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Autore Discussione: Lettera di un politico ad un regista, di Goffredo Bettini  (Letto 3273 volte)
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« inserito:: Giugno 25, 2007, 07:17:01 pm »

Lettera di un politico ad un regista
Goffredo Bettini


Il presidente della Festa del Cinema di Roma risponde all’intervento di Bernardo Bertolucci sugli intellettuali e la crisi della politica.



Caro Bernardo,
la tua lettera l’ho intesa come una critica affettuosa e dura sulla «povertà» della politica di oggi. Non vi ho trovato nostalgia. Ma desiderio di smuovere le acque, lanciando un sasso. Con quel tuo stile ad un tempo riservato (timido?) e combattivo, perfino intransigente. Hai ragione, la politica è povera ed anche molto debole. Ne so qualcosa, io, perché la pratico direttamente. Questa povertà produce estraneità. E tu te ne lamenti.

Certo, per noi, che siamo cresciuti tra e come comunisti italiani, tutto ciò è particolarmente doloroso. Il Pci (non parlo volutamente qui dei suoi errori e limiti) fu tuttavia un grande insediamento di popolo, con vincoli profondi umani, civili, ideali.

Non mi riferisco tanto ai libri di Marx o di Lenin. Che in fondo contavano assai poco fra i militanti. Mi riferisco a quella sensazione di svolgere una funzione utile, democratica, nazionale: di riscatto degli oppressi e di costruzione di una nuova Italia, in un mondo nuovo. Noi abbiamo, in fondo, vissuto gli ultimi scampoli della grande politica del ’900. Quella politica che non si accontenta di nascondersi dentro lo svolgersi naturale della storia; ma s’impenna e si erge contro di essa in un atto di volontà che tenta nuovi orizzonti.

Sappiamo come questa politica, nel secolo scorso, abbia prodotto meraviglie e immani tragedie. E tuttavia noi ricordiamo l’intensità di certe passioni, che certamente sono state decisive per migliorare la civiltà del nostro paese. Ma la fine del secolo, sappiamo, ha aperto nuovi scenari. Il crollo del comunismo realizzato; e l’emergere in modo implacabile dei crimini commessi nel nome di quel nome: comunismo.

E poi la fine del Pci: giusta politicamente, ma superficiale sul piano culturale, con il rischio di liquidare i valori di un mondo reale (quello dei comunisti italiani) per responsabilità in gran parte non nostre. E poi tangentopoli. La crisi dello stato. La lunga transizione confusa e ancora non conclusa. Fino al tempo dell’oggi, con un diffuso disgusto della gente per una politica che più perde peso e funzioni (la globalizzazione, l’Europa, i grandi poteri economici e finanziari) tanto più diventa presuntuosa, tronfia, vuota, enunciativa, propagandistica. Una volta giganti che hanno fatto la storia sapevano ascoltare l’umore del fruttivendolo, ora abbiamo nani che dichiarano con tono epocale e altezzoso parole che durano qualche ora sulle agenzie e che ambiscono, tutti, a poteri monocratici.

Che dobbiamo fare Bernardo? Defluire, appartarci, rinunciare a quella scintilla che ci impone (psichicamente e fisicamente) a prender parte, a batterci per i più deboli e gli offesi?

La tua lettera la prendo come un segnale di impegno. Importante, perché sei uno dei nostri grandi autori e intellettuali. Per me, con Pasolini, riferimento di tante battaglie giovanili. E allora ti dico cosa per me significa impegnarmi. Non mi sento di mimare le parole, le bandiere, i simboli del passato per evocare gratificanti scenari di rivoluzione e di cambiamento, i quali se un tempo si nutrivano di condizioni reali oggi appaiono perfino buffi nel loro carattere propagandistico e puramente scenografico.

No. Non ho l’animo per testimonianze senza frutto che possono portare qualche voto, qualche consolazione personale, qualche pacificazione interiore. Ma senza frutto. Allora è meglio il silenzio: il convento. Per studiare e tramandare ai posteri. Tuttavia non mi rassegno alla scomparsa della buona politica. A quella rinuncia, pure così diffusa, ad esercitare una della «tecniche» più nobili degli esseri umani: prevedere, differire, coordinare in nome della conservazione della specie e del miglioramento della vita. Pare nostra, l’epoca dell’indifferenza e delle soddisfazioni «vegetative» di tutto il possibile il più presto possibile. La politica perde ogni moralità.

Dominano l’economia e la tecnica (nella stupida speranza che siano in grado, sempre, di rimediare con il loro sviluppo ai mali prodotti dall’incoscienza dell’agire umano). È il trionfo del nichilismo. Nel quale siamo immersi.

Credo, invece, in una politica più sobria, misurata, cosciente dei propri limiti. Intensa perché volta al fare più che al predicare. Più difficile da praticare, così priva di punti di riferimento, di ideologie, di visioni globali. Eppure in grado di svolgere il proprio dovere negli spazi che oggi le sono concessi.

Caro Bernardo, per me il Partito democratico significa questo. C’è un’Italia allo sfascio, volgare e violenta, ma anche piena di risorse. Rimetterla in piedi, ricostruire la democrazia, un patto di cittadinanza nuovo e credibile. Semplificare la vita politica, rendendola più agile e meno costosa. Resuscitare la religione della Repubblica, un senso di comunità. Spingere per una Europeizzazione dell’Italia, offrendo al mondo le cose migliori che possiamo dare: cultura, scienza, capacità inventiva e produttiva, bellezze naturali. Insomma: modernizzare e umanizzare il Paese.

Questa è la rivoluzione che ci è concessa. Certamente questo processo per essere credibile, pretende l’esempio di una classe dirigente capace di grande responsabilità civica e pubblica; che non è sufficientemente diffusa. Il Pf dovrebbe aiutare a crearla. So anche che l’appartenenza a tutto ciò è più labile di quella così forte suscitata dalla grande politica.

Ma caro Bernardo, la grande politica (dobbiamo essere consapevoli di quello che siamo) ho l’impressione che per molto tempo non rinascerà dall’Italia e neppure dall’Europa. Se rinascerà, verrà dall’Asia, dalle grandi moltitudini, giovani e combattive, che esigono un loro spazio nella storia di oggi. La grande politica ha sempre avuto bisogno di un nuovo irrompere di milioni di esseri umani e di stati d’emergenza che impongono un nuovo agire. Mi auguro che questa nuova grande politica si riesca ancora una volta a sollevare, cosicché le popolazioni della Cina e dell’India non siano costrette a passare direttamente dai templi antichi ai blue jeans e alla coca-cola.

L’Europa silente non aiuta loro. Ma negli occhi degli abitanti di questi mondi c’è voracità di vita e voglia di combattimento dagli esiti non scontati. E tuttavia mi auguro, anche, che una possibile nuova stagione di grande politica non ci riporti i drammi del ’900. Quando perfino in Russia la forza di chi aveva invocato il riscatto non seppe fermarsi e varcò il limite dopo il quale gli antichi oppressi inevitabilmente si sarebbero, come è stato, trasformati nei nuovi oppressori, mutuando la vecchia violenza e natura del potere. Forse dalla terra asiatica, dove hanno pascolato il buddismo e la non violenza, la mitezza e il senso della misura, può giungere una grande politica, inedita, fondata sulla deterrenza, la dissuasione morale, l’esempio, l’apertura tra le persone e il rifiuto della guerra (su cui si è fondato il pensiero della politica in Occidente).

È un’utopia? Chissà. Ma l’attesa per noi, non deve essere statica e senza voce. Facciamo il nostro dovere, come tu in fondo solleciti. Non ci sarà oggi il clima per fare Novecento, un film che amo tanto e che da ragazzo difesi anche contro il mio partito di allora, il Pci. Ma un cammino insieme vale la pena riprenderlo, anche perché tu, in questa fase come un po’ sospesa, possa tornare ad avere voglia di fare grande cinema, come sai fare. Come vedi ho parlato prevalentemente di politica; ma come mi hanno insegnato i miei maestri le sorti della cultura e della politica sono fatalmente inscindibili.

Pubblicato il: 25.06.07
Modificato il: 25.06.07 alle ore 8.55   
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« Ultima modifica: Giugno 27, 2007, 12:03:53 pm da Admin » Registrato
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