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Autore Discussione: Andrea Malaguti L’umanità tra Marte e l’età della pietra.  (Letto 329 volte)
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« inserito:: Novembre 13, 2024, 01:00:38 am »

L’umanità tra Marte e l’età della pietra

Andrea Malaguti
13 Ottobre 2024 alle 01:00

“Grazie ai prodigiosi progressi della scienza potremmo mettere fine a ogni calamità, ma la nostra incapacità di gestire i rapporti tra le varie componenti dell’umanità mette in pericolo tutto ciò che abbiamo realizzato”. (Amin Maalouf, presidente dell’Accademia Francese)

È la realtà che, ancora una volta, si incarica di liquidare i nostri ideali. Traduco liberamente Amin Maalouf, ascoltato a Parigi alla conferenza per la Pace organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio: abbiamo a disposizione gli strumenti per vivere come dei, per sconfiggere le malattie, affrontare la transizione ecologica e garantirci un nuovo condiviso salto culturale attraverso immaginifici supercomputer, ma l’atavico istinto animale rischia di spedirci, nel tempo del viaggio di un razzo ipersonico, all’età della pietra. Nuova vita su Marte o ritorno a clave e caverne?
Se il Novecento aveva affidato alla politica il ruolo di grande regolatore dei conflitti, noi esseri umani del terzo millennio eravamo certi di poterci appoggiare alla radiosa opportunità dell’accelerazione tecnologica. Il processo scientifico e quello sociale sembravano improvvisamente sintonizzati, il mondo destinato ad un nuovo armonico equilibrio, sorretto dalla potenza rigenerativa dell’Intelligenza Artificiale.

Bello, peccato che fosse un’illusione. La violenza di Putin prima, i tagliagole di Hamas poi e l’ira fuori controllo di Netanyahu infine, ci hanno costretto a pensare che la Grande Utopia sia destinata a lasciare il passo a un risorto oscuro medioevo.
Usciti dalla seconda guerra mondiale, trascinati dall’onda d’urto scatenata dal Little Boy precipitato dalla pancia dell’Enola Gay, eravamo decisi a lasciarci l’orrore alle spalle grazie alla costruzione di invincibili e condivisi organismi internazionali a trazione americana. Se ottant’anni più tardi l’esercito israeliano, enclave occidentale in Medioriente, spara ripetutamente sui contingenti Unifil in Libano e irride le Nazioni Unite, significa che l’elastico della storia ci ha riportato al centro di una palude avvelenata. Che cosa andiamo cercando mentre ci spariamo tra di noi?
È stata la settimana dei Nobel. Due spiegano la divaricazione esistenziale alla quale faccio riferimento. Quello per la Pace, consegnato all’organizzazione non governativa Nihon Hidankyo, che raduna gli “hibakusha”, i sopravvissuti al disastro nucleare di Hiroshima e Nagasaki, e quello per la Fisica, attribuito a uno dei padri dell’Intelligenza artificiale, il settantaseienne Geoffrey Hinton, un genio in fuga, terrorizzato dalla sua stessa creatura, dal sospetto che gli algoritmi finiranno per prendere il sopravvento sull’uomo. Il primo Nobel vuole dire: non ne avete avuto abbastanza? Il secondo è un richiamo alla politica: collaborate con gli scienziati, non trasformateli in apprendisti stregoni.
Ammonimenti più che premi.
Il punto è che abbiamo perso il controllo. Siamo schiavi della tirannia delle emozioni negative, anticamera di una sempre più vicina disumanizzazione. In una sorprendente eterogenesi dei fini, i social e gli algoritmi, trombettieri assordanti di una supposta democrazia globale, sono diventati il cavallo di Troia dei trionfanti nazionalismi, ipnotizzati dalla più spaventosa delle sirene: possiamo tutto, ma a casa nostra e senza di voi. Un arcipelago di ego in conflitto. Così, derubricati gli scienziati ad élite fuori dal tempo, stiamo riscoprendo la guerra ai nostri confini e, cullati dal miraggio di una Valle dell’Eden Artificiale, rischiamo di dover scappare da casa con i materassi in testa come i nostri nonni. Non lo fanno già i libanesi, i gazawi, gli ucraini, i sudanesi, i siriani e mille altri popoli?
Ne parlavo questa settimana in un liceo di Torino, il Regina Margherita, dove si discuteva di intelligenza artificiale con i ragazzi. Dibattito serio, divertente. Assieme ad un collega di Sky e ad uno del Corriere della Sera. Un modo per farsi quelle domande che la politica non si fa più. Una, per esempio: passando le vostre giornate sui social, siete in grado di capire «Chi vi sta dicendo Cosa e Perché?». Avete idea di chi manovra gli algoritmi? Di chi costruisce la vostra sensibilità? Orienta i vostri gusti? Siete voi a usare i social o sono i social a usare voi?
Il livello di consapevolezza dei ragazzi mi è sembrato superiore alle aspettative e confesso che il cuore di quello che sto scrivendo me l’ha ispirato uno di loro, che, mentre lasciavo la scuola, mi ha inseguito per dirmi: «Io li capisco i suoi dubbi sull’intelligenza artificiale (credo che il perfido sottotesto fosse: alla sua età è ovvio essere refrattari ai cambiamenti), ma non crede che dovremmo avere più paura della bomba atomica e dello sterminio della vita in Medioriente?».

Mi ha folgorato. Gli ho detto una di quelle cose da Bignami dell’ovvio: «Sì, lo credo. Ma la consapevolezza di un pericolo non impedisce di ragionare su un altro». Non ho convinto neppure me stesso. E così ho continuato a pensare alla surrealtà di un mondo sempre più in pericolo e sempre più tecnologico, finendo per arrivare alla solita conclusione: se la politica non governa i processi, sono i processi a governare noi, proprio come per i social.
Il fatto è che abbiamo – la politica ha – perso la pretesa di orientare la Storia. Ci muoviamo a compartimenti stagni, dimenticando il sistema. Ci scanniamo sulla finanziaria. Poi passiamo al dossieraggio. Poi ai guai internazionali. Poi al prossimo problema. Come se ogni cosa fosse slegata dall’altra. Non ci sono orizzonti larghi. Solo situazionismo. Uso le parole di Marco Follini: «Un tempo era tutto fortemente ideologico. Non so se fosse un bene, ma permetteva di avere visioni di sistema. Oggi la nostra coscienza non elabora collettivamente quello che ci succede e di conseguenza siamo vittime di chi ha più capacità di forzare il gioco». Riferimento esplicito a Netanyahu, che attaccando l’Onu attacca il mondo.
Eppure qualcosa si muove. Sanchez, Macron e Meloni, per esempio, che condannano congiuntamente gli attacchi israeliani alle forze delle Nazioni Unite, come se da qualche parte esistessero ancora dei valori condivisi. Un piccolo risveglio o l’ultimo vecchio arnese dialettico del mercato delle occasioni? Mistero. Lo reggiamo il peso del tempo che ci attraversa? Altro mistero. La «mediocrazia», sostiene il sociologo Byung Chul Han, è al tempo stesso una «teatrocrazia». La politica si esaurisce in messinscena massmediali, in cui le performance contano più degli argomenti. Servono risposte strutturate adesso, prima che l’accelerazione bellica superi quella tecnologica. Almeno per togliersi lo sfizio, una volta ripreso il controllo, di farsi una nuova domanda: se l’Intelligenza artificiale prendesse il sopravvento su quella naturale, porterebbe la pace o alimenterebbe nuove guerre?

Sembra un quesito per passare al nuovo livello di un videogame e invece è una questione seria. E ha ragione ancora una volta Amin Maalouf, libanese che presiede l’Accademia di Francia: «All’inizio di questo secolo possiamo aver pensato che la battaglia per la pace nel mondo fosse già vinta. Oggi sappiamo che non è stato così e che avremo ancora bisogno di lucidità, di perseveranza e soprattutto di molta inventiva per mettere il futuro fuori pericolo».

Da - https://www.lastampa.it/editoriali/l-editoriale-andrea-malaguti/2024/10/13/news/l_umanita_tra_marte_e_l_eta_della_pietra-14712572/?ref=LSHAE-BH-P1-S1-T1
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