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Autore Discussione: TITO BOERI. -  (Letto 35373 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Ottobre 24, 2011, 05:18:37 pm »

IL COMMENTO

di TITO BOERI

Commissariati da "Merkozy"

DOVEVA ESSERE il week-end del salvataggio dell'euro e dell'intera costruzione europea. Lo ricorderemo invece per i sorrisi sarcastici di Sarkozy 1 alla conferenza stampa in chiusura del vertice europeo, quando gli è stato chiesto un giudizio sugli impegni presi dal nostro presidente del Consiglio. Lo ricorderemo per gli ammiccamenti fra il presidente francese e Angela Merkel.

Lo ricorderemo per il lungo silenzio di quest'ultima di fronte ai dubbi espressi in modo così evidente sulla credibilità di chi rappresenta il nostro Paese. Questo teatrino non solo è umiliante, ma anche ha dei costi per tutti noi: è difficile per chi guarda all'Italia dall'estero scindere le opinioni sul nostro presidente del Consiglio da quelle sulle nostre istituzioni.

Ieri il "duunvirato Merkozy" ha operato un netto distinguo tra, da una parte, Grecia e Italia e, dall'altra, gli altri paesi coinvolti nella crisi del debito. Si sono rivolti a Berlusconi e a Papandreou come se fossero loro il problema, come se avessero "la stessa faccia", e le nostre istituzioni fossero della "stessa razza" di quelle che in Grecia hanno per lungo tempo occultato
le vere dimensioni del deficit pubblico.

Spiace ritrovarsi accomunati a chi ha scatenato la crisi del debito, ed è per noi ingeneroso ogni parallelo fra le istituzioni che monitorano e certificano i conti pubblici nei due paesi. Ma è innegabile che portiamo grandi responsabilità se non nella genesi, quanto meno nell'escalation della crisi, per i pesanti ritardi con cui il nostro governo è intervenuto in questi mesi.

Ed è del tutto comprensibile che i contribuenti tedeschi e francesi che dovranno impegnarsi di più per tenere l'Euro in piedi si vogliano oggi tutelare contro il rischio che chi beneficia degli aiuti ne approfitti per rinviare ulteriormente scelte difficili quanto inevitabili.

A ben vedere il problema è tutto lì: non usciremo dalla crisi fin quando non solo i leader, ma anche l'opinione pubblica francese e dei paesi dell'ex area del marco si saranno convinte che gli strumenti di salvataggio che si vanno faticosamente approntando a livello europeo non sono un pozzo senza fondo.

Hanno non poche ragioni per temere atteggiamenti opportunistici. Se la Banca Centrale Europea non fosse intervenuta massicciamente a sostegno dei nostri titoli di stato negli ultimi tre mesi, non avremmo un governo che continua a procrastinare le misure per la crescita, dopo aver per lungo tempo cercato di rinviare ai posteri anche l'aggiustamento fiscale.

Eppure non usciremo dalla crisi senza un prestatore di ultima istanza di dimensioni sufficienti, come potrebbe esserlo la Bce. È questo in fin dei conti il problema affrontato in queste interminabili riunioni d'emergenza dei leader europei: come trovare consenso per interventi della dimensione richiesta dall'aggravarsi della crisi, rassicurando gli elettori del "cuore dell'Euro" sulla qualità del risanamento in atto nei paesi ad alto debito.

Vertice dopo vertice, gli interventi sulla carta messi a disposizione per sostenere i paesi in crisi del debito sono sempre più consistenti, per qualche giorno magari convincono anche i mercati, ma poi si rilevano ogni volta insufficienti per bloccare il contagio, la diffusione a macchia d'olio della crisi. Si potrebbe ironizzare sui tantissimi complicati schemi ideati in questi mesi per cercare di aumentare le risorse messe effettivamente in campo dai vari governi.

Sono riuscite a riportare in auge gli strumenti di finanza creativa ritenuti responsabili della crisi del 2008! Come nel caso dei vituperati CDOs, si impacchettano i "titoli tossici" dei paesi periferici con quelli di paesi che godono ancora della tripla A. Ma i mercati hanno imparato la lezione: non è un caso che lo spread fra i bund tedeschi e i titoli emessi dal fondo di salvataggio europeo si siano pericolosamente allargati negli ultimi giorni.

Il fatto è che finché si interverrà reagendo alla diffusione della crisi, anziché cercando di anticiparne gli sviluppi futuri, si sarà sempre in ritardo. Bisognerebbe invece sorprendere i mercati mettendo in campo un credibile prestatore di ultima istanza, in grado di intervenire ben oltre i limiti oggi imposti al fondo salva stati, impedendo il fallimento di altri stati dopo la Grecia. La Banca centrale europea ha tutte le caratteristiche per ricoprire questa funzione, peraltro svolta dalla Fed sull'altra sponda dell'Atlantico.

Ma giustamente la Bce non intende cimentarsi in questo compito fin quando non avrà ricevuto un chiaro mandato politico e legale dai governi della zona dell'Euro. Si è già spinta molto al di là dei compiti tradizionali di una banca centrale negli ultimi anni, diventando una specie di hedge fund, e non può diventare prestatore di ultima istanza dei governi, oltre che delle banche della zona euro, senza un preciso mandato. Altrimenti, oltre ad agire illegalmente, non sarebbe credibile perché i governi potrebbero un domani smettere di ricapitalizzarla, non dotandola di quelle risorse che le permettono effettivamente di fare prestiti ai paesi (e alle banche) in difficoltà.

La Bce non verrà mai messa in condizione di operare come la Fed, oppure di finanziare un fondo di salvataggio europeo, finché gli elettori ai due lati del Reno non si convinceranno del fatto che non c'è comportamento opportunistico nei paesi del Sud Europa. Per questo la Merkel e Sarkozy hanno ieri parlato come veri e propri commissari straordinari del nostro paese, sostenendo che d'ora in poi vigileranno passo dopo passo su ciò che farà Berlusconi, e si sono spinti fino a imporre un ultimatum di tre giorni e a dettare un'agenda di misure a un grande paese fondatore dell'Unione.

Si rivolgevano soprattutto agli elettori tedeschi e francesi. Il nostro Presidente del Consiglio ha reagito annunciando una riunione d'emergenza del Consiglio dei Ministri e misure su pensioni e vendita di immobili pubblici. Avremmo evitato tutto questo se il nostro governo avesse agito per tempo senza dover subire alcun ultimatum dall'Europa. Non è solo una questione di orgoglio nazionale. Abbiamo bisogno di riforme che affrontino i nodi strutturali, specifici del nostro paese. Bene, dunque, che le riforme per la crescita siano decise da noi, invece che essere imposte dall'esterno.
 

(24 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/24/news/commissariati_da_merkozy-23747183/?ref=HREA-1
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« Risposta #31 inserito:: Dicembre 09, 2011, 10:55:44 pm »

L'analisi

I cinque nodi dell'equità

di TITO BOERI


La prima manovra del Governo Monti deve passare nel Paese prima ancora che in Parlamento. Solo in questo modo il nuovo esecutivo avrà il tempo di occuparsi davvero delle misure per la crescita, di cui sin qui non si ha traccia o quasi.

Sono fondamentali per portarci fuori dal baratro perché con questa manovra, la pressione fiscale salirà ben oltre il 46 per cento e il peso delle entrate sul totale del reddito generato in Italia supererà il 50 per cento. Roba da uccidere un canguro di media stazza. Figuriamoci una lumaca come è stato il nostro paese in questi anni.

Perché la manovra sia accettata dagli italiani deve apparire equa, deve richiedere sacrifici ben distribuiti. Diverse critiche mosse alla manovra in nome dell'equità non sono affatto eque, nel senso che sono sbagliate o superficiali il che distoglie dal trovare correttivi adeguati. Ma è indubbio che l'equità della manovra può essere molto migliorata nel passaggio parlamentare. Cominciamo dalle tre aree fondamentali su cui si gioca la distribuzione dei sacrifici  -  casa, pensioni ed evasione fiscale  -  per poi passare a tasse sul lusso, costi della politica e frequenze del digitale terrestre.

La parte del leone nella manovra (un terzo del totale) è rappresentata dalla tassa sulla prima casa, la nuova Ici, chiamata Imu per non dare un dispiacere a chi l'aveva inopinatamente abolita. Si è scritto che colpirebbe soprattutto i cittadini più poveri. Non è così. Stime
preliminari svolte su un modello di microsimulazione costruito sull'indagine sulle famiglie della Banca d'Italia suggeriscono che quasi la metà del gettito della tassa verrà raccolto tra il venti per cento più ricco della popolazione. La tassa ridurrebbe ancora di più le disuguaglianze nella distribuzione dei patrimoni se i valori catastali fossero allineati a quelli di mercato.

Da anni si parla di rivalutare gli estimi catastali, ma nessun governo ha avuto la forza politica di farlo. Oggi sono magari gli stessi politici che hanno permesso a molti ricchi di pagare un nonnulla per immobili di grande valore ad accusare il governo Monti di inquità. A quanto pare, non c'è limite all'ipocrisia in politica. Per rimediare a questo problema si possono utilizzare i dati dell'Agenzia del Territorio che rilevano sistematicamente le transazioni immobiliari per tipologie di immobili in ogni quartiere ottenendo così valori di riferimento più vicini a quelli effettivi, in attesa del completamento della rivalutazione degli estimi. È un metodo senz'altro preferibile all'aumento proporzionale di tutti i valori catastali contemplato dalla manovra.

La mancata indicizzazione delle pensioni al di sopra di un certo importo (la soglia dovrebbe essere alzata a 1400 euro dopo la presa di posizione della Commissione Bilancio della Camera) è certamente iniqua, ma per ragioni molto diverse da quelle lamentate dai sindacati. I pensionati sono l'unica categoria il cui reddito disponibile non è diminuito durante la Grande Recessione, quando per l'italiano medio la perdita è stata dell'ordine dell'1,5%, con punte del 6% per giovani e famiglie con figli. Quindi può essere equo chiedere anche ai pensionati un contributo di fronte ad una crisi così grave. Stime preliminari di Massimo Baldini, basate su modelli di microsimulazione, (presto su lavoce. info i risultati) dicono che anche in questo caso più del 50% dei tagli colpirebbe il 30% di famiglie italiane più ricche.

Ma ci sono due problemi. Primo, non pochi pensionati, soprattutto quelli più anziani, non sono in condizione di rispondere a questa riduzione permanente delle loro prestazioni pensionistiche mettendosi a fare lavoretti per compensare le perdite. Per fortuna sono relativamente pochi a trovarsi in questa situazione: guardando i dati Inps ci si accorge che i pensionati con più di 70 anni hanno mediamente pensioni tra i 500 e i 600 euro, dunque inferiori a qualunque soglia di esenzione sin qui contemplata. Questo spiega anche la relativa esiguità dei risparmi ottenuti col blocco delle indicizzazioni (meno di due miliardi a regime). Si potrebbe concentrare l'intervento su chi ha preso la pensione di anzianità negli ultimi dieci anni ottenendo pensioni fino a tre volte quelle medie di vecchiaia e ottenendo rendimenti dai propri contributi nettamente superiori non solo a chi andrà col contributivo, ma anche a chi ha avuto accesso alla sola pensione di vecchiaia col retributivo. Sarà come un contributo ritardato al regalo che hanno ricevuto in tutti questi anni.

Secondo, nello stabilire le soglie si continua a ragionare come se contassero le prestazioni individuali, quando in realtà due terzi dei pensionati riceve più di una prestazione. E non pochi hanno altre fonti di reddito. Quindi alzare le soglie non necessariamente rende la misura più equa perché ci possono essere persone che ricevono una pluralità di prestazioni tutte al di sotto della soglia, totalizzando un reddito pensionistico superiore a questo livello. Bisognerebbe allora sommare tutte le prestazioni pensionistiche ricevute dallo stesso individuo e possibilmente tutte le sue fonti di reddito, esentando solo chi ha redditi al di sotto di un reddito minimo.

Terzo, bisognerebbe comunque dare ai pensionati una chance di recuperare ciò che verrà loro tolto in questi due anni. Un modo per farlo è legare la parte di prestazione eccedente il reddito minimo all'andamento dell'economia italiana: se torneremo a crescere a tassi sostenuti, i pensionati potranno recuperare quanto è stato loro tolto con questa manovra. Servirebbe anche a creare quella constituency a favore della crescita che oggi manca nel nostro Paese.

Ciò che ha eroso il sostegno alle politiche di risanamento in Grecia è il mancato contrasto dell'evasione fiscale che ha permesso a molti di farla franca. Per evitare questo rischio la manovra doveva assolutamente aumentare gli strumenti di deterrenza all'evasione fiscale, a partire dall'incrocio delle fonti statistiche già disponibili sui patrimoni degli italiani. Non lo ha fatto, mettendosi in linea di continuità col governo precedente. È invece fondamentale cambiare rotta. Scoraggiando in partenza i comportamenti illeciti, anziché limitarsi ad accertarli una volta che sono stati compiuti, si riesce tra l'altro ad avere benefici immediati dalla lotta all'evasione senza aspettare i tempi lunghi del contenzioso. Non si capisce neanche perché il Governo Monti non intenda sottoscrivere un accordo con la Svizzera sui capitali esportati analogo a quello siglato da Germania e Regno Unito.

Nelle percezioni di equità contano anche i simboli. Il governo ha voluto puntare sulle cosiddette tasse sul lusso, che dovrebbero fruttare complessivamente non più di 300 milioni. Scelta discutibile perché si rischiano di colpire anche i lavoratori di industrie in cui il nostro Paese è all'avanguardia. Ma se proprio si vuole seguire questa strada bisogna farlo con perizia. La tassa sulle automobili di lusso prende come riferimento la potenza del motore, colpendo allo stesso modo chi ha auto usate con valori commerciali vicini allo zero e chi ha una Mercedes nuova di zecca, del valore di 150.000 euro. Il fatto è che le autovetture si deprezzano molto rapidamente. Perché non tassare allora in base al valore commerciale delle autovetture?

Per risultare più equi agli occhi degli italiani, il governo poteva portare i compensi dei parlamentari allo stesso livello dei politici in altri paesi europei. Può ancora farlo. Non c'è bisogno di una legge ad hoc. Basta decurtare il bilancio della Camera e del Senato obbligando così i due rami del Parlamento a tagliare drasticamente le componenti accessorie della retribuzione di deputati e senatori. Ad esempio, gli uffici di presidenza di Camera e Senato potrebbero decidere che i rimborsi vengono concessi solo a fronte di ricevute di spese effettivamente sostenute o che i collaboratori dei politici devono essere pagati direttamente dalle due Camere e non dagli stessi parlamentari  - il che permetterebbe tra l'altro di regolarizzare la posizione contributiva di molti "portaborse" che oggi (sic!) lavorano in nero.

Infine equità significa smettere di regalare il patrimonio pubblico. Lo abbiamo chiesto al Ministro Passera fin dal giorno del suo giuramento: bisogna porre fine all'assegnazione gratuita dei canali sul digitale terrestre agli operatori televisivi. Se non è più possibile intervenire sulle procedure d'asta, bene almeno tassare gli operatori televisivi in base all'utilizzo delle frequenze. Se poi questi non vogliono pagare, dovrebbero restituire le frequenze allo Stato che potrà rimetterle a gara. E destinare i proventi di questa vendita alla riduzione del debito pubblico.

(09 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/09/news/i_cinque_nodi_dell_equit-26317817/?ref=HRER1-1
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 02, 2012, 11:34:53 pm »

I PROSSIMI CENTO GIORNI DEL GOVERNO MONTI

di Tito Boeri 28.02.2012


Il giudizio più importante sull'operato del governo Monti nei suoi primi cento giorni è quello dei mercati. E ci dice che lo spread tra Italia e Germania sui titoli decennali è sceso del 30 per cento mentre si è dimezzato quello fra Italia e Spagna. Ora l'azione deve passare dalla gestione dell'emergenza alle scelte davvero importanti che rilancino la crescita economica del nostro paese. A partire dai due terreni sin qui prescelti: mercato del lavoro e liberalizzazioni. Con riforme che eliminino la dualità del primo ed estendano le seconde ad altri comparti, come banche e assicurazioni.

Abbondano i bilanci sui primi cento giorni del governo Monti. Molti giornali pubblicano pagelle del governo e dei singoli ministri. Noi siamo abituati a utilizzare i voti per le cose serie, per valutare i nostri studenti nel quadro di esami ben più approfonditi di quelli che ci capita di leggere in questi giorni un po’ dappertutto.

IL VOTO DEI MERCATI E DELLE FAMIGLIE

Peraltro, il voto più importante sull’operato del governo sin qui è quello offerto dai mercati. Ci dice che lo spread Italia-Germania sui titoli decennali è sceso del 30 per cento, da 519 punti a 359 punti base e quello fra Italia e Spagna si è quasi dimezzato, passando da 59 a 32 punti base.
 
Da quando la Banca centrale europea ha smesso di intervenire massicciamente a sostegno dei nostri titoli pubblici, l’andamento dello spread è legato soprattutto a scelte di portafoglio di investitori esteri e banche italiane. È un voto straniero anche perché le banche tornano a comprare i nostri titoli di stato grazie alla lending facility istituita dalla Bce, che verrà presumibilmente potenziata ulteriormente.
Le imprese e le famiglie italiane stanno esprimendo il loro giudizio sul governo negli indici di fiducia. In entrambi i casi sono in rialzo, ma significativamente solo quelli legati alla situazione economica generale del paese, piuttosto che quelli legati alla loro condizione individuale. L’impressione è che si tiri un respiro di sollievo nel notare di avere finalmente un governo che, tra l’altro, gode di reputazione internazionale ed è in grado di reagire a eventi esterni. Non siamo più disarmati di fronte alla crisi. Allo stesso tempo, non si reputa che l’iniziativa dell’esecutivo sia in grado di scongiurare la recessione in corso nel nostro paese e, almeno secondo le stime della Commissione Europea, alle porte per la zona euro nel suo insieme.

DALL’URGENTE ALL’IMPORTANTE

È proprio questo il nodo cruciale su cui dovrà essere valutata la compagine di Monti. Dovrà sapere passare dalla gestione dell’emergenza al governo di ciò che è davvero importante, vale a dire alla capacità di decidere su ciò che può aumentare il tasso di crescita economica del nostro paese. Ha un’opportunità unica di fare alcune riforme fondamentali per agire sull’offerta in un momento in cui non ci si può certo basare su stimoli dal lato della domanda per tornare a crescere. Come nel 1992-3, l’emergenza economica e la crisi dei partiti hanno aperto uno spiraglio che non bisogna farsi sfuggire per riforme davvero incisive. Si può intervenire sugli ingranaggi che ci hanno relegato in uno “stato stagnazionario” (stazionario nella stagnazione) da ormai troppo tempo. A partire dai due terreni sin qui prescelti dal governo per rilanciare la crescita: la riforma del mercato del lavoro e le liberalizzazioni. La prima dovrà forzatamente affrontare i percorsi di ingresso nel mercato del lavoro a tutte le età, dato che il dualismo è ciò che oggi frena maggiormente la crescita della produttività del lavoro. Le liberalizzazioni non devono essere assolutamente diluite, come sembra purtroppo stia avvenendo, nel passaggio parlamentare. Al contrario, vanno potenziate ed estese ad altri comparti, a partire da banche e assicurazioni, seppur con modalità diverse, dato che in questo caso la mancanza di concorrenza è soprattutto legata alla struttura proprietaria, anziché alle regolamentazioni.

LE BANCHE E IL GOVERNO DEI BANCHIERI

Una crisi finanziaria non può che essere affrontata sul suo terreno, riducendo la stretta creditizia che oggi strangola molte imprese. Sin qui il governo non è intervenuto sul problema, se non indirettamente, attraverso gli effetti positivi sul costo del denaro e sul clima di fiducia associati alla riduzione dello spread. Ben altra decisione ci vorrà d’ora in poi.
È anche una questione di credibilità per il “governo dei banchieri”. Sarebbe paradossale, che dopo aver ridato credibilità internazionale al nostro Paese, perdesse credibilità in Italia su questo aspetto, rinunciando ad affrontare alla radice l’anomalia delle fondazioni bancarie e senza trovare correttivi alla stretta creditizia.
Per questo valuteremo senza dare voti, ma se possibile con ancora maggiore attenzione i prossimi cento giorni di questo governo. Lo incalzeremo come sempre abbiamo fatto per vedere se e in che misura riforma il mercato del lavoro, difende le liberalizzazioni che ha varato e ne estende la portata. Non smetteremo di proporre anche altri interventi sin qui del tutto estranei all’agenda di governo, come la riduzione della tassazione sul lavoro, a parità di gettito. E gli chiederemo di rispettare le scadenze che si è già dato e che vogliamo cominciare a ricordargli qui sotto.


Le principali scadenze del governo Monti
Scadenza    Oggetto    Articolo
30/04/2012    Decreto del Ministro dell'Economia e delle finanze - Dipartimento del Tesoro in cui si elencano gli investimenti finanziari che i tesorieri o i cassieri degli enti ed organismi pubblici devono smobilitare (ad eccezione di quelli in titoli di Stato italiani), entro il 30 giugno 2012. Le relative risorse andranno versate sulle contabilità speciali aperte presso la tesoreria statale.     Art. 35
(Misure per la tempestività dei pagamenti per l’estinzione dei debiti pregressi delle
amministrazioni statali nonché disposizioni in materia di tesoreria unica)
01/06/2012    Definizione di nuove regole per abbassare i prezzi dei conti correnti e dei pagamenti per via telematica.    Art. 27
(Promozione della concorrenza in materia di conto corrente o di conto di pagamento
di base)
30/06/2012    Emanazione del decreto del MSE sul fondo per la razionalizzazione della rete di distribuzione dei carburanti.    Art. 20
(Fondo per la razionalizzazione della rete di distribuzione dei carburanti)
30/06/2012    Definizione di nuovi bacini per i servizi pubblici locali, non inferiori al territorio provinciale    Art. 25
(Promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali)
30/06/2012    Emanazione del Patto di Stabilità interno    Art. 25
(Promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali)
30/06/2012    Smobilizzazione degli eventuali investimenti finanziari individuati con decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze – Dipartimento del Tesoro da emanare entro il 30 aprile
2012, ad eccezione di quelli in titoli di Stato italiani, entro il 30 giugno 2012 e le relative risorse versate sulle contabilità speciali aperte presso la tesoreria statale.    Art. 35
(Misure per la tempestività dei pagamenti per l’estinzione dei debiti pregressi delle
amministrazioni statali nonché disposizioni in materia di tesoreria unica)
30/06/2012    Da questa data l’Autorità dell’energia si occupa anche dei trasporti.    Art. 36
(Regolazione indipendente in materia di trasporti)
01/09/2012    Applicazione delle nuove regole per abbassare i prezzi dei conti correnti e dei pagamenti per via telematica.    Art. 27
(Promozione della concorrenza in materia di conto corrente o di conto di pagamento
di base)
31/12/2012    Adozione di "uno o più regolamenti"…"per individuare le attività per le quali permane l'atto preventivo di assenso dell'amministrazione e disciplinare i requisiti per l’esercizio delle attività economiche, nonché i termini e le modalità per l’esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione, individuando le disposizioni di legge e regolamentari dello
Stato che ... vengono abrogate a decorrere dalla data di entrata in vigore dei regolamenti stessi.    Art. 1
(Liberalizzazione delle attività economiche e riduzione degli oneri amministrativi
sulle imprese)
31/12/2012    Espletamento delle procedure del concorso per complessivi 550 nuovi posti da notaio.     Art. 12
(Incremento del numero dei notai e concorrenza nei distretti)
31/12/2013    Bando per un concorso pubblico per la nomina fino a 500 posti di notaio.    Art. 12
(Incremento del numero dei notai e concorrenza nei distretti)
31/12/2014    Bando per  un ulteriore concorso pubblico per la nomina fino a 500 posti di notaio.    Art. 12
(Incremento del numero dei notai e concorrenza nei distretti)
entro 120 giorni dall'entrata in vigore    Emanazione di indirizzi e modifiche della disciplina attuativa delle dispozioni per contenere i costi e garantire la sicurezza e la qualità delle forniture di energia elettrica, nel rispetto dei criteri e dei principi di mercato.    Art. 21
(Disposizioni per accrescere la sicurezza, l’efficienza e la concorrenza nel mercato
dell’energia elettrica)
entro 150 giorni dall'entrata in vigore    
Al fine di ridurre i tempi e i costi nella realizzazione delle operazioni di smantellamento degli impianti nucleari e di garantire nel modo più efficace la radioprotezione nei siti interessati il Ministero dello sviluppo economico convoca la conferenza di servizi.    Art. 24
(Accelerazione delle attività di disattivazione e smantellamento dei siti nucleari)
entro 3 mesi dall'entrata in vigore    Istituzione di una specifica autorità indipendente di regolazione dei trasporti, per la quale il Governo presenta entro 3 mesi dalla conversione del presente decretro un apposito disegno di legge.    Art.36(Regolazione indipendente in materia di trasporti)
entro 3 mesi dall'entrata in vigore    Individuazione dei requisiti minimi necessari ad un razionale e corretto sviluppo del mercato degli intermediari del sistema di vendita della stampa quotidiana e periodica.    Art. 39
(Liberalizzazione del sistema di vendita della stampa quotidiana e periodica)
entro 6 mesi dall'entrata in vigore    Annuncio delle modalità di costituzione e di gestione del patrimonio degli enti locali destinato a garantire le obbligazioni per il finanziamento delle opere pubbliche.    Art.54 (Emissione di obbligazioni di scopo da parte degli enti locali garantite da beni immobili
patrimoniali ai fini della realizzazione di opere pubbliche)
entro 60 giorni dall'entrata in vigore    Il ministro dell'Economia e delle Finanze e il ministro della Giustizia devono "tipizzare" lo statuto standard delle Società Semplificata a rsponsabilità limitata e individuare i criteri di accertamento delle qualità soggettive dei soci    Art. 3(Accesso dei giovani alla costituzione di società a responsabilità limitata)
entro due mesi dall'entrata in vigore    Definizione tramite decreto della nuova metodologia di calcolo del prezzo medio del lunedì da comunicare al Ministero dello sviluppo economico per il relativo invio alla Commissione Europea, basata sul prezzo offerto al pubblico con la modalità di rifornimento senza servizio per ciascuna
tipologia di carburante per autotrazione.    Art. 19
(Miglioramento delle informazioni al consumatore sui prezzi dei carburanti)
entro due mesi dall'entrata in vigore    5. La componente tariffaria di cui all’articolo 25, comma 3, del decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31, e successive modifiche e integrazioni, è quella di cui all’articolo 1, comma 1, lettera a), del decreto legge 18 febbraio 2003, n. 25, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 2003, n. 83. Le disponibilità correlate a detta componente tariffaria, sono impiegate, per il finanziamento della realizzazione e gestione del Deposito Nazionale e delle strutture tecnologiche di supporto e correlate limitatamente alle attività funzionali allo smantellamento delle centrali elettronucleari e degli impianti nucleari dismessi, alla chiusura del ciclo del combustibile nucleare ed alle attività connesse e conseguenti e alle altre attività previste a legislazione vigente che devono essere individuate con apposito decreto del Ministero dello sviluppo economico entro 60 giorni dall’entrata in vigore del presente decreto.    Art. 24 (accellerazione delle attività di disattivazione e smantellamento dei siti nucleari ) 
entro il 30 giugno di ogni anno     Emanazione di decreto di natura non regolamentare che individui i terreni agricoli e a vocazione agricola, non utilizzabili per altre finalità istituzionali, di proprietà dello Stato non ricompresi negli elenchi predisposti, nonché di proprietà degli enti pubblici nazionali, da alienare.    Art 66
(Dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola)
entro sei mesi dall’entrata in vigore    Emanazione del decreto relativo alla partecipazione
azionaria attualmente detenuta in Snam S.p.A.    Art. 15
(Disposizioni in materia di separazione proprietaria )
entro sei mesi dall'entrata in vigore    Definizione delle modalità per la progressiva dematerializzazione dei contrassegni, prevedendo la loro sostituzione o integrazione con sistemi elettronici o telematici, anche in collegamento con banche dati, e prevedendo l’utilizzo, ai fini dei relativi controlli, dei dispositivi o mezzi tecnici di controllo e rilevamento a distanza delle violazioni delle norme del codice della strada.    Art. 31
(Contrasto della contraffazione dei contrassegni relativi ai contratti di
assicurazione per la responsabilità civile verso i terzi per i danni derivanti dalla
circolazione dei veicoli a motore su strada)
entro sei mesi dall'entrata in vigore    Definizione delle modalità attuative della disposizione relative alla cartellonistica di pubblicizzazione dei prezzi presso ogni punto vendita di carburanti.    Art. 19
(Miglioramento delle informazioni al consumatore sui prezzi dei carburanti)
entro sei mesi dall'entrata in vigore    Annuncio delle modalità per individuare le effettive maggiori entrate e le modalità di destinazione di una quota di tali maggiori entrate per lo sviluppo di progetti infrastrutturali e occupazionali di crescita dei territori di insediamento degli impianti produttivi e dei territori limitrofi.    Art. 16
(sviluppo di risorse energetiche e minerarie nazionali strategiche)

(dal decreto Cresci Italia)
 
DA - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002899.html
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« Risposta #33 inserito:: Marzo 24, 2012, 04:32:55 pm »

La riforma del gattopardo

di Tito Boeri e Pietro Garibaldi,

da Repubblica, 22 marzo 2012

La riforma del lavoro che si va delineando ha due pregi e molti difetti. Il primo pregio è nel metodo. Sancisce, almeno sulla carta, la fine del diritto di veto delle parti sociali, che è cosa diversa dalla concertazione. Il lungo negoziato si concluderà senza firma delle parti sociali ma con un verbale in cui si annotano le differenti posizioni. E poi il governo procederà comunque. Staremo a vedere se il Parlamento permetterà all'esecutivo di intervenire senza il consenso delle parti sociali. Sembra, infatti, che si procederà non per decreto – come sin qui previsto nel caso di accordo – ma per legge delega e sappiamo quanto lungo, tortuoso e spesso inconcludente sia il processo di attuazione delle leggi delega. Ad ogni modo la novità è importante e positiva: le parti sociali non possono porre il veto su materie di portata così generale.

Il secondo pregio è nell'ampiezza della riforma. I problemi da affrontare erano quattro 1) l'entrata nel mercato del lavoro 2) la cosiddetta “flessibilità in uscita” 3) il riordino degli ammortizzatori sociali e 4) il dualismo fra lavoratori precari e lavoratori assunti con i contratti di lavoro a tempo indeterminato. La riforma indubbiamente affronta tutti questi temi.
Purtroppo questa ampiezza avviene a scapito della profondità e si ha come l'impressione di un intervento voluto dal Principe di Salina, “affinché tutto cambi perché nulla cambi”, per accontentare gli investitori esteri con il tabù infranto dell'articolo 18 e l'opposizione ricercata della Cgil (segnale del fatto che “è una riforma vera”), ma volendo di fatto conservare lo status quo. Vediamo perché, iniziando dalla flessibilità in uscita, dall'articolo 18.

La riforma dell'articolo 18 non riduce l'incertezza per le imprese dal partecipare alla roulette russa del licenziamento. La nuova norma – stando a quanto dichiarato dal ministro Fornero e ai testi circolati sino ad oggi – lascia in vigore il fronte esistente tra licenziamento giuridicamente legittimo e illegittimo, ma apre un nuovo fronte che sin qui non c'era: quello della distinzione fra licenziamenti economici individuali e licenziamenti disciplinari. Fino ad oggi il lavoratore licenziato in maniera illegittima non aveva interesse a chiedere di far valere la distinzione fra licenziamento disciplinare e licenziamento economico. Con la nuova riforma questa distinzione diventa cruciale. Col licenziamento disciplinare, infatti, il lavoratore è maggiormente compensato e, giudice permettendo, può essere reintegrato. La distinzione fra licenziamento economico e disciplinare è nella pratica molto labile. Chi è davvero in grado di stabilire se un lavoratore è poco produttivo perché lavora male (licenziamento disciplinare) o perché inserito in un'unità in crisi in cui non può “dare di più” (licenziamento economico)? In verità tutte e due le ragioni sono sempre vere, altrimenti l'azienda non lo avrebbe licenziato. Per questo il contenzioso inevitabilmente finirà per riguardare anche la qualifica, economica o disciplinare, del licenziamento.

Insomma, con la riforma si trasferisce un potere enorme ai giudici che, d'ora in poi, dovranno prendere le seguenti decisioni. Se il licenziamento è legittimo o illegittimo. Nel caso in cui fosse illegittimo, se è discriminatorio o non discriminatorio. Nel caso in cui non sia legittimo e non discriminatorio, se il licenziamento è economico o disciplinare. Nel caso in cui il licenziamento sia disciplinare, se si deve imporre la reintegrazione o solo il risarcimento del lavoratore.
Si aumenta così l'incertezza del procedimento e molto probabilmente la sua lunghezza. Chi guadagnerà veramente da questa riforma non saranno nè le imprese, nè i lavoratori, bensì gli avvocati specializzati in cause di lavoro.

Sugli ammortizzatori sociali non c'è allargamento nella platea dei potenziali beneficiari, estesa dalla riforma ai soli apprendisti e artisti-dipendenti, meno di 250.000 persone in tutto. I lavoratori a progetto e i precari continueranno ad essere esclusi dagli ammortizzatori. Non c'è neanche il promesso riordino degli strumenti esistenti. Non verrà abolita la cassa integrazione straordinaria, né di fatto verrà soppressa la cassa integrazione in deroga, destinata a trasformarsi in un ampio numero di fondi di solidarietà, presumibilmente uno per settore produttivo. Non viene abolito il sussidio di disoccupazione a requisiti ridotti e l'indennità speciale per i lavoratori agricoli e nell'edilizia, che servono oggi per lo più a integrare i salari di chi già lavora, piuttosto che ad aiutare chi ha perso il lavoro e ne sta cercando un altro. La recessione non è comunque il momento migliore per avviare queste riforme. Si rischia, infatti, di far decollare nuovi strumenti che sono strutturalmente in passivo e che richiederanno, ben oltre la recessione e la “paccata di soldi” data oggi, trasferimenti dalla fiscalità generale.

La riforma ridurrà in parte le differenze tra lavori precari e non. I lavori precari costeranno di più in termini di contributi, sia nel caso di contratti a tempo determinato che di lavori a progetto. Questa avviene aumentando il cuneo fiscale, la differenza tra costo del lavoro pagato dalle imprese e reddito netto percepito dal lavoratore. Nel caso di un vero riordino degli ammortizzatori, l'aumento dei contributi sarebbe potuto apparire ai lavoratori come un premio assicurativo piuttosto che una tassa. Così il legame fra contributi e prestazioni sarà tutt'altro che evidente.

In assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavorano in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese.

Il meccanismo di entrata principale sarà quello dell'apprendistato. è un contratto che offre poche protezioni durante il periodo formativo, perché può essere interrotto al termine del periodo di apprendistato senza alcun indennizzo. Inoltre si applica soltanto ai giovani fino a 29 anni, mentre oggi più del 50 per cento dei lavoratori precari ha più di 35 anni. Inoltre le parti sociali si aspettano un alleggerimento fiscale per l'apprendistato. Quello di aver aperto il portafoglio è stato forse il maggiore errore negoziale fatto del governo, poiché non è servito nemmeno a “comprare” il consenso delle parti sociali. E avrà effetti negativi sul deficit di bilancio.

In conclusione, gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori duali e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera e propria nuova modalità contrattuale in ingresso. Tutto questo rischia di ridurre fortemente la domanda di lavoro. La vera sconfitta e il vero paradosso sarebbe proprio quello, che la grande riforma non solo cambi tutto per non cambiare nulla, ma addirittura riduca il numero dei lavoratori occupati.

(22 marzo 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-riforma-del-gattopardo/
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« Risposta #34 inserito:: Marzo 24, 2012, 04:34:37 pm »

LA RIFORMA DEL PRINCIPE DI SALINA

di Tito Boeri e Pietro Garibaldi

22.03.2012

La riforma del lavoro ha due pregi e molti difetti. I pregi consistono nell'aver messo fine al potere di veto delle parti sociali e nell'ampiezza dei temi affrontati. Sull'articolo 18, le nuove norme danno più potere ai giudici e aumentano l'incertezza. Non si allarga la platea dei potenziali beneficiari degli ammortizzatori sociali. Gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera nuova modalità contrattuale in ingresso. Con il rischio che tutto questo riduca fortemente la domanda di lavoro.

La riforma del lavoro che si va delineando ha due pregi e molti difetti.
Il primo pregio è nel metodo. Sancisce, almeno sulla carta, la fine del diritto di veto delle parti sociali. Il lungo negoziato si concluderà senza firme, ma con un verbale in cui si annotano le differenti posizioni. E poi il governo procederà comunque. Staremo a vedere se il Parlamento permetterà all’esecutivo di intervenire senza il consenso delle parti sociali. Sembra, infatti, che si procederà non per decreto - come sin qui previsto nel caso di accordo - ma per legge delega e sappiamo quanto lungo, tortuoso e spesso inconcludente sia il loro processo di attuazione . Ad ogni modo, la novità è importante e positiva: le parti sociali non possono porre il veto su materie di portata così generale.
Il secondo pregio è nell’ampiezza della riforma. I problemi da affrontare erano quattro: 1) l’entrata nel mercato del lavoro 2) la cosiddetta “flessibilità in uscita” 3) il riordino degli ammortizzatori sociali e 4) il dualismo fra lavoratori precari e lavoratori assunti con i contratti di lavoro a tempo indeterminato. La riforma indubbiamente affronta tutti questi temi.
Purtroppo questa ampiezza avviene a scapito della profondità e si ha come l’impressione di un intervento voluto dal principe di Salina, “affinché tutto cambi perché nulla cambi”, per accontentare gli investitori esteri con il tabù infranto dell’articolo 18 e l’opposizione ricercata della Cgil (segnale del fatto che “è una riforma vera”), ma volendo di fatto conservare lo status quo. Vediamo perché, iniziando dalla flessibilità in uscita, dall’articolo 18.

L’ARTICOLO 18 E LE NUOVE REGOLE DELLA ROULETTE

La riforma dell’articolo 18 non riduce l'incertezza per le imprese dal partecipare alla roulette russa del licenziamento. La nuova norma, stando a quanto dichiarato dal ministro Fornero e ai testi circolati sino a oggi, lascia in vigore il fronte esistente tra licenziamento giuridicamente legittimo e illegittimo, ma ne apre uno nuovo: quello della distinzione fra licenziamenti economici individuali e licenziamenti disciplinari. Fino a oggi, il lavoratore licenziato in maniera illegittima non aveva interesse a chiedere di far valere la distinzione fra licenziamento disciplinare e licenziamento economico. Con la nuova norma, la distinzione diventa cruciale. Col licenziamento disciplinare, infatti, il lavoratore è maggiormente compensato e, giudice permettendo, può essere reintegrato. La distinzione fra licenziamento economico e disciplinare è nella pratica molto labile. Chi è davvero in grado di stabilire se un lavoratore è poco produttivo perché lavora male (licenziamento disciplinare) o perché inserito in un’unità in crisi in cui non può “dare di più” (licenziamento economico)? In verità, tutte e due le ragioni sono sempre vere, altrimenti l’azienda non lo avrebbe licenziato. Per questo il contenzioso inevitabilmente finirà per riguardare anche la qualifica, economica o disciplinare, del licenziamento.
Insomma, con la riforma si trasferisce un potere enorme ai giudici che, d’ora in poi, dovranno prendere le seguenti decisioni:

    Se il licenziamento è legittimo o illegittimo.
    Nel caso in cui fosse illegittimo, se è discriminatorio o non discriminatorio.
    Nel caso in cui non sia legittimo e non discriminatorio, se il licenziamento è economico o disciplinare.
    Nel caso in cui il licenziamento sia disciplinare, se si deve imporre la reintegrazione o solo il risarcimento del lavoratore.

Si aumenta così l’incertezza del procedimento e molto probabilmente la sua lunghezza anche perché interverrà obbligatoriamente un tentativo di conciliazione. Chi guadagnerà veramente dalla  riforma non saranno né le imprese, né i lavoratori, bensì gli avvocati specializzati in cause di lavoro.
Rimane l’incentivo per le imprese a procedere a licenziamenti collettivi anziché individuali. I primi costano molto di meno dei secondi. È paradossale che la legge incoraggi le imprese a decidere licenziamenti in massa anziché a graduarli nel corso del tempo onde ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro locale. Infine, nulla cambia per le piccole imprese, quelle con meno di 15 addetti, a dispetto da quanto dichiarato dal ministro Fornero. I licenziamenti discriminatori erano nulli per queste imprese già prima della riforma.

IL MANCATO RIORDINO DEGLI AMMORTIZZATORI

Non c’è allargamento nella platea dei potenziali beneficiari degli ammortizzatori sociali, estesa dalla riforma ai soli apprendisti e artisti-dipendenti, meno di 300mila persone in tutto. I lavoratori a progetto e i precari continueranno a essere esclusi. Non c’è riordino degli strumenti esistenti. Ad esempio, non verrà abolita la cassa integrazione straordinaria, né di fatto la cassa integrazione in deroga, che è destinata a trasformarsi in un ampio numero di fondi di solidarietà, presumibilmente uno per settore produttivo. Né viene soppresso il sussidio di disoccupazione a requisiti ridotti e l’indennità speciale per i lavoratori agricoli e nell’edilizia, che servono oggi per lo più a integrare i salari di chi già lavora, piuttosto che ad aiutare chi ha perso il lavoro e ne sta cercando un altro. Vero è che la riforma si propone di dare i sussidi solo a chi è disoccupato, ma non è chiaro come si raggiungerà questo obiettivo tenendo in vita strumenti (e amministrazioni che li gestiscono) che sin qui hanno operato in modo molto diverso.
L’obiettivo essenziale di una riforma degli ammortizzatori deve essere quello di costruire pilastri assicurativi che siano in grado di reggersi sui contributi degli assicurati, lavoratori e imprese. L’equilibrio finanziario degli strumenti non deve necessariamente valere anno per anno, ma nell’ambito di un intero ciclo economico. Un buon sistema dovrebbe accumulare dei surplus durante i periodi di crescita, se necessario aumentando i contributi di lavoratori e imprese quando l’economia tira, e usare i surplus per pagare i sussidi e ridurre i contributi di lavoratori e imprese durante le recessioni. Il tutto senza richiedere l’intervento della fiscalità generale. Questa deve servire solo per finanziare l’assistenza sociale di base, quella riservata a chi ha esaurito il periodo di fruizione massima delle assicurazioni sociali, schemi a orario ridotto e sussidi di disoccupazione, e altrimenti cadrebbe in condizione di povertà.
Avevamo già sostenuto che la recessione non è il momento migliore per avviare queste riforme. Si rischia, infatti, di far decollare nuovi strumenti che sono strutturalmente in passivo e che richiederanno, ben oltre la recessione, trasferimenti dalla fiscalità generale. Siamo sicuri che nell’ambito della trattativa sono state svolte simulazioni dei costi dei nuovi strumenti e delle entrate contributive che verranno loro destinate. Sarebbe opportuno rendere edotti di queste stime tutti i contribuenti, dato che rischiano di doverci mettere altro, non preventivato, di tasca loro.

IL DUALISMO PRECARI NON PRECARI E IL “PARADOSSO” DEL COSTO DEL LAVORO

La riforma ridurrà in parte le differenze tra lavori precari e non. I lavori precari costeranno di più in termini di contributi, sia nel caso di contratti a tempo determinato che di lavori a progetto. Ciò avviene aumentando il cuneo fiscale, la differenza tra costo del lavoro pagato dalle imprese e reddito netto percepito dal lavoratore. Nel caso di un vero riordino degli ammortizzatori, l’aumento dei contributi avrebbe potuto apparire ai lavoratori come un premio assicurativo piuttosto che una tassa. Così il legame fra contributi e prestazioni sarà tutt’altro che evidente.
In assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavoro in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese.

I MECCANISMI DI ENTRATA

Il meccanismo principale di entrata sarà quello dell'apprendistato. È un contratto che offre poche protezioni durante il periodo formativo, perché può essere interrotto al termine del periodo di apprendistato senza alcun indennizzo. Inoltre si applica soltanto ai giovani fino a 29 anni, mentre oggi più del 50 per cento dei lavoratori precari ha più di 35 anni. Le parti sociali si aspettano anche un alleggerimento fiscale per l’apprendistato. Quello di aver aperto il portafoglio è stato forse il maggiore errore negoziale fatto del governo, poiché non è servito nemmeno a “comprare” il consenso delle parti sociali. E avrà effetti negativi sul deficit di bilancio. Non c’è neanche il gradualismo nelle tutele, il loro incremento progressivo con l’anzianità di servizio che avrebbe incoraggiato i datori di lavoro a offrire fin da subito contratti a tempo indeterminato.
In conclusione, gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori duali e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera e propria nuova modalità contrattuale in ingresso. Tutto questo rischia di ridurre fortemente la domanda di lavoro.
La vera sconfitta e il vero paradosso sarebbe proprio quello che la grande riforma non solo cambi tutto per non cambiare nulla, ma addirittura riduca il numero dei lavoratori occupati.

da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002956.html
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« Risposta #35 inserito:: Giugno 17, 2012, 06:43:36 pm »

INTERVISTA

Sargent e Boeri, la ricetta per la crisi "Ritrovare lo spirito solidaristico"

Il premio Nobel risponde alle domande dell'economista italiano e di Eugenio Occorsio.

L'Europa ha compiuto "probabilmente un errore lanciando una moneta unica prima di creare qualsiasi istituzione in grado di impostare un politica unitaria"


Appuntamento di gran richiamo quello di questa mattina con il premio Nobel per l'economia "in carica", Thomas Sargent. Il docente della New York University, che ha ricevuto nell'autunno del 2011 il riconoscimento per i suoi studi sulla macroeconomia e sui rapporti fra gli Stati, ha detto senza mezzi termini che la crisi dell'euro è scoppiata per i ritardi nella trasformazione dell'Europa in una realtà federale. "E' stato probabilmente un errore - ha aggiunto - lanciare una moneta unica prima di creare qualsiasi istituzione comune in grado di impostare una politica unitaria in tema di fisco, controllo sulle banche, legislazione finanziaria. Anche gli Stati Uniti nei loro primi anni si trovarono a fronteggiare alcune crisi di determinati territori, e le volte in cui ne sono usciti meglio è stato quando hanno dato prova di buona solidità interna, chiedendo sacrifici agli Stati di volta in volta coinvolti nelle difficoltà, e facendo concessioni come quando alla Virginia in cambio di un aiuto finanziario fu aggiudicata Washington come capitale, ma in ogni caso è scattato un meccanismo di soldarietà proprio nella parte fondante dell'Unione".

Rispondendo alle domande di Tito Boeri, docente a sua volta presso la Bocconi, e di Eugenio Occorsio di Repubblica, l'economista americano ha ripercorso anche le tappe della riunificazione tedesca: "E' stata la prima occasione in cui un'economia molto forte ha dovuto integrarne una assai debole, con tanto di cambio alla pari della rispettiva valuta. Ci furono polemiche, proteste anche da parte degli occidentali che temevano, come hanno in effetti dovuto fare, di incorrere in onerosi sacrifici per finanziare la riunificazione stessa, però nel giro di relativamente pochi anni il processo si è compiuto al meglio".

E' vero che in quel caso c'erano da riunire due identità perfettamente affini per etnia, cultura, storia, e probabilmente che c'è più differenza fra un tedesco e un greco oggi di quanta ce ne fosse fra un tedesco dell'ovest e uno dell'est all'epoca della caduta del Muro. Ed è ancora vero che alla base del crac greco c'è stato un inganno da parte di Atene sui conti, però, ha aggiunto il professore, "si deve ritrovare lo stesso spirito solidaristico nell'Europa intera. Serve un grosso sforzo di solidarietà, e serve a questo punto una dichiarazione d'intenti in tal senso molto forte e inequivocabile, che potrebbe venire dal prossimo vertice europeo di fine mese".

© Riproduzione riservata (17 giugno 2012)

da - http://www.repubblica.it/speciali/repubblica-delle-idee/edizione2012/2012/06/17/news/art_sargent-37378755/?ref=HRER3-1
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 05, 2012, 03:47:32 pm »

La polemica

Che cosa manca alla risposta di Grilli

di TITO BOERI


CI SAREMMO aspettati che il ministro Grilli avesse reagito immediatamente alla pubblicazione su questo giornale 1, sabato 29 settembre, dei testi delle conversazioni telefoniche fra il ministro, allora direttore generale del Tesoro, e Massimo Ponzellini, ai tempi presidente della Banca Popolare di Milano.

Oggi Ponzellini è indagato per corruzione privata con l'accusa, tra l'altro, di avere finanziato illegalmente politici e partiti, mettendo la banca al centro di un sistema clientelare. Ma già all'epoca erano emerse diverse irregolarità nell'attività dell'istituto, sottoposto a ispezione di Banca d'Italia e a rischio di commissariamento. Il ministro ha, invece, preferito attendere la pubblicazione di un articolo di Luigi Zingales sulla prima pagina del Sole24ore, in cui gli si chiedeva ragione di queste conversazioni (nonché sulle voci riguardo a consulenze offerte da  Finmeccanica, società controllata dal Tesoro, alla sua ex-moglie) per chiarire la propria posizione 2. Meglio tardi che mai.

Tuttavia la lettera del ministro non affronta un nodo cruciale. Nelle conversazioni con Ponzellini, Grilli aveva chiesto al banchiere di perorare la sua causa presso Bersani, in modo tale che non ostruisse la sua candidatura a Governatore di Banca d’Italia.

In questa richiesta si intuisce il rischio che il Paese ha corso nella estenuante procedura di nomina del successore di Mario Draghi ai vertici di via Nazionale. Se fosse stato nominato Vittorio Grilli, avremmo avuto un Governatore che, in partenza, aveva un debito da saldare con le entità da lui stesso regolate. Quando si chiede un favore a chi sarà sottoposto alla propria vigilanza, ci si mette nelle condizioni di non poter operare serenamente il proprio mandato. Questo indipendentemente dalle buone intenzioni (dall’ingenuità) del ministro. Il quale purtroppo, nella lettera al Sole24ore, omette qualsiasi riferimento a questo potenziale do ut des.

Il sospetto è che Grilli sottovaluti questi problemi nel rapporto fra autorità di regolazione e soggetti regolati. È un sospetto corroborato dalla disinvoltura con cui ha in più occasioni enfaticamente celebrato le fondazioni bancarie, enti soggetti alla sua supervisione (“le fondazioni sono rigorose e solidali al tempo stesso e, grazie alla leadership di Guzzetti, hanno capito che devono lavorare insieme”). Si potrebbe pensare che la mancata censura da parte del ministro di quelle fondazioni (come Compagnia San Paolo, Cariparo e fondazione Mps) che si sono indebitate pur di non perdere quote di controllo nelle banche conferitarie, sia frutto anch’essa di un do ut des, che ripaga il passato sostegno delle fondazioni alla sua candidatura in via Nazionale.

Il ministro ha oggi la possibilità di contribuire a fugare questi dubbi. In questi giorni si stanno definendo le modalità con cui le fondazioni bancarie continueranno a partecipare al capitale della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). Le fondazioni hanno sin qui avuto un trattamento molto vantaggioso, ottenendo, in cambio del loro contributo al capitale della Cdp, obbligazioni indicizzate con un rendimento del 3 per cento in termini reali all’anno e al tempo stesso poteri di controllo e nomina dei vertici della Cassa. Oggi alle fondazioni viene richiesto di offrire un conguaglio, stimato in circa 6 miliardi, che compensi il fatto che la Cdp ha aumentato il proprio patrimonio senza che le fondazioni abbiano condiviso il rischio corso con questi investimenti dagli altri azionisti, cioè dal contribuente, dato che la quota rimanente della Cassa è posseduta dal Tesoro. Le fondazioni si oppongono a pagare questo conguaglio e sembrano disposte a versare solo un sesto della somma richiesta, con un costo per il contribuente fino a 5 miliardi. Se Vittorio Grilli vuole dimostrare nei fatti di non avere alcuna sudditanza nei confronti delle fondazioni bancarie, può fare ciò che va nell’interesse del contribuente. Liquidi le fondazioni al prezzo di acquisto, riconoscendo che sono state degli obbligazionisti in questi anni. E cominci fin da subito a cercare altri sottoscrittori, veri sottoscrittori che mettono in Cdp soldi loro, indipendenti dal controllo del Tesoro. Permetterebbe alle fondazioni di concentrarsi davvero sulle attività di pubblica utilità, che dovrebbero essere il loro core business, e a una controllata dallo Stato di confrontarsi con veri azionisti, evitando al contempo un nuovo bagno di sangue per il contribuente.

(04 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/04/news/grilli_ponzellini_risposta-43816630/?ref=HREC1-10
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« Risposta #37 inserito:: Gennaio 03, 2013, 06:14:25 pm »

Più trasparenza e buona gestione

di Tito Boeri, Luigi, Guiso,Roberto Perotti e Luigi Zingales

14 novembre 2012


L'ironia ha voluto che fosse il presidente dell'Associazione delle Fondazioni Bancarie ad officiare la giornata del risparmio. Ironia, perché queste fondazioni sono tutto tranne che un esempio di oculata gestione e di risparmio. In sei anni le fondazioni bancarie hanno ridotto il valore del loro patrimonio del 41%. Si tratta di circa 17 miliardi di perdita, più di un punto del Pil dell'Italia.

Le fondazioni sono formalmente enti di diritto privato (come i loro dirigenti non perdono occasione di rimarcare), ma questo non significa che chi le gestisce abbia il diritto di dilapidare il patrimonio loro affidato. Innanzitutto, in quanto associazioni a scopo benefico le fondazioni sono regolate dal governo e sotto la sua supervisione, come accade anche in America.

Quindi il governo è in ultima istanza responsabile per la loro cattiva gestione. In secondo luogo, perché le fondazioni bancarie sono un patrimonio delle comunità locali che fu privatizzato per far passare la privatizzazione delle casse di risparmio all'inizio degli anni Novanta. Moralmente questi soldi appartengono a tutti i cittadini delle comunità di origine.

Il principale motivo delle nostre critiche non riguarda lo scopo (lodevole) delle fondazioni, né il modo in cui queste erogazioni vengono effettuate (anche se per parecchie fondazioni ci sarebbe molto da ridire e lo abbiamo fatto in modo circostanziato, dati alla mano), ma il modo in cui il loro patrimonio viene gestito. Proprio perché riteniamo le funzioni benefiche da loro svolte molto importanti, vorremmo che le fondazioni fossero nelle condizioni di poter continuare a svolgerle nel futuro. Perché questo avvenga è necessaria un'oculata gestione del patrimonio. La più elementare regola di gestione di qualsiasi portafoglio è quella della diversificazione del rischio.

Nella maggior parte dei casi le fondazioni hanno violato questo principio per mantenere posizioni di potere nelle banche di origine. Così, ad esempio la Compagnia di Sanpaolo ha la metà della propria dotazione in azioni di Banca Intesa, la Fondazione Cariverona il 46% in Unicredit e la Fondazione Banco di Sardegna il 49% investito nel Banco di Sardegna. Questo investimento è stato giustificato con l'esigenza di mantenere le banche legate al territorio. Ma questo obiettivo non rientra tra gli scopi benefici delle fondazioni, a meno che non si consideri come atto di beneficenza quello di regalare ai notabili locali alcuni posti nei consigli delle banche. Cosi come non vi rientra un'altra giustificazione spesso usata, la difesa dell'italianità delle banche; difesa che diventa assurda quando ci si atteggia ad europeisti ma poi si vuole impedire l'accesso in Italia di imprese europee.

Questa commistione tra beneficenza e scopi di potere ha causato gravi danni alle banche, alla collettività, e, più in generale, all'economia italiana. Il caso più eclatante è sicuramente quello della fondazione Montepaschi, che è riuscita contemporaneamente a portare sull'orlo del fallimento la terza banca del paese (salvata con i soldi dei contribuenti) e a deprivare la città di Siena di importanti flussi di beneficienza. A questi danni si aggiunge l'ingessamento della classe dirigenziale in un settore chiave dell'economia; a questo ha contribuito non poco l'autoreferenzialità delle stesse fondazioni. Quando Bazoli è stato costretto da una legge a dimettersi dal consiglio dell'Ubi in quanto banca concorrente, poco dopo sua figlia è entrata nel consiglio della stessa banca. Se qualcuno nelle banche coinvolte si è posto un problema di immagine, non ha ritenuto di esternare le proprie perplessità.

Le fondazioni si presentano spesso come un baluardo contro l'invasione della politica. Ma la realtà è esattamente l'opposto. Per statuto, in molte se non in tutte le fondazioni la maggioranza dei consiglieri possono diventare tali solo se designati dai poteri politici o economici locali. E nessuna persona in buona fede può negare la sottomissione pressoché totale della Fondazione Montepaschi alla politica locale. Nè si può negare che molti dei presidenti delle fondazioni sono politici della prima repubblica, che si sono rifugiati nelle fondazioni e dopo vent'anni sono ancora lì, da Giuseppe Guzzetti di Cariplo a Giuliano Segre della Fondazione di Venezia a Dino De Poli di Cassamarca.

Noi non chiediamo l'abolizione delle fondazioni, ma quattro regole di trasparenza e buona gestione. Primo, che le fondazioni siano costrette a cedere le partecipazioni nelle banche di origine e investirle in un portafoglio diversificato, pena la perdita dei diritti di voto nelle azioni detenute e la perdita dell'esenzione fiscale di cui godono. Se l'obiezione è che solo le fondazioni possono dare stabilità all'azionariato delle banche, si noti che in Italia i fondi comuni hanno 7 volte il patrimonio delle fondazioni.

Secondo, un limite massimo di due mandati a tutti i consiglieri e presidenti delle fondazioni, con un massimo comunque di dieci anni di carica. Terzo, bilanci chiari e trasparenti che rendano pubblici tutti i compensi che i consiglieri delle fondazioni ricevono da tutte le società controllate direttamente ed indirettamente dalle fondazioni. Quarto, il diritto ai cittadini che dovrebbero ricevere la beneficenza di far causa agli amministratori delle fondazioni se sprecano il loro patrimonio o lo gestiscono male. Il governo guidato da un'europeista convinto come Mario Monti non può sottrarrsi a questa urgente riforma, che noi riteniamo di gran lunga piu' importante di quella dell'art 18 dello Statuto dei Lavoratori. Non si può chiedere flessibilita' ai lavoratori e poi non imporla anche ai vertici.
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« Risposta #38 inserito:: Febbraio 12, 2013, 06:43:34 pm »

27.01.13

Tito Boeri

 
Molti commentatori hanno in questi giorni sostenuto la necessità di separare nettamente il management delle banche dalla politica. 
Siamo d’accordo. Come mostrano gli studi di Paola Sapienza, non è chiaro quali siano gli obiettivi di banche in cui continua a esserci una forte influenza della politica. Il loro comportamento è influenzato da interessi locali e cicli politici più che dal desiderio di garantire redditività ed efficienza.
Il vero problema è: come?

A nostro giudizio c’è un modo molto semplice per spezzare la catena di controllo che lega le banche alla politica: completare il processo di privatizzazione facendo uscire le fondazioni bancarie dal capitale delle banche conferitarie. Sono infatti le fondazioni il canale principale attraverso cui la politica mette le mani sulle banche.  I politici entrano negli organi sociali delle fondazioni, si “puliscono” per un mandato, e da lì passano ai consigli di amministrazione delle banche. La procedura è talmente collaudata che il codice di autodisciplina recentemente approvato dall’Acri, l’associazione che riunisce la fondazioni, si è stranamente dimenticato di proibire che le fondazioni possano nominare membri dei propri consigli d’amministrazione ai vertici delle banche cui partecipano.

Nelle prossime settimane documenteremo quanto sia importante questo canale partendo dal mettere in luce quanti siano i politici di lunga carriera ai vertici della fondazioni. Vero che una certa quota di rappresentanti ai vertici delle fondazioni è di nomina di enti pubblici locali. Ma nessuno vincola un Consiglio Comunale o Provinciale dal nominare persone competenti ai vertici delle fondazioni, con capacità manageriali e conoscenze specifiche nel terreno di intervento sociale prescelto dalla fondazione in questione. Cominciamo qui sotto dalla Fondazione Monte Paschi di Siena, il cui vertice è composto per due terzi da politici di professione che, si noti, appartengono all’intero arco politico. Nei prossimi giorni i dati su altre fondazioni.


http://www.lavoce.info/i-politici-ai-vertici-delle-fondazioni-bancarie/
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« Risposta #39 inserito:: Marzo 01, 2013, 12:12:26 am »

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Elezioni 2013: L’Italia deve affrontare la sua crisi politica

di Lavoce.info | 28 febbraio 2013

Con Monti abbiamo affrontato l’emergenza economica. Adesso dobbiamo affrontare quella politica. Dopotutto il declino dell’economia italiana è legato al fallimento di un’intera classe dirigente. E’ possibile cominciare a farlo anche con questo Parlamento.

di Tito Boeri e Luigi Guiso, lavoce.info, 27 Febbraio 2013

Il ritorno di Berlusconi

Nanni Moretti aveva predetto nei giorni scorsi che questa settimana gli italiani avrebbero festeggiato la liberazione, avrebbero finalmente finito di essere ostaggio degli interessi di uno solo di loro, Silvio Berlusconi. Nanni Moretti è un regista di eccezionale sensibilità e quella sensibilità gli ha permesso in Habemus Papam di vedere, al di là dei rituali vaticani, la fragilità del Papa, troppo spesso dimenticata. Ma Moretti non è stato altrettanto bravo a intuire le motivazioni del voto degli italiani. Silvio Berlusconi, che era praticamente sconfitto solo un mese fa, è tornato e il suo ritorno – forse il più importante evento politico dell’anno in Europa – corre sulle ali della promessa di abolire l’Imu, la tassa sulle proprietà immobiliari reintrodotta dal governo di Mario Monti. I pensionati italiani hanno spesso case di proprietà di un certo valore, ma hanno problemi di liquidità e non possono vendere la casa nel mezzo di una grave crisi immobiliare. Questo li porta ad odiare le tasse sulla casa. Berlusconi è andato anche oltre: ha promesso di restituire i 4 miliardi dell’imposta già pagati nel 2012, di tasca sua se necessario (il suo patrimonio è valutato sui 5,5 miliardi). Di fatto, ha promesso di fare da banca per gli italiani – proprio quello che manca in questo momento, visto che lo scorso anno il credito delle banche alle famiglie è calato di circa 2 miliardi.

L’incognita di Grillo

Ma la conseguenza del suo successo – ed è anche la ragione per cui il ritorno di Berlusconi è così importante – è l’impasse politica. In Italia i due rami del Parlamento hanno identici poteri. Alla Camera il premio di maggioranza ha permesso a Pier Luigi Bersani di ottenere la maggioranza dei seggi, ma al Senato la vittoria di Berlusconi rappresenta un problema. Il numero di voti ottenuti del Pdl ha impedito a Mario Monti di raggiungere una quota di seggi sufficiente a garantire una maggioranza a una eventuale coalizione con il centrosinistra. Peraltro, è ormai difficile immaginare una coalizione senza i 54 senatori del Movimento 5 Stelle.
Beppe Grillo può essere determinante sia per una maggioranza di centrosinistra che per una maggioranza di centrodestra, ma per il momento non abbiamo idea di quali saranno le sue scelte. Alcuni senatori grillini potrebbero passare al Pdl: se rimangono con Grillo dovranno rinunciare a metà della loro indennità parlamentare a favore del Movimento. E dunque il passaggio o meno ad altre formazioni politiche dipenderà dai loro valori etici. Ma c’è anche un’altra incognita: tutti i senatori 5 Stelle sono neo-parlamentari. Più in generale abbiamo un Parlamento grandemente rinnovato il che è una buona cosa dato il fallimento della classe politica uscente, ma apre anche molte incognite.

Chi ha perso

Quello che invece è sicuro è che il grande perdente di queste elezioni è Mario Monti. La formazione del presidente del Consiglio uscente ambiva a essere il secondo partito italiano dopo il Pd, invece è arrivato appena quarto, con un deludente 10 per cento dei voti e solo ventidue senatori – troppo pochi per poter garantire una maggioranza a Bersani. La salita in campo di Monti è stata motivata del desiderio di creare una coalizione aperta a tutti coloro che si dichiarassero disponibili ad aderire a un programma di riforme. Monti avrebbe voluto così consolidare le azioni del governo tecnico. Tuttavia, non ha ottenuto abbastanza voti per riuscirci, probabilmente perché agli occhi degli elettori i sacrifici imposti dal suo Governo sono tangibili, mentre i benefici tardano a manifestarsi. Del resto la funzione del suo governo era proprio quella di fare scelte impopolari senza ansie di rielezione.

Vie d’uscita?

E tuttavia, l’esito potrebbe essere simile: una grande coalizione guidata non da Bersani né da Berlusconi, ma da un simil-Monti – non necessariamente da Mario Monti in persona – e con un obiettivo meno ambizioso: preparare il paese per le prossime elezioni, si spera con una nuova legge elettorale. Il nuovo governo dovrebbe far fronte alla crisi della politica, il cui fallimento spiega il successo di Beppe Grillo. Dovrebbe raccogliere la proposta del Movimento 5 Stelle di dimezzare lo stipendio e il numero dei parlamentari. In fondo, i gravi problemi economici dell’Italia possono essere affrontati solo attraverso una riforma del meccanismo di selezione della classe dirigente, prima responsabile dei fallimenti economici del paese. Dovrebbe anche ridurre l’autoreferenzialità delle Regioni cui il federalismo della Lega ha concesso troppa discrezionalità nel definire compensi di una classe politica troppo poco sotto i riflettori, poco accountable di fronte agli elettori. Sarebbe anche questa una riforma che riduce i costi della politica.

Un pò di tempo, ma non molto

Fortunatamente, la gestione del debito pubblico da parte del Tesoro ha permesso di guadagnare tempo, visto che abbiamo già rifinanziato un quarto di quello in scadenza quest’anno.
Nel frattempo, il nuovo Parlamento dovrà eleggere un nuovo presidente della Repubblica: grazie al premio di maggioranza ottenuto alla Camera sarà il Pd a decidere il successore di Giorgio Napolitano. Speriamo che il nuovo presidente sia saggio e capace quanto il suo predecessore, e che riesca, come è riuscito Napolitano, a rassicurare i mercati e i partner europei sulla capacità dell’Italia di trovare una via d’uscita alla lunga transizione verso una maggiore stabilità politica e un maggiore realismo.

*Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata oggi sul Financial Times.

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02/28/elezioni-2013-litalia-deve-affrontare-sua-crisi-politica/515852/
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« Risposta #40 inserito:: Aprile 27, 2013, 05:05:08 pm »

Tito Boeri: “Con l’instabilità politica rischiamo una nuova spirale recessiva”


Nonostante la partita per il Colle si sia sbloccata, l’economista Tito Boeri ricorda che le imprese e il mercato dei consumi attendono da tempo un altro segnale, quello della “formazione di un nuovo governo. Per questo il presente dell’Italia è fatto di “investimenti bloccati“, con le aziende che “attendono di sapere come evolveranno le leggi sul lavoro e le famiglie temporeggiano nell’acquisto di beni durevoli”. Considerazioni che l’economista fa a margine dell’incontro a Milano per la presentazione del Festival dell’Economia di Trento, di cui è responsabile scientifico, dedicato al tema della “Sovranità in conflitto”. “La crisi ha fatto rimpicciolire molte sovranità nazionali – spiega Boeri – I governi hanno scoperto, loro malgrado, che l’unico modo per affrontare  il problema era quello di gestire la crisi, e gli aiuti, assieme ad altri Paesi”. L’Ottava edizione partirà il 30 maggio e si concluderà il 2 giugno: tra gli ospiti anche due premi Nobel dell’Economia, Michael Spence (“Come governare la catena produttiva globale”) e James Mirrlees (“Abbandonare l’euro?”) 

di Francesca Martelli
21 aprile 2013

da - http://tv.ilfattoquotidiano.it/2013/04/21/tito-boeri-con-linstabilita-politica-rischiamo-una-nuova-spirale-recessiva/228845/
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« Risposta #41 inserito:: Agosto 27, 2013, 11:43:33 pm »

Quell'inciucio locale che frena il credito


27.08.13

Tito Boeri e Luigi Guiso


Tre casi recenti indicano che per le fondazioni bancarie le lezioni della crisi sembrano essere servite a poco. Continuano a perpetuare un sistema in cui la politica ha un ruolo primario di controllo sul sistema bancario. I rischi per l’economia italiana e il passo indietro dei partiti.

TRE CASI EMBLEMATICI

Le nostre banche vivono un momento difficile. Otto di loro sono state messe sotto sorveglianza speciale dalla Banca d’Italia, perché hanno accantonamenti insufficienti a coprire i crediti deteriorati. Il passaggio al sistema di supervisione bancaria unica presso la Bce comporterà controlli ancora più stringenti. Negli anni a venire la maggior parte dovrà ristrutturarsi pesantemente per abbattere i costi e riguadagnare efficienza. Le banche dovranno rafforzare il loro patrimonio e selezionare meglio i loro impieghi. Prima lo fanno, tanto meglio è, non solo per le banche in sé ma per l’economia italiana che senza un sistema bancario ben funzionante rischia di trasformare la ripresa in una lunga stagnazione. Le interferenze politiche cui il sistema bancario italiano è soggetto possono però bloccare e distorcere il processo.
A poco sembrano essere servite le lezioni di questa crisi: le perdite patrimoniali patite dalle fondazioni per aver concentrato il loro investimento nella banca di riferimento, gli effetti sulla gestione delle banche della presenza delle fondazioni, di cui il caso Mps è la rappresentazione plastica. Oggi tanto quanto ieri la politica non molla la presa sulle fondazioni bancarie e, attraverso queste, sulle banche. Tre casi ne sono la testimonianza. Primo quello della Fondazione Carige, che si è opposta strenuamente all’aumento di capitale di 800 milioni di Banca Carige richiesto da Banca d’Italia, pur di non vedere troppo diluita la propria quota (47 per cento) nel capitale azionario della banca ligure. Per questo ha fatto dimettere tutti i propri rappresentanti nel consiglio d’amministrazione di Banca Carige forzando il rinnovo dei vertici dell’istituto. Sarà ancora una volta la fondazione, presieduta da un ex presidente (area centro-sinistra) della provincia di Genova a scegliere i vertici della banca, che ha storicamente distribuito almeno 7 euro su 10 di utile alla Fondazione invece di usarli per rafforzare il patrimonio, avendo ai posti di comando una serie di politici locali, da ultimo il fratello dell’ex ministro Scaloja. L’esito più probabile è che siano l’attuale presidente e vice-presidente della Fondazione – già candidato sindaco per il Pdl – a guidare l’istituto. Diversi politici locali (dal governatore Burlando all’ex senatore Luigi Grillo), a parole, chiedono che la politica si astenga dall’intervenire, ma da che pulpito viene la richiesta?
A Sassari l’avvicendamento, nei mesi scorsi, ai vertici del Banco di Sardegna e della sua fondazione, appannaggio da anni di politici di centro sinistra, è stato caratterizzato da una transumanza di poltrone: il presidente in scadenza della Fondazione, Antonello Arru, diventa presidente del Banco e si fa sostituire alla presidenza della Fondazione da Antonello Cabras, ex senatore Pd non rieletto. Nessun cenno a una dismissione della sostanziosa e per questo rischiosa partecipazione nel capitale del Banco (49 per cento del capitale). Anzi, è stata riaffermata ostinatamente la volontà di mantenerla per “meglio difendere il credito locale dal tentativo di erogarlo altrove” cedendo il risparmio dei sardi agli “stranieri”, questi ultimi essendo presumibilmente i modenesi della Bper che esercitano il controllo. Non c’è dubbio, i politici sono bravi a toccare le corde del localismo e del nazionalismo isolano; è il loro mestiere. Meno bravi a fare i banchieri e garantire rendimenti più elevati alle fondazioni che amministrano. Le uniche voci critiche all’operazione si sono levate da alcuni spiriti liberi del centro-sinistra; l’opposizione di centro-destra avrebbe avuto vita facile nel denunciare il gioco di poltrone fra la Fondazione Banco di Sardegna e la banca omonima, ma ha taciuto. Il silenzio talvolta parla più forte delle parole. In questo caso annuncia che quelle pratiche non destano scalpore perché sono essenzialmente condivise: i politici, siano di centro-destra o di centro-sinistra, non hanno alcun dubbio che uno di loro (politico buono o cattivo che sia) possa anche essere un ottimo banchiere. O, forse più correttamente, il dubbio lo hanno ma non gli conviene ammetterlo.
Il terzo caso è quello senese. A Siena si procede al rinnovo del consiglio della Fondazione che ha portato il Monte dei Paschi sull’orlo del fallimento come se niente o ben poco fosse avvenuto. Il rinnovo avviene sullo sfondo delle rivelazioni del presidente uscente della Fondazione, Gabriello Mancino, che ha tolto il velo al re testimoniando ai giudici inquirenti – e quindi ufficializzando a tutti quello che tutti sapevano ma non ammettevano – come le nomine siano sempre state fatte dai “maggiorenti della politica locale e regionale, con l’approvazione del Pdl all’opposizione, con la condivisione della politica nazionale ai massimi livelli (Gianni Letta, sentito Silvio Berlusconi)”. Analogo discorso per le nomine nelle società controllate, soggette a “una forte ingerenza dei partiti” e per i “finanziamenti dei progetti da parte della Fondazione” oggi vicina a portare i libri in tribunale.

IL CAMBIAMENTO POSSIBILE

Questi tre esempi provano l’esistenza di un sistema, condiviso dall’intero arco dei partiti tradizionali, in cui la politica ha un ruolo primario di controllo sul sistema bancario attraverso il “mercato” delle nomine nelle fondazioni bancarie e (attraverso queste) nelle banche. Il mercato avviene nell’ombra, forse nemmeno nelle segreterie, ma spesso in limitati gruppi di controllo all’interno dei partiti che accettano scambi trasversali. È un controllo fine a se stesso, serve solo a estendere le carriere dei politici. Tipico il caso della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata che ha bruciato il proprio patrimonio investendo il 70 per cento del proprio capitale in BancaMarche, lasciando peraltro che la banca, ignorando i richiami della Banca d’Italia, contravvenisse a ogni principio di sana e prudente gestione. Oppure della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara che, pur detenendo il 54 per cento della Cassa di Risparmio, l’ha docilmente accompagnata al commissariamento. Oggi la Fondazione si trova costretta a mettere i propri dipendenti in cassa di integrazione. Oppure ancora della Fondazione del Monte di Parma, salvata solo dall’intervento di Banca Intesa, che ha acquistato la sua quota di controllo in Banca Monte Parma.
I casi Mps, Carige e Sassari sono perciò tutt’altro che isolati. E l’assenza della politica dalle fondazioni è l’eccezione non la norma, come dovrebbe essere. Per questo, infatti, le fondazioni furono create: per dare alle banche un padrone diverso dal Tesoro e lontano dalle segreterie dei partiti. Purtroppo, la storia ha preso fino ad ora un’altra piega.
Ma non è mai detta l’ultima parola. La politica che interferisce può decidere di smettere di farlo, ma occorre la volontà di operare in tale senso, denunciando un sistema improprio e dichiarando di volerlo abbandonare. Matteo Renzi oggi si presenta come una persona esterna agli inciuci locali che pervadono la politica nazionale, giungendo talvolta fino a condizionare gli equilibri per la formazione di maggioranze di governo in un momento molto delicato per il nostro Paese. Se Renzi vuole dimostrare nei fatti di avere queste caratteristiche, può segnalarlo prendendo una semplice iniziativa. Chieda al sindaco di Siena, definito “renziano” dalla stampa, che il rinnovo dei vertici della Fondazione Mps avvengano in modo trasparente, con la definizione di criteri di competenza e l’adozione di bandi aperti a tutti coloro che soddisfino i requisiti. Chieda che si adottino per le fondazioni bancarie gli stessi criteri di apertura e trasparenza che lui giustamente pretende per le primarie del suo partito. Con un mandato chiaro: separare la fondazione dalla banca.

da - http://www.lavoce.info/quellinciucio-locale-che-frena-il-credito/


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Bio dell'autore

Tito Boeri: Ph.D. in Economia alla New York University, per 10 anni è stato senior economist all'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, poi consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell'Ufficio Internazionale del Lavoro. Oggi è professore ordinario all'Economia Bocconi, dove è anche prorettore alla Ricerca. E' Direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti, responsabile scientifico del festival dell'economia di Trento e collabora con La Repubblica. I suoi saggi e articoli possono essere letti su www.igier.uni-bocconi.it. Segui @Tboeri su Twitter

Luigi Guiso: Luigi Guiso è professore di Economia allo European University Institute, Firenze. Ha lavorato come economista per molti anni al Servizio Studi della Banca d'Italia occupandosi di macroeconomia, politica economica e analisi della congiuntura. E' fellow del CEPR e direttore del Finance Program, e fellows del Luigi Einaudi Institute for Economics and Finance. Gli interessi correnti di studio e di ricerca vertono sui campi dell'economia finanziaria, delle scelte finanziarie delle famiglie, della macroeconomia, dei legami tra economia e istituzioni. temi recenti di ricerca includono l'effetto della cultura sull'economia e le origini del capitale sociale.
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« Risposta #42 inserito:: Settembre 11, 2013, 11:11:22 am »

di EUGENIO OCCORSIO

Boeri: "È vero, puntano ancora su di noi ma siamo l'unico paese in recessione"


L'economista de lavoce.info invita alla cautela: "La situazione si sta deteriorando anche se si sostiene che siamo agli ultimi colpi di coda della crisi. Occorrerebbe una forte sinergia fra l'impresa privata e la politica economica del governo".

Poi analizza i pregi e i difetti del dopo-Berlusconi. "Monti era partito bene, poi sul lavoro ha sbagliato e Letta per abolire l'Imu ha tolto soldi alle misure per l'occupazione"



MILANO - "Sì, in effetti anch'io ho riscontrato un maggior rispetto per l'Italia. Così, non mi stupisce che il nostro Paese sia tornato anche ad essere un luogo dove investire, con prudenza i capitali internazionali". Tito Boeri, economista della Bocconi nonché direttore della Fondazione Debenedetti e responsabile del sito di informazione economica "lavoce.info", non si stupisce che gli gnomi di Wall Street abbiano reintegrato il nostro Paese nei loro mappamondi. Ma invita alla cautela: "Siamo pur sempre un Paese che nel 2013 secondo l'Ocse perderà l'1,8% di Pil, l'unico ancora in recessione del G7, e poi la situazione si sta gravemente deteriorando".

Si continua a dire però che siamo ai colpi di coda della recessione, che la ripresa è dietro l'angolo: questo si deve alla grinta dei nostri imprenditori o all'azione del governo?
"Sicuramente la prima di queste due valutazioni. E anche al quadro internazionale che sta migliorando, il che per un Paese fortemente esportatore come il nostro è importantissimo. Certo, occorrerebbe una sinergia fra le due forze, quella dell'impresa privata e quella della politica economica del governo. Quest'ultima mi sembra però del tutto carente".

Andiamo con ordine, professore. L'impressione è che il recupero di affidabilità dell'Italia sia cominciato dalla fine dei governi Berlusconi. Il Cavaliere è ancora in grado di influenzare pesantemente l'agenda politica, ma almeno non è più al comando.
"Certamente il cambio della guardia a Palazzo Chigi è stato accolto con un sospiro di sollievo dai nostri partner. Berlusconi, soprattutto negli ultimi tempi, è stato un pessimo ambasciatore per il made in Italy finanziario. In fondo è anche una questione psicologica: chi investe in titoli di Stato italiani, o in azioni delle principali aziende, vuole che a capo del governo sia una figura specchiata, dignitosa e affidabile. Niente di tutto questo. Poi, un altro motivo di svolta è stata la figura stessa di Mario Monti, un economista molto conosciuto e stimato a livello internazionale, che in effetti ha fatto molto bene almeno per i primi mesi del suo governo, varando proprio le riforme che la platea europea gli chiedeva, dalle pensioni all'Imu".

E nei successivi mesi?
"Purtroppo l'azione del governo tecnico ha perso di incisività ed efficacia, sempre più vittima dei consueti veti incrociati politici. In particolare sul lavoro è stato fatto un pasticcio. Dopo mesi in cui il Paese si è dilaniato nelle polemiche sull'articolo 18, è stato varato un pacchetto di riforme difficile da applicare e in ultima analisi controproducente: non si è riusciti ad agevolare né l'entrata né l'uscita dal posto di lavoro, con il risultato di ingolfare ancora di più i tribunali mentre ai giudici veniva affidato troppo potere, e nel frattempo disincentivando di fatto gli imprenditori ad assumere".

Ora il governo Letta, con un economista solido come Enrico Giovannini al ministero del Welfare, è riuscito a correggere la situazione?
"Macché. Non si è riusciti ad affrontare la questione con misure organiche e si procede tuttora in ordine sparso senza che sia ben chiara la direzione. Ora, paradosso nel paradosso, per finanziare l'abolizione tout court dell'Imu incoscientemente pretesa dal Pdl, quando bastava limitarla alle categorie più abbienti perché non si aprisse una voragine nei conti pubblici, si è andati a incidere tra l'altro proprio su quelle poche risorse che erano state destinate allo sviluppo dell'occupazione specialmente giovanile. Del resto, non c'è via d'uscita: stando al nuovo articolo 81 della Costituzione che prevede il pareggio di bilancio, e sulla base delle indicazioni europee, ogni nuova spesa o taglio di tasse deve essere compensata da una equivalente riduzione di spesa o aumento delle imposte. L'incertezza tra famiglie e imprese regna sovrana. L'unica cosa certa è che le nuove imposte avranno un nome inglese e forse graveranno anche sugli inquilini, generalmente più poveri dei proprietari. In tutto questo, la promessa più volte ripetuta di una riduzione del carico fiscale sui lavoratori e sulle imprese, che sarebbe la chiave per una vera e duratura ripresa, resta ancora una vaga illusione".

04 settembre 2013

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« Risposta #43 inserito:: Marzo 29, 2014, 11:54:44 am »

28.03.14
Tito Boeri

Il ddl approvato dal Senato non abolisce affatto le province.
Si limita a svuotarle senza stabilire a chi andranno le loro funzioni, ripetendo gli errori del federalismo.
Difficile superare i 150 milioni di risparmi. E le città metropolitane sono già quindici.


NON ABOLISCE LE PROVINCE

Contrariamente a quanto proclamato da molti titoli di giornali, giovedì non abbiamo affatto dato l’addio alle province. Il disegno di legge approvato col voto di fiducia al Senato (dovrà adesso tornare alla Camera) non abolisce le province. Non poteva essere altrimenti dato che per farlo era necessaria una riforma costituzionale. Vero che la proposta di riforma del Titolo V della Costituzione, presentata assieme alla legge ordinaria a settembre 2013, si è persa nei meandri della Camera e ora è stata assorbita nella nuova proposta di abolizione del Senato. Speriamo di sprovincializzarci prima della fine della legislatura. Nel frattempo il disegno di legge appena approvato si limita a svuotare le province, a renderle più leggere, togliendo loro cariche (e compensi) direttivi. Come sempre nelle riforme incompiute, il rischio di rimanere a metà del guado, o meglio a mezz’aria, con province più leggere, acefale e svuotate di competenze, ma di fatto immortali, non va sottovalutato.

RISPARMI MODESTI
Per le ragioni di cui sopra, il testo approvato al Senato genera pochi risparmi. Né dipendenti né funzioni delle ex province scompaiono e, di conseguenza, non scompaiono neanche i costi relativi, la stragrande maggioranza delle spese di questo livello di governo. E siccome le province rimangono in vita, anche se la dirigenza politica è ora espressa in modo indiretto, non si riducono neanche le spese di rappresentanza degli altri enti territoriali e del governo presso le province. Quello che si risparmia con certezza è solo il finanziamento degli organi istituzionali (le indennità del presidente, assessori e consiglieri e i vari rimborsi connessi alle loro attività), che vengono aboliti, insieme alle spese delle relative consultazioni elettorali. Il finanziamento degli organi istituzionali è una partita di circa 110 milioni secondo gli ultimi dati disponibili. Non verrà azzerata dati i costi dei nuovi organi delle città metropolitane. Le consultazioni elettorali costano circa 320 milioni e si tengono ogni cinque anni, dunque il risparmio annuale è di circa 60 milioni, in totale i risparmi saranno attorno ai 150 milioni di euro. Meglio che nulla, ma certo non è una cifra particolarmente significativa su una spesa pubblica complessiva di circa 800 miliardi di euro. E non si tiene conto del fatto che la legge aumenta il numero di consiglieri comunali (vedi sotto): il Governo si è impegnato a rendere questa operazione a costo zero, ma è difficile aumentare le cariche senza aumentare le spese.

LE CITTÀ METROPOLITANE
Vengono istituite nove città metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria) sulla base di criteri interamente politici. Nessun riferimento alla struttura urbana, come dimostra il caso di Reggio Calabria. A queste si aggiungono Roma capitale e le cinque già istituite dalle Regioni a statuto autonomo (Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste). Il problema è che la legge, mentre non pone i paletti di criteri oggettivi sulla base dei quali fondare lo status di città metropolitane, apre la possibilità di istituire altre città metropolitane. Gioco facile, ad esempio, per Padova o Verona sostenere che se Venezia è città metropolitana, loro hanno molte più ragioni per diventarlo. Il rischio è che molte province (non solo i capoluoghi di Regione!) cambino solo denominazione trasformandosi in città metropolitane. Del resto, il territorio e le risorse finanziarie delle nuove città metropolitane coincidono con quelli delle vecchie province. Al contempo, regna grande la confusione su quali saranno le competenze dei nuovi enti locali, dunque forte il rischio di creare nuove sovrapposizioni (o conflitti) di competenze, come quello di dare nuove funzioni senza risorse adeguate. In tutta la legge approvata al Senato non c’è alcun tentativo di definire le funzioni più appropriate da allocare ai vari livelli di governo, e le risorse di cui dotarli, esattamente lo stesso errore compiuto nel costruire il “federalismo” al contrario negli ultimi venti anni.
L’unica nota positiva è che ci sono state risparmiate le città metropolitane “ciambelle” delle versioni precedenti del disegno di legge; non è più possibile per gruppi di comuni, magari strategicamente piazzati nel mezzo dei nuovi territori, decidere di andarsene e tenersi le vecchie province.

LE UNIONI DI COMUNI
Il testo varato dal Senato, infine, istituzionalizza e definisce anche le unioni di comuni (e le convenzioni), con sindaci e consiglieri dei comuni sottostanti che diventano, in parte, presidenti e membri del comitato e del consiglio dell’unione. Una scelta che può essere condivisibile per i comuni di piccoli dimensioni (il 75 per cento degli oltre 8mila comuni italiani ha meno di 5mila abitanti), che non hanno la dimensione sufficiente per offrire in modo efficiente i servizi. Con la riforma, la dimensione minima delle unioni dovrebbe raggiungere i 10mila abitanti (3mila per le comunità montane). Bene, ma perché non si è avuto il coraggio di andare più a fondo? Visto che per i piccoli comuni la gestione di tutti i servizi fondamentali in forma associata diventa obbligatoria, non si capisce bene perché non prevederne direttamente la fusione. Oppure lasciare ai comuni sottostanti meramente una funzione di rappresentanza. Invece, la legge prevede un incremento (rispetto a quanto definito dal Governo Monti) degli assessori, fino a quattro per i comuni dai 1000 fino ai 10mila abitanti, sia pure “senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica”. Vedremo quanto sarà vero. Si tratta di circa 25mila cariche in più. Lavoreranno tutti gratis? O gli altri consiglieri si faranno un’autoriduzione dei loro compensi?

UNA LEGGE RINVIO
In sostanza, quella approvata al Senato è una legge rinvio. Rinvia l’abolizione delle province e rinvia il riordino di funzioni e risorse fra i livelli di governo che dovrebbe sostituire i precedenti. Mentre il rinvio sul primo aspetto era inevitabile, non lo è sul secondo. Perché, ad esempio, non si è previsto che, una volta abolite le province sul piano costituzionale, tutte le funzioni e risorse passassero direttamente all’ente di governo di livello superiore, cioè le Regioni? Queste ultime, a loro volta, avrebbero potuto decidere come delegare funzioni e risorse: a proprie suddivisioni amministrative o alle nuove unioni di comuni previste dalla stessa legge. In attesa della riforma costituzionale, si poteva adottare qualche semplice criterio forfettario deciso dal Governo, basato sul costo storico delle funzioni rimaste alle province, per suddividere le risorse tra provincia e Regione, a cui potevano essere attribuite per default le funzioni non lasciate alle province. Ma il sospetto è che, anche in questo caso, sulla razionalità delle scelte abbia prevalso la fretta di poter esibire qualche trofeo e di giustificare agli occhi della Consulta il blocco delle elezioni dei consigli provinciali.

Da - http://www.lavoce.info/province-citta-metropolitane-unione-comuni-delrio/
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« Risposta #44 inserito:: Marzo 30, 2014, 11:37:19 am »

Bio dell'autore

Tito Boeri
Ph.D. in Economia alla New York University, per 10 anni è stato senior economist all'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, poi consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell'Ufficio Internazionale del Lavoro.

Oggi è professore ordinario all'Università Bocconi, dove è anche prorettore alla Ricerca.

E' Direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti, responsabile scientifico del festival dell'economia di Trento e collabora con La Repubblica.

I suoi saggi e articoli possono essere letti su www.igier.uni-bocconi.it.

... @Tboeri su Twitter

Da - http://www.lavoce.info/province-citta-metropolitane-unione-comuni-delrio/
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