Concorrenza
L’ultima dei balneari: non faccio le gare e ti chiudo l’ombrellone
di Gianfrancesco Turano 6 agosto 2024
La guerra dei lidi è all’ultima spiaggia. I gestori annunciano la serrata il 9 agosto perché entro dicembre bisogna mettere in pratica la direttiva Bolkestein e aprire il mercato del turismo estivo. Che fattura decine di miliardi e paga canoni ridicoli allo Stato
Sull’estate torrida incombe la minaccia definitiva. Non è la siccità, non sono le code in autostrada, non è l’alta velocità che funziona a corrente alternata. Sib-Confcommercio e Fiba-Confesercenti, i due principali sindacati dei balneari, hanno annunciato la serrata degli ombrelloni il 9 agosto se il governo non si impegnerà a favore dei gestori di lidi entro l’inizio delle vacanze parlamentari, previsto fra il 7 e il 9 agosto. In mancanza di ciò, il solleone si abbatterà sulle epidermidi dei bagnanti, senza differenza di età e di fototipo, a conclusione di una guerra durata anni e ormai perduta contro la direttiva Bolkestein sulla concorrenza.
L’ultimo rinvio a fine 2024, fissato da una legge del governo Draghi (118/2022), è davvero l’ultimissimo stavolta. La platea trasversale di parlamentari-lobbisti che dall’approvazione della direttiva nel 2006 si sono impegnati a ostacolare la messa a gara delle concessioni del demanio marittimo è sconfitta. Non per questo accetta la resa senza condizioni, a dispetto di una batteria di sentenze sfavorevoli e nonostante lo spettro della procedura di infrazione dell’Ue, con relativa sospensione delle rate del Pnrr.
Dopo due tentativi di inserire gli indennizzi ai gestori uscenti nel decreto coesione e nel decreto agricoltura patrocinati dal vicepremier Matteo Salvini e bocciati dal resto del governo, dopo il fallimento clamoroso della mappatura spedita a Bruxelles per dimostrare che le spiagge italiane non sono una risorsa rara perché se ne contano tremila chilometri in più di quanto misurato dai geografi, l’ultima trincea è: subiamo le gare ma dobbiamo essere risarciti di quanto investito nei decenni.
Un po’ come se una società autostradale privata in scadenza chiedesse indietro i soldi dell’asfalto e delle gallerie, una cosa che peraltro nel delirio concessorio nazionale è anche successa con la contestata clausola di subentro.
Nella versione originale dell’emendamento era lo stesso concessionario a stabilire il valore dei manufatti inamovibili cioè quella quota di cementificazione che, secondo l’articolo 49 del Codice della navigazione, dovrebbe essere incamerata dallo Stato al termine del contratto di concessione. Il tutto all’insegna della massima deregulation per difendere una figura retorica. È quella del balneare-tipo, una famiglia italiana tradizionale che ha tre mesi l’anno per fare quadrare i conti.
Come tutti i luoghi comuni, è una rappresentazione con qualche elemento di realtà. Ma il mondo del turismo da spiaggia si sta adeguando alla crescita, disordinata e preoccupante, dell’industria turistica. L’estate non è più da un pezzo la piadina della nonna al lido Romagna Mia. Ci sono realtà, private o in forma di public company come a Bibione sull’Adriatico, che fatturano milioni di euro con tariffe a volte popolari, altre volte tali da scandalizzare persino Flavio Briatore, non proprio un sostenitore della colonia in stile sovietico.
L’allarme prezzi non è l’unico. Il procuratore generale presso la Corte dei Conti, Pio Silvestri, ha delineato un altro tipo di rischio, anche a rischio di valicare il limite della sua giurisdizione di competenza. Nella sua requisitoria a sezioni riunite del 27 giugno il magistrato contabile ha affermato: «Sulle concessioni demaniali serve una disciplina quadro in linea con il rispetto delle prescrizioni Ue e delle decisioni degli organi giudiziari nazionali. La disciplina del nuovo codice dei contratti potrebbe soccorrere per definire il sistema di affidamento delle nuove concessioni, attraverso gara pubblica, per garantire un gettito corrispondente al valore del bene, e almeno limitare le possibilità di infiltrazione della criminalità organizzata in un settore che offre ampi margini per il riciclaggio dei proventi dei traffici illeciti».
Sulle infiltrazioni del crimine organizzato la Dda di Roma è intervenuta più volte sugli stabilimenti del litorale e, per esempio, sul Village di Ostia Lido, considerato il lido del clan Fasciani.
Ma quando Silvestri parla di «gettito corrispondente al valore del bene» per le casse dello Stato, l’obiettivo sembra ancora molto lontano. Secondo i dati dell’Agenzia del Demanio che l’Espresso è in grado di anticipare, anche il 2023 è stato un anno di magra per il canone che l’Erario incassa dalle concessioni marittime. Su circa undicimila concessioni che includono il settore turistico-ricreativo, gli ormeggi, i porti turistici, l’acquacoltura e la cantieristica, il canone richiesto è di 139,5 milioni di euro mentre la riscossione effettiva è di 112,7 milioni di euro con un’evasione del 19,2 per cento. Nel 2002 la richiesta è stata di 107 milioni di euro con una quota di evasione stabile intorno al 20 per cento. Se si restringe il campo alle concessioni turistico-ricreative, ossia a stabilimenti, lidi, camping e chioschi, il canone richiesto è di 95,3 milioni e l’incasso effettivo è di 77,8 milioni con mancati pagamenti al 18,4 per cento.
Il settore dove l’evasione è più alta riguarda approdi, ormeggi e porti turistici con il 28 per cento su 11 milioni di euro di canone. Nell’insieme, ogni concessione marittima nel 2023 è costata in media 5414 euro all’anno rispetto ai 5226 euro del 2022 quando il canone minimo era di 2700 euro annui.
Il raffronto con il giro d’affari è impietoso. Il peso del turismo sul pil italiano varia, secondo i calcoli, tra 215 e 255 miliardi l’anno con un apporto superiore al 10 per cento. Un terzo di questa somma viene dalle attività legate alle spiagge, secondo i calcoli del deputato Fdi Riccardo Zucconi, membro della commissione attività produttive della Camera ma soprattutto storico imprenditore del settore in Versilia. Sul mare della Versilia aveva investito anche la collega di partito Daniela Garnero Santanchè, ministra del turismo e fondatrice del Twiga insieme a Briatore, da lei sottilmente redarguito in un’intervista al Corriere della sera nella polemica sul caro-Puglia. I prezzi li fa il mercato, ha detto la ministra sotto inchiesta a proposito della regione che sta conoscendo il maggiore boom di turisti estivi, anche grazie al G7 a conduzione italiana tenuto nel resort preferito di Giorgia Meloni a Borgo Egnazia in Salento.
L’unica entità sorda alle leggi del mercato invocate da Santanchè e a quelle del buon senso evocate da Briatore, è lo Stato. Borgo Egnazia è un resort cinque stelle lusso che nel 2023 ha pagato 5983,82 euro di canone, più o meno quanto costa in questo periodo una camera da due con colazione per tre notti.
Fino a quattro estati fa il canone minimo per una concessione balneare era di 360 euro, pari a una cinquantina di Magnum Algida. Nel 2020 il premier Mario Draghi ha aumentato il canone minimo a 2500 euro con decorrenza 2021. Nel 2023 dopo una serie di aggiornamenti Istat il canone è salito a 3377,50 euro. Quest’anno le oscillazioni dell’adeguamento prezzi hanno la freccia in basso, visto che il minimo per il 2024 è sceso a 3225,50 euro.
Nella giungla delle concessioni la Sardegna, punto di riferimento del turismo balneare con 700 chilometri di costa balneabile, è stata spesso al centro di polemiche. Secondo un rapporto di Legambiente, nel 2020, con il canone minimo a 360 euro, il comune di Arzachena, l’entità amministrativa municipale di Porto Cervo in Costa Smeralda, aveva versato in tutto 19 mila euro per 59 concessioni (322 euro in media). L’anno scorso su 2777 concessioni complessive, solo 245 pagano più di quattromila euro e 123 più di diecimila.
Dal calderone dei canoni di Stato sono esclusi i contributi della Sicilia perché la prima regione marittima d’Italia, con oltre 900 chilometri di costa balneabile, gestisce i canoni attraverso un suo demanio marittimo, in una sorta di anticipazione dell’autonomia differenziata. Ma le posizioni politiche restano le stesse degli altri balneari. Quindi, no alla Bolkestein e rinnovo delle concessioni in essere fino al 2033, cioè per altre nove stagioni, prima di rimettersi in riga con i dettami di un governo che non può rischiare di perdere un euro di Pnrr per difendere il motto “per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia, stesso balneare”.
I canoni bassi non sono frutto del caso. Nelle ultime legislature gli imprenditori del settore hanno indirizzato i processi legislativi con rappresentanti di varia tendenza politica: Umberto Buratti da Forte dei Marmi per il Pd, Massimo Mallegni di Pietrasanta per Forza Italia, la romagnola Elena Raffaelli della Lega. A favore dello status quo si sono pronunciati spesso anche i leghisti Massimo Garavaglia e Gian Marco Centinaio mentre il democrat Eugenio Giani, presidente toscano, ha da poco approvato una norma sugli indennizzi.
La presa della lobby è ovviamente ancora più forte nei contesti delle amministrazioni locali dove il turismo di sdraio e ombrellone tiene in piedi i bilanci di molti elettori. Nulla di male, si chiama democrazia rappresentativa. Ma per lo stesso principio non si può eludere una legge dell’Europa. Non che siano mancati i tentativi davanti a ogni possibile istanza giuridica. L’elenco completo sarebbe noioso quanto un giorno di mare sporco. Per stare all’anno in corso, il 12 marzo il Consiglio di Stato ha ribadito: subito a gara le concessioni. L’ultimo colpo lo ha dato l’11 luglio la Corte di giustizia europea proprio su richiesta del Cds. All’origine c’è un ricorso amministrativo dei Bagni Ausonia di Castiglioncello, in provincia di Livorno. La proprietà dello stabilimento fa riferimento alla Siib della famiglia Piancastelli e la gestione è una delle più antiche d’Italia con data di inaugurazione il 2 giugno del 1928. La Corte europea ha definito «legittimi gli espropri con incameramento gratuito dell’immobile».
In altre parole, nessun indennizzo è dovuto a meno che il governo Meloni non accolga le proteste dei sindacati balneari, che ormai polemizzano con la premier come nemmeno la Cgil di Maurizio Landini. In cima alle richieste c’è l’abrogazione dell’articolo 49 del codice della navigazione.
A quel punto, il riscatto delle opere inamovibili, che in genere sono anche le più deturpanti sotto il profilo ambientale, dovrebbe finire a carico o del nuovo concessionario o del Comune che ha bandito la gara. Ma è proprio la mancanza di indicazioni tecniche sui bandi a minacciare con contenziosi infiniti il sistema che dovrebbe entrare in vigore nel 2025. A meno che i lobbisti non si inventino, una volta ancora, il gol in zona Cesarini.
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