note già alla fine degli anni Settanta, in gran parte raccontate dai cambogiani profughi in Thailandia. Ma nonostante questo non ci fu nessuna protesta internazionale, nessuna commissione per i diritti umani si recò in Cambogia, nessun organo delle Nazioni Unite intervenne a fermare il massacro. Anzi, Pol Pot e i suoi khmer rossi vennero riconosciuti dalla comunità internazionale come il governo «legittimo» della Cambogia e come tali occuparono il seggio cambogiano all'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel dicembre 1978 fu il Vietnam a intervenire. I khmer rossi, secondo l'autore di Fantasmi, non sono stati un'aberrazione, sono i figli ideologici di Mao Zedong. Sono stati allevati e tenuti a battesimo in Cina; Pechino ha enormi responsabilità, sapeva e approvava. I grandi massacri di Phnom Penh fra il 1975 e il 1979 ebbero luogo nel liceo Tuol Sleng, a poche decine di metri dall'ambasciata cinese, dove non solo si potevano sentire le urla delle vittime, ma si teneva il conto della gente che veniva via via eliminata.


08 febbraio 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Luglio 01, 2008, 04:04:39 pm »

Il reportage: nell'«isola dell'Accoglienza» fra turisti e immigrati «spiaggiati»

L'ultima porta di Lampedusa, festa e lacrime per i clandestini

Inaugurato il monumento di Mimmo Paladino simbolo dei viaggi della speranza e delle vittime del mare


LAMPEDUSA — Sono 48 gli ultimi migranti clandestini sbarcati l'altra notte a Lampedusa in una delle spiagge sudorientali dell'isola. Stavano accucciati al buio dietro uno sbarramento di macchine dei carabinieri che si proponevano, invano, di proteggerli dall'assalto di cronisti e fotoreporter piombati sul posto poco prima della mezzanotte.

Gli «spiaggiati» (come si dice ormai in gergo) erano affamati ed assetati, dopo 15 ore di mare. Quarantacinque erano somali, tre venivano dal Ghana. Tutti sfiancati e rauchi, ma felici di aver raggiunto la terra promessa. Nel buio, chiostre di denti più luminose dei flash dei fotografi. La solita, breve bagarre tra i giornalisti meno pazienti e le forze dell'ordine prima che il pullman raccogliesse quest'ultimo carico di disperati per trasportarli al Centro d'accoglienza dell'isola.

Secondo gli aggiornamenti di cui dispongo sarebbero più di sei mila i clandestini sbarcati quest'anno in Sicilia, di cui 5.900 a Lampedusa, contro un totale di 13 mila nel 2007: ma tutto lascia prevedere, vista la frequenza degli sbarchi delle ultime settimane, che il conto sarà agevolmente peggiorato. Il Centro d'accoglienza dell'isola (o Centro di transito ), che ha una capienza per 600 persone, ne ospita al momento 780 — uomini, donne, bambini — molte già in partenza verso altri lidi.

Per Lampedusa, già affollata dalla massa dei turisti stagionali, è stato un weekend particolarmente intenso, dedicato soprattutto alla memoria delle migliaia di migranti (provenienti in gran parte dalle coste della Libia) annegati nel Canale di Sicilia o giunti stremati sulle spiagge dell'isola: un'odissea di dimensioni omeriche. Il clou dei festeggiamenti (se così si possono definire le manifestazioni legate a quei tristissimi eventi e programmate sulla base di un ambizioso progetto) è stato l'inaugurazione di un monumento di Mimmo Paladino eretto sulla scogliera. Si tratta di una porta alta cinque metri e larga tre, realizzata in ceramica refrattaria, che guarda il mare e dovrebbe essere, nelle intenzioni del celebre scultore, «una sorta di sacrario laico». Centinaia di persone si sono avviate in processione con le fiaccole accese come fosse una cerimonia religiosa: rientrando poi in città nel traffico assordante delle strade e dei ristoranti all'aperto con tanto di orchestrine e balli per una festa che sarebbe durata tutta la notte, alla faccia dei poveri naufraghi.

Atmosfera che deve aver messo a disagio uno dei promotori della manifestazione, Arnoldo Mosca Mondadori, che commenta: «Questo progetto ha una radice spirituale. Sono le stesse anime dei migranti che in questi anni sono morti nel Mar Mediterraneo ad avercelo suggerito. E noi abbiamo semplicemente ascoltato la bellezza della loro voce. Siamo in un'epoca in cui tutto viene venduto e comprato. Ecco, ieri sera durante la fiaccolata verso la porta di Paladino, si sentiva che esiste negli esseri umani qualcosa di inesprimibile, che lo unisce a qualcosa di eterno». In questa sua riflessione, Arnoldo trova il sostegno del critico d'arte Enzo Di Martino, che accosta l'opera di Palladino (Porta di Lampedusa, Porta d'Europa ) alla Porta dell'Inferno del celeberrimo Auguste Rodin: «Quella degli uomini, donne e bambini che, fuggendo da insopportabili condizioni di vita, riescono a raggiungere stremati l'approdo in Europa evoca la "terribile allegoria dell'amore e della dannazione" di Rodin. Gente che ha perso la vita in mare nel tentativo di realizzare il sogno di una nuova e più dignitosa esistenza».

Contro certe voci che hanno talvolta rimproverato agli abitanti di Lampedusa un atteggiamento di insofferenza o addirittura di intolleranza verso i migranti clandestini, sacerdoti cattolici e l'Imam di Agrigento in visita alla città hanno affermato che, al contrario, questa «è l'isola dell'Accoglienza». Parlando nella mattinata davanti al portone della basilica, il parroco ha detto che «il mare è pieno delle lacrime dei nostri fratelli» e ha pure ricordato che qualche mese fa «una bimba nata in Libia da madre musulmana è stata battezzata proprio in questa chiesa con il nome di Francesca per ringraziare Iddio d'aver loro salvato la vita durante la traversata».

Nel suo libro Sale nero, pieno di storie agghiaccianti, la giornalista siciliana Valentina Loiero (del TG5) scrive che «ancora una volta la sorte peggiore tocca ai morti. Per ore, dopo essere stati estratti dal barcone, i tredici corpi rimangono in quei sacchi verdi, sul molo, sotto il sole. In attesa delle bare. A Lampedusa non ce ne sono, devono arrivare da Agrigento. A Lampedusa, per la verità, non c'è neanche una camera mortuaria. L'isola ha però un cimitero dove avrebbero potuto essere sistemati i cadaveri di quei giovani. Ma nessuna autorità se la sente di prendere la decisione e finisce per piegarsi al volere della solita minoranza rumorosa. Gli isolani più intolleranti, che non hanno nessuna intenzione di tenere lì le salme». In un'intervista ad Andrea Camilleri, contenuta nello stesso libro, quando gli si chiede cosa sia oggi il Mediterraneo, lo scrittore risponde: «Oggi il Mediterraneo può essere, se riusciamo a riportarlo com'era, una splendida vasca da bagno domestica. Oppure può diventare una di quelle vasche nelle quali i bambini affogano in tre centimetri d'acqua. Ed è quest'ultima ipotesi che si sta verificando, purtroppo».

Con l'adozione della linea dura approvata in giugno dall'Europarlamento (definita da il Manifesto la «direttiva della vergogna») nei riguardi degli immigrati clandestini, la situazione di questi poveri sans papiers si è ulteriormente aggravata e non l'addolciscono neanche le dichiarazioni veementi del presidente della Commissione Europea, Manuel Barroso, quando dice che «noi preferiamo che si punisca, più che l'immigrato clandestino, il datore di lavoro che spesso lo sfrutta» e che «comunque nella maggior parte dei casi gli immigrati sono le vittime».

Accompagnato da Laura Boldrini, portavoce dell'Unhcr — l' Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati —, faccio una visita al Centro d'Accoglienza di Lampedusa. «Il problema più grave — dice la signora Boldrini che da anni si occupa di questa tragedia — è che molti di questi immigrati avanzano richiesta d'asilo politico. Complessivamente nel 2007 ne sono state presentate 14.053. Un lavoro enorme poiché bisogna esaminare caso per caso per accertare che ogni richiesta sia sostenuta da motivi reali, validi. Certo, ognuno può dire di essere fuggito dal proprio Paese a causa di persecuzioni politiche o altro. Tocca a noi fare le dovute verifiche e di conseguenza accettare o respingere la richiesta. Negli ultimi sbarchi è sempre più massiccia la presenza di immigrati provenienti dal Corno d'Africa, mentre s'è alleggerito il flusso da paesi come l'Algeria e il Marocco».

Dal primo gennaio a metà giugno i clandestini sbarcati a Lampedusa sono più che raddoppiati rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. L'infermeria del Centro ha avuto il suo bel da fare. «Arrivano qui esausti, stremati — dice uno degli infermieri in camice azzurro —. Sono disidratati, ustionati, spesso hanno la scabbia. Cerchiamo di rimetterli in sesto. I casi gravi li mandiamo a Palermo».

Gli sbarchi continui, più frequenti nella bella stagione, non sembrano aver turbato l'esistenza della popolazione, anche se il coro di chi lamenta che gli immigrati godono di privilegi e attenzioni negati invece ai cittadini dell'isola è abbastanza fitto. C'è stata qualche apprensione un paio di mesi fa, quando il sindaco di Lampedusa, Bernardino De Rubeis (un riccioluto gigante di pelle scura), ha minacciato di recintare il Centro con il filo spinato per impedire che i clandestini più riottosi scorazzassero per l'isola. Nelle chiacchiere quotidiane emerge spesso il nome di Gheddafi, ritenuto da taluni il «maggior responsabile» degli sbarchi, non essendo mai intervenuto per bloccare l'attività mercenaria degli scafisti libici.

A fine maggio le cronache annunciavano la nascita di un bambino avvenuta su un gommone a 12 miglia da Lampedusa. Somali il padre e la madre che aveva lasciato in Libia altri 5 figli. Ma a Lampedusa non nasce più nessuno. Non ci sono né ospedali né cliniche. Quando è il momento di partorire le donne prendono il battello e vanno a Palermo. Ma oltre a quelle del parto ci sono le spese di viaggio e soggiorno: e una signora costretta ad affidare la propria bimba di un mese alle cure di un medico palermitano ha dovuto sborsare più di tremila euro, che qui sono soldi. Quel breve tratto di mare con il fagottino in braccio non è stato perciò una gita piacevole. Alda Merini, la nostra poetessa, ha dedicato una poesia a Lampedusa o, più precisamente, al suo sindaco, in data 28 giugno 2008, dove dice di aver sognato «di essere una tartaruga gigante» e di aver portato in salvo, «sulla mia scorza dura», «bimbi e piccini e alghe/ e rifiuti e fiori». Ma era un sogno e al momento giusto la tartaruga non c'era: e così migliaia di uomini sono calati a picco in fondo al mare.

Ettore Mo
01 luglio 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Dicembre 29, 2008, 11:13:56 am da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Dicembre 29, 2008, 10:55:22 am »

Col piombo nel sangue

Nella città peruviana di La Oroya dove la fonderia sputa veleni mortali


di Ettore Mo foto di Luigi Baldelli


LA OROYA (Perù) — «Praticamente, noi viviamo come in una camera a gas», questa l’angosciosa metafora cui ricorre l’arcivescovo di Huancayo, Monsignor Pedro Barreto, per spiegare il dramma di La Oroya, dove il grande complesso minerario siderurgico Doe Run sprigiona ogni giorno nell’aria tonnellate di polvere di piombo, ossido di zolfo, zinco e arsenico. Al punto da essere collocata al sesto posto nella graduatoria dei dieci luoghi più inquinati del mondo. Instancabile promotore di iniziative socio- economiche, il cinquantenne prelato si è anche imposto su scala nazionale come uno dei più inflessibili paladini della difesa dell’Ambiente. Ne ho avuto conferma durante un breve incontro nel Vescovado di Huncayo, dove mi ero recato per conoscere il suo parere sull’infuocato dibattito del giorno: e cioè il conflitto tra quanti sostengono che la grande azienda dovrebbe continuare la propria attività, nonostante gli effetti negativi prodotti da quei veleni sugli abitanti della regione (irritazione oculare, infiammazione delle vie respiratorie, edema polmonare, disturbi al sistema circolatorio); e quanti, al contrario, ne reclamano la chiusura immediata, non essendoci al mondo niente di più importante della salute.

 
«Personalmente — dice il prelato, sobrio ed elegante nel clergyman grigio—, sono contro lo sfruttamento irrazionale delle risorse del pianeta. Si tratta inoltre di un problema etico oltre che scientifico e la Chiesa non può tollerare una situazione simile. Qui mi considerano un antiminero, uno che sta contro i minatori e se la fa coi padroni del vapore. Un paio d’anni fa mi minacciarono di morte». Ma Monsignor Barreto non si è neppure schierato con la multinazionale Doe Run, che è sostenuta dallo Stato, dal governo, dalle autorità regionali e provinciali: e non riesce a contenere uno scatto d’ira quando sul giornale locale la grande Azienda afferma di avere apportato notevoli «miglioramenti ambientali » a La Oroya. «Sono veramente indignato— sbotta —. Ma come si fa a dire una sciocchezza simile? Le cose stanno peggio di 4 anni fa. L’inquinamento è aumentato. Solo pochi giorni orsono, il 13 agosto, è stata registrata un’incredibile concentrazione nell’aria di ossido sulfureo di 27 mila microgrammi per metro cubo, mentre per la legge peruviana e secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità il livello massimo avrebbe dovuto essere di 364 microgrammi, uno stato d’emergenza durante il quale la popolazione avrebbe dovuto tappare porte e finestre e tenere i piccoli in casa.

Ma nessuna regola fu rispettata. Le strade erano piene di gente, i bambini giocavano sui marciapiedi come niente fosse». Situata sulla cordigliera andina a 3.750 metri, La Oroya, quando la vedi per la prima volta venendo da Lima e sbucando giù dal Passo Tiglio (che è a quota cinquemila) ti mette addosso tristezza. È in fondo a una vallata piuttosto angusta, in mezzo a dorsi di montagne brulle e il pennacchio di fumo bianco che sbuca dalla sommità della ciminiera (alta 170 metri) comincia subito a raccontarti storie di ricchezza e di miseria: fin da quando, nel 1922, la multinazionale americana Pasco Copper Corporation costruì la fonderia destinata a processare, in grande quantità, minerali impuri — oro, argento, piombo, rame, zinco—nascosti nelle viscere della terra. La valle si riempì di fumo nero mentre una pioggia velenosa devastava i campi e culture. Le cronache del tempo e un prezioso libro di Josh De Wind dal titolo (traduco direttamente dall’inglese) «I contadini divennero minatori» riferiscono di stragi di capi di bestiame e devastazioni agricole per migliaia di ettari. Ma anche quando, 50 anni dopo, la Pasco Corporation cedette la fonderia al governo peruviano, molto poco venne fatto per ridurre e contenere l’inquinamento.

Nel 1977, il presidente della multinazionale Doe Run che acquistò il mastodontico complesso, Bruce Neil, sosteneva con orgoglio che l’inquinamento dell’aria era stato ridotto del 25 per cento, mentre quello dell’acqua fino al 90 per cento. Riduzioni che erano state imposte in seguito ad un accordo tra l’azienda privata e il governo peruviano. Ma è un fatto—assicurano gli uomini di scienza, permanentemente allergici, per indole, alla favole — che la raffineria ha continuato a pompare gas tossici e ossidi letali. Oggi, passeggiando per La Oroya vecchia, il cui fascino è decisamente maggiore di quella nuova, l’odore, quel particolare odore, continua ad aggredirti alle narici e ad «appesantirti », col risultato che anche la camminata si fa più lenta e faticosa. Commossa davanti alla mia gracilità senile, un’anziana signora— il volto e il collo avvolti in un gomitolo di trecce grigie — consiglia il «maté», l’infuso di foglie di coca che a quell’altitudine fa miracoli. Quando piove la sensazione di malessere è maggiore: è anche peggio quando tira «el viento malo», il vento cattivo, e i bambini vanno a barricarsi in casa per sfuggire alla sue raffiche. Sono proprio loro—i bambini al di sotto dei 6 anni—le prime e maggiori vittime dell’inquinamento. Sui 20 mila abitanti di Oroya la vecchia, la popolazione infantile è di circa tremila e anche i neonati, dice il dottor Ugo Billa, neurologo presso l’ospedale locale, «hanno il piombo nel sangue, che la madre gli ha trasmesso». Una condizione, aggiunge, che, quando il livello del piombo sia molto alto, «può avere gravissime conseguenze sullo sviluppo psichico e fisico del bambino e anche provocare la morte». Il medico, un veterano pediatra, si occupa del problema fin da quando—anni Sessanta — non si era ancora capita la gravità del male, tanto che, ricorda, «ci si limitava a fare l’esame sui capelli invece che sul sangue». Ammette di essersi trovato in mezzo a «questa faccenda» senza una competenza specifica, senza dottorati o titoli accademici, e «tutto quello che so l’ho imparato sul campo, giorno dopo giorno».

Lamenta che il ministero della Sanità si sia accorto troppo tardi del «fenomeno» e non si sia mai preoccupato di accertare se l’inquinamento avesse aggredito con la stessa violenza altre località della zona e della valle minacciate dalla ciminiera. A chi si chiede quale conclusione potrà avere il conflitto in corso tra la necessità di tenere in vita la miniera-fonderia e la presenza di condizioni ambientali che garantiscano la salute della popolazione, lo scrittore Amador Pérez Mandujano dà una risposta amara: «Il futuro di La Oroya è incerto. La gente sta un poco sulle spine per il suo avvenire. La città di La Oroya, così come la si vede oggi, dipende dall’Impresa e il giorno in cui la Fonderia scomparirà, scomparirà la città. Questo è quanto. È vero che i fumi hanno fatto ammalare la gente, ma è anche vero che l’Impresa non ha fatto nulla per porvi rimedio. La soluzione, a questo punto, non è di chiuderla, ma piuttosto di rinnovarla e modernizzarla. I giovani se ne vanno perché non ci sono opportunità. Occorrono nuove strutture economiche che comportino lavoro. Da questo dipende il futuro di La Oroya». È questo, in definitiva, l’obbiettivo del Mosado — Movimento per la salute di La Oroya — nato nell’aprile 2002 e composto da una ventina di membri. Lo dirige una signora di mezza età, Rosa Amaro, che vado a trovare nel suo quartier generale, un polveroso sgabuzzino pieno di libri. Suo marito sta dormendo, annichilito, sull’unica poltrona disponibile: ma di lui sembra esserci molto poco nella tuta da lavoro che indossa. «Ha 36 microgrammi di piombo nel sangue — informa la donna —, 26 in più del livello stabilito dall’autorità sanitaria, che è di dieci. E poiché le disgrazie non vengono mai da sole, abbiamo un figlio che all’età di cinque anni aveva nel sangue 58,3 microgrammi di piombo».

Per la signora Rosa, l’Impresa continua a mentire quando sostiene che c’è stata, negli anni, una riduzione delle sostanze velenose che la ciminiera ha vomitato su La Oroya dal ’97 ad oggi. All’epoca, limitare la contaminazione con un impianto di acido solforico sarebbe costato 120 milioni di dollari: il prezzo pagato dalla Doe Rum per l’acquisto del complesso. Dovrebbe rallegrare la notizia dell’ultima ora, secondo cui quel magico impianto entrerà in funzione il mese prossimo. L’arcobaleno, dopo anni di tempeste. Ma la malattia più diffusa a La Oroya è lo scetticismo: ed è questo il piombo che ha nel sangue. «Il fatto curioso — dice Meliton Rivera, un minatore di 41 anni, licenziato per aver fatto ricorso, insieme ad altre 65 persone, alla Corte interamericana dei diritti umani — è che noi lo dobbiamo pagare, in un modo o nell’altro: e che allo stesso tempo ci condannano a vivere e a morire per la fabbrica». Per andarlo a trovare, nella sua casupola con il balcone alto sui tetti, ho dovuto fare 141 gradini, una gran bella fatica: inoltre, già spompato dopo i primi dieci, sono stato oggetto di ironico compatimento da parte di chi scendeva e bisbigliava, con un sorriso andino: dai nonno, prendi fiato. Meliton ha quattro figli, due dei quali ricoverati in un ospedale di Lima per un esame approfondito del sangue, su cui già gravano 37 microgrammi di piombo ciascuno. «Non sono in condizioni di ridermela—aggiunge —. Ho l’affitto da pagare, accetto qualsiasi lavoro che mi venga offerto, imbianchino, sguattero,manovale, uomo della vasura: appena ieri ho fatto le ore piccole in un forno del pane». La notte, quando le luci gialle e forti della raffineria si fondono con quelle più deboli e variopinte sparse intorno sulle montagne, Oroya l’antigua si anima moderatamente lungo i viali e le gradinate: gente che va, gente che viene, figure di vecchine ingobbite sotto grandi scialli e cappelli che scompaiono inghiottite dal buio. Finita la giornata, i minatori che sono riusciti a rimanere sul libro- paga, insieme agli amici e colleghi disoccupati, si ritrovano all’osteria: piccoli angusti locali invasi dal fumo e dalla musica assordante del Juke-box. Uno dei motivi più gettonati è Bolero cantinero, condensato dell’allegria, malinconia e nostalgia dell’uomo del Sud. Li senti ridere, parlare, discutere ad alta voce: finché qualcuno stramazza sul pavimento come un sacco di farina, il sangue avvelenato non dal piombo ma da ettolitri d’aguardiente. Tranne qualche irriducibile votato al suicidio, la popolazione ha optato per una soluzione morbida del conflitto.

Ha prevalso la filosofia accomodante di José Mogrovejo quando ha asserito che, in fondo, «con 70 milligrammi di piombo nel sangue si vive benissimo». E anche il neurologo dottor Billa, che ha i piedi per terra ed ha contatti quotidiani con la comunità, sostiene che bisogna assolutamente garantire la sopravvivenza dei tremila dipendenti della fonderia (1800 i minatori veri e propri, il resto impegnato, senza contratto, in mansioni di contorno) che lavora ininterrottamente giorno e notte, sette giorni la settimana. Argomento incandescente, questo, per Annibal Carhuapoma, che è stato segretario generale del Sindacato dei lavoratori metallurgici dal 2 gennaio 2007 al luglio del 2008, quando venne licenziato in tronco, per comportamento scorretto. La direzione della Doe Run lo aveva ritenuto responsabile di uno sciopero selvaggio avvenuto mentre lui era al vertice dell’apparato sindacale. «Con l’assenso del mio avvocato—dice ora—ho contestato la decisione dell’azienda perché a scioperare eravamo in tanti e solo io ero il punito. In realtà, ero il classico sassolino nella scarpa della Doe Run, che se lo è tolto per camminare più spedita». Quarantatré anni e 19 di miniera, non poteva tollerare, Annibal, che l’Azienda si considerasse e comportasse da «padrona assoluta », anche dello stesso sindacato. Scuro di pelle, un volto dai tratti decisi disegnato da una mano intollerante di sfumature e tenerezze, il minatore-sindacalista ha deciso di battersi con tutte le sue forze per tornare in «fucina», come lui definisce quei cunicoli di terra nera dove i giorni sembrano mesi e i mesi anni e secoli. «Ho la solidarietà di tutti i miei colleghi — afferma senza esitazione — perché sono stato sempre un lavoratore onesto. Io sono religioso e rispetto la legge. Inoltre, ciò che mi sostiene nella vita è l’amore per il prossimo».

Sulla Doe Run il suo giudizio è severo: «Non è mai stata un’Impresa trasparente — dice quasi sillabando l’aggettivo —. I profitti finivano tutti in tasca ai padroni, i quali non hanno mai pensato a una equilibrata ridistribuzione della ricchezza, come avviene in alcune delle più illuminate industrie moderne. Per quanto riguarda la crisi attuale, per me il problema non è l’inquinamento. La Doe Run è d’accordo col governo peruviano sulla questione dell’ambiente, anche se il flusso immane dei veleni non è affatto diminuito. Ma coi lavoratori non c’è mai stato un tentativo d’intesa. L’impresa ci nega il diritto di sciopero e a fatto di tutto per dividere il movimento sindacale, per asfissiarlo. Questa è la verità». I giornalisti—sento dire—non sono graditi a La Oroya, che intende restare estranea ai pettegolezzi economo-politici internazionali: ma se qualcuno ci mette piede, l’ordine e di ridurre al minimo la pioggia dei veleni durante la loro permanenza. Ordine perfettamente rispettato in occasione della visita, qualche tempo fa, di una troupe della Cnn: solo che, essendo ripartita con un giorno di ritardo rispetto al previsto (e all’insaputa degli 007 della Doe Run), i telecronisti americani hanno corso il rischio di essere travolti dal diluvio universale.

Agosto 2008


da corriere.it
« Ultima modifica: Dicembre 29, 2008, 11:00:40 am da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Dicembre 29, 2008, 10:57:36 am »

Ospedali, miniere e santuari

Viaggio in Bolivia, Terra Madre

La lunga fame dei campesinos


di Ettore Mo foto di Luigi Baldelli


ANZALDO (Bolivia) — Nessuno spazio sarebbe adeguato per raccontare compiutamente questa storia. Che si svolge in Bolivia dove un medico italiano, Pietro Gamba (di Stezzano, Bergamo), vive e lavora da oltre 25 anni: per alleviare le sofferenze di 30 mila persone o cento piccole comunità sparse su una landa impervia di mille chilometri quadrati che si stende dalla provincia settentrionale di Cochabamba a quella meridionale di Potosí, dove le miniere d’argento, piombo, rame e zinco appestano l’aria. Scenario sublime: la cordigliera delle Ande a tre, quattro, cinquemila metri, appena sotto il paradiso. Il protagonista della storia, Marco, ha sette anni. Ha trascorso esattamente 67 giorni nel piccolo ospedale di Anzaldo (dipartimento di Cochabamba) dov’era arrivato «scarnificato dai morsi della fame», con le ossa in trasparenza sotto la pelle e braccia sottili come grissini. Pesava 13 chili. Aggredito dalla broncopolmonite e costretto a rimanere sempre sdraiato per la debolezza. Aveva piaghe su tutto il corpo. Il suo papà, Pedro, l’aveva affidato a un «curandero », lo stregone del villaggio, che sgozzata e scuoiata una pecora, aveva poi avvolto il bambino nella pelle dell’animale, ancora calda e inzuppata di sangue.

 
Per Marco, adagiato ora nel lettino dell’ospedale, quei camici bianchi che s’aggiravano attorno in silenzio non erano né medici né infermieri ma semplicemente dei «gringo» di pelle bianca che lo volevano morto: perciò strillava giorno e notte in «quechua», la sola lingua che conoscesse, chiamandoli ladri, bastardi, assassini. Piangeva anche, disperatamente: il lamento di un agnello prima di essere sgozzato, l’aveva definito un vecchio senza più denti né speranza. Ma nel momento in cui fu deciso di rimandare a casa Marco, quell’angoscia che da oltre due mesi gravava sull’ospedale come una nube di catrame s’era diradata e sciolta: restava tuttavia da chiedersi se quel rientro fosse motivato da un effettivo miglioramento delle sue condizioni fisiche e quindi con la possibilità di un graduale e vero recupero o al contrario, dall’ineluttabilità della fine. A questo punto, morire per morire, tanto valeva passare gli ultimi giorni fra le pareti domestiche, che erano in realtà delle grotte nere col fuoco sempre acceso e i buchi per lasciar scappare il fumo.

Da quando l’avevano internato all’ospedale per un intervento alla tibia della gamba sinistra, Marco s’era chiuso nel silenzio. Per un mese intero non riuscirono a schiudergli la bocca. Scardinato dalla sua terra, l’avevano catapultato in un mondo non suo, il mondo dei bianchi. Bianco il camice dei medici, bianche le lenzuola e le pareti della stanza. Quando lo interrogavano si rifiutava di rispondere nella loro lingua. E per un mese ha rifiutato anche il cibo — bianco — che gli offrivano. Dio solo sa come sia sopravvissuto. Ma la morte non lo spaventava: nella loro cultura la guardano in faccia, è normale come la zuppa di fagioli. Pedro, il suo papà, gli è stato sempre vicino: giorno dopo giorno, per 67 giorni. Gli spulciava i pidocchi dai capelli. E poi, quando non sembrava esserci più rimedio, lo rapò a zero. Però Marquito — ormai lo chiamavano tutti così —, era vanitosello, coprì la pelata con il «chullo», la berretta di lana dei campesinos vivace di colori e ricami.

Intanto, in quei giorni di attesa febbrile, Marquito aveva ricominciato a parlare. Tornava a casa. Pedro lo accudiva, gli diceva di stare tranquillo. Era mattino presto quando lo accomodarono sulla panca di legno del furgoncino, bello disteso. Ma l’indirizzo preciso della loro abitazione lo sapevano solo lui e il padre. Avremmo dovuto accompagnarli fino a un certo punto, in quella vallata non lontano da Potosí; a da lì scortati da amici, avrebbero raggiunto a piedi la loro arcana, inaccessibile dimora. La gente che quel «gringo loco» (lo «straniero pazzo», proprio così l’avevano battezzato laggiù) era andato a soccorrere oltre Oceano viveva in uno stato di perenne agonia, afflitta da ogni male: che per la maggior parte scaturivano dalla spaventosa denutrizione subita nell’età infantile. In realtà, straziava il cuore vedere come Marco ed altri bimbi guardavano con ingordigia e la saliva alla bocca il cibo scodellato sui piatti: e non sorprende quindi che il giovane medico bergamasco si sia molto commosso quando il padre di un ragazzino, curato per una ferita al braccio, gli mise in mano, come compenso, un paio di uova fresche.

Per qualche misteriosa ragione la Bolivia si addice a Pietro Gamba, e viceversa. Non si spiega altrimenti il fatto che la sua prima, veloce escursione in America latina, nel ’75, abbia avuto come meta La Paz, alla Casa del Niño, dove ha inizio il suo apostolato laico e dove impara a masticare con moderazione la foglia di Coca aderendo al rito sacrale del Pijchu che lo inserisce nel mondo arcaico dei boliviani. Ci sarà un’altra incursione, meno fugace, dal ’76 al ’78; ma quando, nell’85, torna in Bolivia, dopo aver conseguito a Padova la laurea in Medicina e chirurgia, sarà per rimanerci: e per essere alla fine proclamato, senza alcuna cerimonia liturgica, il medico dei campesinos. Il rapporto coi suoi pazienti non si esaurisce certo nei giorni di ricovero all’ospedale: perciò, non appena ha un giorno libero, salta in macchina e li va a trovare nei più remoti villaggi della regione dove — aggiunge con un sorriso — sono andati a seppellirsi prima di morire. Uno di questi è don Julio, cui un anno fa il dr. Pietro aveva amputato il braccio destro su cui, precedentemente, erano intervenuti i «curanderos» con nauseanti impacchi di sterco e urina. Al momento non sembra avere grossi problemi economici: se la cava discretamente, abbinando le attività di agricoltore e allevatore. Ha un toro, due asinelli, un gallo e 25 pecore: «Ogni anno — confessa — mia moglie ed io ne sacrifichiamo una per la festa del patrono».

Ad Acurachi, un villaggio affogato nella calura, doña Berta racconta di quel maledetto giorno quando cadde da un albero—un volo di quasi cinque metri—e si procurò una doppia frattura al femore. Le sta accanto il marito, Esteban, un tipo esile e nervoso e col naso schiacciato di un pugile: conseguenza, pare, di un formidabile pugno che gli venne sparato in faccia anni fa, durante il Tinku, la selvaggia gara popolare con la gente che fa a botte sulle piazze e nelle strade per rendere omaggio, con qualche litro di sangue, alla Pacha Mama, la Madre Terra. Giornate, talvolta, di sbronze apocalittiche, alimentate da ettolitri di Chicha, bevanda ad alto tasso alcolico che si ottiene con la fermentazione del mais. Rito liturgico del tutto maschile. Versata in piccole ciotole di legno, gli uomini se la passano di mano in mano e di bocca in bocca sorseggiandola avidamente fino a stordirsi e fino a quando l’euforia si spegne nel cuore della notte.

Nell’incontro con la signora Liborio e suo marito Calisto, ambedue 34 anni, emerge il dramma di una gravidanza difficile e di una minaccia d’aborto che il medico bergamasco è riuscito a scongiurare. Ora sembrano una coppia felice. Hanno tre figli e la donna, che è in attesa di un quarto, guarda con serenità al prossimo lieto evento, confortata dal fatto che il marito, fino ad ora sempre restio, ha promesso d’essere presente in sala parto. «Potrà sembrare cosa da poco—riflette Pietro —, ma per me non lo è. Come non lo è la nostra posizione, il nostro impegno di fronte alla cosiddetta malattia di Chagas, che riguarda l’insetto popolarmente noto come la pulce baciatrice, che qui in Bolivia chiamano Vinchuca ». Dopo aver punto l’uomo, spiegano gli esperti, questo orribile, microscopico insetto defeca sopra il sito della puntura, col risultato che nel giro di 10 anni danneggia irrimediabilmente il cuore e l’intestino della sua vittima. Calisto non sembra del tutto appagato della propria esistenza in quest’angolo remoto della Bolivia. Nel suo podere ha 6 galline che esprimono la propria gratitudine con 6 uova al giorno: ma le poverette vivono sotto la minaccia di un gatto randagio che ogni tanto piomba loro addosso per mangiarsele con felina voracità. Ci sono anche gli agnelli, uno dei quali, squartato di fresco, giace appeso nello stanzino adibito a macelleria. «Ne mangiamo cinque all’anno—dice il padrone della fattoria —: di più, non ce lo possiamo permettere».

Oltre agli agnelli e alle galline, la popolazione dei quadrupedi e ruminanti è costituita da 2 asini, 4 vacche e 18 pecore. Sull’aia c’è anche un forno a legna per fare il pane: funziona però soltanto cinque volte all’anno in occasione delle festività. Questo, il magro bilancio dell’azienda agricola C&C: per questo Calisto ha deciso di emigrare, destinazione Argentina. «Mi piace tutto del mio Paese—dice —: il paesaggio, la gente, le donne, gli animali, meno quel bastardo di felino che saccheggia il mio pollaio. Ma bisogna andarsene. Qui si muore di fame». Ora che ci stiamo avvicinando alla meta, il parsimonioso Marco-Marquito non dà un attimo di tregua alla sua laringe che emette a getto continuo parole, suoni, gorgheggi di quella gioia infantile così a lungo repressa nell’ospedale di Anzaldo.

«Quanto tempo manca?», chiede all’autista. «Non lo so, bambino mio. Forse ancora due, tre ore. La tua casa dev’essere laggiù, dietro quelle montagne...». Non c’è verso. Passiamo attraverso un paese in festa. Donne e uomini indossano il vestito buono della domenica, anche i rintocchi delle campane sono allegri, ci sono gonfaloni e stendardi per le strade e la banda suona inni e canzoni che non ci sono famigliari. Commosso da quella atmosfera gioiosa Pedro accarezza con mano leggera i capelli di Marco e gli bisbiglia qualcosa all’orecchio: «Sono sicuro — dice — che la mamma ti sta preparando quel dolce di mele che ti piace tanto».

Per il dottor Pietro, questa storia che sta per finire e finisce bene lo riporta col pensiero nella sua casa di Cochabamba, in famiglia, scambia due parole con la moglie, Margarita, che ha spostato nel ’91 e gli ha regalato quattro figlie, Silvia la prima, che ha 17 anni, ultima Norma, che ne ha cinque ed è deliziosa. Quando siamo stati invitati a cena a casa sua Alba e Norma si sono esibite in un balletto romantico che aveva il profumo d’altri tempi. Non stupisce che Pietro Gamba goda di grande stima in tutta la Bolivia e che Anzaldo lo consideri un suo «figlio prediletto», cui la città è grata non solo per la sua attività nel campo della medicina ma per il lavoro sociale che ha svolto e tuttora sta svolgendo a beneficio della comunità, occupandosi dei servizi pubblici come l’acqua e l’elettricità. Dopo due giorni di marcia l’auto si ferma davanti a uno scenario incantevole, il verde intenso delle montagne e delle vallate, il silenzio appena turbato da suoni e rumori lievi. Marco, che è sceso dalla macchina e avanza lentamente reggendosi sulle stampelle, sente l’odore di casa. L’ultimo tratto, che è piuttosto lungo, bisogna farlo a piedi, affrontando salite e discese che rallentano il passo di modesti scalatori quali noi siamo.

Lungo il cammino s’incontrano gruppi di uomini e donne, muniti di zaini e bastoni, che stanno rientrando dal Santuario della Vergine di Surumi, dove sono andati in pellegrinaggio camminando per tre giorni e tre notti su sentieri impervi. Affaticati, esausti, non hanno quasi più voce e a chi chiede notizie sulla loro grande avventura rispondono a monosillabi. Anche il rientro di Marco sembra atteso in questi giorni e non sono pochi quelli che avrebbero voluto incontrarlo per avere un resoconto dal vero sulla sua straordinaria escursione in Bolivia. Lo accompagnano ancora per un tratto cercando di cavargli di bocca le ultime e più vive emozioni a conclusione. Ma è sfinito e ciò che prova dentro di sé lo vuole conservare come un segreto da non spartire con nessuno.

Ciao, Marco. Anche per me è venuto il momento dell’addio. Ti vedo scendere lungo il pendio insieme a tuo padre, che con te ha condiviso ogni giorno ogni minuto della tua solitaria avventura. Poi don Pedro ti avvolge nel mantello a strisce e con un colpo deciso del braccio ti ricarica e sistema sulla schiena come un fagotto. E a un certo punto tutti e due scomparite, succhiati sul fondo di una conca di puro smeraldo.

Settembre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Dicembre 29, 2008, 10:59:03 am »

Per le strade di Caracas e Maracaibo

Viaggio tra omicidi, violenze, sequestri

Nel Venezuela del terrore

di Ettore Mo foto di Luigi Baldelli


CARACAS - Non avesse indossato pantaloni beige e maglietta bianca, come invece aveva fatto quel pomeriggio del primo agosto 2003, Javier Antonio Carmona sarebbe ancora vivo e avrebbe oggi trent’anni. Invece riposa ormai da cinque nel cimitero El Hatillo di questa capitale dove le fosse sono zolle d’erba tenera in un grande prato all’inglese, appena contrassegnate da una targhetta su cui sono incisi il nome del defunto più le date di nascita e di morte. Quasi sempre una vita molto breve. 
 
 
Ma i poliziotti, che nel quartiere stavano dando la caccia ad un pericoloso bandito e disponevano solo di quel dato labile circa l’abbigliamento per individuarlo, si accanirono contro il povero Javier riducendolo in fin di vita a colpi di pistola. «Un errore imperdonabile — protesta la madre della giovane vittima, Lesbi Carmona, venuta a depositare sulla tomba un gran mazzo di fiori gialli —. In tv anche il direttore della polizia sostenne che era stato ucciso un delinquente, facendo il nome di mio figlio. Ne è seguita un’indagine ma dopo cinque anni non è stata ancora avviata la causa in tribunale. Durante le indagini preliminari un poliziotto è fuggito in Spagna. Sono comunque tutti a piede libero. Un anno e mezzo fa, quattro studenti dell’Università Santa Maria vennero uccisi. Grande scandalo ma nessuna condanna. Siamo nel Paese dell’impunità permanente».

Un’altra brutta storia di violenza la racconta Diomedis Paredo, una signora di 33 anni che ha perso il fratello di ventuno, Ronnie, ucciso dalla polizia per strada. Punizione, pare, per un banale diverbio scaturito attorno a una bancarella del mercato. «Te l’avevo detto che ti avrei fottuto» avrebbe gridato l’agente al ragazzo mentre stramazzava a terra. Storia aggravata da un particolare agghiacciante: per far credere che s’era trattato di un conflitto a fuoco e non di un crudele capriccio personale, il poliziotto tentò di ficcare una rivoltella in mano alla sua vittima, agonizzante sul selciato. «Ma non ce la fece — precisa ora la Paredo — perché mio fratello teneva il pugno chiuso».

Ora sono in molti a chiedersi che cosa sia successo in questo Paese dove violenza, impudenza, corruzione e violazione dei più elementari diritti umani vanno a braccetto come scolaretti disciplinati e spavaldi; e come sia avvenuto che una città come Caracas, in tempi remoti definita «la succursale del cielo» sia diventata «la succursale della morte»: certo, la più violenta capitale del continente. Secondo i dati forniti dagli esperti, in Venezuela la criminalità avrebbe raggiunto il suo massimo livello nel periodo 2006-2007, alimentata soprattutto dal narcotraffico e dall’incontenibile espansione del mercato delle armi. Per i sociologi, questa «escalation» della violenza va anche messa in rapporto col processo di urbanizzazione del Paese, inarrestabile dagli anni Cinquanta ad oggi. Afferma Roberto Briceño, direttore dell’Observatorio Venezolano de Violencia, che si avvale della collaborazione di quattro università: «Nel 1998, l’anno in cui Chávez vinse le sue prime elezioni presidenziali, vennero commessi 4.550 omicidi. L’anno scorso furono 13.200. In 10 anni si sono triplicate le cifre. Le morti violente avvengono nei barrios (gli agglomerati urbani) più poveri dall’80 al 90 per cento. Nel 1998 la percentuale era di 19 omicidi su 100 mila abitanti. Nel 2006 salì a 49. In Argentina sono 9, mentre in Brasile si aggirano sui 23 e in Messico sui 24 ogni centomila abitanti».

Dati allarmanti, che trovano conferma nella vita quotidiana. Basta fare un salto, la notte, fino al pronto soccorso o centro d’emergenza di Caracas per avvertire una fitta ragnatela di brividi nella schiena. Dalle 8 di sera alle 7 del mattino assisti a una processione di poveracci che arrivano sanguinanti alla soglia del padiglione, per lo più con ferite di «arma bianca», come coltelli, catene o vetri di bottiglie spezzate. Oltre che per il dolore, molti barcollano per sbronze ataviche emanando l’effluvio di aliti pestilenziali. Non ci sono sempre brande o lettini disponibili e bisogna attendere il proprio turno su una sedia. Come succede ad una coppia di coniugi, accovacciati l’una accanto all’altro. L’uomo perde sangue dalla testa e dal ventre, che la moglie gli ha squarciato con un collo di bottiglia durante una rissa. Ma adesso lei lo accarezza e lo bacia e gli terge il sangue dal viso, tutta affettuosa e pentita. Il chirurgo dice che fino a quattro anni fa c’erano circa 30 morti la settimana: «Ma adesso — aggiunge — solo durante il weekend abbiamo dai 40 ai 50 morti. I miei medici fanno turni di 36 ore con uno stipendio da fame e non stupisce che molti di loro vadano a lavorare all’estero, dove non si verificano questi massacri quotidiani e notturni, spesso provocati dall’alcol».

In un Paese che registra più di 13 mila omicidi all’anno, il problema della sicurezza (o, piuttosto, dell’insicurezza) è uno dei più gravi. Avrebbero dovuto essere prese delle misure, come un aumento dei giudici e un rafforzamento del sistema giuridico, che invece — lamenta l’opposizione — non sono state applicate: col risultato che è ulteriormente aumentata l’impunità. C’è gente, a Caracas, che nel giorno di paga non sale sui minibus per paura di essere subito «ripulita» del proprio misero salario.

Ma ci sono luoghi dove questo timore, accompagnato da una sensazione di impotenza, è ancora più intenso: uno di questi si chiama Petare ed è uno dei barrios più grandi ed anche dei più pericolosi, arroccato su una cresta di montagne boscose e rocciose con circa un milione di abitanti sui quattro che costituiscono l’intera popolazione della capitale. I turisti sono vivamente sconsigliati dal mettervi piede per non incorrere in qualche brutta avventura, dato l’alto tasso di criminalità (omicidi, rapine, furti, sequestri) che il torvo promontorio è in grado di vantare. Le condizioni della polizia, disposta a scortarci in macchina sul luogo, era che Luigi, Piero — la nostra guida — ed io stessimo perennemente incollati alle guardie del corpo ed indossassimo un giubbotto antiproiettile. Nessun incidente di percorso. Solo qualche apprensione quando gli agenti, incrociati dei piccoli gruppi di malandros (delinquenti nel gergo locale), si apprestavano a setacciarli dalla testa ai piedi dopo averli schierati di schiena con le mani appoggiate alla parete rocciosa.

Durante il giorno — riferiscono le cronache — tutto appare tranquillo e normale e le piccole case aggrappate alla montagna possono anche dare l’impressione di piccoli isolati presepi. Ogni tanto scoppiano brevi e sanguinosi conflitti armati tra bande rivali che si contendono il territorio e il narcotraffico e per qualche tempo nessuno osa farsi vivo sul luogo degli scontri. Ma quando scende la sera e le tenebre inghiottono i villaggi, ognuno se ne sta rinchiuso nella propria casa in pietra e legno, come ci fosse il coprifuoco. Alla gente di qui non piacciono neanche i poliziotti perché, malignano, «anche loro ti fermano per strada e ti chiedono soldi».

Essendo un barrio popolare e povero, dove anni fa sbarcarono i primi medici cubani mandati da Castro, Petare è un bastione periferico schierato a favore di Hugo Chávez e il suo sindaco è chávista. Ma quest’ultimo è ora contestato dal candidato del centro destra, Carlos Ocariz, che rimprovera al governo di non essersi battuto a sufficienza sul problema della sicurezza che, a suo avviso, è il punto debole della politica di Chávez: «Qui l’anno scorso — taglia secco — furono uccise 700 persone. E in un fine settimana ne possono morire anche una trentina». Anche i sequestri, in cui sono state coinvolte pure persone di origine italiana e compiuti con un’efferatezza e crudeltà estreme, la dicono lunga sulla spirale di violenza che ha investito il Venezuela e convertito le città dell’America Latina — scrive l’Observatorio Venezolano — «nello scenario di una guerra silenziosa e non dichiarata».

L’esperienza di Tiberio Andreollo, un facoltoso allevatore di bestiame di Barinas, 58 anni, sbarcato in questa landa dal Veneto quando di anni ne aveva appena sette, ha risvolti meno drammatici di altri due casi di sequestro consumati a Maracaibo. Racconta tuttavia i suoi dolorosi 46 giorni in mano ai rapitori (10 uomini) che lo prelevarono di mattina nella sua fattoria e lo portarono via in macchina incappucciato. Il riscatto iniziale si aggirava sul milione di dollari ma poi scesero a più miti pretese. Lo fecero camminare per settimane sempre bendato, gli davano da mangiare solo riso in bianco e perse sedici chili di peso. «Ma la cosa più brutta — ricorda adesso — era la pressione psicologica, la paura di non reggere e che mi facessero fuori».

I negoziati che hanno condotto alla sua liberazione sono stati fatti dalla sorella. Dice di aver conosciuto i tre rapitori che sono rimasti uccisi e gli altri tre che sono finiti dietro le sbarre, mentre i rimanenti quattro sarebbero ancora uccel di bosco. «Comunque — conclude — questa vicenda non ha turbato i miei rapporti con il Venezuela, Paese ch mi ha accolto molto bene e a cui sono affezionato e grato».

Agghiaccianti, invece, i due sequestri che mi sono sentito raccontare a Maracaibo nella casa di Giovanna Vassallo, cui hanno rapito il padre, Mario, 68 anni e lui pure allevatore, prelevato nella sua fattoria la mattina del 6 febbraio 2006 e trovato morto un paio di settimane dopo, benché una borsa piena di banconote (la cifra iniziale del riscatto era di un milione di Bolivar, circa 500 mila dollari) fosse in qualche modo pervenuta ai sequestratori. Giovanna, una bella signora dal sorriso smagliante, rivive l’angoscia di quelle giornate raccontando particolari dolci e strazianti: come il voto di non mangiare più Nutella per un anno se papà fosse tornato; o come amici di famiglia e vicini di casa avessero fatto una colletta per raggranellare la somma necessaria al riscatto, trasformando il frigo in una cassaforte dove custodire e occultare migliaia e migliaia di Bolivar.

Tutto inutile. Il signor Vassallo non sarebbe mai tornato. I suoi rapitori, trasformati ormai in carnefici, gli fecero scavare una fossa prima di eliminarlo con un proiettile alla nuca. I sospetti caddero su una famiglia di delinquenti, i Los Brito, malandros di sinistra reputazione nella zona. La loro madre, che dirigeva l’«azienda», fu torturata e uccisa dalla polizia. Due dei sequestratori fecero una brutta fine: uno sarebbe stato ucciso dalla polizia, l’altro dai membri della stessa pia confraternita che gli spararono mentre dormiva placidamente nell’amaca. Un terzo finì in carcere e poi in ospedale dove però venne dimesso e rilasciato a piede libero. «E il governo non fece un coño per punire i responsabili», è l’amara conclusione di Giovanna: ma coño è una parola troppo oscena e non può essere degnamente tradotta.

Anche in casa Di Brino — altra famiglia d’origine italiana — c’è stata una vittima: una ragazza i 22 anni, Rosina, che stava per laurearsi, rapita il 2 febbraio del 2006 e mai più tornata a casa. Ce ne parla il fratello Angelo, che è qui con noi nella casa di Giovanna e che ha avuto la penosa incombenza di «negoziare» coi sequestratori. Questi hanno sparato all’inizio una cifra folle, poi sono scesi in picchiata accontentandosi di 80 mila dollari: ma anche questa era una somma troppo alta per gente modesta come i Di Brino. Conclusione: i rapinatori reagiscono strangolando Rosina con le proprie mani. Buttato in acqua, il suo cadavere riemerge di lì a poco sulla spiaggia del lago di Maracaibo. Angelo è chiamato dalla polizia per il riconoscimento della sorella. Sconvolto, lui è più che mai convinto, anche per il modo in cui si sono svolte le trattative, che i sequestratori sono stati assecondati dai poliziotti: anzi, che «sono i poliziotti i primi, veri sequestratori».

Quando l’opposizione gli rimprovera di non aver preso a cuore il problema della sicurezza, lasciando troppo spazio all’immunità, il presidente Hugo Chávez insiste nel sottolineare prima di tutto la necessità di assicurare al Paese un solido equilibrio sociale e che la sua priorità rimane sempre la lotta a favore dei poveri: e a questo proposito non manca di ricordare che l’anno scorso il suo governo ha approvato una manovra economica da 54 miliardi di dollari che gli hanno permesso di promuovere e finanziare i programmi sociali più impellenti.

Ma i suoi detrattori, cui non garba lo spirito della politica chávista che vede mischiati insieme populismo, nazionalismo, militarismo (il Venezuela è governato dalle Forze Armate, ha scritto qualcuno), socialismo, più il vecchio sogno bolivariano dell’unione dei Paesi sudamericani, sono pronti a sostenere che lo slogan strappaconsensi «Chávez va bene per i poveri» non trova prove concrete nella realtà quotidiana e che il suo slancio a favore delle classi più basse «non ha fatto niente di più dei governi che l’hanno preceduto».

Ma fuori dai patri confini, questo è un anatema. Per la Cuba di Fidel e Raúl Castro, per la Bolivia di Evo Morales e anche per il Nicaragua di Daniel Ortega, Hugo Chávez è l’uomo che nel maggio del 2007 ha nazionalizzato gli impianti di estrazione del petrolio, sottraendoli alle compagnie straniere: e anche l’uomo che ha destinato miliardi di dollari, grazie al petrolio, ai Paesi in difficoltà dell’America Latina.

Ma nessuno è in grado di giurare che possa sfidare incolume i picchi di Petare.

Agosto 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Dicembre 29, 2008, 11:02:09 am »

Nelle carceri di Caracas: risse, violenze e detenute musiciste

Sangue e note dietro le sbarre


di Ettore Mo foto di Luigi Baldelli


CARACAS - Inesorabile, la sentenza è di 8 anni, sia che ti abbiano trovato addosso 300 grammi di droga o un ingombrante fardello di 37 chili, come è avvenuto più di una volta, capace di inebriare letteralmente in un colpo legioni di persone. Secondo l’elenco mozzafiato che ho sottomano, nelle carceri della capitale e delle quattro regioni del Paese — centrale, centro occidentale, orientale, andina—sono 43 i detenuti italiani nel primo semestre di quest’anno gravati da quella condanna, che però non viene mai scontata per intero. Tralasciando quelle più remote e inaccessibili, ho trascorso qualche giorno nelle prigioni di Caracas e dintorni, dove la presenza dei nostri connazionali è cospicua: gente di età e condizioni sociali diverse, spinta quaggiù dalla chimera di un «affare » rapido e facile che ha accomunato per anni lombardi, liguri, toscani, siciliani, calabresi, veneti, campani, friulani, sardi, pugliesi, emiliani, abruzzesi. Dal bollettino di guerra — l’elenco — risulta che il drappello più nutrito è quello siculo- lombardo. 

 
Nel carcere El Rodeo, considerato il più tumultuoso e pericoloso di tutti, un milanese sui quarant’anni, alto e secco, riassume in poche parole la sua avventura: «Sono qui da due anni e mezzo, per traffico di droga. Perché l’ho fatto? Per ingordigia di denaro, come tutti». Nello stesso lugubre, catacombale corridoio dove stanno rintanati mezza dozzina di italiani, un tipo coi capelli rossi e modi gentili è fresco di cattura: viene da Padova, l’hanno arrestato 10 mesi fa alla frontiera con due chili di «roba» nello zaino. «Otto anni la sentenza —dice rassegnato—e due li dovrò passare certamente in questo cesso. Poi però sarò rilasciato in libertà condizionata e mi troverò un lavoro». Bastano poche ore al Rodeo 1 per sprofondare nell’abisso di una realtà dove odio, rancore e disperazione non hanno limiti e spesso scaturiscono in risse sanguinose e mortali tra le diverse «bande» dei carcerati, oltre che tra le guardie e i detenuti. Secondo i dati aggiornati dell’ultima ora, gli scontri armati all’interno delle prigioni venezuelane ad alto rischio hanno fatto 249 morti e 381 feriti nel primo semestre del 2008: ed è proprio Rodeo 1 a conservare il primato con 41 cadaveri e 35 sopravvissuti, attualmente confinati nelle corsie degli ospedali.

Ma non è un mistero per nessuno che la gran parte della responsabilità per questo continuo spargimento di sangue debba essere attribuita al fenomeno inarrestabile della corruzione, che irretisce e coinvolge un po’ tutti: dai direttori stessi dei penitenziari al personale di vigilanza e su su fino a certe strutture e vertici di potere nazionali. Nei mesi scorsi sono stati confiscati in 10 prigioni venezuelane una grande quantità di armi (rivoltelle, pistole, mitragliatrici, pugnali, granate) e munizioni; così come sono state sequestrate grosse riserve di droga — marijuana, cocaina e crack — a nutrimento di una popolazione carceraria totalmente tossicodipendente, che—mi dice un ragazzo sdraiato nel corridoio con gli occhi sbarrati —, «non ha più nulla da perdere».

Un tizio racconta di essere stato fermato dagli agenti con 7 chili di droga nella valigia. «Me ne hanno presi 6—aggiunge senza scomporsi, come se si trattasse di un fatto di ordinaria amministrazione — lasciandomene uno. Un buon affare per tutti: io non sono finito dentro e loro hanno rimesso sul mercato, con gran profitto, quel po’ po’ di merce». Nessuna illusione, quindi, che il flusso quotidiano di droga possa essere bloccato dai cancelli d’ingresso del Rodeo, permanentemente controllato da mezza dozzina di poliziotti, assonnati e insaccati nell’uniforme, anche se hanno una mano indolenzita sul calcio del fucile. E credo siano in pochi a credere che la decisione—suggerita tempo fa — di cambiare ogni sei mesi il direttore del carcere e l’esercito dei suoi dipendenti più fidati possa d’un sol colpo neutralizzare la fitta rete delle complicità e degli intrallazzi. Anche imeno scettici dubitano che eventuali nuovi progetti ed interventi possano provocare una metamorfosi. Molti i rassegnati, gli sconfitti. Più di uno ha definitivamente tirato il catenaccio sul portone della vita. Si spinellano per arrivare al traguardo. C’è chi fa testamento: «Sono qui dentro da 5 anni e mezzo per traffico di droga a livello internazionale. Nato a Caracas, ma di origini italiane. Ciao, amico. È venuto il momento». E un altro, pure di italiche origini: «Sono un essere umano, ma le condizioni igieniche sono disastrose. Sono vissuto nella merda». Chi è venuto da Bergamo, chi da Catania, chi da Genova, Tarquinia, Grosseto, Catania, Brescia, Forlimpopoli, Lamezia Terme, Buccinasco, Sesto San Giovanni, Mazzara del Vallo, Mondragone, Gioia Tauro, Carrara, Frosinone, L’Aquila. Uno che viene da Benevento dice: «L’ho fatto per necessità, la moglie, i figli…». Sta per mettersi a piangere.

Se lo vedi dall’alto, il carcere Rodeo sembra un vecchio moribondo condominio, un cubo di pietra grigio trapanato dai proiettili, con dei buchi neri al posto delle finestre, da cui pendono lenzuola e stracci luridi da funerale di terza classe. Sul tetto- terrazza, molto vasto, i detenuti stanno facendo la doccia completamente nudi, sghignazzando e irrorandosi a vicenda coi getti d’acqua: e a Luigi che li vuole riprendere con l’obiettivo in quella atmosfera di festa e si dispone a scattare la foto, lanciano improperi e minacce: «Guarda che dentro al Rodeo non si fanno le foto. Se ci provi ti spariamo, stronzo!». All’ingresso dell’edificio, lungo un corridoio piastrellato, c’è una serie di stanze piccole ma alte fino al soffitto, le pareti di cemento spoglie e nude, senza neanche l’ombra di un giaciglio o d’una coperta: adibite, com’è facile immaginare, agli amplessi rapidi, furiosi e disperati dei detenuti con le proprie mogli o compagne, secondo le scadenze fissate, con impietoso rigore, dal regolamento carcerario. Nella calura meridiana, il cortile che si estende tra due padiglioni è diventato un dormitorio dove qui e là sono state elevate capanne d’emergenza per proteggersi dall’accanimento del sole: per garantirsi la «privacy», un detenuto ha comprato una tenda di tre metri per due, dove fa la siesta su un materasso di gomma piuma come un maharajah. Alcuni — non si sa come — sono riusciti a prendere sonno anche nelle amache allacciate sotto tettoie di lamiera arroventata. Ma il momento più bello è la sera, quando il cielo si spegne e l’intero paesaggio si assopisce in una luce morbida, prima del silenzio notturno.

Ma in tutti i drammi degli espatriati e delle migrazioni estreme c’è sempre una storia a lieto fine, come quella di un signore quasi ottuagenario che in settembre si appresta a rientrare in Toscana. Me lo ha presentato un suo grande amico, l’instancabile missionario italiano di Cologno Monzese, padre Leonardo Grasso, 49 anni, da quindici in Venezuela e attualmente responsabile di Icaro (Associazione non governativa che attualmente gestisce un Centro di assistenza per il recupero e il reinserimento sociale di bambini, ragazzi e adulti in situazioni di grave necessità). Ingiustamente accusato di narcotraffico al confine del Venezuela — quando vennero trovati 12 chili di droga nella valigia del suo compagno di viaggio—l’anziano e innocente turista scontò in carcere due degli otto anni inflitti normalmente per quel tipo di reato ed è tuttora ospite in un ricovero per vecchi. Ma forse sorride ormai delle proprie vicissitudini, visto che il rimpatrio gli è stato praticamente assicurato e che il prossimo 23 dicembre potrà festeggiare, nella propria terra e fra i suoi cari, il settantanovesimo compleanno. Urrah. Potrebbero essere molte le ragioni che negli ultimi anni hanno scatenato l’attività musicale in Venezuela. L’anziano compositore Josè Antonio Abreu, oggi 67 anni, che ha fatto sorgere nel Paese, dal nulla, 154 orchestre giovanili e 140 complessi infantili. Niente male. È stato lui a scaraventare sul podio quell’inesorabile folletto di Gustavo Dudamel, che tuttora non sta mai fermo e volteggia da un podio all’altro del pianeta, inesauribile, tellurico. Assecondato dal governo di Hugo Chàvez e dall’Inter-American Development Bank, il progetto ha ricevuto in dono 3 milioni di dollari, che hanno consentito a 240 mila bambini e adolescenti di sfuggire dai barrios urbani e rurali della malavita.

Dal carcere maschile del Rodeo siamo approdati, in due ore di macchina, in mezzo all’infernale bolgia del traffico sudamericano, al carcere femminile Inof (acronimo che alla fine significa prigione per le donne) in località Los Torques, all’estrema periferia Ovest della capitale. Il miracolo, a questo punto, è che le detenute — alcune internate per reati piuttosto gravi — hanno deciso di scontare la pena a suon di musica, alternando sinfonie, madrigali e inni sacri a ritmi pop da discoteca e canzoni popolari. Per questo hanno formato una piccola orchestra d’archi—violini, viole, violoncelli, contrabbassi — e un coro finora limitato a poco più di 20 elementi. Si tratta di un impegno serio e non di un capriccio: e durante la giornata si appartano a gruppi in stanze diverse per esercitarsi sotto la guida d’un maestro e mettere a punto il programma del prossimo concerto. La più giovane del coro ha 22 anni; la più anziana ne ha 58 e sembra anche la più allegra e loquace. Ma è il momento della prova e le coriste vanno a sistemarsi silenziosamente sulla parete di fondo della sala, mentre le musiciste pizzicano e tormentano le corde dei loro strumenti per l’ultima verifica del suono. Sul leggio del direttore d’orchestra —un giovanotto fragile e riccioluto—lo spartito è aperto sulla IX di Beethoven: ed ecco che vibrano immediatamente nell’aria e contro la vetrata le note dell’«Inno alla gioia». Il maestro non è soddisfatto: anche il coro deve rifare il proprio intervento, non sufficientemente compatto e gioioso, meno problemi quando orchestra e cantanti offrono motivi popolari come «Moliendo café» (macinando il caffè) o «Alma Llanera», una canzone definita per verdetto unanime molto dolce e sentimentale.

Sembra che nessuna delle detenute, ora impegnate in questa avventura musicale, abbia mai toccato uno strumento o cantato in un coro parrocchiale prima di varcare la soglia della Inof a Los Teques. La giovane e bella signora di pelle scura che sta ora pizzicando le corde del contrabbasso non aveva mai visto in vita sua e tanto meno abbracciato quello strumento. «Sono qui da 18 mesi—dice Irma Gonzalez, che però tutti chiamano Abigaille— e da 14 faccio parte dell’orchestra. La musica è stata un’esperienza formidabile. Gradualmente sono cambiata. Guardo la vita con occhi nuovi». Condannata a 6 anni per furto, ha recentemente avuto la soddisfazione di esibirsi davanti ai suoi 4 figli, di 9, 10, 13 e 14 anni. Lo stesso per Joanny Aldana, 29 anni, arrestata per sequestro di persona e furto d’auto e condannata a 9 anni, ospite della Inof da un anno e undici mesi: «Grazie alla musica—dice—la mia permanenza in prigione non è stata un castigo, ma un modo per acquisire e scoprire valori nuovi. Da un anno suono ogni giorno, tutti i giorni, e ho accantonato per sempre il passato ». Le fa eco Laura Rojas, che, arrestata per truffa sta scontando la sua pena da un paio d’anni. Domani è il suo ventiseiesimo compleanno e presto sarà libera: «La musica — confida — ha avuto perme l’effetto di scacciare la malinconia, che mi ha aggredito per anni». E forse indicativo in questo cambiamento di sentimenti e umori nella comunità carceraria femminile il cartello appiccicato a una parete della stanza che dice, testualmente: «Accettarsi come siamo, indipendentemente dal sesso, dal colore della pelle, dalla cultura, dal lavoro e dalla provenienza».

Certamente è ancora vivo nel cuore di tutti il ricordo della serata del 29 aprile scorso quando la Orquesta Sinfonica Penintenciaria del Nucleo Inof (che aveva iniziato la propria attività nel giugno del 2007) eseguì, insieme al coro, il suo primo concerto al Teatro Teresa Careño di Caracas. Le donne prescelte per l’esibizione erano state portate al teatro in pullman con le manette ai polsi, che vennero loro tolte solo pochi minuti prima di entrare nel retro del palcoscenico. L’operazione si era svolta sotto l’occhio di 350 poliziotti che controllavano il gruppo da vicino prendendo posto dietro le quinte oltre che in sala e sulle balconate. Forse temevano che le detenute- artiste avessero cogitato un rocambolesco piano di fuga: sospetto che parve trovare conferma quando improvvisamente venne a mancare la luce e per pochi attimi pubblico e poliziotti rimasero al buio. Ma subito dopo lampadari e luci tornarono a splendere dando modo alle signore non più ammanettate della Inof di offrire al pubblico degli uomini liberi, ai poliziotti e ai loro stessi carcerieri una memorabile esibizione del proprio talento. Lo spettacolo, a cui parteciparono anche gruppi di prigionieri detenuti in tre diversi carceri maschili, «mise in evidenza davanti a tutto il Venezuela—tale il commento di un critico locale — il meraviglioso potere liberatore della musica».

Agosto 2008
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Dicembre 29, 2008, 11:03:08 am »

In Messico, fra gli immigrati clandestini che sognano il Paradiso Nordamericano

Aspettando la Bestia, il treno dei desperados


di Ettore Mo foto di Luigi Baldelli


ARRIAGA (Chiapas, Messico) — L'immigrazione clandestina non costituisce più un reato: così ha stabilito il governo federale del Messico con una legge entrata in vigore l'estate scorsa. Allo stesso tempo le cronache informano che ogni anno 150 mila stranieri vengono inflessibilmente deportati nei Paesi d'origine. Qui, nello Stato del Chiapas inondato da legioni di centro-americani del Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua, il clima è torrido. Tutta questa gente s'è data convegno nella città messicana di Tapachula e, soprattutto, di Arriaga per intraprendere la prima fase del lungo viaggio verso la frontiera settentrionale che si dovrebbe concludere, successivamente, nei paradisi urbani del Nord America: luoghi che si pronunciano con ansia e venerazione, come San Diego, Los Angeles, Las Vegas, Miami, New York. Un sogno che, presumibilmente, solo pochi riusciranno a realizzare. A me, purtroppo, è consentito solo di raccontare le ansietà, la pazienza, gli isterismi, gli scazzi e anche una non vaga sensazione di angoscia nelle ore che precedono la partenza del treno-merci che da Arriaga porta a Ixtepec tonnellate di cemento. Perché il protagonista della vicenda è proprio il convoglio che ormai tutti chiamano La Bestia: definizione che non si merita, data la sua totale e incontestabile innocenza. È infatti l'inconsapevole strumento di una tragedia umana che si consuma ogni giorno sui tetti infuocati dei suoi vagoni: presi quotidianamente d'assalto da migliaia di disperati che strappano un «passaggio» verso il Nord, convinti che solo lì si possa trovare un lavoro e conseguire una minima possibilità di sopravvivenza.

 
Non può quindi sorprendere la tenacia di un ragazzo che sta per ore sotto il sole a una temperatura che tocca i 40/45 gradi in attesa dello sbuffo nero della locomotiva e così giustifica la sua pazienza quando gli chiedi dov'è diretto: «Come tutti gli altri — risponde —, io sto andando dove ci sono i dollari». Insieme al fotografo Luigi Baldelli, ho vissuto per ore l'illusione e l'inquietudine di questi giovani (e meno giovani) emigranti nel momento di avventurarsi verso l'ignoto. La notte dormono accucciati sulle cataste di legno nero o sull'erba nana delle rotaie abbandonate. Nella vicina Casa del Migrante c'è sempre un pasto caldo, ma nessuno ne approfitta, anche se lo stomaco vuoto rumoreggia, per il timore che La Bestia si metta improvvisamente in marcia lasciandolo solo in quello straccio di terra che diventerà il suo Limbo permanente. «Nel mio cervello ormai — dice un ragazzo fuggito da El Salvador — non c'è spazio che per il treno». E automaticamente si porta la mano alla tempia e l'accarezza con le dita come sentisse le vibrazioni dello stantuffo e fosse già in corsa verso la terra promessa. Due guatemaltechi — 34 il primo, 20 il secondo — vorrebbero tornare in California, a Sacramento, da cui vennero deportati solo un anno fa. Ma sono rimasti senza un soldo. «Gli ultimi dollari — confidano — li abbiamo dati ai polleros e ai coyotes che ci hanno aiutato a varcare il confine meridionale del Messico».

Ancora più drammatica la vicenda di George che, dopo due anni di carcere, venne deportato dall'Alaska, accusato di violenze domestiche contro la moglie: «Tutta colpa mia — ammette —: vorrei tornare per chiederle perdono, a lei e ai nostri figli. Sono di El Salvador, dove ho combattuto nella guerra civile. Ho raggiunto il Messico attraverso il Guatemala, quasi sempre a piedi. Sono su questo binario da quattro giorni. Ho fame, è vero, ma è meglio morir di fame che perdere questo treno». Come per tanti altri, George ha lasciato il suo Paese per ragioni politiche e sfuggire a un regime che definisce «intollerante, barbaro, oppressivo».

L'attuale dramma dell'emigrazione — sostiene Mercedes Osuna, nostra solerte accompagnatrice nei territori del Chiapas — dev'essere attribuito in gran parte alle condizioni socio-politiche dell'America Centrale: ognuna delle sue quattro Regioni è afflitta «dalla povertà e dalla disoccupazione». Opinione pienamente condivisa da Padre Battista Scalabrini (di cui parleremo diffusamente nella prossima corrispondenza), che accusa quei regimi di «costringere la propria gente ad emigrare e se ne lava le mani». Se si parla di frontiere, il presidente dell'Associazione Avvocati del Chiapas, José Manuel Blanco Urbina, ritiene che quella tra Guatemala e Messico sia «molto più pericolosa» di quella fra Messico e Stati Uniti. «Intanto lassù — precisa — c'è molto più controllo che lungo i 970 chilometri del nostro confine meridionale fluviale col Guatemala, filtrabilissimo, coi traghetti che fanno indisturbati la spola tra una sponda e l'altra».

Un taccuino, il mio, che s'è riempito in questi giorni di tragedie, grandi e piccole. C'è la storia di Mario Justino Alonzo Miguel, 22 anni, ricoverato all'Albergo Buen Pastor di Tapachula. La gamba destra gli è stata tranciata dal treno in corsa sotto il ginocchio, quando, come tanti altri suoi compagni, era piombato sfinito sulle rotaie. Si era imbarcato sulla Bestia il 29 agosto di quest'anno e sognava di raggiungere la sua famiglia a Los Angeles. Un sogno brutalmente spezzato e infranto nel sangue. Ora sta seduto sulla sedia accanto al suo lettino d'ospedale e racconta senza enfasi e con una certa riluttanza di quel «piccolo» incidente che gli impedirà per sempre di trascorrere un'esistenza normale. Anzi, al contrario, è carico di un sentimento di sfida e di rivincita: che conferma, saltellando sulla gamba «buona», come se niente fosse. «Amico mio — dice stringendomi il braccio con la mano —, ci puoi contare. Io a Los Angeles ci tornerò! La considero la mia città e non c'è alcun altro luogo al mondo dove voglia e possa vivere. Ci andrò anche se mi tagliassero l'altra gamba».

Ma c'è pure chi soccombe alla seduzione del sogno americano. A Ciudad Hidalgo, sulla sponda del fiume Suchiate, confine liquido tra Guatemala e Messico, tocca ai ragazzi dei traghetti informarti sul flusso dei turisti o sul traffico, altrettanto importante, delle merci: e nessuno potrebbe escludere che in mezzo a tanta povera gente in cerca di lavoro potrebbero transitare consistenti partite di droga a reciproco beneficio di « drug dealers » di ambedue le contrade e dei barcaioli che, in questo caso, sparano tariffe siderali. Mario Morales, 18 anni, ha cominciato a lavorare sui «gommoni» del Suchiate quando era un bambino di otto e non sembra avere alcun motivo per lamentarsi della propria esistenza. Però il ricordo dell'America è una spina costante nel suo cuore. Ma finora ha sempre respinto l'invito degli zii, che lo vorrebbero di nuovo a Dallas, nel Texas, dove ha vissuto tre anni della propria infanzia. Ai suoi coetanei, increduli e allibiti, che farebbero la strada a piedi pur di sbarcare nel pianeta Usa, spiega con semplicità le sue ragioni: «Qui — dice — mi trovo a mio agio, sto fra la mia gente, ne parlo la lingua e, soprattutto, non saprei rinunciare alla tortilla, che è il mio piatto preferito e ha il sapore della mia terra». Cammino su e giù per gli acciottolati di San Cristóbal de Las Casas, che è l'essenza del Messico, con le sue case arroccate su uno sperone di montagna a oltre duemila metri. Sono giorni di festa per la Virgen morena di Guadalupe, con fiumane di gente in marcia sulla scalinata del Santuario che sembra inaccessibile, stagliato così com'è con le sue cupole bianche contro un cielo che più azzurro e limpido non potrebbe essere. Siamo travolti da una liturgia festosa biblica e pagana che accomuna il suono delle chitarre, delle trombe e dei mortaretti agli inni religiosi e alle canzoni eroiche e agrodolci della rivoluzione di Pancho e Zapata, dove si canta di un soldato che nella guerra ha perso il suo amore, Adelita. Quando, tantissimi anni fa a Madrid, ricordai quei pochi versi e quelle poche note a Dolores Ibárruri, alla «pasionaria» e indomita «sardinera » delle Asturie che s'era ribellata al regime di Franco alla fine degli anni Trenta («No pasarán ») vennero le lacrime agli occhi.

Ben lontana dallo scenario cruento della guerra di Spagna, Arriaga sta tuttavia vivendo ore di tensione. Dopo che l'uragano Stan distrusse completamente, nel 2005, la linea ferroviaria che da Tapachula conduce fino a qui lungo la costa del Pacifico, questa località è diventata uno dei «passi» più transitati dagli emigranti del Centro America. Che qui devono per forza confluire, se vogliono abbarbicarsi al solo treno, La Bestia, che li potrebbe in qualche modo avvicinare a Città del Messico. Da dove, comunque, la terra promessa è ancora lontana anni luce: distanza che presuppone una riserva di spirito e pazienza pari a quella che animava, nel Medio Evo, i pellegrini in marcia verso i Santuari di Canterbury e Santiago de Compostela. Assicurarsi un posto sul treno ad Arriaga resta quindi il primo impegno di qualsiasi aspirante- emigrante. Sembra non esserci conflitto diretto tra i vari gruppi e le varie nazionalità in attesa dell'arrembaggio. Si ha tuttavia l'impressione, dalle voci che corrono, che quelli dell'Honduras rappresentino la compagine più compatta e determinata, contro cui è opportuno coalizzarsi. Li definiscono «catracho», gente dalla testa dura, pugnaci, pronti a menar le mani. Definizione che trova conferma in uno dei primi che s'è arrampicato sul treno e dice subito con un ghigno di sfida a chi lo guarda dal basso in alto: «Io ho dodici fratelli e alcuni di loro sono già stati negli States, dove quei bastardi dagli occhi azzurri degli Yankees li hanno arrestati e deportati. Adesso è venuto il mio turno e non mi tiro indietro». Per l'avvocato Urbina, l'emigrazione rimane il problema più grave del Messico e riconferma che il flusso di clandestini del Centro America negli Stati Uniti si aggira sui 150 mila l'anno. Sulla parete, nella Casa del Migrante di padre Rigoni, è appeso un cartello dove sono indicati i percorsi e le distanze che gli eventuali emigranti dovrebbero coprire per arrivare a destinazione. Cifre da brivido. Per giungere nella Grande Mela, New York (forse la più ambita), occorre coprire 4.375 chilometri; 2.930 per Houston; 3.678 per Chicago, e via pedalando. Non sono in grado di stabilire quanta strada dovrà fare George, se mai tenesse fede al suo proposito di tornare in Alaska per rappacificarsi con l'adorata consorte. Un risvolto allarmante, e insieme commovente, riguarda il mini-esercito di ragazzini e adolescenti che, lasciati a casa coi nonni, vorrebbero ora raggiungere i genitori stabilitisi definitivamente in America. A noi anziani torna subito in mente il racconto strappalacrime di De Amicis nel Cuore, Dagli Appennini alle Ande: ma anche in questi casi di ricongiungimenti familiari ci sono procedimenti e meccanismi legali estremamente complicati che ritardano e rinviano le soluzioni, provocando interminabili angosce.

Se Arriaga è la porta d'ingresso — per quanto distante — alla Holy Land degli Stati Uniti, Tapachula (270 mila abitanti) è la prima tappa d'obbligo per chi voglia tentare quella straordinaria avventura. La ricostruzione della linea ferroviaria devastata dal ciclone Stan e ora ad una ditta cinese (gli operai sono già al lavoro con un salario di circa 40 dollari al giorno) contribuirà a rianimare la città che è stata sempre un grosso centro commerciale. Come ovunque, il narcotraffico (frenetico ma invisibile) convive con lo squallore, visibile, dei mendicanti e dei marciapiedi ingombri di larve umane. E il continuo flusso migratorio dal Centro America aggrava problemi già gravi. «Tapachula — dice il delegato dell'Ufficio Emigrazione, Jeorge Umberto Yzar — è un luogo di intenso conflitto. Tre autobus al giorno, ciascuno con più di 30 persone a bordo, deportano i clandestini, ragazzi, ragazze e adulti, nel loro Paese d'origine ». Un altro problema che turba gravemente la vita urbana è quello dello sfruttamento sessuale dei bambini, in continuo aumento, a un punto tale da definire la città «la capitale della prostituzione infantile del Messico». La corruzione dilaga a tutti i livelli, dai ministri ai bidelli di scuola, mentre la polizia locale è ritenuta «la più corrotta del mondo». Poco aggiunge, per definire le dimensioni del degrado incontenibile del luogo, una visita al Basurero Municipal, l'immondezzaio pubblico: una discarica immensa dove 150 camion al giorno travasano rifiuti, contesi da cani e da stormi famelici di falchi, corvi, avvoltoi. Una signora ci lavora dall'alba al tramonto raccogliendo bottiglie di plastica e pezzi di latta per un salario giornaliero di pochi dollari. Mercedes, la nostra guida, ci fa notare che la donna profuma di gelsomino: ma non è per vanità, aggiunte «è per scacciare il cattivo odore della spazzatura che le è penetrato nella pelle». Il solo dato positivo in questo dramma immane dell'emigrazione è che le rimesse degli emigranti negli Stati Uniti alle loro famiglie costituiscono un forte impulso economico per i Paesi boccheggianti del Centro America. Nel 2006 ad esempio — ha rivelato un esperto del mondo finanziario internazionale — il totale delle somme mandate in Honduras dai suoi lavoratori all'estero equivaleva a un quinto del prodotto lordo nazionale. Pecunia non olet — sentenzia imperturbabile il saggio di turno - , il denaro non puzza: anche se arriva dalle auree riserve degli Yankees del Nord America.

Settembre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Dicembre 29, 2008, 11:04:21 am »

Ritorno in Afghanistan: la provincia dell’Ovest

Herat, la frontiera degli italiani

di Ettore Mo
foto di Luigi Baldelli


HERAT — Solo un'ora di volo da Kabul a Herat, ma quando vi sbarchi trovi un paesaggio totalmente diverso. Ciò che vedi è una macchia vastissima di case, incollate alla crosta di sabbia del deserto, nella polvere. Di montagne, neanche l'ombra. E quando dall'aeroporto arrivi in città, lungo il rettilineo di un vialone che non finisce mai, hai subito la sensazione che manchi qualcosa rispetto alla capitale lasciata alle spalle: l'atmosfera, i rumori della guerra.

Ma non è così. L'Isaf—International Security Assistance Force — ha schierato qui gran parte delle sue forze: e qui c'è pure il comando italiano che presiede alla regione occidentale del Paese, dove sono accampati circa la metà dei 2.500 soldati del nostro contingente, mentre all'altra metà è affidata la sicurezza della capitale e la zona montagnosa che attraverso il Khyber Pass confina ad Est col Pakistan.

Missioni di pace e truppe di «supporto» sono definizioni un po’ vaghe che non spiegano a sufficienza quali siano le funzioni e il ruolo effettivo degli alpini italiani e dei paracadutisti della Folgore in territorio afghano: ma nella vasta e turbolenta provincia di Farah, a Sud di Herat, dove sono annidate le milizie talebane e di Al Qaeda oltre a un miniesercito di narcotrafficanti, gli scontri a fuoco sono frequenti.

Il governatore della città, Sayed Hussain Anwari, ha parole di elogio per i nostri militari, che— dice— «si comportano molto bene». Riconosce che il loro mandato prevede soprattutto un forte impegno nel programma di ricostruzione del Paese: non sembra avere tuttavia alcun dubbio che, in caso di necessità, gli alpini «sapranno fare il loro dovere di soldati a fianco dei nostri ragazzi». Insomma, se c'è da sparare, si spara. Ma fino ad ora la minaccia dei talebani è stata lontana da Herat, che per popolazione è la seconda città dell'Afghanistan: «Che io sappia —dice il governatore con sollievo —, questi folli di Dio non si sono mai visti nelle nostre strade né nei quindici distretti della circoscrizione. Sono altri i nostri problemi. Soprattutto criminalità comune. Però da un mese non abbiamo più né rapimenti né rapine. Abbiamo eliminato i due gruppi responsabili di tali crimini insieme ai loro comandanti».

Meno compiaciuta e rilassata è Mariya Bashir, procuratore capo di Herat, una bella e battagliera signora di 38 anni. «Non condivido l'ottimismo del governatore—esordisce —; dopo circa tre anni di relativa sicurezza e sviluppo socioeconomico con investimenti a gonfie vele, c'è stato un collasso. Rapimenti, rapine, delitti. Solo l'altro giorno è stato trovato il cadavere di un ragazzo scomparso quattro mesi fa. Ma nessuno fa niente: né il governo, né i leader dei partiti, né l'Isaf. Sono tutti legati alla malavita. In questa città, ladri e assassini vivono alla grande nel quartiere di Guzarà, la polizia li conosce uno per uno ma non è mai intervenuta per arrestarli...». Confessa d'aver votato per Hamid Karzai, illudendosi che avrebbe trovato una soluzione alla crisi: «E adesso me ne pento, come molti altri. È sostanzialmente un uomo debole, che è stato travolto dalla corruzione, diffusa ad ogni livello, dal bidello ai pezzi grossi dell'establishment. Sono la prima donna in Afghanistan a ricoprire questo incarico: ma in questi tre anni ho ricevuto solo minacce di morte, per me e per i miei tre figli, che non mando più a scuola. Ma io combatto e non mi do per vinta: contro Al Qaeda, i talebani, i mujahidin. Tutti miei nemici. E anche il governo Karzai è mio nemico. Ha venduto l'Afghanistan agli americani, che sono venuti qui per fare i propri interessi. Ma nessuno dovrà più considerare l'Afghanistan un corridoio o un territorio di transito come hanno fatto prima gli inglesi e poi i russi».

Secondo il calcolo degli esperti, gli Stati Uniti, che da soli coprono un terzo del volume degli aiuti internazionali destinati all'Afghanistan, spendono per la loro presenza nel Paese quasi 100 milioni di dollari al giorno (circa 36 miliardi l'anno). Cifre enormima di cui hanno beneficiato poco o nulla gli afghani che, quando arriva l'inverno, non hanno i vetri alle finestre né legna da ardere per scaldarsi.
Il leader dell'opposizione, Bashir Ahmad Bezhan, uno dei più accaniti oppositori alla presenza delle truppe straniere, non fa sconti a nessuno: «Quando sento affermare nei comunicati ufficiali che gli americani sono venuti in Afghanistan per combattere i talebani e il loro alleato Gulbuddin Hekmatyar—dice—mi viene da ridere. Essi finanziano i talebani e sono venuti qui per aiutarli. A loro non importa chi va al governo, che sia Karzai o il mullah Omar con tanto di barba e di turbante: gli va bene chiunque, a condizione che possano fare i propri interessi. Come fecero nel 2001, l'ultimo anno del regime talebano, quando sborsarono un sacco di soldi per far aumentare la coltivazione dell'oppio, che passò da 115 a 125 tonnellate». Il governo di Hamid Karzai non ha, per Bashir Bezhan, il consenso del popolo e non può quindi essere considerato «né un governo nazionale né un governo democratico » e c'è perfino chi suggerisce che si stia tramando nell'ombra per una restaurazione della monarchia. Suggerimento che sa solo di fantapolitica o della trama di un'operetta di fine secolo, ma qualcuno ricorda che il rapporto fra l'attuale presidente e l'ex monarca in esilio a Roma era ottimo e che fu proprio Karzai a dare il benvenuto a Zahir Shah quando, nel 2002, rientrò a Kabul.

L'obiettivo del leader dell'opposizione è «un governo federale con la partecipazione di tutti i gruppi etnici del Paese», ora divisi e in conflitto tra di loro. Bezhan non esclude neanche l'eventualità di un accordo coi talebani che sembrano aver allentato la propria intransigenza dopo la sorprendente dichiarazione di Karzai che in una recente conferenza stampa si disse «pronto a trattare» con Hekmatyar e col mullah Omar, aggiungendo che li vorrebbe incontrare al più presto, «sapessi solo dove si trovano». Ma che faccia tosta! Dove siano quei due lo sanno tutti. Il mullah Omar è a Kandahar, roccaforte dei talebani, mentre la presenza di Hekmatyar, che è mobilissimo, viene via via segnalata in luoghi diversi lungo il tortuoso confine afghano-pakistano, dove può nascondersi nelle caverne, protetto dalle tribù amiche dei pashtun, che lo considerano un eroe.

Ultimamente, però, sarebbe stato visto nella valle del Kunar insieme ai suoi guerriglieri più fidati, sui sentieri delle capre. Il sospetto che stia preparando una grande spedizione punitiva nel momento in cui i talebani sembrano più forti, efficienti e compatti, grazie anche agli aiuti sempre più copiosi che ricevono, filtrati attraverso i servizi segreti pakistani (l'Isi), non può essere accantonato. Il «tigre»—altro nomignolo aggressivo che gli è stato appioppato — ha fame e sta sfoderando gli artigli. La possibilità di un accordo col «nemico», invece di una soluzione militare, è quanto si augura l'ex presidente Rabbani che, durante il nostro incontro, ha ammesso che l'attuale governo «non può prendere decisioni da solo» e che «la nostra strategia è decisa dalla comunità internazionale»: lamentando ad esempio il fatto che se il problema della sicurezza fosse stato di competenza del ministero della Difesa e non dei vertici della Casa Bianca, le forze dell'Isaf non stazionerebbero oggi nella capitale, come invece è avvenuto.

Non è sfuggito a nessuno che i più stretti collaboratori di Hamid Karzai—dal Procuratore generale al ministro degli Interni — provengono dalle file dello Hezb-i-Islami, il partito integralista islamico di Gulbuddin Hekmatyar, acclamato già nella seconda metà degli anni Settanta come l'Ayatollah degli afghani. Quando, nell'estate del '79, lo vidi per la prima volta nel suo covo di Peshawar aveva 30 anni: i suoi occhi e la sua scrivania — su cui, insieme al Corano, erano sistemate pistole e cartucciera — incutevano paura. Snobbava gli altri partiti e partitini, soprattutto lo Jamiat-e Islami, che era il gruppo più consistente, fondato e guidato dal «teologo» Burhanuddin Rabbani, uomo di grandi principi e di voce morbida e soave. Divorato da un'ambizione smisurata, Gulbuddin non avrebbe mai potuto tollerare di figurare al secondo posto nella leadership di un qualsiasi potere: da qui la sua lotta spietata, dopo la presa di Kabul, contro Ahmad Shah Massoud che stava rapidamente imponendosi come leader nazionale e si sarebbe presto aggiudicato il ministero della Difesa. Ma non erano tanto gli incarichi politici conferiti al suo avversario a scatenare l'invidia di Hekmatyar quanto l'immagine che il leone del Panshir s'era costruito e cucito addosso di uomo integro e coraggioso: forse il solo che avrebbe potuto avviare il Paese verso un sistema relativamente democratico, dopo anni (secoli) di oscurantismo medioevale.

Le ragioni per screditare Hekmatyar e confinarlo nel pozzo dell'ignominia tra i personaggi più odiosi dell'umanità sono parecchie: una ce l'ho anch'io, legata a un episodio dell'agosto '94, quando Gulbuddin fece uccidere un giovane collega della Bbc in lingua pashtun, Mirwaiz Jalil, perché aveva osato criticarlo (molto civilmente, com'era nel suo stile) in uno dei suoi programmi. Ero con lui in macchina, sulla collina di Shariasab a pochi chilometri da Kabul, quando tre uomini mascherati lo strapparono fuori dalla vettura e lo spinsero a forza coi fucili dietro una siepe al margine della strada. Ricordo lo sguardo annebbiato dei suoi occhi, mentre pronunciava le ultime parole della sua vita: Goodbye, Ector, they're killing me... addio, mi ammazzano. Aveva 24 anni.

Emersero prove più che sufficienti per stabilire che il mandante dell'assassinio era l'inflessibile leader dello Hezb-i-Islami, che si autodefiniva «la spada di Allah ». Può stupire di saperlo ancor oggi sul sentiero di guerra, a fianco dell'altro imprendibile fulmine di Dio, Osama Bin Laden? Che un uomo siffatto sia al di là di ogni possibilità di redenzione sono in molti a pensarlo: e lo stesso Rabbani, che si genuflette cinque volte al giorno invocando il Dio grande e misericordioso del Corano e può contare su inesauribili riserve di pietà e comprensione accumulate nel cuore, non crede che Hekmatyar possa ricredersi e pentirsi del suo passato come succede talvolta anche ai più grandi peccatori. «Secondo il Profeta—spiega con voce prelatizia —, se qualcuno ti dice che due montagne si sono separate e poi si sono nuovamente riunite, gli puoi credere; ma se qualcuno dice che un uomo e la sua anima possono cambiare, non gli devi credere perché ciò non può avvenire. Vedi, Gulbuddin è quello di sempre: può darsi che col passar degli anni la sua indole, la sua natura si siano affievolite, ma sostanzialmente non potrà cambiare, sarà sempre lo stesso. So che recentemente ha scritto una lettera a Karzai per dirgli che era sua intenzione di dare un taglio al passato ed entrare a far parte del governo. Il presidente gli rispose con freddezza che il contenuto della lettera non era chiaro, si spiegasse meglio».

«Fosse ancora vivo Lui, l'Afghanistan sarebbe oggi un luogo migliore»: affermazione che Massoud Khalili ripete ogni qualvolta vado a trovarlo nella sua bella casa di Kabul, dono di Zahir Shah a suo padre, grande poeta e letterato in lingua farsi. Lui era Ahmad Shah Massoud, dilaniato nell'attentato del 9 settembre 2001 ad opera di due kamikaze arabi mentre si trovava indifeso in una sperduta caserma del Nord. Khalili, amico d'infanzia e suo fedele «scudiero» fin dai tempi dell'invasione sovietica, rimase gravemente ferito. Trafitto da centinaia di schegge, ha perso un occhio e zoppica leggermente. Da qualche anno è ambasciatore nella sede diplomatica di Ankara: attività che gli piace e al tempo stesso gli permette di avere un rapporto periferico con la vita politica del suo Paese.

È sposato, con figli, ma in questo momento, a tenergli compagnia, c'è solo un cane pastore tedesco che sa fiutare la polvere da sparo nei vestiti, caso mai gli capitasse in casa qualche malintenzionato. Vive alla giornata, è orgoglioso dei quadri alla parete della moglie pittrice e solo se vi è costretto rievoca il passato. «I giorni della tragedia—dice—sono così lontani e allo stesso tempo così vicini che rivedo tutto come fosse ieri. "Cos'è successo a Massoud?", chiesi svegliandomi nel letto di un ospedale di Coblenza dov'ero stato ricoverato, mentre con le pinze mi estraevano le schegge dal corpo... Massoud è stato l'eroe della mia vita. Diceva che bisognava essere generosi con gli amici, ma occorreva al tempo stesso avere coraggio per dialogare coi nemici. Tuttavia i suoi tentativi per mettersi in contatto con Hekmatyar e trovare un'intesa vennero sempre respinti.... Era un uomo che detestava la guerra, totalmente alieno da sentimenti di vendetta e di rivincita. Cosa m'ha insegnato? Ad avere fiducia in Dio, a mettermi uno zaino in spalla e fare il giro del Paese per conoscere e parlare con la gente...».

Inutile chiedergli cosa ne sarà dell'Afghanistan, la domanda che s'era posta appena sveglio nel letto d'ospedale di Coblenza: o quando e come finirà questa guerra. Nessuno è in grado di dare una risposta. Per l'ennesima volta lascio Kabul con la promessa di non tornarci mai più.

2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Dicembre 29, 2008, 11:05:21 am »

Ritorno in Afghanistan

Kabul, il futuro sta arrivando

di Ettore Mo
foto di Luigi Baldelli


KABUL - Quando vi misi piede per la prima volta, sei mesi prima che le piombasse addosso l'Armata Rossa di Leonid Breznev, la capitale dell'Afghanistan era una remota Cenerentola dell'Asia centrale che, ad eccezione degli inglesi, solo pochi avrebbero potuto rintracciare con facilità sull'atlante.

Affrontando quel viaggio verso l'ignoto, avevo però ritagliato e messo in borsa un elzeviro di Moravia che, sulla terza pagina del Corriere, parlava di Kabul e del suo arcano re, da qualche anno esule in Italia: quanto bastava per alleviare di poco il mio disagio. Era l'estate del '79. Nelle città e sulle montagne era già cominciata la lotta armata o Jihad (la guerra santa) degli afghani contro il governo filosovietico di Nur Mohammad Taraki, presidente, e del suo primo ministro Afizullah Amin, ambedue portabandiera del regime dei «senza Dio», ferocemente avverso alla prospettiva di una Repubblica teocratica in Afghanistan. Quello stesso anno, nella notte tra Natale e Santo Stefano, quando i carri armati sovietici entrarono sferragliando a Kabul, aveva inizio l'ultima guerra coloniale del secolo. Che ho potuto seguire per quasi trent'anni, fino all'ultima visita — domenica, 27 aprile — giorno del caotico, fallito attentato dei talebani contro il presidente Hamid Karzai.
Fatalmente, la sola porta d'ingresso per l'Afghanistan era allora Peshawar, la città di frontiera pakistana dove stavano annidati i quartier-generali dei sei/sette partiti della Resistenza islamica, impegnati nella Jihad. Ricordo, come fosse ieri, il primo incontro con Gulbuddin Hekmatyar, il torvo, truce capo dello Hezb-i-Islami, il gruppo più agguerrito e aggressivo dei mujahidin che sta tuttora combattendo a fianco dei talebani nella valle del Kunar e che mi disse: «Se vai a Kabul, salutami Taraki. Digli che i miei ragazzi possono anche andare scalzi in montagna, con un tirasassi invece del fucile: ma si lasciano ammazzare piuttosto che arrendersi. Digli che il giorno della resa dei conti è vicino.Allah akhbar. Che Iddio ti assista».
Da Peshawar, città guarnigione, città bazar, città ospizio di un milione di profughi afghani, si raggiungeva Kabul su una piccola, ansimante corriera azzurra su cui si imbarcavano anche pecore e capre, in sette/otto ore passando per il Khyber Pass e rampicando a strappi e rantoli su tornanti scoscesi lungo un fiume — il Kabul — pieno d'ira e di schiuma. La città sembrava calma e, a 1.800 metri, si respirava un'aria nuova, pulita, vero refrigerio dopo la calura sofferta nelle zone basse di frontiera, annichilite dal sole. Mesi dopo, tornato sui miei passi, chiesi ad Hafizullah Amin, diventato presidente dopo la scomparsa (leggi eliminazione) di Taraki, se avesse mai pensato che avrebbe potuto finire i suoi giorni come il suo predecessore e non spegnersi tranquillamente nel proprio letto. Cosa che di fatto avvenne. Neanche due settimane dopo il colpo di Stato che aveva rovesciato il suo regime, Amin e la sua famiglia (la moglie, i figli) vennero trucidati dai soldatacci dell'orda sovietica, per essere rimpiazzato da Babrak Karmal, imposto dal Cremlino e sbarcato nella capitale sulla torretta di un tank T26, con la stella rossa. In pochi giorni, con duecento voli dalla Russia alla base aerea di Bagram, il comando militare sovietico aveva scaricato da 1.500 a 5.000 soldati, insieme a tonnellate d'armi d'ogni tipo e dimensione. L'intero Paese era ormai nelle mani dei russi, che qui chiamavano «sciuravi».

Ciononostante, la Kabul del dopo intervento sembrava meno «marziale» e meno «militare» di quella che avevo visto un mese prima. La presenza sovietica era confermata, con discrezione, da robuste camionette senza targa o con targa non afghana, piene di soldati dell'Armata Rossa, infagottati e silenziosi, la testa avvolta nel colbacco nero. Pochi i carri armati in città, minacciosamente immobili nel giardino della sede tv: ma centinaia di blindati stavano dislocati e occultati nella periferia tutta intorno, livida e bianca di neve, o lungo i contorcimenti della carrozzabile per Jalalabad. Da un'altura ad ovest della capitale, reparti di «sciuravi» tenevano sotto tiro un campo militare afghano: segno evidente che l'Armata Rossa non si fidava più degli uomini che avevano combattuto contro i mujahidin sotto il regime di Taraki e Amin. Molti di loro s'erano rapidamente sbarazzati della divisa passando dalla parte dei guerriglieri islamici. Defezioni a catena. Era ormai chiaro per tutti che l'ordine interno e la sopravvivenza del nuovo governo «moscovita» dipendevano esclusivamente dall'esercito sovietico, padrone assoluto. Una presenza massiccia, la sua: da diciotto a venticinquemila soldati, che tuttavia non furono in grado di proteggere le proprie installazioni degli attacchi e attentati del comandante Abdul Hag, principe dei dinamitardi. I diplomatici russi e il loro entourage vivevano murati dentro l'ambasciata, con tutte le amenità che Mosca forniva loro per addolcirgli l'esilio.

Ancorata alle sue strutture arcaiche, Kabul non era visibilmente cambiata, ma un lieve mutamento c'era pur stato, che il professor Majrooh — ex decano di lettere all'Università della capitale — ravvisava «nel tono e nel ritmo della vita». Una svolta nella cultura afghana era certamente tra gli obiettivi del Cremlino e non doveva perciò stupire che al Politecnico ci fossero cento docenti russi contro appena centoquaranta afghani. Qualcuno s'illudeva che una lunga permanenza sovietica in Afghanistan avrebbe trascinato il popolo afghano nel Duemila, mentre la conferma di un regime islamico l'avrebbe tenuto inchiodato all'Ottocento. Ma quando, il 15 febbraio dell'89, il generale Gromov, ultimo uomo dell'Armata Rossa a lasciar il Paese, varca il ponte sull'Amu Darya, è il canto lamentoso del muezzin a diffondersi nell'aria.

Una delle conseguenze più gravi dell'occupazione sovietica (durata quasi nove anni) fu l'esodo fluviale di cinque milioni di afghani che abbandonarono precipitosamente il Paese per trovare rifugio nelle tendopoli e baraccopoli germinate appena oltre frontiera, soprattutto in Pakistan, nelle fiere comunità autonome pashtun della North-West Frontier. Quando i mujahidin occuparono la capitale nella primavera del '92 , dando il colpo di grazia all'agonizzante regime di Najibullah, Kabul era quasi intatta. Uscita indenne dal conflitto. Nessuna delle sue belle moschee era stata sfiorata dalle bombe, né avevano subito danni i grandi palazzi storici come il Darlanan Palace, costruito negli anni Venti dal sovrano Amanullah.
Ma i guai sarebbero cominciati subito dopo, con lo scoppio dalla guerra civile tra le due forze rivali dei mujahidin: quella di Gulbuddin Hekmatyar, che poteva contare sull'appoggio economico del «principe delle tenebre », Osama bin Laden: e quella, non meno indomita, di Ahmad Shah Massud, il leone del Panshir, ancor oggi celebrato come il «vero eroe nazionale», barbaramente ucciso il 9 settembre del 2001 da sicari-kamikaze. Ed è a quella guerra fratricida che sono da attribuire le ferite, le voragini, la devastazione, le macerie dell'odierna Kabul.
Ma il tema della ricostruzione, che pure è urgente e prevede cospicui investimenti e contributi internazionali, cede il posto a quello, sempre attuale e penoso, dei talebani, rilanciato sulla ribalta della cronaca del-l'attentato di fine aprile al presidente Karzai, rimasto miracolosamente illeso. Già nell'autunno del '98, questi ragazzi indottrinati nelle madrasse agricole di confine e zelanti discepoli dell'integralismo islamico usque ad mortem controllavano il 90 per cento del territorio afghano. A contrastarli, nella loro mistica follia, c'era solo l'Alleanza del Nord, guidata da Massud, e di cui facevano parte tajiki, uzbechi, turcomanni, hazara.
Inizialmente accettati dalla popolazione, che non capiva le loro motivazioni, divennero ben presto assurdamente inflessibili: bandita ogni forma di modernità e divertimento, fino al punto di proibire gli aquiloni che per gli afghani equivalevano ai sogni di un'innocenza rimasta senza ali, bruciate, queste, nel rogo degli eventi bellici. Le donne potevano uscire solo se accompagnate da un parente stretto e segregate nel burqa dalla testa ai piedi. Radio e televisione, con le soap opera e altre trivialità, erano strumenti del demonio: e lo era perfino la musica, che ti allontanava dal percorso della virtù per avviarti sul sentiero della perdizione.

La Kabul che ho visitato nei giorni scorsi si starebbe gradualmente liberando dal giogo talebano: ma il processo è lento e quasi impercettibile. In Afghanistan, uno dei miei drammi è pasteggiare con la Pepsi-Cola sognando le vigne del mio Piemonte. Per questo sono grato a Peter Jouvenal, un ex fotografo inglese e cameraman della Bbc con cui ho scarpinato negli eroici anni Ottanta alla ricerca di Massud e che attualmente gestisce una guesthouse di cui sono ospite insieme a Luigi, la Gandamack Lodge, che ha una cantina ben fornita con divieto d'accesso ai talebani. Nella cosmopolita Kabul è ora possibile notare una lieve rilassatezza di comportamento, come accade al City Center Hotel dove ragazzi e ragazze, seduti a tavoli diversi, si scambiano apertamente occhiate e sorrisi: mentre nella campagna, dove le donne non hanno mai sentito parlare di diritti umani, la violenza del maschio tra le pareti domestiche è un tran-tran quotidiano e i matrimoni combinati o imposti dalle famiglie rientrano nella normalità. La signora Sima Samar, che dirige la Commissione dei Diritti Umani nella capitale, sostiene che i matrimoni forzati, come quelli spesso contratti tra uomini anziani e bimbe neanche adolescenti, conducono al suicidio tante minorenni. «Purtroppo — conclude — siamo succubi di un sistema patriarcale dove la donna è inferiore all'uomo e deve perciò accettarne la supremazia».
Avrei voluto rivedere (ma non ce l'ho fatta) il campo di papaveri a nord di Jalalabad dove, nella primavera dell'80, fui testimone di uno scontro a fuoco tra tre blindati sovietici, sbucati sull'argine del fiume Sukhroad, e una cinquantina di mujahidin, muniti solo di obsoleti Enfield 303: durante la battaglia, il capo dei guerriglieri stramazzò sull'erba centrato da un proiettile in mezzo alla fronte; mentre tre poveri contadini afghani, costretti dai russi a salire su un bulldozer per fare lavori di sterramento, venivano catturati dai mujahidin e randellati senza pietà come «sporchi traditori». Li fucilarono nella cava di ghiaia di un villaggio, dopo aver sepolto con tutti gli onori Bismillah, il loro comandante.

Il papavero da oppio, che si coltiva da secoli in queste pianure per essere poi trasformato in polvere bianca nei laboratori clandestini situati lungo la frontiera del Pakistan, nelle cosiddette aree tribali, autonome e ingovernabili, costituisce un grave problema per l'Afghanistan, accusato di alimentare il narcotraffico, la situazione peggiorò ulteriormente e si calcola che nel Paese ci siano oggi circa un milione di tossicodipendenti. A Kabul li si può vedere... al lavoro nei pressi della grande moschea di Eid Gah. Burhanuddin Rabbani, anziano membro del Parlamento che incontrai la prima volta a Peshawar la bellezza di 29 anni fa, quand'era il leader spirituale del grande partito Jiamiat-i-Islamim, mi sorprende affermando senza esitazione che, per lui, «la sfida della droga nel Paese è più grave ed allarmante di quella dei talebani»: dal momento che questi ultimi, attualmente «finanziati dal narcotraffico, potranno essere sconfitti, mentre la droga continuerà a prosperare, seminando morte».
La sconfitta e dipartita dei talebani ha fatto scattare nel Paese una voglia nuova di modernizzazione, il desiderio della gente di adeguarsi sempre più a un tipo di vita occidentale, magari con un eccesso di euforia da parte soprattutto dei giovani che affollano negozi di computer e cellulari, ansiosi di fare scorpacciate di dvd con film europei o americani. La tv è sempre accesa e vomita sui marciapiedi i suoi programmi a tutto volume. Il presidente Karzai è orgoglioso di poter confermare che dal 2001 ad oggi sono state costruite 1.500 nuove scuole, mentre altre 3.000, consunte dalla vecchiaia, sono state risistemate. E i responsabili dei grandi progetti nazionali assicurano che entro il 2006 saranno percorribili altre duemila miglia di strade e autostrade che consentiranno di accorciare le distanza. Noi stessi siamo riusciti a coprire il percorso da Kabul a Bazarack (dov'è la tomba di Massud) in poco più di due ore, mentre nel 2003 ne occorrevano quattro sulla vecchia, sconnessa carrettiera.

La presenza delle forze di pace straniere in Afghanistan, che gli afghani non vedono di buon occhio e che lo stesso Rabbani non esita a definire, nella sua ieratica saggezza, «truppe d'occupazione», suscita discussioni a non finire e perplessità e c'è chi osa accostare l'attuale situazione afghana a quella degli anni Ottanta quando sul selciato risuonavano gli stivaloni degli «sciuravi». Le sconfitte britanniche dell'Ottocento (1839 e 1889) e del Novecento (1921) stanno comunque a dimostrare che l'allergia dei pashtun e dei tajiki ai forestieri in divisa non è scomparsa. Venerdì, giornata di riposo settimanale per i musulmani. Mi prendo Kabul in una boccata ciondolando da un luogo all'altro senza un itinerario preciso. Allo stadio comunale, il vastissimo campo è conteso da team agguerriti di ragazzini che giocano a calcio: non so perché, mi vengono in mente i mongoli di Gengis Khan e sento sul terreno gli zoccoli dei loro cavalli. Non lontano, sull'altura di Tapa-e-Maranjan, la tomba di Zahir Shah, rientrato in Afghanistan dall'Italia nell'aprile del 2002 e morto più che novantenne l'anno scorso: insieme a lui riposa il padre Nadir, assassinato nel '33.
Lungo Jadeh Maywand, la più trafficata e caotica strada della capitale, busso invano alle bottegucce dei fabbricanti di uccelli di carta. Tutte chiuse. Anche il tugurio del vecchio Saifa — il migliore di tutti — come ricorda Khaled Hosseini nella mirabile favola de Il cacciatore di aquiloni.

La plebe di questa Cenerentola urbana nel cuore dell'Asia, popolata da circa quattro milioni di abitanti, non si muove dai propri chiassosi vicoli, contentandosi del profumo e del sapore del kebab, rosolato ad arte sulle braci.

2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Dicembre 29, 2008, 11:06:26 am »

Protesi e mine anti uomo

Viaggio nelle corsie del dolore

Tra i mutilati di Kabul


di Ettore Mo
foto di Luigi Baldelli


KABUL—Per chi voglia documentarsi in fretta sulla barbarie dei talebani, basta una visita all’Ospedale ortopedico della Croce Rossa Internazionale di Kabul, dov’è concentrato un esiguo campionario degli oltre 40 mila mutilati afghani, vittime della loro scellerata dittatura. Uno di loro, Ghulam Faroq, racconta che lo arrestarono nel ’99 e, dopo averlo addormentato, gli amputarono «senza ragione» la mano destra e la gamba sinistra. Rimpiazzate, l’una e l’altra, dagli arti artificiali che tre mesi dopo Alberto Cairo — dal ’90 direttore dell’istituto — gli aveva riattaccato. Cairo, 50 anni, piemontese della provincia di Cuneo, che ho più volte incontrato nei miei pellegrinaggi in Afghanistan, non è medico anche se tutti lo chiamano dottore: al tempo stesso, sarebbe estremamente riduttivo liquidarlo sbrigativamente come fisioterapista, data l’importanza e l’impatto che il suo Centro Ortopedico ha avuto ed esercita tuttora non solo sulla capitale ma sull’intera società afghana, afflitta dalla guerra. Dopo Kabul, altri Centri per i programmi di riabilitazione sono stati aperti aMazar-e-Sharif, Herat, Jalalabad, Gulbahar e Faizebad, che hanno ospitato un totale di 76 mila pazienti, con un aumento annuo di circa seimila persone, straziate, oltre che nei conflitti a fuoco, dalle mine anti- uomo disseminate ovunque. Altri dati informano che ogni anno vengono costruite circa 15 mila gambe e braccia artificiali. C’è poi la fitta schiera dei paraplegici, colpiti alla spina dorsale e immobilizzati per la vita. Sono 18 anni che Alberto Cairo vive e lavora in mezzo a questa umanità: «Quando vi misi piede la prima volta — racconta —, Kabul aveva circa 500 mila abitanti, adesso siamo sui quattro milioni. Io ho vissuto sotto cinque regimi: i comunisti di Taraki e Hafizullah Amin; i filosovietici di Najibullah; i mujahiddin dell’uno o dell’altro partito; i talebani; e infine, adesso, il governo del presidente Hamid Karzai...».
Quando la città era contesa dagli uomini di Ahmad Shah Massud e del suo rivale Gulbuddin Hekmatyar (tra il ’92 e il ’96), sull’ospedale «piovevano i razzi e si faticava a tener calmi i pazienti»; poi, con l’avvento dei talebani, «il problema più grave riguardava le donne, visto che quei fanatici di integralisti esigevano una netta separazione tra i sessi: regola non facile da rispettare nel nostro lavoro. Che tornò normale nel 2001, dopo la loro disfatta». Ciò che trovi, varcato il cancello del Centro, non evoca affatto l’atmosfera brechtiana dell’Opera da tre soldi, con la sfilata degli zoppi al proscenio: al contrario, ti senti come attorniato da una scolaresca indisciplinata, con giovani, meno giovani e anziani che avanzano (talvolta letteralmente saltellando) sulle stampelle, mentre altri, incollati alla sedia a rotelle, s’incrociano e rincorrono chiacchierando ad alta voce. Più risate che lamenti o imprecazioni. Si rasenta quasi l’allegria. Il programma dei Centri ortopedici prevede che i disabili imparino un mestiere che sia compatibile con le loro condizioni (o menomazioni) fisiche: «Questo spiega—dice Alberto Cairo— perché tutte e cinquecento le persone, uomini e donne, che lavorano in questo ospedale sono degli ex pazienti». Per averne conferma, basta una visita fugace nel dedalo di stanze e fucine dove si confezionano protesi di gambe, braccia, mani e piedi riciclando vecchia plastica e copertoni o dove si costruiscono in serie stampelle e sedie a rotelle. Un ragazzo senza gambe e in vena di scherzi definisce la sua carrozzella la fuoriserie di Maranello. Anche Cairo, pur venendo da una contrada dove gli uomini sono notoriamente chiusi e taciturni, sembra sorretto da una buona dose di sense of humour e d’ottimismo, necessari per reggere all’impatto quotidiano della realtà in cui vive: e sono infatti in molti a chiedersi come abbia fatto a resistere per diciott’anni. «Ho sempre questa amica seduta sul sofà— dice scansando considerazioni più serie —. Questa gattina castrata si chiama Rita». Ma— confessa — gli piaceva di più la Kabul dei primi tempi, quand’era una capitale onesta: «Oggi—lamenta —, la corruzione ha coinvolto tutti e tutto. Ad ogni livello. Si paga per ogni cosa: che so, per una firma, per il bollo della macchina, per sollecitare una pratica. E i prezzi salgono alle stelle. Anche il sistema sanitario non funziona. A Kabul ci sono 200 cliniche private ma tutte di livello molto basso. Una sola eccezione, l’ospedale francese...».
Kabul, sostiene, è cambiata molto fisicamente, la vede caotica e un po’ sguaiata: «Il traffico. E poi... troppa musica sparata in strada, sui marciapiedi, a pieno volume; troppi negozi con vetrine di lusso e abiti griffati, troppo di tutto». Ma lo stesso, la nostalgia per il Piemonte non avrà il sopravvento. La dedizione senza limiti — e tuttavia mai ostentata — ai suoi pazienti (lo vedi scherzare mentre avvita una gamba di plastica al ginocchio di un ragazzo) appare ancor più evidente quando l’accompagni nel villaggio di Dasht Barachi, dove alcuni disabili, dimessi dall’ospedale, si sono sistemati con la speranza di trascorrervi un’«esistenza normale»: come Abdul Rasheed, 50 anni, colpito alla schiena da un proiettile nel ’96, da allora paralizzato totale. Abita in una stanza tirata a lucido, con la moglie e due figli. Insieme, tessono tappeti, per un tappeto tre mesi di lavoro, un dollaro al metro. La figlia Sarzana, 16 anni, è bella e sottile, il velo sui capelli, pantaloni rossi attillati. Pochi metri più in là, Ahmad Alì, lui pure immobilizzato a vita, riceve il cibo dalla Croce Rossa, è sempre solo e al buio. Qualche volta lo mettono su una carrozzella e gli fanno fare il giro del mondo tra rigagnoli immondi e montagne di spazzatura. Negli ospedali di Emergency, in Afghanistan, business as usual: cioè situazione di emergenza permanente con le vittime della guerra che ogni giorno s’affacciano ai rifugi montani dei Fap— posti di primo soccorso —, come quello di Anjuman, aggrappato a 3.800 metri al cielo ghiacciato dello Hindu Kush, per essere poi dirottate verso i Centri chirurgici di Anabah, nel Panshir, di Kabul e, più a sud, di Lashkargah, capitale della provincia di Helmand.
Si calcola che nelle strutture sanitarie create da Gino Strada siano state curate gratuitamente, dal 1994 alla fine dell’anno scorso, più di 2 milioni e 750 mila persone: senza trascurare il fatto che esse abbiano sottratto alla disoccupazione e alla fame circa un migliaio di lavoratori locali. Nell’ospedale di Emergency a Kabul (o, più precisamente, Centro chirurgico per vittime di guerra) vengono accolti anche disabili non direttamente coinvolti in conflitti armati o feriti dall’esplosione di una mina anti uomo, ma qualsiasi persona ridotta allo stato di immobilità irreversibile da gravi malattie, quali la poliomelite, la tubercolosi o la lebbra, oppure da incidenti stradali o sul lavoro. L’Emergency Hospital di Kabul ha i suoi problemi: «Come in ogni altra struttura sanitaria — ammette il dr. Danilo Ghirelli, di origine romagnola — i nostri sono soprattutto di natura economica. Non siamo in grado di pagare i salari che offrono alcune organizzazioni non governative, perciò i nostri medici e infermieri se ne vanno altrove, dove il trattamento è migliore. Conseguenza? La scarsità del personale ci costringe a lavorare giorno e notte, 24 ore su 24. E dobbiamo vedercela con casi d’emergenza gravi. Abbiamo l’unico reparto di rianimazione in Afghanistan free of charge, cioè gratis. Ci sono ospedali meglio attrezzati di noi, ma quelli si fanno pagare. Eseguiamo in media 350 interventi chirurgici al mese, solo a Kabul». Nel reparto pediatrico, quasi tutti i bambini sono vittime di «incidenti di guerra». I due che vediamo con le gambe in trazione sono «saltati » su una mina. Sorridono e dicono qualche parola in inglese (thank you mister yes goodbye goodnight) per darsi le arie, ma nessuno è in grado di dire se potranno ancora correre o giocare nei campi. Vauro, perenne innamorato dell’Afghanistan, ha lasciato sulle pareti del padiglione, accantonando la sua indole ringhiosa, scarabocchi vivaci e gentili nel tentativo di far ridere per un attimo l’infanzia ferita del mondo.
Ma è tempo di lasciare le corsie degli ospedali per una boccata d’aria più salubre e soddisfare la curiosità degli amici del bar che vorrebbero sapere qualcosa di nuovo, o d’inedito, sulla condizione delle donne in Afghanistan. Argomento impossibile. Questa volta mi viene però in aiuto la signora Susanna Fioretti, che ho incontrato a Kabul e che ha affrontato la questione in una tesi di laurea, fresca di stampa. Responsabile di un «progetto di alfabetizzazione e formazione professionale » per donne di Kabul nel quartiere di Shar-e-Shaid, per conto della Cooperazione italiana, l’autrice del testo basa la sua analisi su un’esperienza personale. E non importa se alla caduta dei talebani la stampa ha gridato al mondo che «le donne afghane erano tornate libere»: la libertà femminile continua ad essere limitata in base alle consuetudini patriarcali dell’onore, che impongono la lapidazione delle donne accusate di adulterio. Sono pochissime le donne che aderiscono ai corsi professionali proposti dalla Fioretti, anche se il Centro rappresenta ancora in tutto l’Afghanistan «un unicum nel campo della formazione femminile». La maggior parte dei genitori diffida di queste iniziative e teme che le loro figlie, invece di imparare l’alfabeto, siano avviate alla prostituzione. Tempi grami per l’Afghanistan, «retrocesso a una sorta dimedioevo nello spazio del breve regime talebano». Ed ecco il lamento lirico per Kabul dove «un tempo vi erano regge, case, fiori, alberi che facevano di questa valle un Paradiso, oggi c’è solo desolazione e sconforto...».
E pensare che il vanto di questa città erano i settanta tipi di uva, i trentatré tipi di tulipani, i sei grandi giardini folti di cedri. Ora non vi è più nulla e non per maledizione divina o catastrofe naturale, ma per la guerra... Secondo dati attendibili, l’Afghanistan produceva nel 1989 1.200 tonnellate di oppio; dieci anni dopo il totale era arrivato a 4.600 tonnellate, di cui approfittavano i talebani per autofinanziarsi. Risulta anche che nel 2003 il Paese abbia prodotto i tre quarti dell’eroina mondiale. Ma nel 2001, tirando le somme, il governo di Kabul giungeva all’amara conclusione che in vent’anni la guerra e la fame avevano spazzato via due milioni e mezzo di afghani. Nei corsi di formazione, Susanna Fioretti ha addestrato le sue allieve per tre lavori diversi: taglio e pulitura di pietre semipreziose (che ha suscitato l’interesse del Comune di Firenze); riparazione di telefoni cellulari; e infine assemblaggio di lampade fotovoltaiche. Se ho ben capito, all’inizio lavoravano senza alcuna retribuzione: ma per loro, sottolinea la Prof, «era già un privilegio uscire e lavorare fuori casa, per di più in un ambiente frequentato da uomini». Non so quanti e quali benefici morali abbia prodotto nelle ragazze la frequentazione dell’Università Fioretti, ma è probabile che la loro filosofia abbia subito qualche mutamento. Mi chiedo quale reazione potrebbero ora avere, rileggendo il brano del Corano dove, pur riconoscendo i diritti delle donne, Dio sostiene la superiorità del maschio e lo invita ad ammonirle, qualora fossero disobbedienti, quindi a lasciarle sole nei loro letti e infine, quando fosse proprio necessario, a picchiarle. Gul Makai, una delle tre donne su cui Susanna Fioretti ha imbastito la sua tesi di laurea, risponde così a chi le ha chiesto quale fosse la differenza tra come si comportano gli americani in Iraq e in Afghanistan: «Gli afghani sono molto coraggiosi e non permettono agli americani di fare ciò che vogliono, per questo si comportano meglio. Secondo me gli americani sono un po’ come i russi, faranno la stessa fine, lasceranno questo Paese. Prima ero sicura che gli americani volessero aiutare l’Afghanistan, poi ho capito che lo volevano solo conquistare».

2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Gennaio 05, 2009, 10:51:14 am »

Sulle orme dei clandestini in Chiapas tra droga e contrabbando di vite umane

Nell’inferno dei migranti


di Ettore Mo foto di Luigi Baldelli


TAPACHULA (Chiapas, Messico) - Se la politica del governo messicano sul problema emigrazione-immigrazione dovesse continuare a correre sui binari del rigore e dell’inflessibilità, legioni di centro-americani del Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua, entrati illegalmente in Messico per raggiungere e varcare la frontiera con gli Stati Uniti, dovrebbero rassegnarsi alla deportazione forzata, com’è avvenuto negli ultimi anni per migliaia di stranieri sprovvisti di visto e senza documenti. «Il Messico - continuano a ripetere fino alla noia i funzionari dell’Ufficio emigrazione - è un Paese di transito. Vi si può accedere senza difficoltà alcuna dal Guatemala. Ma chi intende fermarsi e lavorare lo può fare solo dietro richiesta o invito da parte di una famiglia o azienda messicane: quando non si tratti di lavoratori agricoli stagionali, cui viene solitamente concesso il permesso di soggiorno per la durata di tre mesi. Queste le regole da rispettare, se non si vuol correre il rischio di essere rispediti senza troppe cerimonie al Paese d’origine».

Contrada incantevole, il Messico. Ma le ragioni che spingono dentro i suoi confini fiumane di gente sono molte e non di rado oscure e complesse: una miscela esplosiva alimentata, da una parte dalla disperazione di migliaia di poveracci in cerca di lavoro e di un minimo di benessere (i tre quarti del cocktail) e dall’altra dallo sciroppo dell’illusione (un quarto soltanto) per chi sogna di avvicinarsi all’Eden dell’America del Nord. Secondo l’amara definizione di padre Flor Maria Rigoni, che vive qui da oltre vent’anni e ha fondato quattro Casas del Migrante, il Messico non è solo un Paese di transito ma di «espulsione, rifiuto e deportazione » ed è ormai diventato «un campo minato» e «un cimitero senza croci». Il sacerdote appartiene all’ordine fondato da Giovan Battista Scalabrini che dal 1800 si occupa degli emigranti sparsi in ogni parte del mondo. Inconsueta figura di frate missionario la sua, a 64 anni è agile e quasi sbarazzino, i sandali ai piedi, bianca la tonaca di lino, la barba grigia fluttuante sul petto e su un grosso crocifisso di legno appeso al collo, vivacissimi gli occhi dietro le lenti. Instancabile viaggiatore, si esprime disinvoltamente in sei lingue, arabo incluso. Non si ha neanche il tempo di finire una domanda che si è già travolti dalla sua risposta.

Vita densa di avvenimenti, sempre in salita e tutta di corsa: e raccontata con la stessa rapidità, senza enfasi e ridondanze. Dalla nascita, nell’ottobre del ’44, in un paesetto della Val d’Ossola invaso dai partigiani, all’infanzia in quel di Bergamo, alla giovinezza in seminario fino al giorno dell’ordinazione, che lo vide prete a 25 anni. Ma la tonaca non gli impedisce di imbarcarsi come marinaio-elettricista (mestiere appreso nel porto di Genova) su una motonave della flotta Lauro che lo avrebbe portato fino al largo del Madagascar: e lì c’è il racconto di una rissa scoppiata a bordo, di rimorsi, pentimenti e messaggi che il mare gli ha lanciato ogni giorno durante la circumnavigazione del Sudafrica: un’esperienza, ammette, che lo ha segnato per sempre. «Da un punto di vista profano - scriverà -, segnato dalla mano del destino; da un punto di vista teologico, da quella della Provvidenza».

Quando mette piede in Messico, il 6 gennaio dell’85, alla funzione del missionario aggiunge quella del medico, professione che era in grado di esercitare dopo il regolare e sudato conseguimento della laurea e che inoltre gli consentiva di entrare nei campi profughi delle Nazioni Unite, dove «il prete non contava niente». E a giustificazione dei suoi continui spostamenti nell’orbe terrarum, aggiunge: «Un missionario, quando si ferma, è come l’acqua stagnante, marcisce». Da tempo, la sua base fissa è Tapachula, frenetica «capitale» dello Stato del Chiapas e città di transito con una popolazione esorbitante e in continuo aumento, grazie alla presenza di vastissime comunità del Centro America, che vi hanno messo le radici. Il timore che i messicani siano stati messi in minoranza non può essere accantonato a cuor leggero, anche se il delegato dell’Ufficio emigrazione, Jeorge Umberto Yzar, ci scherza sopra: «Spesso, quando salgo sull’autobus - dice con un sorriso - mi sembra d’essere in un altro Paese, che so... il Nicaragua, l’Honduras, El Salvador. Ognuno di loro parla spagnolo con accento diverso. Ma a questo punto mi viene in soccorso il fiuto: e fiutandoli uno per uno, riesco a capire se vengono da Managua o da San Pedro Sula o non piuttosto da Santa Ana o da Puerto Barrios. Ciò che hanno in comune è l’azzurro del Mar dei Caraibi».

«Il Chiapas è l’inferno dell’emigrazione», sostiene Carmen Fernandez, una dei tanti «volontari» delle organizzazioni non governative scese in campo per fronteggiare un problema che, aggiunge, «è di una gravità e dimensioni allarmanti, mentre le riserve d’acqua a nostra disposizione sono appena sufficienti a contenerne l’espansione ma non a spegnere le fiamme». Alla soluzione del problema non contribuisce certo il fatto che per le autorità come per gran parte della popolazione messicana gli emigranti non sono altro che dei «delinquenti». Definizione estremamente grave, anche se non si può negare che spesso i narcotrafficanti si servono di loro per far transitare oltre frontiera la propria merce: col duplice vantaggio di compensare questi innocui, improvvisati «corrieri» con una manciatina di pesos e di non doversi preoccupare qualora fossero arrestati, dal momento che nessuno correrebbe in loro difesa col rischio di svelare l’identità dei veri capi del vapore, cioè dei leader del business della droga.

Valanghe di denunce accumulate negli appositi uffici di Tapachula, Arriaga, Ciudad Hidalgo e Veracruz la dicono lunga sulle condizioni disumane in cui vive (o meglio, sopravvive) gran parte degli emigranti entrati illegalmente o senza documenti nello stato del Chiapas: storie di poveracci sfruttati, sottoposti ad ogni tipo di abuso, ingaggiati dalla malavita locale per lavori sporchi e poi subito derubati, gente che si schianta dalla fatica come sanno molto bene i lavoratori agricoli guatemaltechi ammassati nelle grandi piantagioni del Sud, cui arride la fama di contadini più sottopagati del mondo. Nel tentativo di respingere quelle accuse, proprietari terrieri e facoltosi rancheros passano al contrattacco definendo sbrigativamente i propri dipendenti - o schiavi - «una massa di fannulloni e scansafatiche». «Ma è assurdo! - è la reazione indignata di padre Rigoni, che per quei «fannulloni » ha sempre pronto un piatto di minestra nella Casa del Migrante a Tapachula -. Sono dei gran lavoratori, io li conosco, è gente coi calli sulle mani. Scansafatiche? Non vanno mica in vacanza queste migliaia di persone che camminano per settimane e mesi o viaggiano per giorni sui tetti di lamiera dei treni-merci: vanno in cerca di lavoro».

Il timore di fermarsi a «marcire» sprigiona le riserve d’energia del frate bergamasco, che sembra non avere alcuna intenzione, per il momento, di rassegnarsi alla vita mistico-contemplativa. Tuttavia, la sua attività a favore degli emigranti suscita il sospetto e le apprensioni dei governi di Messico e Stati Uniti che in sostanza lo accusano di favorire l’immigrazione illegale dei centro-americani. Altri sacerdoti che gestiscono i loro centri di soccorso (ospitalità per tre giorni, vitto e alloggio) sulla «strada dell’emigrazione» vengono incriminati per lo stesso reato. È toccato a padre Herman Vasquez, che incontro ad Arriaga nel suo rifugio di sapore evangelico che si chiama «Hogar de la Misericordia» e ricorda la parabola dei discepoli di Emmaus. «Inizialmente - ricorda - le autorità messicane erano ostili alle Casas del Migrante perché ci accusavano di agire nell’illegalità. Gli immigrati in Messico non hanno alcun diritto. Io, come altri confratelli, davanti alla legge ero un pollero o un coyote: nomi con cui vengono definiti tutti coloro che aiutano i fuggiaschi a varcare clandestinamente la frontiera. Ho passato i miei guai, amico».

A padre Alejandro Salalinde Guerra, 63 anni, elegante, vestito di lino bianco, è andata anche peggio. «Nel mio ostello - racconta - passano circa duecento pellegrini al giorno, per una sosta minima di tre giorni. Molti arrivano affranti, sfiniti. Lungo la strada sono stati malmenati e derubati dagli agenti di polizia e dai banditi locali. Io stesso sono finito in prigione per avergli dato ospitalità. Li hanno pestati a sangue e quando gli ho chiesto il perché di tanta barbarie, la risposta è stata: sta’ zitto, stronzo di un cura, se non vuoi finire con un proiettile in testa». Dopo una pausa, nella quale il silenzio è più greve dell’angosciosa testimonianza appena resa, padre Alejandro conclude: «Il Messico non è più quello d’un tempo. La sua religiosità, forte, drammatica e anche eroica nei giorni della Rivoluzione nonostante la persecuzione dei preti, si è illanguidita e spenta: tutto ciò che è rimasto della fede di allora è la sbiadita immagine folcloristica della Madonna di Guadalupe».

Anche Olga Sanchez, una signora cinquantenne che dai primi anni Novanta sta spendendo tutto le sue energie e i pochi soldi di cui dispone nella «catastrofe emigranti» (così la definisce), ha dovuto fare i conti, all’inizio, con le ostilità delle istituzioni. «In sostanza - precisa - mi accusavano di favorire i responsabili dell’emigrazione clandestina. Il mio reato? La mia piccola casa s’era trasformata in una specie di reparto d’emergenza o pronto soccorso per quei poveretti che avevano perso una gamba tentando di salire sulla Bestia, il treno- merci che ogni giorno portava vagonate di disoccupati verso la frontiera settentrionale. Il premio di 20 mila dollari che ho ricevuto per la mia attività l’ho investito nella costruzione della Casa del Migrante. Dal governo ho avuto solo critiche, mai un aiuto. Per chi voglia farsi un’idea delle condizioni sociali della nostra regione basta fare un salto alla discarica comunale: vedrà un sacco di bambini che frugano nelle immondizie».

È sullo sfondo nero di questa miseria che fiorisce il contrabbando degli uomini, esercitato con guadagni astronomici da coyotes e polleros: un traffico che, secondo le valutazioni degli esperti in materia, frutta qualcosa come 10 miliardi di dollari l’anno e si colloca quindi al secondo posto, dopo il narcotraffico, nella lista dei profitti illeciti del Messico. Per accompagnare una sola persona dal Centro America agli Stati Uniti - 1.500 miglia - un coyote chiede in media cinquemila dollari: in un anno, se il vigore fisico necessario per queste estenuanti camminate non lo abbandoni, il suo guadagno potrebbe assurgere a centomila dollari. Esentasse. Un’avventura, quella del contrabbando umano, attorno a cui sono nate storie e leggende. Padre Rigoni, che ha seguito il cammino dei coyotes fin nella «rotta della morte » (cento chilometri di deserto), si libera delle fiabe romantiche e osserva, amaramente: «Ci sono coyotes in guanti bianchi, c’è l’industria ormai, il coyotismo s’è trasformato in industria. Noi creiamo delle rotte, creiamo i punti d’appoggio, creiamo la logistica e paghiamo già anticipatamente il costo della corruzione».

Tra i costi da affrontare e pagare quotidianamente c’è pure quello di Mara Salvatrucha, una banda armata di pandillas (giovani, adolescenti, ragazzini di 10, 12 anni) che si potrebbe definire pittorescamente solo per il fatto che i suoi membri sono coperti di tatuaggi dalla testa ai piedi come gli antichi Maya. In lotta contro le istituzioni e contro tutti, il loro mestiere, che compiono col massimo zelo, è ammazzare. Chi ammazza un uomo ha diritto a un tatuaggio speciale sul volto e da soldato semplice diventa immediatamente ufficiale. L’organizzazione, bollata come «criminale» da tutti i governi del Centro America, è nata negli anni Ottanta in California dove il suo primo nucleo composto da immigrati di El Salvador costituì una banda di guerriglieri cui via via si aggregarono altri fuorusciti provenienti da Guatemala, Honduras e Nicaragua. Tremila di questi Maras, equipaggiati al meglio, sarebbero schierati sulla Franja Fronteriza, il confine meridionale, pronti ad entrare in azione: e, manco a dirlo, sono già tutti ufficiali. Ma il loro primo obiettivo è il reclutamento massiccio tra ragazzi della zona: che una volta entrati nell’organizzazione difficilmente potranno uscirne.

E infatti per togliersi la «divisa» e buttarla alle ortiche dovranno raschiar via dalla pelle, uno per uno, tutti gli indelebili tatuaggi. Meglio una fucilata. Nessuno sembra più dubitare, a questo punto, che all’efficienza operativa dei Maras e ai loro successi - se mai ci sono stati - abbiano contribuito i finanziamenti segreti della Cia: il cui scopo è di mantenere nel territorio un clima di terrore per intimorire e allontanare gli emigrati, costringendoli a rinunciare per sempre al progetto di uno sbarco clandestino in Nord America. E alla fine tutti concordano che la politica migratoria messicana non ha alternative alla detenzione e deportazione degli stranieri che non hanno le carte in regola. Per il frate degli emigranti, Flor Maria Rigoni, questo è un dramma personale: e credo voglia viverlo fino in fondo insieme alla sua gente, prima che la barca affondi. Non sembra abbia alcuna intenzione di cercarsi un altro posto. Qui rimane. Anche a costo di marcire.

Gennaio 2009

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Agosto 30, 2009, 10:34:34 pm »

Il reportage -

Tra i militari americani che hanno combattuto in Iraq e Afghanistan.

Chiedono la cittadinanza di Ottawa. «Proviamo vergogna e odio»

Dal soldato Jeremy a mamma Kim I «resistenti» che fuggono in Canada

Contrari alla guerra, rischiano il carcere. Negli Usa sono disertori

di  Ettore Mo



TORONTO — Molti li defi­niscono, sbrigativamente, «disertori», altri preferiscono chiamarli «war resisters» (cioè resistenti, obiettori di coscienza contro i conflitti at­tualmente in corso in Iraq e in Afghanistan): sono circa 220 i soldati americani che, rifiutando di combat­tere per «una guerra ingiusta» hanno trovato rifu­gio in Canada, a Toronto. Ma di loro solo il 50 per cento ha fatto richiesta al governo di Ottawa di residenza permanente nel Paese, non avendo al­cuna intenzione di rimettere piede negli Stati Uni­ti.

Il primo di questi, nei nostri incontri, è stato il soldato Jeremy Hinzman, che si è presentato al­l’appuntamento — nel pub Einstein, frequentato da una combriccola di goliardi e vecchi lievemen­te anarchici — col figlio Liam e la figlia Catie, otto mesi e gli occhi pieni di lacrime e spavento: «82esima Airborne Division — si autodefinisce subito con la sobrietà del militare a rapporto —. Ho firmato un contratto di 4 anni con l’esercito e sono stato subito destinato all’Iraq, dove c’era quel mostro di Saddam Hussein e dove c’erano anche, nascoste, centinaia di armi di distruzione di massa. Quest’ultima, una notizia falsa, gonfia­ta dalla propaganda. Io sono un quacchero e la mia coscienza non mi consentiva di combattere più a lungo in una guerra che lo stesso presidente Obama ha definito 'stupida' e 'ingiusta'. E così, nel gennaio del 2004, ho passato il confine insie­me a due compagni. Per me e per la mia famiglia è già stato emesso ordine di espulsione. Resto in attesa della decisione del governo federale».

Sulla vicenda dei «disertori» americani l’atteg­giamento delle autorità canadesi è ambiguo. Do­po il ’69 e negli anni più ruggenti della guerra in Vietnam circa 55 mila soldati arruolati nell’eserci­to degli Stati Uniti varcarono la frontiera (lunga 8.891 chilometri) e si rifugiarono in Canada, ac­colti a braccia aperte dai canadesi e dal governo liberale di Pierre Trudeau, felice di offrire «un por­to di pace» a quei ragazzi usciti incolumi ma avve­lenati nell’intimo per aver combattuto una guer­ra in cui non credevano.

Venticinque anni, Jeremy Hinzman può vantar­si di essere il primo soldato americano ad aver messo piede su suolo canadese, a Toronto, nella regione Ontario. Ed è anche il primo ad aver af­frontato le autorità e il Canadian Immigration and Refugee Board per regolarizzare la propria po­sizione come immigrato. Ma la sua richiesta di es­sere accettato come «profugo politico» è stata re­spinta. Lo stesso è accaduto a una cinquantina dell’Army e dell’Air Force americani che sperava­no di ottenere la cittadinanza canadese. Il difenso­re e paladino di questa legione straniera accampa­ta sulle sponde dell’Ontario è Jeffry House, un av­vocato americano che si rifiutò di andare a com­battere in Vietnam ed ora vive a Toronto: «Vengo­no da me per chiedere aiuto — afferma — ed io posso fare ben poco. Ma definirli 'disertori' è vi­le. Sono semplicemente profughi di guerra».

Di tutt’altro parere è il ministro dell’Immigra­zione Jason Kenney e del suo governo presieduto da Stephen Harper, conservatore inflessibile. Ne­gli ultimi undici mesi l’opposizione ha promosso due mozioni per bloccare l’ordine di espulsione inflitto ai soldati yankee, ma non sono servite a nulla. La prima vittima di questa politica della du­rezza è stato un giovane di 25 anni, Robin Long, che, disertando il campo di battaglia iracheno, tre anni or sono aveva raggiunto clandestinamente il Canada. Arrestato il 15 luglio del 2008, venne estradato negli Stati Uniti, dove la Corte marziale gli inflisse 15 mesi di detenzione: una pena lieve se si pensa a un disertore della Seconda guerra mondiale, Eddie Slovik, che venne fucilato.

Insieme a Hinzman, definito dai suoi superiori «un soldato esemplare», altri sono stati colpiti dall’ordine di espulsione e vivono nell’ansia, in attesa che venga loro comunicata la data del prov­vedimento.

Non senza difficoltà siamo riusciti ad avvicinare alcuni di questi poveretti costretti a rientrare in un Paese (il loro) che più non amano e che non li ama e dalla loro bocca sono uscite piccole storie, spesso amare e strazianti, oltre a parole di sfida, disgusto, indignazione. Dal tem­po dell’invasione in Iraq, nel 2003, più di 25 mila soldati americani hanno disertato l’esercito Usa — un aumento dell’80 per cento rispetto al perio­do 1998-2003 — e che la maggioranza ha scelto il Canada come rifugio permanente.

Il caso che più appassiona l’opinione pubblica a Toronto è quello di Kimberly Rivera, che tutti chiamano Kim: una signora texana di 27 anni, ma­dre di tre figli, l’ultima — Katie — di appena otto mesi. È stata la prima donna-soldato ad abbando­nare l’esercito che l’aveva arruolata nel marzo del 2006 e l’aveva subito spedita in Iraq a svolgere mansioni di controllo e vigilanza a un posto di blocco militare: «Me ne sono andata — dice acca­lorandosi — proprio in segno di protesta contro quella guerra. E non s’illudano che, deportando­mi e mettendomi di fronte a un Tribunale milita­re, io cambi idea: che rimanga in Canada o ne ven­ga cacciata, quella è la mia opinione e la griderò ai quattro venti».

Come tanti altri, Kim era partita per l’Iraq con entusiasmo e speranza: «Ma in quei tre mesi a Ba­gdad — aggiunge con un filo di voce — ho comin­ciato a interrogarmi. Mi sono chiesta quale aiuto potevamo dare a quella povera gente. Mi faceva male vedere l’arroganza dei nostri militari. Non avevo scelta. Sono arrivata qui il 18 febbraio del 2007». Alyssa Manning, l’avvocatessa che si occu­pa del suo caso, non si fa troppe illusioni: «Non credo — dice — che il fatto che la sua bimba più piccola, Katie, sia nata in Canada favorisca in qualche modo il suo tentativo di ottenere la resi­denza permanente nel nostro Paese. Comunque, se riuscisse a farcela, il suo rientro negli States comporterebbe problemi molto gravi. Con l’accu­sa di diserzione potrebbe finire in carcere per un paio d’anni. Neanche Obama potrebbe farci nien­te. La Corte marziale è inflessibile coi disertori».

Il sergente Patrick Hart, 36 anni, braccia vigoro­se da lottatore ingentilite dai tatuaggi, è uomo di poche parole. Dice di essersi rifiutato di andare in Iraq per le «menzogne» del suo governo (sulle ar­mi di distruzione di massa) ma più ancora per le testimonianze «sul comportamento atroce e vile dei nostri soldati». E conclude: «Di tornare in America, neanche se ne parla. Provo vergogna e odio per il mio Paese. Mi vergogno di essere ame­ricano ».

Chuck Wiley, un ingegnere navale americano che ha lavorato per 17 anni nella Marina militare degli Usa, si trovava nel 2006 su una portaerei da cui partivano ogni giorno, ogni ora, dei caccia­bombardieri che volavano a bassa quota terroriz­zando le popolazioni delle città irachene. «Come abbiamo saputo dai piloti — spiega — si trattava di strike missions , di missioni illegittime che non rispettavano la Convenzione di Ginevra. Mi resi conto allora che col mio lavoro contribuivo al pro­getto bellico. Profondamente turbato, ne parlai con mia moglie. Prendemmo una decisione e po­co dopo il Natale del 2006 arrivammo in Canada. Ho comunque pagato caro il mio gesto di ribellio­ne. Mi mancavano tre anni alla pensione e ho per­so tutto».

Ryan Johnson, 26 anni, è un ragazzo un po’ me­sto con occhi gentili e la barba rossiccia. Con la moglie Jenna ha fatto un mese di strada in auto dalla California al Rainbow Bridge, sulle cascate del Niagara. La decisione di raggiungere il Cana­da è maturata dopo un incontro con Jeremy Hinz­man. È a Toronto da quattro anni ma la sua do­manda per essere accettato come profugo e obiet­tore di coscienza è stata finora respinta. Confessa di essersi arruolato nell’esercito nel 2003 per far fronte alle difficoltà economiche della sua fami­glia: ma nel novembre del 2004, quando il suo reggimento si preparava a partire per l’Iraq, lui si butta dalla parte dei war resisters : «Non voglio tornare negli Stati Uniti dove sarei condannato e non potrei più uscire — asserisce con calma —. Ma se dovessi tornarci non ho proprio intenzione di chiedere scusa a nessuno».

Commovente il racconto di Jules Tindungan, che è stato in Afghanistan dal gennaio 2007 al­l’aprile 2008. «Ho combattuto nei distretti di Gar­dez e di Khost. I talebani ci attaccavano anche due volte al giorno. Lassù tra quelle montagne c’era poco da mangiare e anche l’acqua scarseg­giava. Il 20 settembre del 2007 ho avuto confer­ma di aver ucciso un uomo. Erano passati sei gior­ni dal mio ventunesimo compleanno. Trascorsi una notte d’angoscia».

Anche Chris Vassey ha combattuto per tre mesi in Afghanistan contro i talebani e racconta di avervi incontrato un giovane poco più che ven­tenne che s’era appena arruolato nell’esercito per avere, con l’ingaggio, la somma necessaria (30 mi­la dollari) al ricovero in ospedale della madre. Il portavoce delle Forze armate, Nathan Banks, so­stiene che l’argomento dei disertori sia stato gon­fiato a dismisura.

Bill King, pianista jazz molto richiesto nei Club e nelle sale di Toronto che accoppia alla musica l’arte della fotografia, dice d essere sempre stato un pacifista mentre «alla Casa Bianca tutti i presi­denti, da Reagan a Clinton a Bush ci raccontava­no delle gran balle sulle ragioni che avevano spin­to i nostri soldati ad andare in Vietnam o in Iraq a fare la guerra. Quindi ho fatto la mia scelta e nel­l’ottobre del ’69 mia moglie ed io siamo venuti in Canada. Allora c’era un altro clima a Toronto e il governo di Pierre Trudeau era ben diverso da quello attuale. Andai al Ministero dell’Immigra­zione dove mi sottoposero a un interrogatorio ma alla fine ottenni la cittadinanza canadese sen­za rinunciare a quella americana».

Più complicata e sofferta la vicenda vissuta da Philip McDowell che dal febbraio 2004 al febbra­io 2005 trascorre un anno in Iraq, in una località a nord di Bagdad dove s’era installato il I Cavalle­ria, la Divisione in cui s’era arruolato. «Trovai tan­ta povera gente soggiogata dalla tirannia, ma do­po che siamo arrivati noi, la vita degli iracheni è ulteriormente peggiorata. Nel 2004 avevo già de­ciso, durante una vacanza, di non tornare. No, non mi vergogno di essere americano. Ma negli States non ci torno più. Mai più».

Nel suo libro «The Deserter’s Tale» (Racconto del disertore) che il Los Angeles Times qualifica come «un sostanziale contributo alla Storia», l’au­tore, Joshua Key, che dopo l’11 settembre s’era ar­ruolato nell’esercito per difendere il suo Paese da Al Qaeda, scrive: «All’inizio io credevo nella mis­sione in Iraq. Saddam Hussein era un mostro che andava tolto di mezzo e bisognava privarlo delle armi di distruzione di massa che erano nelle sue mani. Ma erano tutte balle. Non è stato trovato niente, in Iraq». Nel 2003 Key ha partecipato col suo plotone a 75 raid, irruzioni nelle case private col pretesto di snidare i terroristi, furti e rapine a mano armata, ed è stato testimone di un numero incalcolabile di delitti. A un certo punto racconta che, passeggiando per Bagdad, si è trovato di fronte a una «scena terribile»: «Tutto quello che potevo vedere erano corpi decapitati e tra i corpi e le teste c’erano dei soldati americani. Ho visto due soldati prendere a calci una di quelle teste co­me fosse un pallone». E conclude: no, non c’è nes­suna scusa per quel che ho fatto in Iraq.


30 agosto 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:01:11 pm »

Protesi e mine anti uomo

Viaggio nelle corsie del dolore

Tra i mutilati di Kabul

di Ettore Mo


KABUL—Per chi voglia documentarsi in fretta sulla barbarie dei talebani, basta una visita all’Ospedale ortopedico della Croce Rossa Internazionale di Kabul, dov’è concentrato un esiguo campionario degli oltre 40 mila mutilati afghani, vittime della loro scellerata dittatura. Uno di loro, Ghulam Faroq, racconta che lo arrestarono nel ’99 e, dopo averlo addormentato, gli amputarono «senza ragione» la mano destra e la gamba sinistra. Rimpiazzate, l’una e l’altra, dagli arti artificiali che tre mesi dopo Alberto Cairo — dal ’90 direttore dell’istituto — gli aveva riattaccato. Cairo, 50 anni, piemontese della provincia di Cuneo, che ho più volte incontrato nei miei pellegrinaggi in Afghanistan, non è medico anche se tutti lo chiamano dottore: al tempo stesso, sarebbe estremamente riduttivo liquidarlo sbrigativamente come fisioterapista, data l’importanza e l’impatto che il suo Centro Ortopedico ha avuto ed esercita tuttora non solo sulla capitale ma sull’intera società afghana, afflitta dalla guerra. Dopo Kabul, altri Centri per i programmi di riabilitazione sono stati aperti aMazar-e-Sharif, Herat, Jalalabad, Gulbahar e Faizebad, che hanno ospitato un totale di 76 mila pazienti, con un aumento annuo di circa seimila persone, straziate, oltre che nei conflitti a fuoco, dalle mine anti- uomo disseminate ovunque. Altri dati informano che ogni anno vengono costruite circa 15 mila gambe e braccia artificiali. C’è poi la fitta schiera dei paraplegici, colpiti alla spina dorsale e immobilizzati per la vita. Sono 18 anni che Alberto Cairo vive e lavora in mezzo a questa umanità: «Quando vi misi piede la prima volta — racconta —, Kabul aveva circa 500 mila abitanti, adesso siamo sui quattro milioni. Io ho vissuto sotto cinque regimi: i comunisti di Taraki e Hafizullah Amin; i filosovietici di Najibullah; i mujahiddin dell’uno o dell’altro partito; i talebani; e infine, adesso, il governo del presidente Hamid Karzai...».
Quando la città era contesa dagli uomini di Ahmad Shah Massud e del suo rivale Gulbuddin Hekmatyar (tra il ’92 e il ’96), sull’ospedale «piovevano i razzi e si faticava a tener calmi i pazienti»; poi, con l’avvento dei talebani, «il problema più grave riguardava le donne, visto che quei fanatici di integralisti esigevano una netta separazione tra i sessi: regola non facile da rispettare nel nostro lavoro. Che tornò normale nel 2001, dopo la loro disfatta». Ciò che trovi, varcato il cancello del Centro, non evoca affatto l’atmosfera brechtiana dell’Opera da tre soldi, con la sfilata degli zoppi al proscenio: al contrario, ti senti come attorniato da una scolaresca indisciplinata, con giovani, meno giovani e anziani che avanzano (talvolta letteralmente saltellando) sulle stampelle, mentre altri, incollati alla sedia a rotelle, s’incrociano e rincorrono chiacchierando ad alta voce. Più risate che lamenti o imprecazioni. Si rasenta quasi l’allegria. Il programma dei Centri ortopedici prevede che i disabili imparino un mestiere che sia compatibile con le loro condizioni (o menomazioni) fisiche: «Questo spiega—dice Alberto Cairo— perché tutte e cinquecento le persone, uomini e donne, che lavorano in questo ospedale sono degli ex pazienti». Per averne conferma, basta una visita fugace nel dedalo di stanze e fucine dove si confezionano protesi di gambe, braccia, mani e piedi riciclando vecchia plastica e copertoni o dove si costruiscono in serie stampelle e sedie a rotelle. Un ragazzo senza gambe e in vena di scherzi definisce la sua carrozzella la fuoriserie di Maranello. Anche Cairo, pur venendo da una contrada dove gli uomini sono notoriamente chiusi e taciturni, sembra sorretto da una buona dose di sense of humour e d’ottimismo, necessari per reggere all’impatto quotidiano della realtà in cui vive: e sono infatti in molti a chiedersi come abbia fatto a resistere per diciott’anni. «Ho sempre questa amica seduta sul sofà— dice scansando considerazioni più serie —. Questa gattina castrata si chiama Rita». Ma— confessa — gli piaceva di più la Kabul dei primi tempi, quand’era una capitale onesta: «Oggi—lamenta —, la corruzione ha coinvolto tutti e tutto. Ad ogni livello. Si paga per ogni cosa: che so, per una firma, per il bollo della macchina, per sollecitare una pratica. E i prezzi salgono alle stelle. Anche il sistema sanitario non funziona. A Kabul ci sono 200 cliniche private ma tutte di livello molto basso. Una sola eccezione, l’ospedale francese...».
Kabul, sostiene, è cambiata molto fisicamente, la vede caotica e un po’ sguaiata: «Il traffico. E poi... troppa musica sparata in strada, sui marciapiedi, a pieno volume; troppi negozi con vetrine di lusso e abiti griffati, troppo di tutto». Ma lo stesso, la nostalgia per il Piemonte non avrà il sopravvento. La dedizione senza limiti — e tuttavia mai ostentata — ai suoi pazienti (lo vedi scherzare mentre avvita una gamba di plastica al ginocchio di un ragazzo) appare ancor più evidente quando l’accompagni nel villaggio di Dasht Barachi, dove alcuni disabili, dimessi dall’ospedale, si sono sistemati con la speranza di trascorrervi un’«esistenza normale»: come Abdul Rasheed, 50 anni, colpito alla schiena da un proiettile nel ’96, da allora paralizzato totale. Abita in una stanza tirata a lucido, con la moglie e due figli. Insieme, tessono tappeti, per un tappeto tre mesi di lavoro, un dollaro al metro. La figlia Sarzana, 16 anni, è bella e sottile, il velo sui capelli, pantaloni rossi attillati. Pochi metri più in là, Ahmad Alì, lui pure immobilizzato a vita, riceve il cibo dalla Croce Rossa, è sempre solo e al buio. Qualche volta lo mettono su una carrozzella e gli fanno fare il giro del mondo tra rigagnoli immondi e montagne di spazzatura. Negli ospedali di Emergency, in Afghanistan, business as usual: cioè situazione di emergenza permanente con le vittime della guerra che ogni giorno s’affacciano ai rifugi montani dei Fap— posti di primo soccorso —, come quello di Anjuman, aggrappato a 3.800 metri al cielo ghiacciato dello Hindu Kush, per essere poi dirottate verso i Centri chirurgici di Anabah, nel Panshir, di Kabul e, più a sud, di Lashkargah, capitale della provincia di Helmand.
Si calcola che nelle strutture sanitarie create da Gino Strada siano state curate gratuitamente, dal 1994 alla fine dell’anno scorso, più di 2 milioni e 750 mila persone: senza trascurare il fatto che esse abbiano sottratto alla disoccupazione e alla fame circa un migliaio di lavoratori locali. Nell’ospedale di Emergency a Kabul (o, più precisamente, Centro chirurgico per vittime di guerra) vengono accolti anche disabili non direttamente coinvolti in conflitti armati o feriti dall’esplosione di una mina anti uomo, ma qualsiasi persona ridotta allo stato di immobilità irreversibile da gravi malattie, quali la poliomelite, la tubercolosi o la lebbra, oppure da incidenti stradali o sul lavoro. L’Emergency Hospital di Kabul ha i suoi problemi: «Come in ogni altra struttura sanitaria — ammette il dr. Danilo Ghirelli, di origine romagnola — i nostri sono soprattutto di natura economica. Non siamo in grado di pagare i salari che offrono alcune organizzazioni non governative, perciò i nostri medici e infermieri se ne vanno altrove, dove il trattamento è migliore. Conseguenza? La scarsità del personale ci costringe a lavorare giorno e notte, 24 ore su 24. E dobbiamo vedercela con casi d’emergenza gravi. Abbiamo l’unico reparto di rianimazione in Afghanistan free of charge, cioè gratis. Ci sono ospedali meglio attrezzati di noi, ma quelli si fanno pagare. Eseguiamo inmedia 350 interventi chirurgici al mese, solo a Kabul». Nel reparto pediatrico, quasi tutti i bambini sono vittime di «incidenti di guerra». I due che vediamo con le gambe in trazione sono «saltati » su una mina. Sorridono e dicono qualche parola in inglese (thank you mister yes goodbye goodnight) per darsi le arie, ma nessuno è in grado di dire se potranno ancora correre o giocare nei campi. Vauro, perenne innamorato dell’Afghanistan, ha lasciato sulle pareti del padiglione, accantonando la sua indole ringhiosa, scarabocchi vivaci e gentili nel tentativo di far ridere per un attimo l’infanzia ferita del mondo.
Ma è tempo di lasciare le corsie degli ospedali per una boccata d’aria più salubre e soddisfare la curiosità degli amici del bar che vorrebbero sapere qualcosa di nuovo, o d’inedito, sulla condizione delle donne in Afghanistan. Argomento impossibile. Questa volta mi viene però in aiuto la signora Susanna Fioretti, che ho incontrato a Kabul e che ha affrontato la questione in una tesi di laurea, fresca di stampa. Responsabile di un «progetto di alfabetizzazione e formazione professionale » per donne di Kabul nel quartiere di Shar-e-Shaid, per conto della Cooperazione italiana, l’autrice del testo basa la sua analisi su un’esperienza personale. E non importa se alla caduta dei talebani la stampa ha gridato al mondo che «le donne afghane erano tornate libere»: la libertà femminile continua ad essere limitata in base alle consuetudini patriarcali dell’onore, che impongono la lapidazione delle donne accusate di adulterio. Sono pochissime le donne che aderiscono ai corsi professionali proposti dalla Fioretti, anche se il Centro rappresenta ancora in tutto l’Afghanistan «un unicum nel campo della formazione femminile». La maggior parte dei genitori diffida di queste iniziative e teme che le loro figlie, invece di imparare l’alfabeto, siano avviate alla prostituzione. Tempi grami per l’Afghanistan, «retrocesso a una sorta dimedioevo nello spazio del breve regime talebano». Ed ecco il lamento lirico per Kabul dove «un tempo vi erano regge, case, fiori, alberi che facevano di questa valle un Paradiso, oggi c’è solo desolazione e sconforto...».
E pensare che il vanto di questa città erano i settanta tipi di uva, i trentatré tipi di tulipani, i sei grandi giardini folti di cedri. Ora non vi è più nulla e non per maledizione divina o catastrofe naturale, ma per la guerra... Secondo dati attendibili, l’Afghanistan produceva nel 1989 1.200 tonnellate di oppio; dieci anni dopo il totale era arrivato a 4.600 tonnellate, di cui approfittavano i talebani per autofinanziarsi. Risulta anche che nel 2003 il Paese abbia prodotto i tre quarti dell’eroina mondiale. Ma nel 2001, tirando le somme, il governo di Kabul giungeva all’amara conclusione che in vent’anni la guerra e la fame avevano spazzato via due milioni e mezzo di afghani. Nei corsi di formazione, Susanna Fioretti ha addestrato le sue allieve per tre lavori diversi: taglio e pulitura di pietre semipreziose (che ha suscitato l’interesse del Comune di Firenze); riparazione di telefoni cellulari; e infine assemblaggio di lampade fotovoltaiche. Se ho ben capito, all’inizio lavoravano senza alcuna retribuzione: ma per loro, sottolinea la Prof, «era già un privilegio uscire e lavorare fuori casa, per di più in un ambiente frequentato da uomini». Non so quanti e quali benefici morali abbia prodotto nelle ragazze la frequentazione dell’Università Fioretti, ma è probabile che la loro filosofia abbia subito qualche mutamento. Mi chiedo quale reazione potrebbero ora avere, rileggendo il brano del Corano dove, pur riconoscendo i diritti delle donne, Dio sostiene la superiorità del maschio e lo invita ad ammonirle, qualora fossero disobbedienti, quindi a lasciarle sole nei loro letti e infine, quando fosse proprio necessario, a picchiarle. Gul Makai, una delle tre donne su cui Susanna Fioretti ha imbastito la sua tesi di laurea, risponde così a chi le ha chiesto quale fosse la differenza tra come si comportano gli americani in Iraq e in Afghanistan: «Gli afghani sono molto coraggiosi e non permettono agli americani di fare ciò che vogliono, per questo si comportano meglio. Secondo me gli americani sono un po’ come i russi, faranno la stessa fine, lasceranno questo Paese. Prima ero sicura che gli americani volessero aiutare l’Afghanistan, poi ho capito che lo volevano solo conquistare».

2008
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:01:56 pm »

Ritorno in Afghanistan

Kabul, il futuro sta arrivando

di Ettore Mo


KABUL - Quando vi misi piede per la prima volta, sei mesi prima che le piombasse addosso l'Armata Rossa di Leonid Breznev, la capitale dell'Afghanistan era una remota Cenerentola dell'Asia centrale che, ad eccezione degli inglesi, solo pochi avrebbero potuto rintracciare con facilità sull'atlante.

Affrontando quel viaggio verso l'ignoto, avevo però ritagliato e messo in borsa un elzeviro di Moravia che, sulla terza pagina del Corriere, parlava di Kabul e del suo arcano re, da qualche anno esule in Italia: quanto bastava per alleviare di poco il mio disagio. Era l'estate del '79. Nelle città e sulle montagne era già cominciata la lotta armata o Jihad (la guerra santa) degli afghani contro il governo filosovietico di Nur Mohammad Taraki, presidente, e del suo primo ministro Afizullah Amin, ambedue portabandiera del regime dei «senza Dio», ferocemente avverso alla prospettiva di una Repubblica teocratica in Afghanistan. Quello stesso anno, nella notte tra Natale e Santo Stefano, quando i carri armati sovietici entrarono sferragliando a Kabul, aveva inizio l'ultima guerra coloniale del secolo. Che ho potuto seguire per quasi trent'anni, fino all'ultima visita — domenica, 27 aprile — giorno del caotico, fallito attentato dei talebani contro il presidente Hamid Karzai.
Fatalmente, la sola porta d'ingresso per l'Afghanistan era allora Peshawar, la città di frontiera pakistana dove stavano annidati i quartier-generali dei sei/sette partiti della Resistenza islamica, impegnati nella Jihad. Ricordo, come fosse ieri, il primo incontro con Gulbuddin Hekmatyar, il torvo, truce capo dello Hezb-i-Islami, il gruppo più agguerrito e aggressivo dei mujahidin che sta tuttora combattendo a fianco dei talebani nella valle del Kunar e che mi disse: «Se vai a Kabul, salutami Taraki. Digli che i miei ragazzi possono anche andare scalzi in montagna, con un tirasassi invece del fucile: ma si lasciano ammazzare piuttosto che arrendersi. Digli che il giorno della resa dei conti è vicino.Allah akhbar. Che Iddio ti assista».
Da Peshawar, città guarnigione, città bazar, città ospizio di un milione di profughi afghani, si raggiungeva Kabul su una piccola, ansimante corriera azzurra su cui si imbarcavano anche pecore e capre, in sette/otto ore passando per il Khyber Pass e rampicando a strappi e rantoli su tornanti scoscesi lungo un fiume — il Kabul — pieno d'ira e di schiuma. La città sembrava calma e, a 1.800 metri, si respirava un'aria nuova, pulita, vero refrigerio dopo la calura sofferta nelle zone basse di frontiera, annichilite dal sole. Mesi dopo, tornato sui miei passi, chiesi ad Hafizullah Amin, diventato presidente dopo la scomparsa (leggi eliminazione) di Taraki, se avesse mai pensato che avrebbe potuto finire i suoi giorni come il suo predecessore e non spegnersi tranquillamente nel proprio letto. Cosa che di fatto avvenne. Neanche due settimane dopo il colpo di Stato che aveva rovesciato il suo regime, Amin e la sua famiglia (la moglie, i figli) vennero trucidati dai soldatacci dell'orda sovietica, per essere rimpiazzato da Babrak Karmal, imposto dal Cremlino e sbarcato nella capitale sulla torretta di un tank T26, con la stella rossa. In pochi giorni, con duecento voli dalla Russia alla base aerea di Bagram, il comando militare sovietico aveva scaricato da 1.500 a 5.000 soldati, insieme a tonnellate d'armi d'ogni tipo e dimensione. L'intero Paese era ormai nelle mani dei russi, che qui chiamavano «sciuravi».

Ciononostante, la Kabul del dopo intervento sembrava meno «marziale» e meno «militare» di quella che avevo visto un mese prima. La presenza sovietica era confermata, con discrezione, da robuste camionette senza targa o con targa non afghana, piene di soldati dell'Armata Rossa, infagottati e silenziosi, la testa avvolta nel colbacco nero. Pochi i carri armati in città, minacciosamente immobili nel giardino della sede tv: ma centinaia di blindati stavano dislocati e occultati nella periferia tutta intorno, livida e bianca di neve, o lungo i contorcimenti della carrozzabile per Jalalabad. Da un'altura ad ovest della capitale, reparti di «sciuravi» tenevano sotto tiro un campo militare afghano: segno evidente che l'Armata Rossa non si fidava più degli uomini che avevano combattuto contro i mujahidin sotto il regime di Taraki e Amin. Molti di loro s'erano rapidamente sbarazzati della divisa passando dalla parte dei guerriglieri islamici. Defezioni a catena. Era ormai chiaro per tutti che l'ordine interno e la sopravvivenza del nuovo governo «moscovita» dipendevano esclusivamente dall'esercito sovietico, padrone assoluto. Una presenza massiccia, la sua: da diciotto a venticinquemila soldati, che tuttavia non furono in grado di proteggere le proprie installazioni degli attacchi e attentati del comandante Abdul Hag, principe dei dinamitardi. I diplomatici russi e il loro entourage vivevano murati dentro l'ambasciata, con tutte le amenità che Mosca forniva loro per addolcirgli l'esilio.

Ancorata alle sue strutture arcaiche, Kabul non era visibilmente cambiata, ma un lieve mutamento c'era pur stato, che il professor Majrooh — ex decano di lettere all'Università della capitale — ravvisava «nel tono e nel ritmo della vita». Una svolta nella cultura afghana era certamente tra gli obiettivi del Cremlino e non doveva perciò stupire che al Politecnico ci fossero cento docenti russi contro appena centoquaranta afghani. Qualcuno s'illudeva che una lunga permanenza sovietica in Afghanistan avrebbe trascinato il popolo afghano nel Duemila, mentre la conferma di un regime islamico l'avrebbe tenuto inchiodato all'Ottocento. Ma quando, il 15 febbraio dell'89, il generale Gromov, ultimo uomo dell'Armata Rossa a lasciar il Paese, varca il ponte sull'Amu Darya, è il canto lamentoso del muezzin a diffondersi nell'aria.

Una delle conseguenze più gravi dell'occupazione sovietica (durata quasi nove anni) fu l'esodo fluviale di cinque milioni di afghani che abbandonarono precipitosamente il Paese per trovare rifugio nelle tendopoli e baraccopoli germinate appena oltre frontiera, soprattutto in Pakistan, nelle fiere comunità autonome pashtun della North-West Frontier. Quando i mujahidin occuparono la capitale nella primavera del '92 , dando il colpo di grazia all'agonizzante regime di Najibullah, Kabul era quasi intatta. Uscita indenne dal conflitto. Nessuna delle sue belle moschee era stata sfiorata dalle bombe, né avevano subito danni i grandi palazzi storici come il Darlanan Palace, costruito negli anni Venti dal sovrano Amanullah.
Ma i guai sarebbero cominciati subito dopo, con lo scoppio dalla guerra civile tra le due forze rivali dei mujahidin: quella di Gulbuddin Hekmatyar, che poteva contare sull'appoggio economico del «principe delle tenebre », Osama bin Laden: e quella, non meno indomita, di Ahmad Shah Massud, il leone del Panshir, ancor oggi celebrato come il «vero eroe nazionale», barbaramente ucciso il 9 settembre del 2001 da sicari-kamikaze. Ed è a quella guerra fratricida che sono da attribuire le ferite, le voragini, la devastazione, le macerie dell'odierna Kabul.
Ma il tema della ricostruzione, che pure è urgente e prevede cospicui investimenti e contributi internazionali, cede il posto a quello, sempre attuale e penoso, dei talebani, rilanciato sulla ribalta della cronaca del-l'attentato di fine aprile al presidente Karzai, rimasto miracolosamente illeso. Già nell'autunno del '98, questi ragazzi indottrinati nelle madrasse agricole di confine e zelanti discepoli dell'integralismo islamico usque ad mortem controllavano il 90 per cento del territorio afghano. A contrastarli, nella loro mistica follia, c'era solo l'Alleanza del Nord, guidata da Massud, e di cui facevano parte tajiki, uzbechi, turcomanni, hazara.
Inizialmente accettati dalla popolazione, che non capiva le loro motivazioni, divennero ben presto assurdamente inflessibili: bandita ogni forma di modernità e divertimento, fino al punto di proibire gli aquiloni che per gli afghani equivalevano ai sogni di un'innocenza rimasta senza ali, bruciate, queste, nel rogo degli eventi bellici. Le donne potevano uscire solo se accompagnate da un parente stretto e segregate nel burqa dalla testa ai piedi. Radio e televisione, con le soap opera e altre trivialità, erano strumenti del demonio: e lo era perfino la musica, che ti allontanava dal percorso della virtù per avviarti sul sentiero della perdizione.

La Kabul che ho visitato nei giorni scorsi si starebbe gradualmente liberando dal giogo talebano: ma il processo è lento e quasi impercettibile. In Afghanistan, uno dei miei drammi è pasteggiare con la Pepsi-Cola sognando le vigne del mio Piemonte. Per questo sono grato a Peter Jouvenal, un ex fotografo inglese e cameraman della Bbc con cui ho scarpinato negli eroici anni Ottanta alla ricerca di Massud e che attualmente gestisce una guesthouse di cui sono ospite insieme a Luigi, la Gandamack Lodge, che ha una cantina ben fornita con divieto d'accesso ai talebani. Nella cosmopolita Kabul è ora possibile notare una lieve rilassatezza di comportamento, come accade al City Center Hotel dove ragazzi e ragazze, seduti a tavoli diversi, si scambiano apertamente occhiate e sorrisi: mentre nella campagna, dove le donne non hanno mai sentito parlare di diritti umani, la violenza del maschio tra le pareti domestiche è un tran-tran quotidiano e i matrimoni combinati o imposti dalle famiglie rientrano nella normalità. La signora Sima Samar, che dirige la Commissione dei Diritti Umani nella capitale, sostiene che i matrimoni forzati, come quelli spesso contratti tra uomini anziani e bimbe neanche adolescenti, conducono al suicidio tante minorenni. «Purtroppo — conclude — siamo succubi di un sistema patriarcale dove la donna è inferiore all'uomo e deve perciò accettarne la supremazia».
Avrei voluto rivedere (ma non ce l'ho fatta) il campo di papaveri a nord di Jalalabad dove, nella primavera dell'80, fui testimone di uno scontro a fuoco tra tre blindati sovietici, sbucati sull'argine del fiume Sukhroad, e una cinquantina di mujahidin, muniti solo di obsoleti Enfield 303: durante la battaglia, il capo dei guerriglieri stramazzò sull'erba centrato da un proiettile in mezzo alla fronte; mentre tre poveri contadini afghani, costretti dai russi a salire su un bulldozer per fare lavori di sterramento, venivano catturati dai mujahidin e randellati senza pietà come «sporchi traditori». Li fucilarono nella cava di ghiaia di un villaggio, dopo aver sepolto con tutti gli onori Bismillah, il loro comandante.

Il papavero da oppio, che si coltiva da secoli in queste pianure per essere poi trasformato in polvere bianca nei laboratori clandestini situati lungo la frontiera del Pakistan, nelle cosiddette aree tribali, autonome e ingovernabili, costituisce un grave problema per l'Afghanistan, accusato di alimentare il narcotraffico, la situazione peggiorò ulteriormente e si calcola che nel Paese ci siano oggi circa un milione di tossicodipendenti. A Kabul li si può vedere... al lavoro nei pressi della grande moschea di Eid Gah. Burhanuddin Rabbani, anziano membro del Parlamento che incontrai la prima volta a Peshawar la bellezza di 29 anni fa, quand'era il leader spirituale del grande partito Jiamiat-i-Islamim, mi sorprende affermando senza esitazione che, per lui, «la sfida della droga nel Paese è più grave ed allarmante di quella dei talebani»: dal momento che questi ultimi, attualmente «finanziati dal narcotraffico, potranno essere sconfitti, mentre la droga continuerà a prosperare, seminando morte».
La sconfitta e dipartita dei talebani ha fatto scattare nel Paese una voglia nuova di modernizzazione, il desiderio della gente di adeguarsi sempre più a un tipo di vita occidentale, magari con un eccesso di euforia da parte soprattutto dei giovani che affollano negozi di computer e cellulari, ansiosi di fare scorpacciate di dvd con film europei o americani. La tv è sempre accesa e vomita sui marciapiedi i suoi programmi a tutto volume. Il presidente Karzai è orgoglioso di poter confermare che dal 2001 ad oggi sono state costruite 1.500 nuove scuole, mentre altre 3.000, consunte dalla vecchiaia, sono state risistemate. E i responsabili dei grandi progetti nazionali assicurano che entro il 2006 saranno percorribili altre duemila miglia di strade e autostrade che consentiranno di accorciare le distanza. Noi stessi siamo riusciti a coprire il percorso da Kabul a Bazarack (dov'è la tomba di Massud) in poco più di due ore, mentre nel 2003 ne occorrevano quattro sulla vecchia, sconnessa carrettiera.

La presenza delle forze di pace straniere in Afghanistan, che gli afghani non vedono di buon occhio e che lo stesso Rabbani non esita a definire, nella sua ieratica saggezza, «truppe d'occupazione», suscita discussioni a non finire e perplessità e c'è chi osa accostare l'attuale situazione afghana a quella degli anni Ottanta quando sul selciato risuonavano gli stivaloni degli «sciuravi». Le sconfitte britanniche dell'Ottocento (1839 e 1889) e del Novecento (1921) stanno comunque a dimostrare che l'allergia dei pashtun e dei tajiki ai forestieri in divisa non è scomparsa. Venerdì, giornata di riposo settimanale per i musulmani. Mi prendo Kabul in una boccata ciondolando da un luogo all'altro senza un itinerario preciso. Allo stadio comunale, il vastissimo campo è conteso da team agguerriti di ragazzini che giocano a calcio: non so perché, mi vengono in mente i mongoli di Gengis Khan e sento sul terreno gli zoccoli dei loro cavalli. Non lontano, sull'altura di Tapa-e-Maranjan, la tomba di Zahir Shah, rientrato in Afghanistan dall'Italia nell'aprile del 2002 e morto più che novantenne l'anno scorso: insieme a lui riposa il padre Nadir, assassinato nel '33.
Lungo Jadeh Maywand, la più trafficata e caotica strada della capitale, busso invano alle bottegucce dei fabbricanti di uccelli di carta. Tutte chiuse. Anche il tugurio del vecchio Saifa — il migliore di tutti — come ricorda Khaled Hosseini nella mirabile favola de Il cacciatore di aquiloni.

La plebe di questa Cenerentola urbana nel cuore dell'Asia, popolata da circa quattro milioni di abitanti, non si muove dai propri chiassosi vicoli, contentandosi del profumo e del sapore del kebab, rosolato ad arte sulle braci.

2008
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #14 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:02:55 pm »

Ritorno in Afghanistan: la provincia dell’Ovest

Herat, la frontiera degli italiani

di Ettore Mo


HERAT — Solo un'ora di volo da Kabul a Herat, ma quando vi sbarchi trovi un paesaggio totalmente diverso. Ciò che vedi è una macchia vastissima di case, incollate alla crosta di sabbia del deserto, nella polvere. Di montagne, neanche l'ombra. E quando dall'aeroporto arrivi in città, lungo il rettilineo di un vialone che non finisce mai, hai subito la sensazione che manchi qualcosa rispetto alla capitale lasciata alle spalle: l'atmosfera, i rumori della guerra.

Ma non è così. L'Isaf—International Security Assistance Force — ha schierato qui gran parte delle sue forze: e qui c'è pure il comando italiano che presiede alla regione occidentale del Paese, dove sono accampati circa la metà dei 2.500 soldati del nostro contingente, mentre all'altra metà è affidata la sicurezza della capitale e la zona montagnosa che attraverso il Khyber Pass confina ad Est col Pakistan.

Missioni di pace e truppe di «supporto» sono definizioni un po’ vaghe che non spiegano a sufficienza quali siano le funzioni e il ruolo effettivo degli alpini italiani e dei paracadutisti della Folgore in territorio afghano: ma nella vasta e turbolenta provincia di Farah, a Sud di Herat, dove sono annidate le milizie talebane e di Al Qaeda oltre a un miniesercito di narcotrafficanti, gli scontri a fuoco sono frequenti.

Il governatore della città, Sayed Hussain Anwari, ha parole di elogio per i nostri militari, che— dice— «si comportano molto bene». Riconosce che il loro mandato prevede soprattutto un forte impegno nel programma di ricostruzione del Paese: non sembra avere tuttavia alcun dubbio che, in caso di necessità, gli alpini «sapranno fare il loro dovere di soldati a fianco dei nostri ragazzi». Insomma, se c'è da sparare, si spara. Ma fino ad ora la minaccia dei talebani è stata lontana da Herat, che per popolazione è la seconda città dell'Afghanistan: «Che io sappia —dice il governatore con sollievo —, questi folli di Dio non si sono mai visti nelle nostre strade né nei quindici distretti della circoscrizione. Sono altri i nostri problemi. Soprattutto criminalità comune. Però da un mese non abbiamo più né rapimenti né rapine. Abbiamo eliminato i due gruppi responsabili di tali crimini insieme ai loro comandanti».

Meno compiaciuta e rilassata è Mariya Bashir, procuratore capo di Herat, una bella e battagliera signora di 38 anni. «Non condivido l'ottimismo del governatore—esordisce —; dopo circa tre anni di relativa sicurezza e sviluppo socioeconomico con investimenti a gonfie vele, c'è stato un collasso. Rapimenti, rapine, delitti. Solo l'altro giorno è stato trovato il cadavere di un ragazzo scomparso quattro mesi fa. Ma nessuno fa niente: né il governo, né i leader dei partiti, né l'Isaf. Sono tutti legati alla malavita. In questa città, ladri e assassini vivono alla grande nel quartiere di Guzarà, la polizia li conosce uno per uno ma non è mai intervenuta per arrestarli...». Confessa d'aver votato per Hamid Karzai, illudendosi che avrebbe trovato una soluzione alla crisi: «E adesso me ne pento, come molti altri. È sostanzialmente un uomo debole, che è stato travolto dalla corruzione, diffusa ad ogni livello, dal bidello ai pezzi grossi dell'establishment. Sono la prima donna in Afghanistan a ricoprire questo incarico: ma in questi tre anni ho ricevuto solo minacce di morte, per me e per i miei tre figli, che non mando più a scuola. Ma io combatto e non mi do per vinta: contro Al Qaeda, i talebani, i mujahidin. Tutti miei nemici. E anche il governo Karzai è mio nemico. Ha venduto l'Afghanistan agli americani, che sono venuti qui per fare i propri interessi. Ma nessuno dovrà più considerare l'Afghanistan un corridoio o un territorio di transito come hanno fatto prima gli inglesi e poi i russi».

Secondo il calcolo degli esperti, gli Stati Uniti, che da soli coprono un terzo del volume degli aiuti internazionali destinati all'Afghanistan, spendono per la loro presenza nel Paese quasi 100 milioni di dollari al giorno (circa 36 miliardi l'anno). Cifre enormima di cui hanno beneficiato poco o nulla gli afghani che, quando arriva l'inverno, non hanno i vetri alle finestre né legna da ardere per scaldarsi.

Il leader dell'opposizione, Bashir Ahmad Bezhan, uno dei più accaniti oppositori alla presenza delle truppe straniere, non fa sconti a nessuno: «Quando sento affermare nei comunicati ufficiali che gli americani sono venuti in Afghanistan per combattere i talebani e il loro alleato Gulbuddin Hekmatyar—dice—mi viene da ridere. Essi finanziano i talebani e sono venuti qui per aiutarli. A loro non importa chi va al governo, che sia Karzai o il mullah Omar con tanto di barba e di turbante: gli va bene chiunque, a condizione che possano fare i propri interessi. Come fecero nel 2001, l'ultimo anno del regime talebano, quando sborsarono un sacco di soldi per far aumentare la coltivazione dell'oppio, che passò da 115 a 125 tonnellate». Il governo di Hamid Karzai non ha, per Bashir Bezhan, il consenso del popolo e non può quindi essere considerato «né un governo nazionale né un governo democratico » e c'è perfino chi suggerisce che si stia tramando nell'ombra per una restaurazione della monarchia. Suggerimento che sa solo di fantapolitica o della trama di un'operetta di fine secolo, ma qualcuno ricorda che il rapporto fra l'attuale presidente e l'ex monarca in esilio a Roma era ottimo e che fu proprio Karzai a dare il benvenuto a Zahir Shah quando, nel 2002, rientrò a Kabul.

L'obiettivo del leader dell'opposizione è «un governo federale con la partecipazione di tutti i gruppi etnici del Paese», ora divisi e in conflitto tra di loro. Bezhan non esclude neanche l'eventualità di un accordo coi talebani che sembrano aver allentato la propria intransigenza dopo la sorprendente dichiarazione di Karzai che in una recente conferenza stampa si disse «pronto a trattare» con Hekmatyar e col mullah Omar, aggiungendo che li vorrebbe incontrare al più presto, «sapessi solo dove si trovano». Ma che faccia tosta! Dove siano quei due lo sanno tutti. Il mullah Omar è a Kandahar, roccaforte dei talebani, mentre la presenza di Hekmatyar, che è mobilissimo, viene via via segnalata in luoghi diversi lungo il tortuoso confine afghano-pakistano, dove può nascondersi nelle caverne, protetto dalle tribù amiche dei pashtun, che lo considerano un eroe.

Ultimamente, però, sarebbe stato visto nella valle del Kunar insieme ai suoi guerriglieri più fidati, sui sentieri delle capre. Il sospetto che stia preparando una grande spedizione punitiva nel momento in cui i talebani sembrano più forti, efficienti e compatti, grazie anche agli aiuti sempre più copiosi che ricevono, filtrati attraverso i servizi segreti pakistani (l'Isi), non può essere accantonato. Il «tigre»—altro nomignolo aggressivo che gli è stato appioppato — ha fame e sta sfoderando gli artigli. La possibilità di un accordo col «nemico», invece di una soluzione militare, è quanto si augura l'ex presidente Rabbani che, durante il nostro incontro, ha ammesso che l'attuale governo «non può prendere decisioni da solo» e che «la nostra strategia è decisa dalla comunità internazionale»: lamentando ad esempio il fatto che se il problema della sicurezza fosse stato di competenza del ministero della Difesa e non dei vertici della Casa Bianca, le forze dell'Isaf non stazionerebbero oggi nella capitale, come invece è avvenuto.

Non è sfuggito a nessuno che i più stretti collaboratori di Hamid Karzai—dal Procuratore generale al ministro degli Interni — provengono dalle file dello Hezb-i-Islami, il partito integralista islamico di Gulbuddin Hekmatyar, acclamato già nella seconda metà degli anni Settanta come l'Ayatollah degli afghani. Quando, nell'estate del '79, lo vidi per la prima volta nel suo covo di Peshawar aveva 30 anni: i suoi occhi e la sua scrivania — su cui, insieme al Corano, erano sistemate pistole e cartucciera — incutevano paura. Snobbava gli altri partiti e partitini, soprattutto lo Jamiat-e Islami, che era il gruppo più consistente, fondato e guidato dal «teologo» Burhanuddin Rabbani, uomo di grandi principi e di voce morbida e soave. Divorato da un'ambizione smisurata, Gulbuddin non avrebbe mai potuto tollerare di figurare al secondo posto nella leadership di un qualsiasi potere: da qui la sua lotta spietata, dopo la presa di Kabul, contro Ahmad Shah Massoud che stava rapidamente imponendosi come leader nazionale e si sarebbe presto aggiudicato il ministero della Difesa. Ma non erano tanto gli incarichi politici conferiti al suo avversario a scatenare l'invidia di Hekmatyar quanto l'immagine che il leone del Panshir s'era costruito e cucito addosso di uomo integro e coraggioso: forse il solo che avrebbe potuto avviare il Paese verso un sistema relativamente democratico, dopo anni (secoli) di oscurantismo medioevale.

Le ragioni per screditare Hekmatyar e confinarlo nel pozzo dell'ignominia tra i personaggi più odiosi dell'umanità sono parecchie: una ce l'ho anch'io, legata a un episodio dell'agosto '94, quando Gulbuddin fece uccidere un giovane collega della Bbc in lingua pashtun, Mirwaiz Jalil, perché aveva osato criticarlo (molto civilmente, com'era nel suo stile) in uno dei suoi programmi. Ero con lui in macchina, sulla collina di Shariasab a pochi chilometri da Kabul, quando tre uomini mascherati lo strapparono fuori dalla vettura e lo spinsero a forza coi fucili dietro una siepe al margine della strada. Ricordo lo sguardo annebbiato dei suoi occhi, mentre pronunciava le ultime parole della sua vita: Goodbye, Ector, they're killing me... addio, mi ammazzano. Aveva 24 anni.

Emersero prove più che sufficienti per stabilire che il mandante dell'assassinio era l'inflessibile leader dello Hezb-i-Islami, che si autodefiniva «la spada di Allah ». Può stupire di saperlo ancor oggi sul sentiero di guerra, a fianco dell'altro imprendibile fulmine di Dio, Osama Bin Laden? Che un uomo siffatto sia al di là di ogni possibilità di redenzione sono in molti a pensarlo: e lo stesso Rabbani, che si genuflette cinque volte al giorno invocando il Dio grande e misericordioso del Corano e può contare su inesauribili riserve di pietà e comprensione accumulate nel cuore, non crede che Hekmatyar possa ricredersi e pentirsi del suo passato come succede talvolta anche ai più grandi peccatori. «Secondo il Profeta—spiega con voce prelatizia —, se qualcuno ti dice che due montagne si sono separate e poi si sono nuovamente riunite, gli puoi credere; ma se qualcuno dice che un uomo e la sua anima possono cambiare, non gli devi credere perché ciò non può avvenire. Vedi, Gulbuddin è quello di sempre: può darsi che col passar degli anni la sua indole, la sua natura si siano affievolite, ma sostanzialmente non potrà cambiare, sarà sempre lo stesso. So che recentemente ha scritto una lettera a Karzai per dirgli che era sua intenzione di dare un taglio al passato ed entrare a far parte del governo. Il presidente gli rispose con freddezza che il contenuto della lettera non era chiaro, si spiegasse meglio».

«Fosse ancora vivo Lui, l'Afghanistan sarebbe oggi un luogo migliore»: affermazione che Massoud Khalili ripete ogni qualvolta vado a trovarlo nella sua bella casa di Kabul, dono di Zahir Shah a suo padre, grande poeta e letterato in lingua farsi. Lui era Ahmad Shah Massoud, dilaniato nell'attentato del 9 settembre 2001 ad opera di due kamikaze arabi mentre si trovava indifeso in una sperduta caserma del Nord. Khalili, amico d'infanzia e suo fedele «scudiero» fin dai tempi dell'invasione sovietica, rimase gravemente ferito. Trafitto da centinaia di schegge, ha perso un occhio e zoppica leggermente. Da qualche anno è ambasciatore nella sede diplomatica di Ankara: attività che gli piace e al tempo stesso gli permette di avere un rapporto periferico con la vita politica del suo Paese.

È sposato, con figli, ma in questo momento, a tenergli compagnia, c'è solo un cane pastore tedesco che sa fiutare la polvere da sparo nei vestiti, caso mai gli capitasse in casa qualche malintenzionato. Vive alla giornata, è orgoglioso dei quadri alla parete della moglie pittrice e solo se vi è costretto rievoca il passato. «I giorni della tragedia—dice—sono così lontani e allo stesso tempo così vicini che rivedo tutto come fosse ieri. "Cos'è successo a Massoud?", chiesi svegliandomi nel letto di un ospedale di Coblenza dov'ero stato ricoverato, mentre con le pinze mi estraevano le schegge dal corpo... Massoud è stato l'eroe della mia vita. Diceva che bisognava essere generosi con gli amici, ma occorreva al tempo stesso avere coraggio per dialogare coi nemici. Tuttavia i suoi tentativi per mettersi in contatto con Hekmatyar e trovare un'intesa vennero sempre respinti.... Era un uomo che detestava la guerra, totalmente alieno da sentimenti di vendetta e di rivincita. Cosa m'ha insegnato? Ad avere fiducia in Dio, a mettermi uno zaino in spalla e fare il giro del Paese per conoscere e parlare con la gente...».

Inutile chiedergli cosa ne sarà dell'Afghanistan, la domanda che s'era posta appena sveglio nel letto d'ospedale di Coblenza: o quando e come finirà questa guerra. Nessuno è in grado di dare una risposta. Per l'ennesima volta lascio Kabul con la promessa di non tornarci mai più.

2008
da corriere.it
Registrato
Pagine: [1] 2
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!