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Autore Discussione: Franco Angioni: «C’è una guerra, anche gli italiani sono a rischio»  (Letto 3658 volte)
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« inserito:: Giugno 26, 2007, 09:40:32 pm »

Franco Angioni: «C’è una guerra, anche gli italiani sono a rischio»

Umberto De Giovannangeli


Ha vissuto sul campo, in prima linea, gli anni terribili della guerra civile e dell’invasione israeliana. Nella stagione dei rapimenti, di un conflitto interno che ha mietuto oltre 150mila vittime, il generale Franco Angioni è stato comandante delle forze Nato in Libano. Le sue considerazioni sul drammatico presente nascono dall’esperienza acquisita sul terreno. «Non dobbiamo farci illusioni - avverte Angioni -: la "strategia del sorriso" per quanto importante non ci rende immuni da attacchi terroristici».

Generale Angioni, l’attentato contro i caschi blu spagnoli nel Sud Libano è una dichiarazione di guerra all’Unifil?
«Penso che sia sbagliato parlare di dichiarazione di guerra, non tanto per una questione di carattere semantico, ma perché in guerra ci siamo già, mentre la dichiarazione, secondo la terminologia antica del Diritto internazionale, segnava il passaggio da uno stato di pace ad uno di guerra. C’è poi un secondo motivo: io credo che più continuiamo a parlare di guerra al terrorismo, più offriamo un alibi a coloro che la guerra la vogliono fare per davvero, cioè i terroristi. Non voglio dire che dobbiamo abbassare la guardia, ma la guerra dobbiamo continuare a farla senza deleteri squilli di tromba…».

Calata questa considerazione nello specifico libanese, cosa significa?
«Significa che dobbiamo cessare di ragionare a compartimenti stagni. Oggi non si può più parlare di Vicino Oriente, di Medio Oriente, di Medio Oriente allargato…, perché il fronte è unico, senza tanti distinguo: dall’estremo confine orientale dell’Afghanistan, considerando il Pakistan un confine particolarmente instabile, attraverso l’Iran, l’Iraq, la Siria, il Libano, la Giordania, Israele, i Territori palestinesi, il Libano, si arriva senza soluzione di continuità a saldare un unico fronte, che si estende dal Mediterraneo ai confini della Cina. È triste ma, purtroppo, se vince un approccio riduttivo al problema, il problema ci sfuggirà di mano, con conseguenze negative incalcolabili»..

Sulla base della sua esperienza personale, i nostri soldati in Libano devono temere?
«Certo che sì. Non è possibile pensare che una operazione militare non sia a rischio, specialmente oggi con la guerra asimmetrica, molto più scivolosa, imprevedibile, della guerra tradizionale. Lo è stato nel Libano di 24 anni fa, lo è stato in Somalia, lo è stato a Sarajevo, lo è stato a Nassiriya, lo è in Afghanistan, lo è in Libano oggi. Ed è inutile illudersi dei sorrisi dei bambini, che ci sono stati e ci saranno sempre con gli italiani, perché comportarsi umanamente è nel nostro dna. Ma quando questo significa abbassare la guardia, significa nello stesso tempo fare un regalo al terrorismo. D’altro canto, era prevedibile che alla vigilia del summit di Sharm el Sheikh, Al Qaeda o chiunque ad essa collegato, avrebbe fatto sentire la propria voce. E quando questa voce parla, ci sono soltanto dei cadaveri. Non dobbiamo mai dimenticare che nel mirino dei jihadisti non c’è solo l’Occidente e Israele, ma anche le leadership arabe e musulmane moderate».

Hezbollah ha condannato l’attentato dell’altro ieri. Quanto è sincera questa condanna?
«Al 95%, perché Hezbollah ha qualche "riottoso" nelle proprie fila, anche se per il momento è ben controllato dal "moderatismo" di Nasrallah (il leader di Hezbollah, ndr.), che persegue obiettivi politici; obiettivi che non sono completamente sovrapponibili a quelli dell’Occidente, ma che per il momento sono molto distanti da quelli del terrorismo. Ed è proprio questa distanza che può spiegare questa offensiva terroristica scatenata da gruppi anti-sciiti che puntano a riproporre in Libano lo scenario iracheno: una guerra civile che fa leva anche su contrasti religiosi tra sunniti e sciiti».

Come valuta il tentativo di coinvolgere anche la Siria nel processo di stabilizzazione regionale?
«In questa guerra asimmetrica non si può sbattere la porta in faccia a nessuno, né si può agire indiscriminatamente, provocando troppo alla leggera effetti collaterali. Una considerazione che si adatta perfettamente alla realtà siriana. In Siria c’è una parte della comunità, tra l’altro abbastanza fedele al presidente Bashar el Assad, che vuole disperatamente contrastare la volontà della vecchia guardia. Aiutiamola».



Pubblicato il: 26.06.07
Modificato il: 26.06.07 alle ore 13.57   
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 04, 2007, 10:35:22 am »

4/7/2007 (7:46) - INTERVISTA

Ban Ki-moon: "Assad basta armi al Libano"
 
Il segretario generale delle Nazioni Unite arriva oggi a Torino: «Al Valentino nascerà la mia task force per le crisi internazionali»
MAURIZIO MOLINARI


ROMA
Ho chiesto ad Assad di bloccare l’arrivo illegale di armi in Libano». Completo blu, modi cortesi e volto sorridente Ban Ki-moon è un Segretario generale dell’Onu che fa attenzione alle forme ma ama parlare chiaro. Nell’albergo romano trasformato del quartier generale della missione italiana, incentrata sulla Conferenza sull’Afghanistan, Ban sfrutta l’intervista con «La Stampa» per tracciare un bilancio dei primi sei mesi al Palazzo di Vetro svelando un progetto imminente: riunire a fine agosto a Torino tutti gli alti funzionari Onu per trasformarli in una task force.

L’attentato contro l’Unifil è stato il più grave subito dall’Onu dopo quello di Baghdad nel 2003. Da dove vengono i pericoli per i caschi blu in Libano?
«Il pericolo in Libano viene dalle divisioni politiche locali e dal traffico di armi. Tocca ai leader unirsi anziché ricorrere alla violenza. Riguardo alle armi nel rapporto che ho presentato al Consiglio di Sicurezza sull’applicazione della risoluzione 1701 ho suggerito la necessità di rafforzare le capacità di controllo delle forze libanesi lungo tutti i confini per evitare il traffico illegale. E’ un problema molto serio perché queste armi creano instabilità e pericoli».

Un rapporto dell’esercito libanese punta l’indice contro la Siria come fonte dei traffici di armi. Quali sono i possibili rimedi?
«Ne ho parlato personalmente con il presidente siriano, Bashar al Assad, facendo presente che è assolutamente necessario che i controlli aumentino su entrambi i lati del confine per fermare l’afflusso di armi. Ovviamente lui ha negato l’arrivo di armi dalla Siria ma al tempo stesso ha ammesso una certa debolezza nel controllare un confine lungo, montagnoso e poroso. Da qui la necessità di varare controlli più stretti».

Il terrorismo incombe anche sulla ricostruzione in Afghanistan di cui ha discusso a Roma. Come giudica la situazione sul terreno?
«Sono rattristato per le numerose vittime civili. Ne ho parlato a Kabul con Karzai e con il comandante dell’Isaf. Le vittime dipendono dai taleban che colpiscono facendosi scudo con i civili. Mi rendo conto che è difficile distinguere i taleban dai civili durante le operazioni militari ma i comandi devono adottare ogni precauzione per evitare le vittime. Lo sforzo nobile della comunità internazionale per la ricostruzione rischia di essere recepito negativamente dalla popolazione. Il contributo che il governo può dare è un maggiore impegno contro la corruzione».

Lei ha indicato nell’emergenza umanitaria in Darfur una delle priorità dell’Onu. Quale contributo si aspetta dall’Italia?
«L’accordo è affidare i negoziati alla guida di Onu e Unione Africana. Vogliamo velocizzare il dispiegamento della forza di pace. Nei prossimi due mesi aumenteremo gli sforzi su quattro fronti: riconciliazione politica, assistenza umanitaria, schieramento della forza di pace e sviluppo. Questi processi devono procedere assieme, grazie alle risorse internazionali, per affrontare emergenze come la carenza di acqua potabile».

Vede un ruolo per l’Italia su questi quattro fronti in Darfur?
«Certo, perché l’Italia è un partner importante dell’Unione Europea, il sesto Paese contributore dell’Onu e l’ottavo fornitore di forze di pace. Il valore del sostegno italiano è stato confermato in occasione di questa visita, con la decisione del governo di versare mezzo milione di euro per lo Staff College di Torino e quella della Regione Piemonte di contribuire nei prossimi tre anni con 268 mila euro all’addestramento del personale Onu. In totale si tratta di circa 800 mila euro che ribadiscono un forte sostegno italiano all’Onu, del quale sono molto grato».

Oggi lei arriva a Torino, che posto ha questa città nella geografia dell’Onu?
«Roma, Brindisi e Torino sono tre città dell’Onu in Italia. Torino è un vitale centro di formazione, per questo alla fine di agosto vi convocherò un seminario per tutti gli alti funzionari Onu sopra il grado di assistente Segretario Generale. Ci riuniremo per tre giorni a discutere dei progetti futuri, grazie al supporto dello Staff College. La mia idea di riforma verte sulla trasformazione di questi alti funzionari in una task force multifunzionale. Negli ultimi tempi l’Onu aveva dedicato poca attenzione alla preparazione dello staff. Conto sui tre giorni di lavoro nel Castello del Valentino per formare la task force».

Al Consiglio di Sicurezza è stallo sull’indipendenza del Kosovo per il veto russo. Teme che i kosovari procedano comunque verso il distacco dalla Serbia?
«Spero che i kosovari eviteranno passi unilaterali che destabilizzerebbero la situazione. E’ preoccupante che l’Onu non abbia ancora trovato un accordo sulla base del rapporto presentato dal mio inviato Athisaari. È la Russia che si oppone ma la Francia ha presentato un emendamento che suggerisce 120 giorni di transizione e se Mosca si opporrà ancora non vedo altre alternative. Ne discuteremo con il Consiglio di Sicurezza».

C’è molta curiosità in Europa su di lei. Chi la loda per ritmi di lavoro molto alti e chi si interroga su un suo eccesso di convergenze con gli Usa. Con quale filosofia guida l’Onu?
«Sono ugualmente vicino a tutti i 192 membri dell’Onu. Sono vicino all’Italia, alla sua storia e cultura, come agli Stati arabi ma certo mi sento vicino anche agli Usa per la tradizionale amicizia che hanno con il mio Paese, la Corea del Sud. Ho lo stesso approccio con ogni Paese membro. Questa è la mia filosofia, che è possibile realizzare solo decidendo di porre gli interessi degli altri di fronte ai propri. E’ il mio curriculum a dimostrare che mi sono sempre messo a disposizione per trovare accomodamenti. Negli ultimi sei mesi non ho risparmiato tempo e risorse per l’Onu, senza poter essere accanto alla mia famiglia come avrei voluto».

da lastampa.it
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