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I salari in Italia sono fermi da 20 anni, ma non è colpa dell’euro: le vere ragioni delle frenata delle retribuzionidi Lorenzo Forni*
Analisi veloce sulla crescita (o decrescita) delle retribuzioni a partire dall’introduzione della moneta comune. La copertura dall’inflazione e il balzo dei prezzi negli ultimi due anni
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Si è riavviato nelle ultime settimane un dibatto non nuovo, sulle ragioni della stagnazione dei salari reali in Italia. La questione è inequivocabile, specialmente nel confronto con gli altri paesi europei. Si contrappongono due posizioni: quelli che ritengono che la ragione sia dovuta ad una compressione dei salari nominali resasi necessaria per contenere i costi di produzione e rafforzare la competitività estera del Paese successivamente all’ingresso nell’euro e quindi nell’impossibilità di fare svalutazioni competitive della moneta; e quelli che invece ritengono che la compressione dei salari reali sia il risultato di una bassa crescita della produttività del settore produttivo italiano.
La produttività che langue e i salari fermi al palo
Diciamo subito che propendiamo per la seconda posizione. Diamo un’occhiata ai dati: basta guardare il livello del valore aggiunto per addetto in termini reali e delle retribuzioni per dipendente in termini reali nell’industria (in senso stretto, escludendo le costruzioni). Posto uguale a 100 nel primo trimestre del 1998. Per deflazionare le retribuzioni abbiamo usato l’indice dei prezzi al consumo. Partiamo dal 1998 perché nel maggio 1998 furono fissati i tassi di conversione tra le valute nazionali e l’euro e nel gennaio 1999 l’euro è stato introdotto come la valuta comune. I numeri confermano come le retribuzioni per dipendente siano cresciute poco negli ultimi 26 anni e come si sia registrato un significativo calo nel 2022 e 2023, quando l’inflazione ha rialzato la testa. Inoltre, la dinamica delle retribuzioni reali ricalca quella della produttività, misurata dal valore aggiunto per occupato. Anche i servizi — che rappresentano circa i tre quarti dell’economia italiana e che sono attività a maggior contenuto di lavoro che si concentrano nella ristorazione, nel turismo e nell’assistenza — hanno avuto una crescita della produttività praticamente nulla, mentre l’industria— che rappresenta circa un quinto dell’economia — ha fatto registrare un progresso intorno al 20%, basso ma non nullo.
la classifica
In Italia si guadagna meno che nel 1990, è l’unico paese Ue dove i salari reali sono scesi: il grafico
di Redazione Economia
La dinamica degli stipendi e il compito della politica
Se allora la bassa crescita dei salari reali è da attribuire alla bassa crescita della produttività, che cosa c’è che non torna nel ragionamento in base al quale l’ingresso nell’euro ci ha costretto a contenere i salari nominali per non perdere competitività esterna in una situazione di cambio fisso in cui non si potevano più fare svalutazioni competitive?
La questione è che da quando siamo entrati nell’euro il costo del lavoro in termini nominali per unità di prodotto è cresciuto in linea con l’obiettivo di inflazione della Banca centrale europea, non di meno (circa il 70% negli ultimi 26 anni, il che corrisponde a circa il 2% all’anno). Questo ci dice che i salari nominali unitari sono cresciuti in Italia, oltre la crescita della produttività, più o meno per coprire l’inflazione. Quindi non c’è stata una compressione della crescita dei salari nominali. Inoltre, l’Italia non ha un problema di competitività estera, le esportazioni vanno bene e nella gran parte degli anni abbiamo raggiunto un avanzo delle partite correnti e non un disavanzo che potesse richiedere una svalutazione per essere corretto. Quindi il problema della bassa crescita dei salari va ascritto al fatto che abbiamo una crescita della produttività bassa: è su questo aspetto che la politica economica deve ragionare nel tentativo di riportare il Paese su un sentiero di più elevata crescita strutturale.
*Università di Padova, Prometeia Associazione
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