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Autore Discussione: Alessandra FARKAS.  (Letto 5718 volte)
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« inserito:: Giugno 27, 2007, 06:25:00 pm »

L'inviata della Cnn ricorda la Fallaci in occasione delle manifestazioni a lei dedicate a New York

L'eredità di Oriana

Amanpour: «Noi giornaliste d'America, sulle sue orme»

 

NEW YORK — «Quando la incontrai ero incinta e lei non faceva che ripetermi che avevo fatto una cosa straordinaria a diventare mamma e che per questo mi ammirava. Dopo l'arrivo al mondo di mio figlio Darius John, lei gli spedì un bel regalo e incominciò a impartirmi lezioni su come essere una buona madre, perché secondo lei ciò era altrettanto importante che essere una brava giornalista. Credo che fosse molto invidiosa della mia famiglia e abbia rimpianto enormemente il non aver mai avuto figli». Parla Christiane Amanpour, la giornalista anglo- iraniana che venerdì 29 giugno parteciperà a una giornata di studio in onore di Oriana Fallaci, presso la New York Public Library. Uno dei due appuntamenti della manifestazione «Oriana Fallaci e l'America», promossa dal Ministero per i Beni Culturali in collaborazione con Rcs MediaGroup. L'altro è una mostra accompagnata dal documentario «Oriana e l'America» all'Istituto Italiano di Cultura di New York, che sarà inaugurata giovedì 28 giugno dal ministro Francesco Rutelli. «Non è per mancanza di opportunità che non ha mai avuto figli», incalza la 49enne inviata di guerra della CNN, la giornalista più celebre e pagata del mondo, che la scorsa settimana è stata insignita del titolo di Commendatrice dell'Ordine dell'Impero Britannico dalla regina Elisabetta. «Oriana da giovane era bellissima e sexy. Probabilmente aveva un sacco di ammiratori ma si è innamorata profondamente una sola volta nella vita. Da allora la sua strada è andata in un'altra direzione e ha finito per sposare la professione. Così ciò che desiderava di più non è mai successo». Sarebbe stata una brava madre? «Assolutamente. Era una persona calda, affettuosa e piena di amore da dare. Me ne sono resa conto appena riuscii a rompere il ghiaccio, penetrando la barriera che si era innalzata attorno. Quando ciò è successo mi ha chiesto di restare amica sua per sempre. Ed è esattamente ciò che ho fatto». Dietro quella che il Los Angeles Times definì «l'unico giornalista a cui nessun leader mondiale può dire di no», si nascondeva, prosegue, «una donna profondamente sola».

Il primo incontro tra la Amanpour e la Fallaci, che l'ha citata in La Rabbia e l'Orgoglio, risale al 2000, a New York. «Oriana viveva già da reclusa nel grande brownstone dell'Upper East Side, dove vedeva e frequentava pochissima gente», racconta la Amanpour, che si è sposata a Castello Odescalchi vicino a Bracciano nel 1998 con l'ex portavoce del Dipartimento di Stato, James Rubin. «Fui io a cercarla, perché sentivo il bisogno quasi fisico di conoscere quel mito che occupa un posto unico nel Pantheon del giornalismo mondiale. È stata lei la mia musa: la prima a spianare la strada a tutte noi corrispondenti donne di guerra». Dopo molti tentativi andati a vuoto, la Fallaci, una giornalista infastidita e insieme ammaliata dai potenti, acconsentì ad incontrare la famosissima collega che anagraficamente avrebbe potuto essere sua figlia e che aveva occupato lo spazio lasciato libero da lei, ormai sul viale del tramonto. «Fu un rendez-vous come tra spie della Cia. Lei era già molto malata anche se si vedeva che combatteva il male con la stessa forza sovrumana che aveva riversato nel suo lavoro». Da allora tra le due donne nacque un'amicizia durata fino alla morte della Fallaci, il 15 settembre 2006. Ciò non significa che tra di loro ci fosse una totale convergenza di vedute. «Io l'ho cercata molto tempo dopo la fine della sua carriera. Poi è venuto l'11 settembre che la spinse a tornare aggressivamente alla ribalta, dopo anni di silenzio, con quei suoi libri così controversi, arrabbiati e induriti». Avrebbe fatto ciò che ha fatto lei? «Certo che no, ma è innegabile che moltissima gente si sia sentita sollevata che qualcuno abbia avuto il coraggio di parlare a nome loro. Rischiando intellettualmente oltre che fisicamente per dire ciò che pensava ». In nome di questa «coerenza», la giornalista è disposta a perdonare gli eccessi della Fallaci, definita «razzista», «fascista» e «islamofobica» da moltissimi intellettuali in entrambe le sponde dell'Atlantico. «Chi l'ha definita neocon e fascista esagera», la difende la Amanpour. «Oriana provocava sentimenti estremi nella gente perché lei stessa era estrema in tutto.

Non è mai stata politicamente corretta perché era convinta che il suo ruolo fosse quello di rimestare nel torbido, scatenando dibattiti. Aveva uno stile abrasivo e provocatorio ma è stata vera con se stessa fino alla morte». E se l'impatto della sua crociata anti-islamica «è stato maggiore in Europa», la Fallaci-giornalista dell'età d'oro ha avuto un'influenza altrettanto profonda in Usa. «La generazione di reporter prima della mia l'ha ammirata e imitata. Interviste con leader quali Henry Kissinger sono passate alla storia». Ma di tutte le interviste dell'amica, la sua preferita resta «Quella in cui lo scià Reza Pahlavi si scaglia contro il gentil sesso, "razza inferiore, che non è stata capace neppure di dare al mondo un solo grande chef-donna"». «Fui profondamente colpita anche dall'intervista all'ayatollah Khomeini, quando si tolse il chador in segno di sfida », puntualizza la giornalista, la cui famiglia fu tra le vittime della rivoluzione iraniana, «Mi sembrò un capolavoro di coerenza, aggressività e coraggio ». Ma l'aggressività può essere un bene? «Certo», replica la reporter, criticata, in passato, per aver trasformato la CNN in una tribuna d'accusa contro l'Occidente, inerte di fronte alle pulizie etniche in Bosnia. «Oggi la maggior parte dei giornalisti sono deferenti. Lei non lo è mai stata perché convinta che non fosse utile leccare i piedi dell'intervistato, per carpirne davvero l'essenza». Del suo rapporto di odio-amore con l'Italia non parlavano mai. «Sotto sotto adorava il Bel Paese e si sentiva italiana dalla testa ai piedi. Nonostante avesse vissuto in America oltre 20 anni, parlava l'inglese con un accento fortissimo e il suo linguaggio era tutto cosparso di parole italiane. Sono convinta che fosse devota al suo Paese e alla sua gente». Dopo la morte, molti hanno indicato la Amanpour come la sua erede. «A dire il vero era la stessa Oriana a considerarmi tale. Io non mi azzarderei mai ad addossarmi tale onore, ma sarei orgogliosissima se qualcuno lo facesse. Perché lei era brillante, coraggiosa, infaticabile e unica. Oggi la gente pensa che il nostro mestiere sia facile e non è più disposta a mettersi in prima linea come ha fatto lei. Cambiando il mondo. Purtroppo non ne nascono più di reporter di razza come lei».

Alessandra Farkas
27 giugno 2007
 
da corriere.it
« Ultima modifica: Aprile 09, 2012, 10:43:59 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 11, 2007, 04:53:38 pm »

L'APRIRA' UNA EX MAITRESSE a Nye County, NEVADA, dove la prostituzione è legale

Una casa d'appuntamenti per donne

Al lavoro ci saranno solo giovani e prestanti gigolò.

La titolare: «Sono diventata femminista»



CRYSTAL (USA) - Negli anni Novanta tutti la conoscevano come «Hollywood Madam», perché gestiva a Los Angeles una casa d'appuntamenti clandestina frequentata da star di Hollywood, da alti finanzieri e da uomini supericchi. Più tardi la fortuna le si rivoltò contro e Heidi Fleiss trascorse 20 mesi in prigione per evasione fiscale e riciclaggio di denaro sporco. Adesso l'ex maitresse dei divi del cinema è ritornata sulla cresta dell'onda e ha deciso di non abbandonare il fruttuoso mercato della prostituzione. Prossimamente aprirà un bordello legale in Nevada dove ad esercitare il «mestiere più antico del mondo» non saranno chiamate splendide ragazze americane, bensì giovani e intraprendenti gigolo.

LAVORO LEGALE - La contea scelta per questo «primo bordello americano per sole donne» è Nye County, uno dei pochi luoghi del Nevada dove la prostituzione è legale: la Fleiss afferma che la sua nuova casa d'appuntamenti sarà dotata anche di una sala per massaggi e di uno strip-club. Tuttavia l'ex tenutaria del bordello più famoso d'America sta avendo numerosi problemi per la concessione della licenza e per adesso si arrangia come può. Negli ultimi mesi la Fleiss ha messo su una piccola lavanderia a 100 km da Las Vegas, vicino alla sua nuova casa di Crystal.

TRA LAVATRICI E PANNI SPORCHI - «Ho cercato negli ultimi tempi di fare un lavoro che fosse utile alla comunità» spiega la Fleiss all'International Herald Tribune. La lavanderia, che è stata aperta la scorsa estate, si chiama "Dirty Laundry" (sporco bucato), funziona 24 ore su 24 ed è composto da 13 lavatrici e 14 asciugatrici a basso consumo energetico. La Fleiss ha cercato di rendere questo posto un po' più accogliente e più piacevole della classica lavanderia, evitando tavoli e sedie di plastica, sostituiti da un ambiente che assomiglia a quello di un hotel o di un casinò da gioco. «Mentre tu fai il bucato - sintetizza la proprietaria - puoi fantasticare e sognare di vincere il jackpot di un casinò».

LA FATTORIA DEGLI STALLONI - Naturalmente la lavanderia è solo un lavoro provvisorio e la Fleiss spera di ricevere al più presto la licenza per la sua nuova casa d'appuntamento. La donna sottolinea che il suo futuro bordello, provvisoriamente chiamato «Stud Farm» (la fattoria degli stalloni), sarà il mezzo che la riporterà ai fasti del passato. D'altronde, dichiara senza mezzi termini: «Conosco meglio di chiunque altro il business legato al sesso». Per adesso la Fleiss sembra avere le idee chiare. Quando due anni fa annunciò per la prima volta di voler aprire un bordello per sole donne, a chi le chiedeva perché avesse deciso di cambiare tipo di clientela, rispose orgogliosa: «Sono diventata femminista. Voglio venire incontro alle esigenze delle donne».

Francesco Tortora
10 novembre 2007



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«Le ragazze sono sempre più ricche e non hanno tempo» La casa chiusa per donne dell'ex maitresse Heidi Fleiss apre una farm in Nevada. «E' una funzione sociale»  

 
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE


NEW YORK — Sarà una casa di tolleranza in stile hollywoodiano nel deserto del Nevada, non lontano da Las Vegas, con tanto di cascate artificiali, alberi di palme e suite di lusso dotate di frigobar e oli aromatici da usare per i massaggi. Ma invece di splendide ragazze in bikini, ad intrattenere gli avventori saranno fusti tra i 20 e i 40 anni.
«Si tratta del primo bordello al mondo per sole donne», spiega la sua ideatrice Heidi Fleiss, la leggendaria maitresse che verso la metà degli anni Novanta fece tremare la Mecca del Cinema col suo famigerato «libretto rosso» che conteneva i nomi delle star hollywoodiane frequentatrici assidue del suo esclusivo bordello: da Jack Nicholson a Oliver Stone, da James Caan a Dan Aykroyd e Charlie Sheen. Quasi tutti, per la verità, presero le distanze da Heidi e dalle sue «ragazze»: unica eccezione, il giovane Sheen, che non si fece problemi ad ammettere di aver frequentato la squillo («All'epoca ero pure single...»). Uno scandalo che mise in piazza i «panni sporchi» di Hollywood, compreso il gossip su Victoria Sellers, figlia di Peter Sellers e Britt Ekland, che avrebbe fatto parte della «scuderia» della Fleiss.
Oggi, dopo aver passato quasi due anni in carcere per evasione fiscale e riciclaggio di denaro sporco, la Fleiss ha deciso di voltare pagina. «Sono diventata femminista — scherza in un'intervista — voglio venire incontro alle esigenze delle donne». Nella sua Heidi's Stud Farm (la «fattoria degli stalloni di Heidi»), le signore potranno scegliere da una vasta gamma di fusti, molto più a buon mercato delle sue call girl da 10 mila dollari a notte di una volta.
«I miei ragazzi sono bellissimi ma si concederanno per soli 250 dollari l'ora — puntualizza —, e senza bisogno di Viagra». Una provocazione? «Niente affatto — replica lei —. Le donne sono sempre più indipendenti e ricche e non hanno tempo da perdere per incontrare gente in un mondo dove le relazioni sono ancora più difficili della dieta. Non potete immaginare quante mi hanno detto: Heidi, se decidi di farlo, sarò la prima della fila».
Per aprire la sua fattoria, Heidi Fleiss ha scelto il Nevada, l'unico Stato americano in cui la prostituzione è legale, non lontano da Las Vegas, la città del gioco e del peccato. Il suo socio, Joe Richards, magnate della prostituzione locale, ne condivide la filosofia. «Un bordello per donne adempie a una funzione sociale importante», ha scritto alle autorità per convincerle a concedere la licenza ad una donna dalla fedina penale non proprio immacolata. «La società sta assistendo ad un'evoluzione unica del sesso femminile che oggi chiede e ha diritto agli stessi servizi offerti alla clientela maschile». «Quando un marito litiga con una moglie, può uscire da casa sbattendo la porta andando a consolarsi in un bordello», incalza la Fleiss. «Perché mai una moglie non dovrebbe poter fare lo stesso?».
Alessandra Farkas
18 novembre 2005
 
da corriere.it
« Ultima modifica: Dicembre 20, 2011, 07:40:44 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 06, 2007, 12:08:42 pm »

«DEMoNIZZATI DAI grandi GIORNALI, la nostra vita è cambiata»

Effetto Amanda, accuse dagli Usa

Il New York Times dà risalto all'intervento di una studentessa americana che vive in Italia


NEW YORK – Il New York Times contro i media italiani per la loro cattiva gestione dello scandalo Amanda Knox. Oggi il prestigioso quotidiano ospita un op-ed di mezza pagina dove Sophie Egan, una 20enne studentessa di Seattle iscritta alla Stanford University che sta trascorrendo un semestre a Bologna, accusa la stampa italiana di aver demonizzato Amanda Knox in maniera gratuita e faziosa. Gettando una cattiva luce su tutti gli studenti americani in Italia. «All’inizio ero io a sentirmi poco sicura a Bologna, dove sto studiando», scrive la Egan, sottolineando che «in questa buia cittadina medioevale sono ambientati numerosi gialli italiani e persino un thriller di John Grisham».

Ma dallo scorso 1 novembre, quando Meredith Kercher è stata assassinata a Perugia, tutto è cambiato. «Adesso sembra che sia l’Italia ad aver paura di me», spiega. La colpa, secondo la Egan, è dei giornali che sin dall’inizio avrebbero sparato titoli quali «Mangiatrice di uomini, insaziabile a letto» (Corriere della Sera) e «Vive solo per il piacere» (La Repubblica) per descrivere la Knox, da loro ribattezzata «L’Americana» e «La Luciferina». «Da allora la vita di uno studente americano in Italia non è più la stessa». Oggi la studentessa si guarda bene di rivelare agli italiani la sua città d’origine, consapevole dello stereotipo negativo diffuso dai media su Seattle.

 E se la prende soprattutto con un articolo del Corriere che ha descritto la sua adorata Seattle come una città «celebre per la pioggia, le foreste oscure e l'altissimo numero di serial killer». Suggerendo che «lo spirito di Kurt Cobain ha profondamente influenzato l’omicida». Ma nonostante tutto Sophie Egan ha deciso che non rinuncerà al suo semestre in Italia. «Questo paese ha troppo da offrire per lasciare che questo incidente rovini la mia esperienza», conclude nel suo op-ed. «Certo – puntualizza - rispondere alla domanda "da dove vieni?" oggi è per me imbarazzante ma serve ad iniziare una conversazione. E dopotutto è per questo che sono venuta qui in Italia».
L’unica cosa che la signorina Egan si dimentica di rivelare è che suo padre è Timothy Egan, per quasi 20 anni giornalista al New York Times, dove oggi è tra le firme di punta della pagina degli Op-Ed. E’ come se la figlia di Enzo Biagi pubblicasse un editoriale sul Corriere. Ma nel bistrattato mondo dei media italiani questo genere di nepotismo non è affatto tollerato.

Alessandra Farkas
05 dicembre 2007

da corriere.it

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« Risposta #3 inserito:: Maggio 01, 2011, 05:30:13 pm »

LA DENUNCIA USA: «campagna odiosa per terrorizzare la popolazione civile»

«Viagra ai soldati libici per stuprare»

La Rice ha lanciato l'accusa durante il Consiglio di Sicurezza: nessuna reazione dagli altri Paesi

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

NEW YORK - Le truppe fedeli al dittatore libico Gheddafi stanno conducendo una terrificante campagna di stupri sistematici, anche su minori, volta a terrorizzare la popolazione civile libica nelle aree favorevoli ai ribelli. Per facilitare le violenze, il rais avrebbe addirittura ordinato di distribuire pillole di Viagra alle truppe impegnate nella cruenta repressione.

A lanciare l'accusa, durante una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza Onu dedicata alla Libia, è stata l'ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Susan Rice, che dal Palazzo di Vetro si è appellata ai membri più scettici dell'esclusiva compagine, soprattutto Russia, Cina e India, negli ultimi tempi sempre più critici sulla legittimità degli attacchi aerei della coalizione internazionale Nato che accusano di avere «disatteso il mandato Onu». «La Rice ha sollevato il problema durante la riunione ma nessuno dei presenti ha voluto riprendere l'argomento», ha riferito un diplomatico, spiegando che il commento della Rice sugli stupri e il Viagra era volto ad illustrare «come la coalizione internazionale si trovi a dover affrontare un avversario anomalo che commette atti reprensibili».

Contro il «colpevole silenzio» delle Nazioni Unite verso ciò che lo stesso segretario generale Ban Ki-moon ha definito «una delle nostre priorità» (lo stupro nei conflitti armati è considerato «crimine di guerra») si è levata anche l'autorevole voce della svedese Margot Wallstrom, rappresentante speciale di Ki-moon in materia di violenza sessuale in guerra.

La scorsa settimana la Wallstrom ha diffuso un comunicato di fuoco in cui accusava i membri del Consiglio di Sicurezza di aver «messo brutalmente a tacere» il dramma degli stupri commessi in Libia dalle truppe di Gheddafi. Nonostante le forti pressioni di alcuni membri del Consiglio di Sicurezza, nessuna delle due recenti risoluzioni Onu sulla Libia menziona il tema della violenza sessuale. Nei corridoi delle Nazioni Unite alcuni funzionari continuano privatamente a esprimere scetticismo nei confronti della diplomatica americana, che accusano di non aver fornito prove concrete per corroborare le sue tesi. Ma a puntare i riflettori sul dramma delle donne e bambine stuprate in Libia dall'inizio della guerra è stata Eman al-Obaidi, la studentessa libica che lo scorso 26 marzo fece irruzione in un albergo di Tripoli pieno di giornalisti per denunciare di essere stata stuprata e picchiata da miliziani pro-governativi.

A confermare la diffusione di violenze carnali sistematiche da parte dei soldati di Gheddafi sono stati anche gli inviati di diversi quotidiani anglosassoni, tra cui l'inglese Daily Mail e l'americano New York Times. «Anche gli assassini hutu in Rwanda, i giustizieri serbi in Bosnia e le forze governative sudanesi in Darfur hanno stuprato su larga scala», spiega lo storico americano Daniel J. Goldhagen che nel suo ultimo libro Peggio della Guerra: lo sterminio di massa nella storia dell'Umanità, edito da Mondadori, definisce il ricorso allo stupro durante un conflitto come «una fase sistematica del processo eliminazionista, volta a umiliare la donna e, insieme, attaccare il nucleo familiare, distruggendo il tessuto stesso della società».

Alessandra Farkas

30 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/esteri/11_aprile_30/
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 01, 2011, 11:31:29 am »

SUL SITO Slavery footprint

«Io, occidentale, e i miei 66 schiavi »

Un'applicazione permette di calcolare quante persone sono sfruttate per sostenere il nostro stile di vita

Dal nostro corrispondente ALESSANDRA FARKAS


NEW YORK – Io ho ben 66 schiavi che lavorano per me. Proprio come la giornalista della MSNBC Suzanne Kantra e l’assistente editoriale della Rizzoli a New York, Serena Deni. Abbiamo fatto la scioccante scoperta visitando il sito internet Slavery Footprint . Si tratta di un’applicazione web che promette di rivelare quanti schiavi, senza saperlo, abbiamo ogni giorno alle nostre dipendenze in base allo stile di vita, abitudini e dimensioni del nucleo famigliare. L’innovativo sito internet è stato creato da Call+Response, organizzazione non profit che si batte da anni per porre fine alla schiavitù, in collaborazione con l’Ufficio per Monitorare e combattere il Traffico di Persone del Dipartimento di Stato Usa diretto da Hillary Clinton.

PROBLEMA DRAMMATICO - «La schiavitù purtroppo è ovunque - punta il dito Justin Dillon, responsabile di Slavery Footprint -, ogni oggetto della nostra quotidianità viene realizzato sfruttando in maniera disumana ed illegale manodopera a basso costo». L’iniziativa ha come finalità quella di incentivare le multinazionali a far luce sulle loro pratiche «schiaviste», rendendo i consumatori più consapevoli su una piaga sociale che oggi affligge 27 milioni di persone, molte delle quali bambini. Nonostante sia stata messa al bando un po’ ovunque e sia stata ufficialmente proibita con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la schiavitù resta uno dei problemi più drammatici e allo stesso tempo meno discussi. Forme contemporanee di sfruttamento coinvolgono innumerevoli persone, senza distinzione di età, sesso e razza. Basti pensare alle donne dell’Europa dell’Est costrette a prostituirsi, ai bambini venduti in Africa al pari di merce qualsiasi, e agli uomini forzati a lavorare in condizioni estreme nelle fazende brasiliane.

QUESTIONARIO - «E’ un fenomeno drammatico di cui bisogna ricordarsi quando si va a fare shopping e si acquista qualcosa», continua Dillon. Se volete conoscere quante persone sono state ridotte in schiavitù per realizzare il vostro computer, la bici, la borsa firmata oppure le scarpe all’ultima moda, la procedura è molto semplice. Basta rispondere a un questionario di 11 pagine con domande sull’età, il numero di figli, la dieta, l’attività sportiva, la tipologia della vostra abitazione e persino cosa avete nell’armadietto delle medicine. La battaglia multimediale di Slavery Footprint contro la schiavitù non si ferma qui. L’obiettivo è riuscire dove le politiche governative hanno fallito: debellare definitivamente la schiavitù coinvolgendo direttamente e in prima persona i consumatori. Il prossimo passo sarà quindi un’applicazione per telefonini attraverso la quale si potrà conoscere direttamente dalle aziende più responsabili e votate alla trasparenza se il prodotto che si vuole comprare è stato realizzato da lavoratori costretti in condizione di schiavitù.


01 novembre 2011 00:30
da - http://www.corriere.it/esteri/11_novembre_01/66-schiavi-tutti-per-me-farkas_2aa2a8f4-0418-11e1-af48-d19489409c54.shtml
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