Perché a Berlino serve ritrovare il cuore europeo
di Carlo Azeglio Ciampi e Fabrizio Galimberti
20 Gennaio 2012
«Che cosa possiamo fare?». «Niente», fu la risposta. Il brevissimo dialogo, tratto dall'immortale saga della Fondazione - il capolavoro fantascientifico di Isaac Asimov - si riferiva alla minaccia di distruzione che pendeva sul pianeta Terminus, mentre si avvicinava la potente flotta dell'Impero galattico guidata dal generale Bel Riose. Come difendersi? Quella risposta («Niente») non era indice di rassegnazione. Al contrario, chi la pronunciava aveva dalla sua parte l'arma più invisibile e potente che ci sia, un'arma che gli storici - ma non i generali - sanno apprezzare. Chi auspicava quel che sembrava inazione sapeva che non sono le armi che vincono le battaglie, sapeva che gli avvenimenti sono plasmati dalle correnti profonde della storia, e, data la ferrea convinzione che la sopravvivenza della 'Fondazione' fosse storicamente inevitabile, si trattava solo di attendere fiduciosi i tempi e i modi di quell'inevitabile salvezza.
Si vorrebbe che la stessa incrollabile fiducia ci guidasse, come stella polare, mentre attendiamo l'esito della crisi europea. L'Europa è minacciata di disgregazione? Il progetto dell'euro, tappa gloriosa nel processo di integrazione del nostro amato continente, rischia di disgregarsi anch'esso nelle sabbie mobili dei nazionalismi e degli ideologismi?
Materia per la fiducia ce ne sarebbe. Conosciamo tutti la famosa frase di Jean Monnet - «L'Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni apportate alle crisi» (e se questa non è una crisi...!). E sappiamo quanto grande è il capitale politico investito nella moneta unica e nel progetto stesso dell'integrazione europea. Un progetto che usa gli aspetti economici come cesoie per tagliare il filo spinato dei rancori antichi, per asciugare il sangue sparso in secoli di guerre intestine, per infittire gli interessi comuni aprendo così porte e vie ad altre comunanze, sociali e culturali, gradini indispensabili per approdare al sogno europeista dell'unificazione politica.
La ragione ci spinge alla fiducia, alla convinzione che nessun leader degno di questo nome vorrà assistere inerme allo sgretolamento di quel progetto, all'appannamento di quel sogno. Ma oltre alla ragione c'è il cuore, e il cuore non può, non deve, guardare senza reagire a quel che sta succedendo. Come tutti sappiamo, al centro del problema c'è la Germania. Un Paese cui l'Europa, culturalmente, deve molto. Un Paese che deve molto all'Europa, ché molto - lo dice la storia passata - ha da farsi perdonare. Un Paese che in momenti-chiave della storia recente ha saputo tenere la barra diritta e imprimere la rotta giusta al vascello dell'integrazione.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, quando Mikhail Gorbaciov andò in visita a Bonn, il cancelliere Helmut Kohl lo condusse alla grande terrazza da cui si dominava il maestoso incedere del Reno. Vede presidente, gli disse, così come non si può fermare la corrente del Reno (un'altra 'corrente profonda'!), non si può fermare l'unificazione delle due Germanie. E anni dopo, nei mesi cruciali del varo della moneta unica, Kohl trascurò il veto della Bundesbank alla partecipazione italiana, in nome del superiore interesse della costruzione europea. Helmut Kohl e il suo predecessore Helmut Schmidt sono stati due grandi europeisti, «cittadini europei nati in terra tedesca».
La leadership attuale in Germania saprà trovare l'afflato che ha permesso al Paese cuore e motore dell'integrazione europea di tenere la retta via nei momenti più difficili del dopoguerra? È vero, l'opinione pubblica tedesca è preda di paure ataviche - l'inflazione - e sgomentata dall'azzardo morale (aiutare chi è in difficoltà rischia di distoglierlo dal rimettere ordine nei conti). Ma i veri leader guidano l'opinione pubblica, non si fanno guidare da essa.
Forse è il timore dell'inflazione - creazione di liquidità, monetizzazione dei debiti... - la pulsione più profonda che guida gli atteggiamenti tedeschi. Una pulsione che ha imposto, nel Trattato di Maastricht, di negare alla Bce il finanziamento diretto dei deficit pubblici. Un divieto che è giustificabile storicamente: come già disse il duca di Saint Simon nella Francia del Settecento, il potere di stampare banconote può essere abusato in una monarchia assoluta, dove la creazione di moneta è soggetta alle «necessità di guerre mal condotte, alla rapacità di ministri, favorite o amanti, alla prodigalità di un sovrano...». E tanti altri episodi lo confermano, fino all'iperinflazione della repubblica di Weimar, ancora marchiata a lettere di fuoco nel conscio e nell'inconscio dei cittadini tedeschi. Ma anche qui, è necessario distinguere. In una democrazia la creazione di moneta è un'arma della politica economica come le altre, una medicina di cui calibrare il dosaggio ma cui sarebbe irrazionale rinunciare. Come ha detto un insigne economista, Willem Buiter (già membro del direttorio della Bank of England), la proibizione totale di creare liquidità prestando direttamente soldi ai Governi non sta in piedi: «Solo perché lo strumento può essere abusato non vuol dire che non bisogna usarlo. Nell'acqua si può annegare, ma questo non vuol dire che non se ne possa bere un bicchiere quando preme la sete».
Sta alla leadership tedesca spiegare ai propri concittadini quanto abbiano beneficiato dall'unificazione economica e monetaria. È necessario spiegare come l'aiuto - una condivisione del debito pubblico europeo, una predisposizione sollecita e adeguata di salde reti di sicurezza, una esortazione alla Bce di farsi parte attiva nel sostegno monetario a Paesi in crisi ma meritevoli - non sia un fatto di carità ma di illuminato tornaconto. La posta in giuoco è troppo alta per proseguire in una politica di piccolo cabotaggio, volta a strappare concessioni e a giocare su interessi contrapposti. È tempo di dichiarare chiaro e forte l'interesse alto dell'Europa intera, così da fare di questa crisi un trampolino verso una sovranità europea che diventa maggiore della somma delle rinunce di sovranità nazionali. Così come - scriveva Riccardo Bacchelli - chi reciti nel Padre nostro il «sia fatta la Tua volontà» non rinuncia alla propria individualità ma, misteriosamente, la esalta, una «volontà europea» diventa per ogni Paese un piedistallo che ne innalza nobiltà e statura.
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