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Autore Discussione: Robert B. Reich - Quando c’era Greenspan  (Letto 2636 volte)
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« inserito:: Gennaio 24, 2008, 06:28:44 pm »

Quando c’era Greenspan

Robert B. Reich


Fu nominato presidente della Federal Reserve, la banca centrale americana, in un momento in cui il keynesianismo, vale a dire la convinzione che il governo potesse saggiamente stabilizzare l’economia con la leva della spesa pubblica e delle tasse, veniva screditato e l’America aveva cominciato ad affidarsi, come mai prima, alla banca centrale perché si accollasse questo compito. Greenspan ebbe anche la fortuna di iniziare la sua carriera proprio mentre i repubblicani erano in ascesa. Fu attivo nella campagna presidenziale di Nixon nel 1968 e Nixon lo nominò presidente del Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca. Nel 1987 Reagan lo nominò presidente della Fed. Soprattutto, come rivelano le sue memorie, il potere di Greenspan dipendeva dalla sua profonda comprensione del modo in cui funziona nella realtà l’economia americana e non di come dovrebbe funzionare in teoria. (...) Il più importante lascito di Greenspan scaturisce dal suo impegno nei confronti di quanto era conoscibile e importante quando i modelli economici standard suggerivano soluzioni diverse. Sulla base dell’andamento dell’economia negli anni ’70 e ’80 questi modelli sostenevano che una crescita superiore al 2,5% l’anno e un tasso di disoccupazione inferiore al 6,5% avrebbero causato inflazione. I prezzi sarebbero aumentati in conseguenza delle richieste di aumenti salariali dei lavoratori e dell’esaurimento delle scorte nei magazzini dei fornitori. Nella primavera del 1996 l’economia americana cresceva al ritmo annuo del 6% e la disoccupazione era scesa ben al di sotto del 5,5%, il che faceva pensare che Greenspan e i suoi colleghi avrebbero dovuto rallentare la macchina. Ma Greenspan con il suo atteggiamento empirico vide una economia molto diversa da quella degli anni ’70 e ’80. (...) Greenspan convinse i suoi colleghi del consiglio di amministrazione della Fed a non aumentare i tassi e il resto è storia. «Non affrettandoci a rincarare il costo del denaro abbiamo aperto la strada al più lungo periodo di boom economico del dopoguerra». Il tasso di disoccupazione scese fino al 4% circa e, grazie alla domanda di lavoratori non qualificati, le disuguaglianze diminuirono sia pure temporaneamente. In genere si attribuisce a Bill Clinton il merito del boom degli anni ’90, ma in realtà fu la conseguenza della capacità di Alan Greenspan di guardare in maniera nuova all’economia high-tech che stavo emergendo in America e di rifiutare i modelli economici creati in epoche diverse. Il lascito più inquietante di Greenspan scaturisce da una fonte diversa. Da giovane trovò in Ayn Rand la guida morale di cui sentiva di avere bisogno per il resto della vita. Ayn Rand, fondatrice di una filosofia libertaria che in seguito defini «oggettivismo», aveva trasformato in virtù l’individualismo e l’egoismo illuminato e nutriva forti sospetti nei confronti di qualunque forma di iniziativa collettiva. Greenspan finì per condividere le opinioni di Ayn Rand. In particolare era scettico sull’utilità delle iniziative volte ad aiutare i meno fortunati. «Ciò che mi attirò di Reagan», spiega, «è stata la chiarezza del suo conservatorismo fondata sul concetto che l’amore severo e duro fa bene al singolo e alla società». Ciò «comporta minori interventi pubblici a favore delle persone più disagiate». Bill Clinton fu eletto nel 1992 in parte per disfare quanto Reagan aveva fatto. Clinton promise a tutti gli americani l’assistenza sanitaria, l’istruzione, la formazione professionale e altri interventi di cui avevano bisogno per adattarsi ad una economia in rapida trasformazione e promise inoltre di riparare le strade, i ponti e i porti trascurati da moltissimo tempo. Ma quando Clinton giunse alla Casa Bianca il deficit di bilancio era diventato talmente ingente che il presidente fu costretto a ridimensionare le sue ambizioni. Per ironia della sorte il deficit era schizzato alle stelle in larga misura perché Reagan aveva tagliato le tasse e incrementato la spesa pubblica per lo più nel settore della difesa. Pur essendo stato presidente del consiglio di amministrazione della Federal Reserve negli ultimi anni dell’amministrazione Reagan, le memorie di Greespan non indicano che abbia messo in guardia Reagan dalla crescita del deficit. È assai più probabile che Greenspan sia stato d’accordo con Reagan e con altri esponenti della sua amministrazione nel ritenere che il «deficit spending» (NdT aumento della spesa pubblica non finanziata dall’incremento delle entrate tributarie) sarebbe servito ad «affamare la bestia» costringendo qualunque successore democratico, come Bill Clinton, ad offrire meno sostegno ai cittadini più disagiati. All’inizio dell’amministrazione Clinton (io ero ministro del Lavoro e membro del governo di Clinton) siamo stati costretti a chiederci di quanto era necessario ridurre il deficit e, di conseguenza, quante parte del programma di Clinton doveva essere abbandonata. Greenspan sollecitò Clinton in termini perentori a considerare la riduzione del deficit l’obiettivo prioritario sacrificando tutto il resto. «La strada verso un futuro positivo, dissi al presidente eletto, passava dalla riduzione della traiettoria di lungo periodo del deficit federale». Ciò che Greenspan non disse a Clinton, ma che invece ammette nelle sue memorie, era che Reagan aveva scaricato su Clinton il peso della sua dissennatezza finanziaria, più o meno come i repubblicani avevano progettato di fare. (...) Se Clinton avesse tagliato il deficit, Greenspan avrebbe ridotto i tassi e avrebbe consentito una considerevole espansione dell’economia. Ciò avrebbe «reso molto positivi gli ultimi anni ’90» migliorando le probabilità di Clinton di essere rieletto. Ma se Clinton non avesse ridotto il deficit in misura adeguata, Greenspan non avrebbe tagliato i tassi e l’economia avrebbe continuato a zoppicare mettendo verosimilmente in forse la rielezione di Clinton. Greenspan ammette che «non dimenticava il fatto che il 1996 era un anno di elezioni presidenziali». In parole povere la sua era una estorsione politica. La scelta spettava a Clinton, ma Greenspan gli teneva una pistola puntata sulla tempia. (...) Il boom che seguì sembrò confermare la scelta di Clinton, ma in realtà fu solamente la conferma del potere di Greenspan. L’abbassamento dei tassi ebbe l’effetto desiderato, almeno sul breve periodo. L’economia fece un balzo avanti e Clinton venne rieletto. Negli anni che seguirono ci fu una vera e propria esplosione del gettito fiscale, il deficit di bilancio fu azzerato e all’inizio dell’amministrazione Bush il governo federale poteva contare su un significativo avanzo di bilancio. Per la prima volta da decenni l’America aveva le risorse necessarie per garantire l’assistenza sanitaria, l’istruzione e la formazione professionale e per mettere mano alle infrastrutture del Paese per ripararle ed ammodernarle. Ma Greenspan non si fidava che il governo avrebbe fatto queste cose. E quindi decise di sostenere l’ipotesi di un taglio delle tasse. (...) La testimonianza di Greenspan dinanzi al Congresso nel 2001, nella quale auspicava il taglio delle tasse, fu decisiva per garantire a George W. Bush l’appoggio politico di cui aveva bisogno per il gigantesco taglio delle tasse i cui vantaggi andarono quasi esclusivamente agli americani ricchi. Il taglio delle tasse di Bush prosciugò le casse federali azzerando nel giro di pochi mesi l’avanzo di bilancio ereditato da Clinton. Greenspan scrive che non intendeva sostenere apertamente la proposta di taglio delle tasse di Bush, ma l’affermazione appare insincera. (...) Ciò che Greenspan continua a considerare «pericoloso» era in realtà l’occasione drammaticamente persa di affrontare e risolvere i problemi di lungo periodo del Paese. (...) Ma in parte a causa del libertario Greenspan, anche se un democratico dovesse riconquistare la Casa Bianca nel 2008, il governo non avrebbe le risorse per fare ciò che è necessario. Le scuole primarie e secondarie degli Stati Uniti non avranno le risorse necessarie a garantire ai giovani provenienti dalle famiglie a basso reddito l’istruzione di cui hanno bisogno. Decine di milioni di americani continueranno ad essere privi di copertura assicurativa in caso di malattia e altre decine di milioni di americani faranno fatica a pagare il premio delle polizze già accese. Le infrastrutture americane continueranno a deteriorarsi. Lo scorso luglio è esplosa a New York una conduttura nella quale passava il vapore e risalente al 1914; ad agosto dell’anno passato è crollato a Minneapolis, uccidendo diversi automobilisti, un ponte che aveva quaranta anni. Ed infine, per tutte queste ragioni, continueranno ad aumentare le disuguaglianze. (...) Considerato il suo appoggio agli ingiusti tagli delle tasse a beneficio dei ricchi e la sua profonda avversione nei confronti dei programmi di Clinton a favore dei cittadini più poveri, le sue parole appaiono stranamente evanescenti se non addirittura ipocrite. Alan Greenspan, con il suo empirismo, ha dato un notevole contributo all’America ispirando il più lungo periodo di espansione economica della storia recente e riscrivendo le regole della politica monetaria. Ma Alan Greenspan, con il suo libertarismo alla Ayn Rand, ha causato al Paese una grave ferita. Robert Reich, già ministro del Lavoro con l’amministrazione Clinton, è professore di Politica pubblica all’università di California a Berkeley © IPS Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Pubblicato il: 24.01.08
Modificato il: 24.01.08 alle ore 12.42   
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