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« inserito:: Aprile 20, 2025, 12:23:47 pm » |
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"LA PREDIZIONE PIÙ AGGHIACCIANTE DI TUTTE"
Sara Quadrelli Di Roberto Casalone ,che ringrazio _"Fuggite di qua, di là del ponte ci sono i tedeschi!" "No, fuggiamo di qua, perchè dall'altra parte ci sono i russi!" (Katyn - 2007)
Da qualche mese, devo dire incredibilmente, anche i media nostrani più riottosi, mostrano le immagini degli scambi di prigionieri tra ucraini e russi, dove, mediamente, è abbastanza usuale vedere gli ucraini, pur se torturati, scheletriti, emaciati, accolti con gioia dai propri familiari e compatrioti, abbracciati, rifocillati e presi a cuore dalla nazione per la quale hanno combattuto. Tutti quanti, invece, avete visto, per quello che si è potuto vedere beninteso, le immagini dei prigionieri russi che vengono restituiti al mittente, sono curati, vestiti in modo decoroso e fisicamente abili ma, sui loro volti, ho avuto modo di constatare una assoluta mancanza di felicità, quasi che avessero paura a ritornare in patria. Beh, ne hanno ben donde, considerato il trattamento riservato , storicamente, prima dai sovietici e poi dai russi, ai propri militari che cadevano prigionieri del nemico in guerra. Ciò valeva per i soldati, ma anche per i civili che avevano avuto la sventura di essere deportati dai nazisti, perchè abitanti di regioni occupate, portati al lavoro nelle fabbriche e nelle fattorie tedesche, oppure, per le donne, in alternativa ai primi due casi, anche al lavoro domestico come governanti presso famiglie, oppure, se particolarmente attraenti e disponibili, come "fraulein" presso i vari Salon delle grandi città (i bordelli). Per chiare ragioni storico-geografiche, è abbastanza evidente che il 90% di detti deportati civili, provenisse dalla Bielorussia e dall'Ucraina. Dopo la sconfitta del Reich e, comunque, nel corso delle rapide avanzate sul Fronte Orientale dal 1944 in poi, sempre più spesso, decine di migliaia di sovietici prigionieri dei nazisti furono "liberati" dall'Armata Rossa, La loro liberazione era fatta di interrogatori continui e torture, psicologiche e non, da parte degli uomini dell'NKVD, ne furono uccisi migliaia e altri, a migliaia, vennero deportati, privati dei diritti civili, politici e sociali, le donne ridotte alla miseria o, per vivere, adattarsi a prostituirsi a diventare la "moglie da campo" di qualche ufficiale abbastanza in carriera da garantire protezione e di che campare. Per la logica di Stalin, un prigioniero è sempre un traditore o un sospetto traditore, o un collaborazionista occulto, o ancora un disertore (se militare), quindi, in ogni caso, immeritevole di vivere e di avere una dignità. Tutto ciò per scelta POLITICA dei vertici del partito, ben diversamente dal concetto feudale nipponico, dove era l'ONORE di cadere in battaglia a contrapporsi al DISONORE della prigionia e della resa, casi nei quali il suicidio era la via scelta per restituire purezza alla casata d'appartenenza. Pertanto è l'ennesima opera di disinformazione russa (tipica), quella di esaltare il sacrificio estremo a fronte della cattura in battaglia, la verità è che tutti avevano PAURA di questa eventualità, pur di evitare il ritorno a contatto con la mostruosità del regime. Come falso è il mito del padre (Stalin) inflessibile, che non esita a sacrificare il figlio per l'amor di patria, la verità è che un figlio tornato dalla prigionia, vivo, sarebbe stato un impiccio in primis per il Politburo, poi per sè stesso, Stalin non fu paragonabile ad Abramo, semmai a Saturno, a Stalin non fregava nulla della vita della sua intera nazione, figuriamoci del figlio, che riteneva un perfetto idiota tra l'altro....... Il comportamento amorale, selvaggio, criminale e privo di dignità dei russi, nei confronti dei prigionieri (nemici) e degli ex prigionieri (propri), si ripercuote ancora oggi nella guerra di invasione dell'Ucraina, con punte di crimini assoluti, compiuti nei confronti di soldati ucraini e, soprattutto, dei civili delle zone invase e assoggettate al regime. Pensiamo a ciò che avvenne a Katyn e a ciò che è avvenuto a Bucha, a Irpin e altrove. Massacri, fosse comuni e financo vilipendio dei cadaveri. Infatti, solo nel 2004, timidamente, il governo russo tirò fuori dagli archivi i documenti inerenti Katyn, solo dopo l'insistenza del presidente polacco Aleksander Kwaśniewski, per poi farli sparire di nuovo, ed arrivare fino al 2010, quando il presidente Lech Kaczyński, tornò a sollecitare Mosca ad assumersi le responsabilità storiche e materiali del fatto ma, sfortunatamente, l'aereo del presidente polacco precipitò proprio appena prima che si potesse tenere un vertice al riguardo (ma guarda....). Purtroppo, anche in Italia, in passato, non si risparmiarono comportamenti vergognosi e inumani ai nostri ex prigionieri di guerra della Prima Guerra Mondiale, infatti il delirio persecutorio della "caccia al disertore e al vigliacco", scatenato in concomitanza dello sfondamento di Caporetto (finiamola di dire "Rotta" perchè è una balla storica e militare), creò, ancora dopo il 1918, una situazione che non viene citata da nessun testo scolastico. Ve la racconto io, anzi ve la racconto con le parole di mio nonno Giuseppe, Ardito del Carso e Soldato fino al midollo, il quale raccontava che, dopo il 1919, molti dei reduci dalla prigionia austriaca e tedesca che tornavano a casa presso le proprie famiglie, venivano chiamati per strada, alle spalle, "i Modena" e, con quelle parole, la gente li evitava e li guardava male.
Perché?
Non tutti sanno che, subito dopo la fine della Grande Guerra, 861 ex prigionieri italiani morirono in Emilia Romagna in veri e propri "campi di concentramento" allestiti in tutta fretta dai vertici del nostro Regio Esercito. La causa del loro decesso va fatta principalmente risalire alla grave epidemia influenzale (la celebre “spagnola”) che imperversò in quelle settimane, con estrema virulenza, e la cui diffusione fu certamente favorita dalle condizioni di promiscuità nelle quali vennero a trovarsi migliaia di uomini indeboliti, malnutriti, scarsamente assistiti e concentrati in luoghi freddi. Intorno a questa vicenda, a seguito della smobilitazione e, dopo, dall’avvento del fascismo, calò un completo e imbarazzato silenzio, rotto solo da poche voci che sapevano o che avevano visto. Gli 861 militari deceduti facevano parte dei circa 270.000 ex prigionieri di guerra italiani, rientrati in patria dopo l’armistizio firmato il 3 novembre 1918 a Villa Giusti. Su di loro, come dicevo prima, dopo lo sfondamento di Caporetto, gravava il sospetto della diserzione, alimentato dalle versioni ufficiali ampiamente (e abilmente) propagandate dalle autorità, desiderose di nascondere le responsabilità, enormi e personali, al limite del criminale, di molti generali incompetenti.
In Emilia Romagna gli ex prigionieri furono internati in tre grandi campi di concentramento: a Mirandola (Modena), Castelfranco Emilia (allora sotto la giurisdizione di Bologna) e Gossolengo (Piacenza). Tra il novembre 1918 e il gennaio 1919, in un inverno particolarmente rigido, i militari vissero all’interno di edifici pubblici o privati, ma anche in stalle, fienili e tende sulle rive dei fiumi, scarsamente riforniti di vestiario e cibo, in condizioni igieniche totalmente inadeguate e costantemente esposti al pericolo di contrarre infezioni. Per accogliere i soldati, che rimasero per giorni in attesa di inutili, e spesso brutali, interrogatori, furono utilizzate strutture sanitarie preesistenti ma anche nuovi impianti sanitari e logistici, per fare fronte a un numero di rimpatri che, con il passare dei giorni, si fece sempre più difficile da sostenere. Soltanto a seguito delle denunce della stampa, delle pressioni di alcune personalità politiche e delle ripetute lamentele delle autorità locali, assalite da abitanti del posto che non sopportavano "la puzza e la visione" di quegli sventurati, la loro sorte venne lentamente migliorando. L’idea di concentrare questa enorme massa di ex prigionieri (nelle stesse zone delle retrovie che un anno prima avevano ospitato gli sbandati di Caporetto) fu una precisa scelta dei vertici politico-militari italiani. Secondo questi ultimi, infatti, il ritorno a casa dei “morti ambulanti” (come un testimone li definì) andava ritardato, anche a costo di nuove sofferenze.
Essi andavano interrogati al fine di accertare le cause della loro cattura e per sottoporli ad eventuali procedimenti penali, nel caso le modalità della cattura fossero risultate sospette. Per le autorità militari, questa necessità divenne prioritaria rispetto all’urgenza di curarli, sfamarli e rivestirli dopo anni di privazioni patite in guerra e nei campi di concentramento austro-tedeschi, anche per il timore della diffusione delle nuove idee bolsceviche con le quali essi potevano essere entrati in contatto. Nel sollecitare un miglioramento delle condizioni morali e materiali dei campi, il Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, scrisse infatti che si trattava di “uomini che poi si spargeranno in ogni parte del Paese, e dipende da noi farne apostoli di patriottismo o germi di dissolvimento”
Anche in questo, pertanto, oggi l'Ucraina ci insegna cosa sia davvero "accogliere" i propri compatrioti di ritorno da una guerra o dalla prigionia.
NOTA: a proposito di Katyn, invito tutti a vedere il capolavoro omonimo di Andrzej Wajda, film, scomodo, doloroso, ma di una bellezza struggente, con attori straordinari e un realismo impressionante (fedelmente tratto da "Post Mortem", il taccuino dei ricordi trovato addosso ad un maggiore assassinato dai russi in quell'occasione) bandito in Russia e diffuso pochissimo anche nel resto del mondo, proiettato in Italia solo a Torino, in occasione di un film festival del 2008.
Un colossale e granitico atto di accusa ai crimini russi che anticipava di poco ciò che i russi stessi, ripeteranno in Ucraina oggi. Andrzej Wajda, il cui padre fu assassinato a Katyn, combattè con l'Armia Krajowa (qui sotto il suo logo) contro i nazisti e scelse la via narrativa del cinema per dedicare al suo paese la Memoria storica di ciò che subì._
Da Facebook 13 aprile 2025
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