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Autore Discussione: Toni Jop Politica, la fiction sia con te  (Letto 3715 volte)
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« inserito:: Febbraio 03, 2008, 07:34:21 pm »

Politica, la fiction sia con te

Toni Jop


Maledizione al «politicamente corretto». Che in questo caso si affida al diffuso bisogno, più che legittimo, di una almeno apparentemente equa rappresentazione del reale. Appartengono a questi anni recenti sia la istituzionalizzazione del concetto, affermato come garanzia di diritti, del «politicamente corretto», sia la discesa in campo del mondo della politica che in varie forme interviene in quello che ora viene identificato come territorio «politico» della rappresentazione: il cinema, o la fiction televisiva. Niente di strano: è in questa festa di immagini che si gioca, e tutti lo hanno ormai compreso, non tanto il presente o il futuro, ma soprattutto il passato, ciò che è stato, ovvero il patrimonio di famiglia. Bonanni, quando davanti al film della Comencini verosimilmente sbotta: che cavolo, tutti comunisti e noi, i bianchi del sindacato, dove siamo stati? ha delle ragioni. È sufficiente la sua reazione istintiva a legittimarlo. Semmai, è la richiesta, rivolta alla Rai, di non mettere il film in palinsesto che mette il nostro sindacalista fuori dal ring. Quale ring? Quello del politicamente corretto, ancora una volta: pare un serpente che si mangia la coda ed è così.

Scacco al sistema: puoi registrare disappunto per ciò che ti appare una violazione di quella correttezza ma devi badare a restarci dentro mentre reagisci. Nient´altro che bon ton, buona creanza? A questo livello di realtà, praticamente sì, ma ce ne sono altri molto più sottotraccia nei quali la faccenda si complica. Per esempio: un vasto mondo di culture - socialiste, post comuniste, post repubblicane, cattoliche conciliari - si è fortemente allarmato negli anni del governo Berlusconi per la sua dichiarata intenzione di riscrivere la storia ricorrendo a una raffica di fiction tv - quasi tutte accollate alla Rai, ovviamente: Mediaset questo lavoro sporco non è tenuta a sbrigarlo - dedicate a passaggi storici delicati di questo delicato paese. Siccome in Italia, nessuno legge libri di storia, soprattutto sotto i trent´anni, la storia, per queste generazioni, è quasi esclusivamente un deposito di immagini ed emozioni trasmesse per via retinica dagli schermi televisivi: cosa fare di questi schermi viene da sé, a seconda della cultura di governo.

Se, per questa via, qualcuno decide che si può smantellare la Resistenza rendendo ridicolo o enfatico l´altare sul quale l´ha posta la nostra Costituzione, viene altrettanto da sé che tipo di fiction mettere in lavorazione. Siamo tutt´ora - nonostante la vacanza di Berlusconi - tra gli spigoli di questa evenienza; ma nessuno, da quel fronte politico-culturale che difende la Costituzione, ha mai detto alla Rai: non devi mandare in onda quella fiction; qualcuno ha gridato «vergogna», altri hanno detto «non passerete», ma la regola del gioco è stata rispettata. Anche se la regola assomiglia, oggi, all´ombrello che Altan fa finire sempre tra le chiappe dei progressisti, dal momento che il conflitto di interessi introdotto da Berlusconi nel sistema di potere italiano la rende ingenua e inefficace come una sventatella carica di cavalleria contro una marpiona divisione di tank. Questo per dire che la ipersensibilità della politica nei confronti di quel che possiamo chiamare sommariamente «cinema» discende da necessità fisiologica: come si dice, «mai più senza» quella eccitabilità.

Il problema è il cinema: costringilo ad indossare il politicamente corretto e puoi buttarlo, ma è davvero cinema la fiction, ciò che al potere oggi interessa di più? Chiedere a Carlo Lizzani: Liberazione, il quotidiano di Rifondazione, gli ha appena contestato di aver fatto, con il suo «Hotel Meina», un film politicamente scorretto, ovvero «revisionista», accusa pesantissima per un ex partigiano che ha scritto belle pagine di cinema raccontando sugli schermi proprio quella storia d´Italia che ora la destra vuole demolire. Ma non facciamo le verginelle: anche uno come Lizzani potrebbe «revisionare», ma non l´ha fatto. A loro pare di sì e hanno diritto di lamentarsene. In fondo, la sinistra è esattamente questo: un condominio simpatico da morire ma pazzescamente sconvolto da problemi intestinali che le tolgono presenza e aplomb nel presente. Guardatevi «Brian di Nazareth», dei vecchi Monty Python e consolatevi.

Pubblicato il: 03.02.08
Modificato il: 03.02.08 alle ore 11.40   
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 19, 2008, 02:52:12 pm »

Pietrangeli: c’era una volta un trans

Toni Jop


Sangue, sudore e pallottole, morti ammazzati, anzi uno solo ma è sufficiente, un clima plumbeo, un giornalista piccolo piccolo, stanze disfatte, omicidio a luci rosse: che cavolo è, un disco di Pietrangeli o l’enesimo debito letterario pagato tardivo da Chandler al vecchio Dashiell Hammett? Ascolti questo nuovo, levigatissimo lavoro di Paolo Pietrangeli (autore di meraviglie targate Karlmarxstrasse oppure Contessa, oppure Il vestito di Rossini) e ne esci con la sensazione di esserti infilato in un noir molto piegato verso l’hard boiled. Non solo, la musica, che pure c’è, l’arrangiamento, che pure è, come si dice nei salotti perbene, «raffinato», sono un sottofondo aritmico per una recita che sta a metà tra il cantastoriato franco-italiano e il teatro espressionista ebreo-tedesco. Quando Paolo leggerà queste righe gli verrà un coccolone ma non è colpa nostra se ha deciso di passare il guado e di trasferirsi armi e bagagli in una zona del racconto cantato in cui il testo è sovrano e le vibrazioni dell’animo non sono affidate alle trappole allestite dall’armonia e dal tempo. Dov’è finito il Pietrangeli che strappava la voce fregandosene della stonatura, che si incazzava col mondo, che si entusiasmava vendicatore mentre immaginava che si cambiasse il nome di Corso Umberto in Karlmarxstrasse? Converrà accettarlo così com’è ora, dark più che rosso, nei suoi nuovi brani la sola cosa rossa è il sangue di un trans morto ammazzato da non si sa chi, forse un etero, forse la fidanzata, e il cielo di questa storia nera che questo bardo della canzone politica si incarica di proporci come avventura nel presente, è decisamente giallo.

Paolo, una bella tavolozza di tinte, sei diventato un pittore?
«Ridi, ridi. Mi è costato una montagna di fatica fare questo disco. E l’ho dedicato a Francesco De Gregori e a Giovanna Marini e ti dico perché: l’anno scorso, qualcosa non andava e sono rimasto in coma farmacologico per quindici giorni. Quando mi sono svegliato, c’erano Francesco e Giovanna (voce narrante nel disco) che mi tiravano su il lenzuolo. Fine della prima parte. Poi, mi era venuto in mente di trasformare tutto questo in un film ma mi sono fermato: ho pensato che tradotto in immagini avrebbe costretto la lettura della vicenda e delle situazioni in uno spazio troppo angusto. Insomma, non c’è cinema migliore di quello raccontato dalla musica, ciascuno vede quello che vuole e io sono più contento...».

Eppure, sei vicino anche al fumetto. Ad «Alec Sinner», per esempio, oppure a «Sin City» di Miller. Chi è questo trans che muore e perché ce ne occupiamo?
«È uno che viene da lontano, un immigrato. Che scopre presto come battere il marciapiede dia di più di qualunque altra occupazione. Uno dei nostri, una vittima del presente ma dimentica per favore la retorica del bersaglio sociale messo in luce per fare la ramanzina, volevo solo raccontare una storia...».

Benissimo. Una volta chiarito che il trans non è cugino di primo grado del compagno Rossini, possiamo anche accettare che ora la frontiera della politica non sia più il regno delle parole d’ordine di massa e dell’impegno didascalico. Ma tu, da lì, da quelle barricate, ne hai fatta di strada, intanto, più del ragazzo della Via Gluk...
«Vedi, c’è stato un tempo in cui ero convinto di essere avanguardia, come si diceva, del movimento. E quindi di essere dotato di una sensibilità intellettuale che mi permetteva di vedere e di capire più e meglio di tanti altri. Questa presunzione non ce l’ho più, non ho più nemmeno la presunzione del “modello” da mettere in pratica...».

Sempre meglio: la stampa perbene da un po’ ci va a nozze con questi outing di sinistra così densi di ravvedimenti, così ricchi di arie crepuscolari...
«Sai cosa me ne frega. Sto sempre dalla stessa parte, con la stessa convinzione, cambiano i modi di stare al gioco così come cambio io assieme alla società, alla realtà. Aver scoperto che il “modello” sociale da applicare è un attrezzo fuori tempo lo rivendico alla cultura della sinistra e alla sua intelligenza delle cose...».

Anche se poi, in fuga da questo svarione che tendeva a medicalizzare la risposta politica ai bisogni facendone uno standard, ci si tuffa in un «particulare» giallo...
«Ecco sì, riparto dalle storie dei singoli, del singolo per cercarne la voce. La voce della vittima, in primo luogo, poi anche quella del carnefice. Questo è lavoro politico, questa è la radice della partecipazione e della comprensione...».

Certo, è un lavoro anche molto evangelico ma questa è un’altra storia, oppure la stessa che Hammett raccontava sulle pagine dei pulp americani quando ancora l’America non sapeva di essere l’America del Mondo. Storie individuali come intreccio delle relazioni di potere. Però, fai un passo più in là, ed è questo l’accordo ancora una volta non musicale che fa notizia nel cielo giallo-nero del tuo disco: tu canti «Norimberga» e sostieni, a proposito di carnefici, che si è sbagliato molto, in quella storica aula di giustizia...
«Ne sono convinto. Norimberga, come processo, è stato una farsa e la pena di morte è stata la lapide di questa farsa. Ma so che devo spiegarmi: non sto contestando, ci mancherebbe, il senso di giustizia che ha chiuso la pagina terribile del nazismo, men che meno la ricerca delle responsabilità della carneficina e della Shoah. Parto solo dalla considerazione che odio la pena di morte e che non c’è peggior condanna per un colpevole di ricevere in dono, o in punizione, la coscienza del male che ha prodotto con le sue azioni. In tutto questo, la sovranità deve spettare al tempo, il tempo per capire, il tempo per spiegare, per sapere davvero. In fondo, è lo stesso tempo della democrazia...».

Che vuoi dire?
«Che la democrazia ha bisogno di tempo e le va dato. Facendo, per un po’, l’assessore, ho scoperto che le amministrazioni comunali devono coinvolgere la cittadinanza nelle decisioni. Sta scritto che deve essere così, ma nessuno lo fa. Ti rispondono sempre che è questione di tempo, che non ce n’è. E così, nascono i bubboni delle immondizie in Campania, oppure la grana dell’alta velocità. Bisogna parlare, spiegare, confrontarsi, coinvolgere: questa è politica, oggi».

Scusa, ma e il socialismo quando lo facciamo?
«Non subito».

Pubblicato il: 19.03.08
Modificato il: 19.03.08 alle ore 8.10   
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