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Autore Discussione: Ciampi: «La partita è quasi disperata»  (Letto 3111 volte)
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« inserito:: Gennaio 29, 2008, 10:49:29 pm »

«Il voto al Senato ha chiarito contraddizioni e equivoci nella maggioranza»

Ciampi: «La partita è quasi disperata»

L'ex capo di Stato: «L'unica strada è strettissima, ma bisogna tentare. Il Pd? Non è l'origine della crisi»


Presidente Ciampi, quale sarà lo sbocco della crisi? Il voto è inevitabile?
«Il quadro d'insieme mi pare complicato e l'aria che tira nel Paese piuttosto allarmante. Comunque, ortodossia vuole che le mie considerazioni io le esprima martedì, davanti al capo dello Stato».

Abbia pazienza, ma lei sembra preoccupato che non si riesca a imporre una tregua, per quanto breve, prima di chiudere la legislatura.
«Esatto, temo proprio questo. E posso soltanto dire che considero assurdo andare alle urne con una legge elettorale come quella che abbiamo adesso.
Tutti, del resto, hanno riconosciuto nei mesi scorsi che queste regole provocano problemi. Cioè esecutivi deboli, frammentazione, un rapporto poco corretto tra elettori ed eletti e una fragilità complessiva del sistema, che è in torsione ormai da tempo. Ecco perché mi chiedo come si possa pensare di chiudere la legislatura senza prima aver fatto un minimo di cambiamenti. È il buonsenso a sconsigliarlo».

Servirebbe dunque una soluzione tecnico-istituzionale, un governo «di scopo» per riformare quella legge e magari fare qualche altro ritocco.
«Non entro sul terreno delle formule che potranno emergere dalle consultazioni del presidente Napolitano. Ma insisto, a costo di sembrare stucchevolmente esortativo: bisogna trovare in fretta delle vie d'uscita in grado di dare motivate ragioni di fiducia su un doppio fronte. Fiducia ai cittadini, che sono confusi, in ansia per il futuro e tentati da giudizi liquidatori verso l'intero ordinamento dello Stato, come dimostrano anche certe manifestazioni d'antipolitica. E fiducia ai nostri partner stranieri, in primo luogo quelli dell'ambito europeo. Questo è oggi l'interesse generale su cui tutti dovrebbero riflettere e impegnarsi: riconquistare la fiducia».

Ma come si fa a ricostruire in pochi mesi un clima di fiducia, un fattore che si alimenta di infinite variabili?
«Occorrerebbe cominciare da una sorta di patto tra le forze più responsabili, perché stavolta è più che mai in gioco l'interesse nazionale. E l'impegno dovrebbe andare oltre lo stesso mondo politico, nel senso che tutti dovremmo imparare a essere meno autolesionisti di quanto abitualmente non siamo».

Che c'entra l'autolesionismo?
«Guardi che all'estero alcuni comportamenti sui quali qui si tende a sorvolare hanno invece un effetto devastante. Una crisi di governo dovrebbe essere un passaggio normale, fisiologico, in ogni democrazia. Ma certe "coloriture" e drammatizzazioni tipiche di noi italiani e ormai tipiche anche del modo di fare politica — coloriture, frutto del nostro temperamento e del linguaggio politico che si è imposto e che vengono enfatizzate attraverso giornali e televisioni — risultano pesantemente costose per il Paese. Anche se magari non sono cose di sostanza, ciò che è andato in scena l'altro giorno a Palazzo Madama è stato tutt'altro che edificante. Ci facciamo del male da soli e non ce ne rendiamo conto, come ho provato a spiegare in questi giorni a un amico straniero che mi ha telefonato per chiedermi che cosa stia accadendo in Italia».

A proposito di drammatizzazioni, c'è chi contesta a Prodi di aver «avvelenato i pozzi» e reso impossibili soluzioni alternative al suo governo, portando la sfida alle estreme conseguenze.
«L'hanno chiamata testardaggine, la scelta di Prodi, e di sicuro ha a che fare anche con il suo carattere. Ho considerato giusto il consiglio che gli aveva dato Napolitano, di prendere atto dello strappo nella maggioranza e di dimettersi prima di farsi sfiduciare. Tuttavia, il voto del Senato è almeno servito all'ex premier a chiarire il suo personale futuro, e infatti si è chiamato fuori...».

Se è per questo, ha certificato in modo definitivo pure l'inconsistenza del centrosinistra.
«Sì, ha chiarito certe contraddizioni e certi equivoci — ma forse si potrebbe dire ambiguità — interni alla maggioranza. Che da mesi si reggeva solo su pochi, esilissimi fili. Tra continue scuciture e rammendi. Prodi ha mediato finché ha potuto, con un'incredibile pazienza, ma poi...».

E le recriminazioni verso il Partito democratico, la cui nascita è stata indicata come il vero detonatore della crisi?
«Non condivido queste analisi. Ho guardato con favore alla nascita del Pd. L'ho considerato un buon segnale, in quanto poteva e doveva favorire un utile processo di semplificazione di un versante politico cruciale. Ho sperato che fosse imitata sul fronte del centrodestra. No, non è il Partito democratico l'origine della crisi».

 In definitiva, presidente Ciampi: se la sente di scommettere su un governo di tregua?
«È una partita difficile, che oggi come oggi può sembrare quasi disperata. L'unica strada percorribile è purtroppo strettissima. Io però, per natura, ripeto sempre, anche a me stesso, che non bisogna arrendersi. Il che oggi, in quest'Italia di umori cupi, inquieta, impaurita e stremata da un conflitto permanente iniziato oramai quindici anni fa, significa far lievitare nel Paese — a partire dalla classe politica — una salda volontà positiva. Per riuscirci, bisognerebbe mobilitare delle figure di riferimento. Ne esistono, per carità. Ma sono poche quelle in cui tutti si riconoscono».

Marzio Breda

27 gennaio 2008(ultima modifica: 28 gennaio 2008)

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 31, 2008, 04:26:17 pm »

La volontà di non rassegnarsi

di Massimo Franco


Cercare di evitare le elezioni dopo nemmeno due anni di legislatura, per un capo dello Stato è un obbligo. L’incarico affidato ieri da Giorgio Napolitano a Franco Marini va letto dunque come una scelta inevitabile, che anche una parte dell’opposizione ha compreso. L’importante è che si capisca presto se porterà alla formazione di un altro governo; o, più probabilmente, al voto anticipato. Nel tentativo estremo del Quirinale si coglie tutta la drammaticità del momento.

Riacciuffare adesso i fili della riforma elettorale appare un tentativo disperato. Per questo, il sospetto che Marini abbia resistito un po’ prima di accettare non è una malignità gratuita. Ma il fatto che Napolitano abbia puntato sulla seconda carica istituzionale, sottolinea la volontà di non rassegnarsi ad una deriva ritenuta dai più inevitabile. Il compito del presidente del Senato è capire se esiste una via d’uscita per scongiurare il voto. Sulla carta, si tratta di una missione impossibile. Il centrodestra da anni non appare così compatto: almeno nel volere le elezioni.

È probabile che la resurrezione della Cdl nasconda anche calcoli opportunistici. Nasce, tuttavia, dalla presa d’atto che finora non si vedono margini per proseguire la legislatura in modo decente. In teoria, Marini potrebbe trovare qualche voto di ritorno dei senatori dell’ex Unione; e chissà, perfino la disponibilità di alcune schegge in bilico. La prospettiva di spaccare ancora di più il Parlamento ed il Paese, tuttavia, rende improbabile un epilogo pasticciato. Per questo, il presidente del Senato viene osservato più che nelle vesti di demiurgo di nuove maggioranze, come garante della transizione dal dopo- Prodi alle urne: sebbene non sia chiaro se sarà lui a portare l’Italia al voto.

L’incarico prevede una consultazione supplementare dei partiti; non necessariamente, però, la formazione di un governo. Se alla fine Marini dirà a Napolitano che le riforme elettorali non sono possibili, l’ultimo tratto di strada potrebbe toccare a lui; ma anche a Romano Prodi, come chiede Berlusconi ricordando che è il premier indicato nel 2006 dagli elettori. Il centrodestra segue la traiettoria con diffidenza e nervosismo. Napolitano cerca di rassicurarlo escludendo una scelta «rituale e dilatoria». E a garanzia di una volontà distensiva offre proprio il sindacalista moderato e astuto, considerato il meno antiberlusconiano della coalizione prodiana. Marini, però, è anche l’antitesi politica e quasi antropologica di Prodi. E alimenta l’immagine di un’Unione ansiosa di emanciparsi dal Professore. Sarà difficile evitare tensioni. Il tempo diventa sostanza, e la crisi non sembra affatto finita. E probabilmente, neppure le sorprese.

31 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 02, 2012, 10:47:46 am »

Perché a Berlino serve ritrovare il cuore europeo

di Carlo Azeglio Ciampi e Fabrizio Galimberti

20 Gennaio 2012

«Che cosa possiamo fare?». «Niente», fu la risposta. Il brevissimo dialogo, tratto dall'immortale saga della Fondazione - il capolavoro fantascientifico di Isaac Asimov - si riferiva alla minaccia di distruzione che pendeva sul pianeta Terminus, mentre si avvicinava la potente flotta dell'Impero galattico guidata dal generale Bel Riose. Come difendersi? Quella risposta («Niente») non era indice di rassegnazione. Al contrario, chi la pronunciava aveva dalla sua parte l'arma più invisibile e potente che ci sia, un'arma che gli storici - ma non i generali - sanno apprezzare. Chi auspicava quel che sembrava inazione sapeva che non sono le armi che vincono le battaglie, sapeva che gli avvenimenti sono plasmati dalle correnti profonde della storia, e, data la ferrea convinzione che la sopravvivenza della 'Fondazione' fosse storicamente inevitabile, si trattava solo di attendere fiduciosi i tempi e i modi di quell'inevitabile salvezza.

Si vorrebbe che la stessa incrollabile fiducia ci guidasse, come stella polare, mentre attendiamo l'esito della crisi europea. L'Europa è minacciata di disgregazione? Il progetto dell'euro, tappa gloriosa nel processo di integrazione del nostro amato continente, rischia di disgregarsi anch'esso nelle sabbie mobili dei nazionalismi e degli ideologismi?

Materia per la fiducia ce ne sarebbe. Conosciamo tutti la famosa frase di Jean Monnet - «L'Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni apportate alle crisi» (e se questa non è una crisi...!). E sappiamo quanto grande è il capitale politico investito nella moneta unica e nel progetto stesso dell'integrazione europea. Un progetto che usa gli aspetti economici come cesoie per tagliare il filo spinato dei rancori antichi, per asciugare il sangue sparso in secoli di guerre intestine, per infittire gli interessi comuni aprendo così porte e vie ad altre comunanze, sociali e culturali, gradini indispensabili per approdare al sogno europeista dell'unificazione politica.

La ragione ci spinge alla fiducia, alla convinzione che nessun leader degno di questo nome vorrà assistere inerme allo sgretolamento di quel progetto, all'appannamento di quel sogno. Ma oltre alla ragione c'è il cuore, e il cuore non può, non deve, guardare senza reagire a quel che sta succedendo. Come tutti sappiamo, al centro del problema c'è la Germania. Un Paese cui l'Europa, culturalmente, deve molto. Un Paese che deve molto all'Europa, ché molto - lo dice la storia passata - ha da farsi perdonare. Un Paese che in momenti-chiave della storia recente ha saputo tenere la barra diritta e imprimere la rotta giusta al vascello dell'integrazione.

Dopo la caduta del Muro di Berlino, quando Mikhail Gorbaciov andò in visita a Bonn, il cancelliere Helmut Kohl lo condusse alla grande terrazza da cui si dominava il maestoso incedere del Reno. Vede presidente, gli disse, così come non si può fermare la corrente del Reno (un'altra 'corrente profonda'!), non si può fermare l'unificazione delle due Germanie. E anni dopo, nei mesi cruciali del varo della moneta unica, Kohl trascurò il veto della Bundesbank alla partecipazione italiana, in nome del superiore interesse della costruzione europea. Helmut Kohl e il suo predecessore Helmut Schmidt sono stati due grandi europeisti, «cittadini europei nati in terra tedesca».

La leadership attuale in Germania saprà trovare l'afflato che ha permesso al Paese cuore e motore dell'integrazione europea di tenere la retta via nei momenti più difficili del dopoguerra? È vero, l'opinione pubblica tedesca è preda di paure ataviche - l'inflazione - e sgomentata dall'azzardo morale (aiutare chi è in difficoltà rischia di distoglierlo dal rimettere ordine nei conti). Ma i veri leader guidano l'opinione pubblica, non si fanno guidare da essa.

Forse è il timore dell'inflazione - creazione di liquidità, monetizzazione dei debiti... - la pulsione più profonda che guida gli atteggiamenti tedeschi. Una pulsione che ha imposto, nel Trattato di Maastricht, di negare alla Bce il finanziamento diretto dei deficit pubblici. Un divieto che è giustificabile storicamente: come già disse il duca di Saint Simon nella Francia del Settecento, il potere di stampare banconote può essere abusato in una monarchia assoluta, dove la creazione di moneta è soggetta alle «necessità di guerre mal condotte, alla rapacità di ministri, favorite o amanti, alla prodigalità di un sovrano...». E tanti altri episodi lo confermano, fino all'iperinflazione della repubblica di Weimar, ancora marchiata a lettere di fuoco nel conscio e nell'inconscio dei cittadini tedeschi. Ma anche qui, è necessario distinguere. In una democrazia la creazione di moneta è un'arma della politica economica come le altre, una medicina di cui calibrare il dosaggio ma cui sarebbe irrazionale rinunciare. Come ha detto un insigne economista, Willem Buiter (già membro del direttorio della Bank of England), la proibizione totale di creare liquidità prestando direttamente soldi ai Governi non sta in piedi: «Solo perché lo strumento può essere abusato non vuol dire che non bisogna usarlo. Nell'acqua si può annegare, ma questo non vuol dire che non se ne possa bere un bicchiere quando preme la sete».

Sta alla leadership tedesca spiegare ai propri concittadini quanto abbiano beneficiato dall'unificazione economica e monetaria. È necessario spiegare come l'aiuto - una condivisione del debito pubblico europeo, una predisposizione sollecita e adeguata di salde reti di sicurezza, una esortazione alla Bce di farsi parte attiva nel sostegno monetario a Paesi in crisi ma meritevoli - non sia un fatto di carità ma di illuminato tornaconto. La posta in giuoco è troppo alta per proseguire in una politica di piccolo cabotaggio, volta a strappare concessioni e a giocare su interessi contrapposti. È tempo di dichiarare chiaro e forte l'interesse alto dell'Europa intera, così da fare di questa crisi un trampolino verso una sovranità europea che diventa maggiore della somma delle rinunce di sovranità nazionali. Così come - scriveva Riccardo Bacchelli - chi reciti nel Padre nostro il «sia fatta la Tua volontà» non rinuncia alla propria individualità ma, misteriosamente, la esalta, una «volontà europea» diventa per ogni Paese un piedistallo che ne innalza nobiltà e statura.

Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 13 articoli)

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