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« inserito:: Marzo 24, 2025, 11:57:52 am »

Democrazia e Dintorni
 
DONBASS, IN PRIMA LINEA NELL'INFERNO DI POKROVSK
Bunker, hangar, vecchie miniere e trincee. Ma il fronte è dominato dai droni. Syrsky, il generale dell’offensiva in Kursk: «Abbiamo in serbo una sorpresa»

Bernard-Henri Lévy su La Stampa del 9 marzo 2025 (Traduzione di Anna Bissanti)

Pokrovsk. Il presidente Zelensky mi riceve in un seminterrato protetto di questa Città Proibita che è l’Amministrazione. Come si sente, alla vigilia del volo per Washington? «Bene. Nulla è deciso, però. Non so che cosa vuole Trump, né se farò davvero questo viaggio». Perché non è fiducioso? Non crede alla buona volontà di un alleato che ha detto che lei è un dittatore? Scoppia a ridere. «No. Il problema, più che altro, è che non so perché si comporta così. Non capisce che Putin è inaffidabile e che…- esita -. Al tempo stesso, per fortuna ci sono il Senato e il Congresso. È su di loro, e sul loro appoggio bipartisan, che faccio affidamento. Due anni fa, per esempio – ricorda? – ci hanno rivolto delle domande, hanno ascoltato le nostre risposte e hanno finito per sbloccare il pacchetto degli aiuti militari che aspettavamo da mesi…». Supponiamo il peggio, gli dico: sareste in grado di proseguire senza l’America? «Sarebbe difficile. Gli americani hanno la tecnologia. L’intelligence. Ipotizziamo, per esempio, che la Germania approvi la consegna dei Patriot: ebbene, occorrerebbe la loro autorizzazione». E l’Europa? Crede a un’alternativa europea? «Sì, certo, credo in Immanuel, per esempio» dice con riferimento a Macron, ma pronunciando il suo nome con la “i”. Dal tono della sua voce trapela profonda amicizia. «Se questo meeting a Washington si farà, lo dobbiamo a lui, Immanuel. E lo ringrazio per questo, è un vero amico».
La sua ammirazione è genuina. «E poi, lo sa che è un esperto militare? Conosce, a distanza, ogni singolo punto della nostra linea del fronte». A proposito di linea del fronte, sa che io sono in partenza per Pokrovsk? Se domani firma l’accordo con Trump, la mia visita avrà ancora senso? La risposta è istantanea: «Sicuramente. La sua presenza farà piacere ai soldati. Scalderà loro i cuori. E poi… - sembra riflettere a voce alta -. E poi, credo che questo viaggio lo farò, partirò. Non sono sicuro di niente, ma lo farò».
Ho l’impressione che sia successo all’improvviso. Non tornavo in prima linea da otto mesi. Mi accorgo che la guerra dei droni ormai è preponderante rispetto alla guerra di trincea. Ci troviamo all’interno di un centro di comando nei dintorni di Pokrovsk, questo bastione a Est dove i russi stanno dispiegando tutti i loro uomini per fare breccia. Lì, nel bunker sotterraneo di una vecchia fabbrica, c’è una dozzina di soldati che smanettano seduti davanti a una parete di schermi di computer. Alcuni sono a volto scoperto. Altri, in felpa e passamontagna, scambiano informazioni al microfono con uomini di cui si sente soltanto la voce e che, sul terreno, manovrano i droni di ricognizione e di attacco. All’improvviso, su uno degli schermi, compaiono tre sagome: stanno camminando in un paesaggio innevato, con pochi alberi radi e allineati, senza boscaglia. Nel bunker cala il silenzio. L’uomo con il passamontagna sceglie una delle sagome a caso con il mouse. La segue. La perde. Zooma sull’immagine. La ritrova. Trasmette le sue coordinate. La sagoma scompare in una nuvola di neve grigia e pixel sgranati. Poi la nuvola si disperde. La sagoma riappare. Si alza traballante. L’uomo è ferito? È soltanto stordito dallo shock? Le altre due sagome lo raggiungono. No, non si fermano, proseguono, anche loro malfermi, verso un boschetto più fitto. L’uomo con il passamontagna a questo punto impartisce un altro ordine al microfono. La prima sagoma cade definitivamente a terra, con un breve spasmo, mentre le altre due si accucciano sotto le betulle. Trascorre un’ora. Moriranno lì congelati, dice l’uomo con il passamontagna. Quando, in realtà, i due tentano la fuga, l’uomo con il passamontagna si prende tutto il tempo necessario, li segue e bisbiglia un ultimo ordine. Diradatosi il fumo, restano a terra solo due sagome, simili ad alberi abbattuti.
Quando da inseguitori si diventa inseguiti, non ci sono mille modi per fuggire. Nel caso dei droni classici, occorre dotarsi di antenne a cono poggiate, come abbiamo fatto noi, sul tetto di una vettura: interferiscono nelle comunicazioni tra il drone e il suo pilota. Per i droni collegati al loro pilota da una fibra ottica lunga svariati chilometri – che oggi costituiscono i due terzi dell’arsenale russo – non c’è altra soluzione, invece: si deve viaggiare a rotta di collo su sentieri ghiacciati resi pressoché invisibili dalla neve. Poi, una volta a destinazione, bisogna correre e mettersi al riparo in una Posadka, quegli strani boschi senza sottobosco, nient’altro che ontani slanciati, quasi nudi, piantati in filari in epoca sovietica per ancorare il suolo ricco e nero del Donbass e proteggerlo così dai venti violenti.
Qui non ci sono tre soldati russi smarriti, ma cinquanta minatori della miniera ormai chiusa di Pokrovsk che hanno a disposizione otto giorni e otto notti per sistemare una di queste fortificazioni, ricavate dalla terra rimossa e ammonticchiata, fatte di reti metalliche interrate, di buche scavate nella neve o di imbuti, di cui gli ucraini custodiscono il segreto. Balletto di minatori diventati boscaioli. Noria di alberi tagliati, il più lontano possibile, con la motosega, e poi trasportati a spalla. Poi, quando un drone colpisce, si aggiungono tronchi più spessi e ci si ripara intorno a un fuoco alimentato con i trucioli tagliati, con l’ascia, dai tronchi stessi. Ingegno degli ucraini: non posso fare a meno di rivolgere un pensiero ai tre russi di ieri, mandati al macello come carne da cannone.
Oleksander Syrsky, generale in capo delle forze armate ucraine, non è cambiato dal nostro ultimo incontro di otto mesi fa sul fronte di Kharkiv. Stessi zigomi alti e asciutti. Stessi occhi ridenti leggermente obliqui, appena distinguibili, tanto sono infossati nelle orbite emaciate. Stesso portamento di centurione taciturno che, in linea di principio, si tiene alla larga dalle interviste e si sente a suo agio soltanto qui, in una tenda di comando improvvisata e gelida nei dintorni di Pokrovsk dove ci ha fatto venire. Il vincitore della battaglia di Kyiv, il liberatore di Izuim, ha la reputazione di ufficiale severo che non risparmia la vita delle sue truppe. Quello che mi ha sempre colpito, per quanto mi riguarda, è piuttosto il burbero cameratismo con il quale tratta i suoi uomini. A colpirmi è il modo, quando lo aspettano come oggi – a dieci gradi sottozero, nella neve, immobili in una garitta che li trasforma in statue –, di intimare l’ordine di mettersi immediatamente al riparo con lui; è la sua voglia di andare da un avamposto all’altro senza allontanarsi mai dal campo di battaglia. Come ogni volta, mi elenca le sue necessità: se gli americani si tirano indietro, oggi ha bisogno di missili franco-italiani Samp-T. Poi, come ogni volta, mi dà anche un messaggio per il presidente Macron: «È tutto a posto, i nostri piloti hanno terminato la formazione e i vostri Mirage sono operativi e in aria da questa mattina – sì, proprio questa mattina». Poi scoppia in una fragorosa risata che gli affila ancora di più lo sguardo. Non può dirmi di più ma per i disfattisti occidentali che credono che l’Ucraina sia in ginocchio ha in serbo una sorpresa. L’ultima volta che l’ho sentito parlare così, e ridere così, è stato pochi giorni prima della sua offensiva lampo nella regione di Kursk, in Russia…
Oksana ha 21 anni. È minuta. Esile. Eppure, con il suo fisico da bambina e la sua lunga capigliatura rossa annodata in una coda di cavallo, è la comandante di un’unità di dronisti, tutti uomini, che con la fanteria ucraina sta bloccando l’offensiva russa su Pokrovsk. Nella vita civile è una poetessa. Sì, poetessa. Ha due raccolte di poesie pronte per la stampa, ritardata dalla guerra. Esiste un altro Paese al mondo, oltre quello di Taras Sevcenko, dove una comandante di guerra adolescente, quasi una bambina, è in grado di dirmi, così, di punto in bianco, dentro a una tenda montata in fondo a un bunker glaciale dove ha fatto servire tè e biscotti: «Faccio la guerra da tre anni, ho comandato un’unità d’artiglieria, sono stata gravemente ferita e adesso comando questa unità di dronisti ma, in fondo, sono una poetessa»? C’è qualcosa di più particolare ancora. All’improvviso abbassa il tono di voce. Si dirige altrove. Ritorna. I suoi grandi occhi verdi irriducibili adesso sono colmi di lacrime, la sua bella bocca si increspa e abbozza un mezzo sorriso lateralmente. Aveva un fidanzato. Si chiamava Maksim. Era poeta anche lui. È stato grazie alla poesia che si sono incontrati. Erano una coppia di poeti che sognava il loro avvenire. Lui, però, è morto in combattimento, da poco, una manciata di settimane. E lei, nella vita così lunga che ha davanti, ormai e purtroppo vuota, ha soltanto uno scopo. O meglio, due. La difesa dell’Ucraina. E la difesa dell’opera di Maksim.
Che cosa non si è detto della Brigata Anne di Kyiv, equipaggiata dalla Francia, addestrata dalla Francia e battezzata dai presidenti Zelensky e Macron, in occasione dell’ottantesimo anniversario dello sbarco sulle spiagge della Normandia, con il nome di una principessa ucraina che fu anche regina di Francia! Diserzioni… Corruzione… Organizzazione fallimentare, per non dire inesistente… Si è detto di tutto. Per questo motivo ho deciso di andare a vedere. Prima sono andato a Nord di Pokrovsk, in una miniera abbandonata che funge da suo quartiere generale dove comanda, dall’inizio dell’anno, un valido ufficiale con 27 anni di carriera alle spalle, reduce delle terribili battaglie di Sumy, che mi dice con sobrietà: «Alla brigata non mancava chissà che; forse un direttore d’orchestra… Immaginiamo che fossi io… Non era complicato». In seguito, sono andato più a Sud e più vicino al fronte, tra le file di un’unità di ricognizione costituita da quattro uomini, un cane e un’autoblindo Renault nuova fiammante, con l’ordine di individuare, nell’immensa distesa bianca di questo terreno disperatamente piatto, Posadka dove gli operatori di droni possano nascondersi di notte e il giorno dopo. «Tutta questa polemica è davvero infondata» si arrabbia Dmytro, il capo unità. «Ci troviamo nella zona più calda del fronte, come avremmo potuto risparmiare un minimo di tempo per adattarci? Siamo uomini, non nord-coreani…». Nel frattempo, ha individuato la Posadka perfetta. Parcheggia il veicolo blindato. Mi mostra come abbattere con la mitragliatrice i droni che volano in formazione nel vasto cielo azzurro.
Il grande motivo di orgoglio della Brigata Anne di Kyiv, tuttavia, sono i suoi cannoni Caesar, semoventi, montati su ruote e ultra-mobili: tra tutte le armi che hanno potuto collaudare, sono le più precise e le più efficienti. Siamo in missione di ricognizione con il comandante della brigata, Taras Maksymov. Viaggiamo per un’oretta, su sentieri di terra battuta ghiacciata, in una vettura ordinaria, non blindata e priva di sistemi di interferenza perché i russi sono così precisi che, paradossalmente, averli a bordo sarebbe il modo migliore per farsi individuare. Arriviamo a destinazione, non più una Posadka, ma una dolina scavata così in profondità che, sotto reti di mimetizzazione bianche come la neve, si scorge soltanto la bocca del cannone. Gli uomini ci stanno aspettando. Sono sei. Fumano e per ammazzare il tempo recitano poesie. Attenti! Granata nel cilindro. Caricamento del sacco di polvere bianca. Calcolo della pressione dell’aria e della velocità del vento. È tutto pronto? Il drone di ricognizione è sul posto? Fuoco! Attesa di un minuto o due, il tempo di consultare il drone e assicurarsi che la postazione russa, di fronte, sia stata spazzata via. E poi, mentre il cannone, adesso individuato dal nemico, si mette in moto per raggiungere una nuova postazione a pochi chilometri da lì, ripartiamo anche noi, velocemente, correndo tra i rami secchi e spogli che si impigliano nei vestiti e graffiano la faccia. Senza dubbio, non sempre la Brigata Anne di Kyiv è stata all’altezza della leggenda che l’ha preceduta. Tuttavia, non ha perso nemmeno uno dei 18 Caesar che le sono stati consegnati dalla Francia.
In questo racconto avrei dovuto inserire prima la scena seguente, ma riporto le cose che ho visto così come mi vengono in mente. Siamo sempre nei dintorni di Pokrovsk, in un hangar gigantesco trasformato in officina di riparazione per carri armati e veicoli vari. Luce spettrale. Carcasse di ferraglia e ruggine. Motori scoppiati a metà o, semplicemente, spolpati. Attorno a essi sono indaffarati meccanici che indossano guanti sporchi di grasso. Sono esperti nell’effettuare l’esame autoptico di ciò che resta di un motore, di una placca di armatura o di un ribattino d’acciaio ancora intatti. Poi, all’improvviso, si ferma tutto. Alle due estremità dell’hangar sono stati installati due schermi dove gli uomini possono seguire in diretta il colloquio in mondovisione di Trump e del loro presidente. All’inizio, quando parla Zelensky, i chirurghi meccanici sono soddisfatti, perché lo vedono a suo agio, messaggero delle loro sofferenze e del loro eroismo. Poi, quando i due americani prendono la parola e coprono la voce del loro presidente e lo insultano, non dicono niente, ma sui loro volti compare un misto di sconcerto (quanta volgarità…), di sgomento (loro, immersi nel fango e nel sangue, capiscono benissimo quanto siano preziosi gli aiuti dall’estero), ma anche di fierezza (quel giovane presidente che tiene testa agli uomini più potenti del mondo è l’immagine stessa del coraggio pacato e vigoroso che, in ucraino, si chiama Nakhabstvo e, in yiddish, Chutzpah – che da queste parti è la virtù più apprezzata). Ignoro se i suoi alleati sapranno elevarsi all’altezza del presidente Zelensky. So, però, che con questo suo mix di ironia, sangue freddo e disprezzo per la bassezza umana da cui non si è mai discostato neppure un istante, quest’uomo è entrato, ancora una volta, nella leggenda di questo secolo.

da – FB del 24 marzo 2025.
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