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« inserito:: Gennaio 28, 2008, 11:49:18 am » |
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La trasformazione del Nord rebus irrisolto della sinistra
Rinaldo Gianola
Tra i rifiuti di Napoli, il governatore siciliano Cuffaro condannato a cinque anni di carcere e Clemente Mastella da Ceppaloni che fa saltare il governo, parlare dei problemi del Nord può apparire oggi una provocazione. Ma un gruppo di storici, economisti, sociologi coordinati da Giuseppe Berta docente di Storia contemporanea all’Università Bocconi, ha messo insieme un volumone dal titolo evocativo: «La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione». La lettura del lavoro, pubblicato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, potrebbe essere di grande aiuto, e lo diciamo senza malizia, per quei leader del centrosinistra che continuano a interrogarsi, senza trovare risposte risolutive e vincenti, sui motivi per cui è così difficile colloquiare, convincere e conquistare il consenso di una parte economicamente importante e politicamente sensibile del Paese.
Berta spiega che la ricerca non vuole rimuovere la questione meridionale, nè rivendicare un primato del Nord a scapito di altre aree. Semplicemente l’indagine «sulla trasformazione» del Nord offre una chiave interpretativa alla faticosa combinazione dell’area più produttiva e ricca con il resto del Paese. Se per i torinesi è più facile andare in treno a Parigi che a Roma o se la Lombardia, che produce il 20% del Pil nazionale, fa più affari con la Germania che con la Sicilia, qualche ragione ci sarà.
La questione riguarda ovviamente imprese, operai, giovani, professioni, come vedremo, ma la prima metamorfosi del Nord è una crescente uniformità «fisica», una città diffusa, una continuità geografica che trova un’identità di fondo nella forma di organizzazione della vita sociale e dell’impresa. Dice Berta: «In un certo senso io sono un caso tipico. Abito a Torino e insegno a Milano, due città sempre più simili e vicine, nonostante rivalità, gelosie, sovrastrutture ideologiche e politiche. Se prendo il treno a Torino, passo per Milano e arrivo fino a Venezia attraverso ormai un grande territorio dominato da una continuità urbana, pur disordinata, che ha una sua coerenza. Tra Nord ovest e Nord est non ci sono più le grandi differenze di un tempo. La grande industria e la forte specializzazione di Torino o Milano oggi le trovo anche nel Nord est e, d’altra parte, la rete delle piccole imprese è diffusa ovunque nel settentrione». Ma sotto il profilo produttivo la novità più rilevante è l’affermazione della media impresa (da 50 a 499 dipendenti), come descrive il saggio di Fulvio Coltorti, responsabile di R&S di Mediobanca: queste aziende, è vero, sono sempre esistite, ma solo nell’ultimo decennio hanno realizzato «le migliori performance sotto l’aspetto dello sviluppo, dei risultati economici e della solidità finanziaria».
Anche l’espansione della media impresa ha contribuito probabilmente a determinare il cambiamento urbano del Nord, diventato una sorta di grande metropoli che polarizza masse di aziende, banche, risorse finanziarie, concentrazioni di lavoratori, immigrati e professioni. «Gli indicatori lo dicono chiaramente - spiega Berta - la forma urbana tipica del Nord è ormai l’area metropolitana, anzi di più aree metropolitane contigue e, nonostante le carenze infrastrutturali, sempre più integrate. La caratteristica principale di queste aree è la concentrazione dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”, un fenomeno ben visibile a Milano dove è la città, l’assetto metropolitano ad offrire opportunità di formazione, lavoro, ricerca, sviluppo, a lavoratori di ogni livello: precario, flessibile, associato, dipendente, professionale». Chi vive in queste metropoli del Nord, soprattutto i giovani, è pronto a guadagnarsi da vivere e a crescere «manipolando, formando, integrando» la conoscenza, abbeverandosi al sapere diffuso che la metropoli rende accessibile. Ma la diffusione del modello metropolitano rende più incerti e paurosi i cittadini, che sentono di perdere protezioni e garanzie, comprese quelle collegate alla sicurezza nelle strade delle proprie città.
La realtà, dunque, è l’individuo, il lavoratore solo, anzi isolato con la sua conoscenza, la sua professionalità e i suoi problemi anche di rappresentanza sociale. E qui arriviamo alla politica, al sindacato, alla sinistra. L’operaio fordista, paradigma di riferimento per decenni, è una realtà ancora ben salda e diffusa al Nord, ma gli operai, purtroppo, «non sono più quelli che danno il timbro alla realtà sociale». L’amato Cipputi è forte, ma non come un tempo. Fino a venti, trent’anni fa tra Rivalta e Mirafiori si trovava il mondo operaio. Allora nella provincia di Milano, una delle più grandi concentrazioni industriali europee, lavoravano 200mila metalmeccanici. Adesso non ci sono più queste masse che si andavano a trovare fuori dai cancelli delle fabbriche, con le loro reti di solidarietà sociale, di condivisione di stili di vita e valori. Ora bisogna rincorrere migliaia, milioni di nuovi lavoratori, precari, flessibili, specializzati, poveri e ricchi, tra new economy e realtà virtuale, informatica e telematica. Chi li rappresenta, chi li cerca, come si organizzano? Eppure sono il vero valore aggiunto, l’autentico motore della nostra economia. Dalla centralità della fabbrica bisogna passare alla centralità della metropoli, ma non è la stessa cosa.
In più va sottolineato l’impatto fortissimo della presenza femminile. Le donne, giustamente, non sono ancora soddisfatte della loro affermazione nel mondo del lavoro, ma Berta rileva che ormai nelle grandi aree del Nord l’occupazione femminile, nell’età tra i 25 e i 60 anni, raggiunge livelli medi europei. E la loro presenza cresce nelle professioni alte, di qualità, nei ruoli di direzione e di responsabilità. Dice Berta: «Gli eccellenti risultati scolastici delle donne pesano sempre di più e basterebbe verificare com’è cambiata la composizione di certe facoltà di economia per comprendere l’importanza delle donne». E sul lavoro ci sono gli immigrati, fattore decisivo per lo sviluppo e il successo del Nord. Gli stupidi leghisti non sono ancora riusciti a capire che le loro fabbrichette non funzionano senza gli immigrati: prima sono arrivati quelli che vivevano nelle paludi acquitrinose della Bassa, poi i meridionali, adesso i magrebini. Senza gli immigrati, il Nord muore. «Il Nord non basta a se stesso - analizza Berta - non si fanno figli. Ma il modello culturale del Nord è così forte che si impone anche agli immigrati che smettono di fare figli».
Ma se cambia così in profondità il tessuto sociale, produttivo, se dalla multinazionale siamo passati al capitalismo personale come sostiene Aldo Bonomi, se mutano le figure di riferimento, cosa succede ai corpi intermedi di rappresentanza? Chi rappresenta gli interessi? Dov’è la sintesi politica? Che fine fanno partiti e sindacati? «Non c’è dubbio - spiega Berta - che siamo in presenza di un depotenziamento della rappresentanza intermedia dei corpi sociali, c’è una crisi che coinvolge partiti e sindacati davanti alle mutazioni del tessuto economico del Nord, fanno fatica a seguire questi cambiamenti. Questo fenomeno mi pare assai forte nei partiti. Una volta quando funzionavano il Pci e la Dc c’era una selezione del personale politico. I comunisti non regalavano un seggio parlamentare a uno qualunque, c’erano il tirocinio, la formazione, la scelta. Adesso dove sono quelli bravi?». Questa carenza, questa incapacità di rappresentare le nuove realtà sociali è particolarmente pesante per la sinistra. Berta fa un esempio famigliare: «Sono nato a Vercelli, capitale del bracciantato e delle mondine. Una città con una precisa base sociale, radicale e radicata, con la sinistra che ha sempre svolto un ruolo di rappresentanza, di garanzia. Scomparsa, o ridimensionata, quella base, la sinistra è quasi svanita, è stata incapace di trovare nuovi riferimenti, quasi non sapesse parlare altri linguaggi oltre a quelli conosciuti, del passato».
Dispiace dirlo ma chi ha rappresentato la mutazione violenta del Nord sul mercato dei voti negli ultimi vent’anni del Novecento è stato Berlusconi, più di Craxi e dell’antipolitica della Lega. Scrive Berta: «Forza Italia può essere giudicato un partito di plastica soltanto da chi non si rassegna ad accettare la mutazione delle forme della politica. Partito-azienda, questo sì, che promuove la leadership del suo fondatore come un prodotto sul mercato elettorale, mediante le tecniche del marketing e della pubblicità, a lungo sperimentate dal corpo dei venditori di Publitalia. Aggiungedovi in più l’ingrediente del tifo, di una passione per il successo e per il risultato che si rifà a un senso di appartenenza post-moderno, trasversale e mediatico, come quello promosso dal calcio. Sarebbe entrato in politica Berlusconi, se non avesse avuto alle spalle l’esperienza del Milan? Difficile dirlo, anche se è indubbio che il test fondamentale della sua popolarità sia stato a San Siro». Allora cosa dobbiamo fare per sconfiggere Berlusconi? Mettere assieme una squadra di calcio?
Pubblicato il: 27.01.08 Modificato il: 27.01.08 alle ore 6.57 © l'Unità.
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