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Autore Discussione: Tommaso De Lorenzis Falsi in Rete? Sono più vecchi di Internet  (Letto 2373 volte)
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« inserito:: Febbraio 02, 2008, 09:03:04 pm »

Falsi in Rete?

Sono più vecchi di Internet

Tommaso De Lorenzis


Sarebbe lecito attendersi che il professor Romano Prodi ingaggi una battaglia personale contro la poesia. La versificazione, infatti, non gli ha portato fortuna. Aveva cominciato l’onorevole Bertinotti con la citazione sul Cardarelli, il «più grande poeta morente». Ha finito l’ex ministro di Grazia e Giustizia. Ma questa volta Cardarelli non c’entra. Si tratta, o dovrebbe trattarsi, di Pablo Neruda.

«Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi... », scandisce - in un pomeriggio di conteggi al cardiopalma - il senatore Mastella.

Ignaro d’essere scivolato sull’insidioso terreno della leggenda metropolitana, della diceria che corre sul web, dell’errore trasformato in bugia o della menzogna propalata a mezzo di fibra ottica. Non è un problema di traduzione, di scarso valore letterario o d’incompatibilità stilistica tra il versificatore cileno e l’uomo di Ceppaloni. L’universalità dell’arte dovrebbe conciliarsi perfino con le ammissioni del Guardasigilli a proposito della dissenteria nervosa che lo colse ai tempi del massacro di Erba.

La questione è un’altra, perché Neruda, quei versi, non li hai mai composti. Eppure, da molto tempo, ¿Quién muere? o, secondo un’altra versione apocrifa, Qui Muere figura tra i suoi indimenticabili capolavori. Sembra che su migliaia di occorrenze on line, in cui compaiono le parole «Neruda» e «Lentamente muore», siano pochissime quelle che svelano l’arcano. A fare un poco di ordine ci aveva provato, circa un anno fa, dalle colonne del suo blog, Lorenzo Masetti, riportando la respuesta textual della Fondazione Neruda che smentiva l’attribuzione. Masetti forniva, inoltre, interessanti spunti di riflessione sulle cause che avevano originato il falso. Le caratteristiche linguistiche dei versi corrisponderebbero all’idea che ci si fa del Poeta senza averlo mai letto o avendolo letto poco. Si dice (e a questo punto la prudenza è d’obbligo) che Neruda abbia scritto un componimento intitolato Ode alla vita. Di conseguenza, è plausibile che il suo tenace attaccamento al tempo umano riecheggi altrove. Ma proprio Ode alla vita è l’ennesimo titolo attribuito al misterioso testo che, in «realtà», pare essere stato redatto dalla poetessa e cronista brasiliana Martha Medeiros. Ammesso che costei sia effettivamente registrata all’anagrafe di Porto Alegre. Anche qui è bene procedere con un salutare esercizio di scetticismo, perché fonti ulteriori riferiscono che il «vero» titolo sarebbe A morte devagar.

Grande è la confusione sotto il cielo del web, al punto che - da diverso tempo - è in corso un dibattito sull’affidabilità del luogo virtuale cui si è soliti attribuire, con convinzione neo-encyclopédique, il ruolo di fonte telematica per eccellenza. Parliamo ovviamente di Wikipedia the Free Encyclopedia. Sul libero dizionario della conoscenza on line sono piovute ripetute accuse d’inaffidabilità. Poco importa che i suoi creatori ammettano i rischi del modello di collaborazione orizzontale o ne raccomandino un uso finalizzato alla formazione di un’«idea generale degli argomenti». I riconoscimenti di cui gode sono equivalenti alle sconfessioni. Tanto per fare un esempio, sembra che alla direttrice della biblioteca del Centenary College (New Jersey) Wikipedia proprio non vada giù e che numerosi insegnanti americani la sconsiglino sistematicamente ai loro studenti. Alcuni anni fa, il funzionamento del mezzo ha rischiato di fornire alla querelle un’imprevista appendice giudiziaria. Oggetto del contendere sono state le irriverenti interpolazioni (iconografiche, grafiche, ipertestuali) che avrebbero inquinato la voce dedicata a un giornalista. Dalla questione dell’attendibilità s’è passati a minacce di azione legale nei confronti dell’edizione italiana dell’Encyclopedia. Il problema, dunque, s’è ripresentato con nuova urgenza. A detta dei detrattori, l’immissione non controllata d’informazioni costituisce una minaccia perenne allo statuto d’una conoscenza certa e fondata. All’opposto, i partigiani del mezzo rivendicano il valore della libera comunità e i pregi della partecipazione. In ogni caso, anche applicando la stringente logica del criterio di verità, è bene precisare che l’enciclopedia rimane uno dei luoghi più sicuri del web, dal momento che ha sviluppato una singolare capacità di auto-correzione comunitaria. Risulta, infatti, che le tempestive segnalazioni di un errore nelle voci Wikipedia e la conseguente revisione riducano il tempo medio della permanenza del fault a sei minuti. E tutto ciò a dispetto del tenace conservarsi dello pseudo-Neruda in altre zone virtuali.

Questi discorsi non riguardano soltanto Wikipedia, ma caratterizzano la storia della Rete. «Apertura» e «chiusura» sono i termini d’una contraddizione vecchia quanto il modem. Sempre di recente, si è tornati a ragionare sui requisiti che dovrebbero ispirare l’uso della Rete soprattutto da parte di un pubblico adolescenziale. Nell’introduzione a Cultura convergente (Apogeo, 2007), Wu Ming rimarca uno dei problemi che - secondo Jenkins - segnerebbe l’impiego del mezzo. Si tratta della questione della «trasparenza», ovvero della natura opaca delle informazioni. La questione non riguarda soltanto i nuovi media, ma anche quelli tradizionali e - possiamo aggiungere - qualsiasi forma d’espressione. Chi diffonde un contenuto? Per quale pubblico? In che contesto? Perseguendo quali fini? Con che autorevolezza? Questi fattori qualificano un’informazione al pari, o forse più, del contenuto stesso. Se è vero che «un articolo di Wikipedia non dice nulla sul sapere diffuso e l’intelligenza collettiva», la Rete stessa dice poco su una perfetta democrazia dell’informazione. Non basta fornire a chiunque la possibilità di navigare in cerca di notizie per raggiungere l’Eldorado d’un sapere libero e vero. E non si capisce per quale motivo ciò che non vale per le notizie dovrebbe valere per la poesia. L’errore e la bugia, l’abbaglio e l’inganno fanno parte della cultura. La storia del sapere è una vicenda di falsi e apocrifi, di amanuensi che sbagliano e commentatori che adulterano, di distrazioni grossolane e spregiudicate contraffazioni.

In Falsari e critici (Einaudi, 1996), Anthony Grafton ripercorre la storia delle grandi menzogne culturali, componendo l’affresco d’una spietata accolita di sofisticatori. Si pensi a Edmund Backhouse, il baronetto inglese che, ai primi del Novecento, frodò storici eruditi e ignari lettori coi suoi «documenti» di cineseria erotica. E che dire di Karl Hase, famoso per il commento della più antica cronaca della storia russa, frutto delle sue geniali ispirazioni? Il gioco delle attribuzioni, la strenua difesa del fake, la smentita combinata ad arte, l’uso sistematico di pseudonimi, la speculazione sull’errore sono stati i must della cosiddetta «letteratura clandestina» dell’età moderna. È evidente che il falso Neruda, volato impunemente di blog in blog e di sito in sito, non può essere riferito all’attività d’un colto imitatore. O forse sì? È perfino consentita l’introduzione d’una variabile cospirativa, il sospetto che esista un’agguerrita centrale di disinformazione letteraria desiderosa di penetrare le difese della scientificità accademica, approdando ai banchi del Senato. Al di là dell’ipotesi cospirazionistica, il finto Neruda rientra a pieno titolo nella tradizione, conscia o inconsapevole, dell’Apocrifo. Roba che andava già nel quarto secolo avanti Cristo. Visto che lo facevano gli antichi, bisognerebbe risparmiarsi le invettive contro gli pseudo-Borges telematici, i falsi Márquez in voga presso gli indirizzi www, gli inattendibili Rimbaud delle bibliografie on line o le cangianti voci di Wikipedia.

Si è soliti sostenere che i tempi segnati da uno scarso senso dell’individualità favoriscano la pratica dell’attribuzione fasulla. In realtà, il falso ha dominato costantemente tanto i periodi segnati da una forte identità letteraria, quanto le epoche dominate dall’anonima riproduzione dei canoni. Neppure l’invenzione della stampa ha ridotto la circolazione di falsi ed errori. Al contrario, ne ha raffinato gli strumenti finendo per aumentarne la diffusione.

Contraffazioni e imprecisioni fanno parte della natura umana. Dunque, perché rimproverare a Internet quello che si dovrebbe ugualmente imputare al libro e al manoscritto? La Rete ha soltanto esteso e amplificato quest’aspetto. Il malinteso sorge quando si pretende che il Vero debba necessariamente contare più del Finto e la certezza più del dubbio. Ma questo dogma è un pregiudizio, come sapevano bene - in epoca pre-enciclopedica - i compilatori dei dizionari. Prima di mettere insieme ciò che s’intende come Vero, questi geografi dell’Incerto compendiavano menzogne ed errori. Probabilmente è la cosa più «sicura» che si possa fare. Insieme a una maggiore sobrietà linguistica durante la prossima crisi di governo. Del resto, come cantava il Poeta (o la Poetessa), «Lentamente muore chi non rischia la certezza per l’incertezza».


Pubblicato il: 02.02.08
Modificato il: 02.02.08 alle ore 8.39   
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