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Autore Discussione: TITO BOERI. -  (Letto 35397 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Aprile 27, 2010, 12:04:45 pm »

IL COMMENTO

L'euro diventa scudo di vetro

di TITO BOERI

 La crisi d'insolvenza della Grecia è diventata nelle ultime due settimane una crisi di liquidità. È un'accelerazione e insieme un salto di qualità della crisi, di cui l'Europa porta una responsabilità non irrilevante. Intervenendo subito si sarebbe potuto evitare questa nuova escalation, pagando un costo molto più contenuto per uscirne. Non è più solo una crisi di insolvenza. Nelle ultime due settimane il mercato dei Cds, Credit Default Swaps, le assicurazioni contro il rischio di ripudio del debito è rimasto relativamente tranquillo. Ma sono schizzati verso l'alto i rendimenti dei titoli di stato. Il governo greco fatica sempre più a trovare qualcuno disposto a comprarli. Oggi è costretto ad offrire tassi vicini al 10 per cento. Si tratta di più di 10 euro all'anno in termini di potere d'acquisto per ogni cento investiti, dato che i prezzi in Grecia stanno calando.

Quando si pagano interessi così alti su un debito pari al 125 per cento del prodotto interno lordo, è impossibile stabilizzare il rapporto fra debito pubblico e pil. Per farlo bisognerebbe varare una manovra correttiva (più tasse e meno spese) pari a un quinto del reddito nazionale e sperare che in questo contesto l'economia non crolli più dell'1 per cento. Mission impossible. Per questo la Grecia ha deciso di chiedere l'aiuto promesso dall'Europa. Non può più farcela da sola.

I margini per evitare un ripudio del debito pubblico greco sono stati fin dall'inizio molto ristretti, Ma adesso è diventata una vera e propria corsa contro il tempo. Questione di giorni non più di mesi. Quando si attraversa una crisi di liquidità non basta più assicurare i mercati sul fatto che ci sarà un intervento esterno. Bisogna che questo intervento si manifesti subito, fornisca prestiti a condizioni meno onerose per evitare che la Grecia si metta su di una spirale esplosiva. Accanto alla fuga dai titoli nelle ultime settimane si è tra l'altro generata anche una fuga dai depositi bancari, con capitali frettolosamente trasferiti all'estero nel timore di un'uscita della Grecia dall'euro.
L'aggravarsi della crisi ha fatto lievitare i costi del salvataggio. Fin quando la Grecia pagava il 6 per cento sul debito pubblico, fino a un mese fa, l'Europa poteva limitarsi a fornire prestiti con agevolazioni del 3 per cento sui tassi di interesse del mercato. Avrebbe comportato al massimo un sussidio pari all'uno per mille del prodotto interno lordo dell'unione monetaria. Coi tassi di mercato attuali, il costo dell'operazione di salvataggio è quasi raddoppiato.

Di fronte alla richiesta esplicita del Governo greco, l'Europa sta però dimostrando in queste ore che l'aiuto europeo era poco più di una promessa. Come riferito in altre pagine di questo giornale, la Germania vuole aspettare il dopo elezioni e poi ci vorranno comunque altri 10 giorni prima di rendere il prestito operativo. Da qui al 19 maggio sono previste emissioni per 9 miliardi di titoli greci, circa tre punti e mezzo di pil. Certo, è difficile per la Merkel convincere i propri concittadini ad aiutare un paese che ha sistematicamente truccato i conti pubblici. Ma gli stessi cittadini non saranno oggi contenti di sapere che dovranno alla fine pagare un conto ancora più salato di quello che avrebbero trovato sul piatto nel caso di un intervento più tempestivo. Erano stati adeguatamente informati di questo rischio? Legittimo nutrire qualche dubbio.

Il nostro paese deve ora prepararsi ad uno scenario in cui lo scudo dell'Euro sarà sempre più tenue. Uno scudo di vetro ora che il Re è Nudo. Per rassicurare i mercati il nostro Paese dovrà ora convincerli che può tornare a crescere, condizione fondamentale per stabilizzare il debito pubblico. Non basta tenere stretti i cordoni della borsa. Bisogna far sì che le previsioni del Fondo Monetario sulla crescita italiana non si avverino. Implicano che il nostro debito salirà a livelli greci (125 per cento del prodotto interno lordo) nel 2015. All'obiettivo di tornare a crescere bisognerebbe consacrare oggi ogni attenzione. Invece si litiga su come redistribuire le sempre minori risorse disponibili fra Nord e Sud. 
 
© Riproduzione riservata (27 aprile 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 11, 2010, 06:16:22 pm »

MA IL DIVORZIO C'È GIÀ STATO

di Tito Boeri e Tommaso Monacelli 10.05.2010

L'intervento più importante deciso questo fine settimana riguarda la decisione della Bce di acquistare sul mercato secondario i titoli di stato di Portogallo e Spagna, a condizione che questi paesi adottino programmi adeguati di rientro del debito. E' una decisione senza precedenti, coerente con il Trattato (che impedisce alla Bce di comprare i titoli direttamente dai Governi, ma non di operare sul mercato secondario) e che può riuscire a scoraggiare chi investe sul default di questi paesi. La cosa importante è che tale intervento appaia come selettivo (solo alcuni mercati) e operato ex-ante (in modo da non sembrare un bailout ex-post). Deve quindi essere la Bce ad annunciare questo intervento, mostrando autonomia dai governi nella conduzione della politica monetaria. Per ragioni che ci risultano oscure il nostro Presidente del Consiglio, ha invece deciso di dare lui l'annuncio venerdì sera presentandolo come una decisione del vertice dei capi di governo dell'Eurogruppo di venerdì 7 maggio, ponendo in grave imbarazzo la Bce. A questo punto ai vertici della Banca Centrale Europea non è rimasto che smentire Berlusconi. Quello che doveva diventare un annuncio importante per rassicurare i mercati si è tradotto in una gaffe molto pericolosa per la credibilità che un'istituzione relativamente giovane come la Bce sta faticosamente acquistando sul campo. Il comportamento del nostro Presidente del Consiglio si può spiegare solo come smania di protagonismo e come basato sulla convinzione che la Banca centrale sia al servizio dei governi. Sappiamo che il riferimento ai divorzi in questo momento non è del tutto gradito al nostro Presidente del Consiglio, ma il divorzio fra Banca d'Italia e Tesoro si è consumato nel 1982. Non è proprio il momento di tornare indietro.

http://www.lavoce.info/articoli/-europa/pagina1001701.html
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« Risposta #17 inserito:: Maggio 11, 2010, 06:17:24 pm »

ORA NON AGGIUNGIAMO MIOPIA ALLA MIOPIA

di Tito Boeri e Tommaso Monacelli 10.05.2010

Sta accadendo quello che la Germania aveva sempre temuto. Proprio uno dei famigerati paesi mediterranei sta mettendo a repentaglio la stabilità dell’euro. Ma è ovvio che la responsabilità non è di un solo paese: il contagio sta accelerando a causa della miopia della politica economica europea. La mancanza di una procedura automatica di gestione delle crisi del debito sovrano sta facendo da volano della crisi: in queste fasi, niente è peggio della discrezionalità per incendiare i mercati. Questa procedura sarebbe tanto più necessaria visto che nell’Ume manca un’autorità fiscale sovranazionale. Il maxi fondo di salvataggio è solo un second best. Anche l'Europa sta avendo quindi la sua “crisi subprime”. Oggi le banche europee sono piene di titoli portoghesi, spagnoli e greci, esattamente come erano piene ieri di titoli derivati riferiti a pagamenti di mutui immobiliari. Il tutto si spiega con la debolezza dell’architettura fiscale della moneta unica. Si voleva far credere che i titoli del debito di tutti i paesi dell' Ume fossero tra loro perfettamente sostituibili. Si dirà: ma i mercati ci hanno creduto, vista la quasi stupefacente convergenza dei tassi di interesse a lungo termine in Europa. In realtà, questa convergenza si poggiava su una contraddizione. Le autorità europee (compresa la Bce) ripetevano alla noia che il bailout di uno stato sovrano sarebbe stato incompatibile con il Trattato. Ma è evidente a tutti che una convergenza dei tassi poteva aversi solo in presenza di una aspettativa diversa, di investitori convinti che i paesi dell'Euro erano al riparo dal rischio di un ripudio del debito sovrano, pur sapendo che i titoli del debito greco non potevano equipararsi ai Bund tedeschi. In pratica, la UE e la Bce mandavano ai mercati un segnale schizofrenico: evviva la convergenza sui tassi che si fonda su una ragione (quella del bailout) che in realtà noi dichiariamo essere incompatibile con l’esistenza stessa della moneta unica (!). Nessuno in Europa ha mai voluto risvegliare i mercati da questa placida ma pericolosa aspettativa.
Se non si vuole aggiungere miopia ad altra miopia bisogna adesso progettare meccanismi automatici di gestione della crisi del debito e forme di coordinamento delle politiche fiscale e sanzioni politiche automatiche (come la riduzione dei voti a livello europeo) ai paesi che non rispettano i patti.

http://www.lavoce.info/articoli/-300parole/pagina1001702.html
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« Risposta #18 inserito:: Giugno 08, 2010, 10:21:52 am »

IL COMMENTO

La previdenza flessibile

di TITO BOERI


IL ministro Tremonti aveva annunciato in televisione che con la sua manovra si sarebbe completata la riforma delle pensioni. Sarebbe stata posta la parole fine sullo stillicidio di micro-riforme della previdenza introdotte in questi anni. Non sarà così.

È passata una sola settimana e il governo deve tornare a mettere mano al capitolo pensioni. Anche questa volta colpendo soprattutto le donne. Vediamo perché, come si è arrivati a questa situazione, quali risparmi siano conseguibili con le misure che il governo si appresta a varare e come cercare di ridurre le iniquità di questi interventi.

La Commissione Europea non interviene sui regimi previdenziali degli stati membri, non ne ha la facoltà. Deve però garantire, come guardiana del Trattato istitutivo della Comunità Europea, una parità di trattamento tra uomini e donne da parte dei loro datori di lavoro. Lo Stato è il datore di lavoro dei pubblici dipendenti. Come tale, secondo la Corte di giustizia europea, non può trattare diversamente uomini e donne, offrendo a queste ultime la possibilità di andare in pensione a 60 anziché a 65 anni. Se lo Stato non è datore di lavoro, come nel caso dei lavoratori del settore privato, può introdurre differenze di genere nell'età pensionabile senza incorrere nelle sanzioni europee. E' un problema che riguarda il solo settore pubblico. Il governo italiano per rispettare la sentenza della Corte di giustizia europea aveva deciso di innalzare gradualmente, dal 2010 al 2018, l'età pensionabile delle lavoratrici del pubblico impiego, incrementandola di un anno ogni due. Oggi la Commissione ci chiede di fare più in fretta: entro il 2012.

La nostra infrazione è figlia di un'entrata in vigore troppo lenta della riforma che ha introdotto nel 1996 (15 anni fa!) il sistema contributivo in Italia. Se avessimo fatto come in Svezia, prevedendo una fase di transizione molto più rapida (15 anni anziché quasi 40) al sistema contributivo, il problema a questo punto non si porrebbe. In Italia, invece, si è preferito dilazionare i tempi di attuazione della riforma. Per poi intervenire con una lunga serie di piccoli aggiustamenti, forzatamente iniqui e parziali, che tra l'altro ci hanno allontanato sempre di più dal disegno della riforma varata nel 1996 senza un'ora di sciopero. L'ultimo aggiustamento è quello introdotto dal governo con la manovra economica varata la scorsa settimana, che prevede uno slittamento di dodici mesi per i lavoratori dipendenti e di diciotto mesi per i lavoratori autonomi dell'età in cui si va in pensione. Il ritardo è più forte per le pensioni di vecchiaia che per quelle di anzianità.

È un provvedimento che colpisce soprattutto le donne che hanno carriere lavorative molto più discontinue degli uomini (non da ultimo per il tempo da loro dedicato alla cura dei figli) e che in genere non riescono ad aver completato l'anzianità contributiva necessaria per godere della pensione di anzianità.

Il nostro Governo sembra intenzionato a recepire alla lettera la richiesta della Commissione Europea. Questo significa sei anni in meno per alzare a 65 anni l'età di pensionamento delle donne del pubblico impiego. E' un intervento che nella sostanza ripristina lo scalone della riforma Maroni-Tremonti del 2003. I risparmi di questa operazione saranno abbastanza contenuti, non dovrebbero superare i 300 milioni di euro all'anno, per poi calare progressivamente man mano che si applica il sistema contributivo, che fa aumentare l'ammontare delle pensioni se si va in pensione più tardi. Sarà un nuovo intervento che colpisce le donne dopo quello varato solo una settimana fa.

Se non si vuole continuare lo stillicidio di interventi, se non si vogliono introdurre nuove asimmetrie di trattamento cercando magari di rimediare a vecchie iniquità, c'è una sola cosa da fare. Bisogna tornare ai principi del sistema introdotto nel 1996. Questo significa garantire flessibilità sul quando andare in pensione permettendo a chi decide di ritardare l'andata in pensione di ottenere poi quiescenze più alte. Sarebbe un modo per rispondere ad esigenze diverse e a diverse lunghezze auspicate (o imposte dal mercato del lavoro) della vita lavorativa. Si potrebbe andare in pensione dai 60 ai 67 anni, applicando subito le riduzioni attuariali previste dalla riforma Dini fin dal 1996 per chi va in pensione prima dell'età massima. Per tutti, uomini e donne, dipendenti pubblici e privati. In questo modo si sarebbe più equi, sia tra uomini e donne che tra generazioni diverse, perché significa accelerare il passaggio al sistema che entrerà in vigore pienamente solo nel 2032 secondo la normativa attuale. I risparmi sarebbero più consistenti dei provvedimenti tappabuchi e improvvisati di questi anni. E si terrebbe conto del fatto che i tempi del lavoro e del non lavoro sono diversi non solo tra uomini e donne, ma anche tra le persone dello stesso sesso, cioè tra le donne e gli uomini che hanno fatto scelte diverse in quanto a responsabilità famigliari, carriere lavorative, redditi per la vecchiaia e durata del loro impegno professionale.

(08 giugno 2010)
http://www.repubblica.it/economia/2010/06/08/news/la_previdenza_flessibile-4656869/?ref=HREA-1
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« Risposta #19 inserito:: Giugno 16, 2010, 02:33:26 pm »

IL COMMENTO

L'anomalia del Lodo Marchionne

di TITO BOERI

Questo è un accordo necessario, inevitabile. Di cui non andare certo fieri perché mette a nudo i limiti del nostro sistema di relazioni industriali, dei regimi di contrattazione e la persistente arretratezza del Mezzogiorno. Renderlo un esempio, caricarlo di significati, come hanno fatto in questi giorni sia il Ministro Sacconi, sia alcune frange estreme del sindacato, equivale a giocare cinicamente con il lavoro, la principale fonte di reddito di 5.000 famiglie in una delle zone più povere del nostro paese.

L'unica vera lezione su scala nazionale da trarre da questa vertenza è che una riforma seria delle regole che governano la contrattazione e le rappresentanze sindacali non è più rinviabile. L'anomalia di questo accordo è che si deve occupare di due questioni che normalmente non dovrebbero competere alla contrattazione aziendale.

Il primo problema è quello degli impegni vincolanti che le parti possono prendere. C'è un'impresa che deve decidere dove investire 700 milioni per la produzione della nuova Panda, sapendo bene di avere potere contrattuale solo prima di avere compiuto questa scelta. Adesso che la Fiat sta decidendo se investire in Italia o in Polonia, può dettare le sue condizioni. Una volta fatto l'investimento, sarà la controparte, forte di una scelta per l'azienda irreversibile, a poter dettare le sue condizioni. Naturale che un'impresa che si trova in una situazione di questo tipo chieda delle garanzie, voglia assicurarsi che i patti sottoscritti prima di realizzare l'investimento verranno rispettati dopo, una volta che questo è stato attuato. Se anche un solo sindacato non firma, questo avrà poi mano libera nel rinegoziare un accordo che impone turni molto pesanti. Per questo motivo la Fiat impone clausole che limitino il ricorso allo sciopero degli straordinari una volta realizzato l'investimento. Il problema non si porrebbe se avessimo una legge sulle rappresentanze che vincola i lavoratori al rispetto degli impegni presi dai loro rappresentanti, liberamente eletti, che rispondono regolarmente del loro operato di fronte ai lavoratori. Se questi rappresentanti non riescono a trovare un accordo tra di loro, saranno i lavoratori a scegliere con gli strumenti della democrazia diretta, mediante un referendum che vincoli poi tutti al rispetto delle volontà della maggioranza.

Il secondo problema è quello delle misure contro l'assenteismo. Le nuove tecnologie previste per Pomigliano d'Arco sono efficienti solo con tassi di assenteismo fisiologici, come quelli che si osservano mediamente nelle imprese private italiane. Non lo sono con i picchi di assenteismo registrati in passato a Pomigliano, in occasione di partite di calcio, tornate elettorali e altri eventi, che nulla hanno a che vedere con la diffusione di malattie fra le maestranze. Questi comportamenti non sono stati sin qui sanzionati in alcun modo. Al contrario, sono stati protetti dalla camorra (e dai suoi sindacati gialli) anche quando hanno obiettivamente messo a rischio i posti di lavoro degli altri lavoratori. Non c'è stata neanche sanzione sociale contro questo assenteismo. Ora l'azienda vuole scoraggiare questi comportamenti, liberandosi dall'obbligo di retribuire i lavoratori responsabili di questi ingiustificati picchi di assenteismo.

Entrambi i problemi dovranno essere affrontati nei tempi ristretti imposti dalle strategie della Fiat e dei suoi concorrenti. Bene allora affidarsi al pragmatismo. Ad esempio, l'azienda torinese potrebbe rinunciare alla clausola di responsabilità in cambio della sottoscrizione dell'accordo da parte della Fiom, che si oppone soprattutto a questa clausola. L'azienda potrebbe anche impegnarsi una campagna di informazione sui costi collettivi dell'assenteismo e di contrasto delle infiltrazioni della camorra fra le rappresentanze dei lavoratori, in collaborazione col sindacato. Sarebbe anche un modo per la Fiat di saldare una piccola parte del debito che ha accumulato nei confronti dello Stato italiano, così generoso in tutti questi anni ne confronti dell'azienda torinese. Bene ricordare che l'accordo contempla un ulteriore intervento del contribuente mediante l'utilizzo dei fondi della Cassa Integrazione in deroga.

Il tempo residuo prima del referendum fissato per martedi prossimo può essere sfruttato per trovare un accordo su queste basi. Nel frattempo fondamentale che la politica si astenga dall'intervenire. Meglio se il Presidente del Senato ieri, invece di intervenire anche lui sulla vicenda, avesse cercato di fare spazio nell'agenda di Palazzo Madama al disegno di legge sulle rappresentanze, di cui primo firmatario è il senatore Paolo Nerozzi. E' un modo per spingere il sindacato a trovare finalmente un accordo su queste regole indispensabili. Il Ministro del Lavoro farebbe invece bene a discutere col titolare del dicastero all'economia di norme più efficaci che possano favorire un legame più stretto fra salari e produttività, tali da scoraggiare comportamenti opportunistici di aziende e dipendenti. E' dal 1997 che il contribuente paga di fatto incentivi alla contrattazione di secondo livello che si sono rivelati sin qui del tutto inefficaci. Stranamente la manovra "lacrime e sangue" li ha non solo confermati, ma addirittura ampliati. Quella stessa manovra ha svuotato la pseudo intesa del gennaio 2009 sulla riforma degli assetti contrattuali, che prevede la sostituzione del TIP, tasso di inflazione programmata, con l'IPCA, indice dei prezzi al consumo armonizzato. Doveva essere l'ISAE, uno degli enti aboliti dal Governo, a stimare questo parametro. Non potrà certo essere un datore di lavoro, come lo Stato che ha assorbito i dipendenti dell'Isae, a fornire questo numero da cui dipendono gli incrementi salariali per milioni di dipendenti. Bene cogliere la palla al balzo per rivedere davvero le regole della contrattazione coinvolgendo questa volta la Cgil.

(16 giugno 2010)
http://www.repubblica.it/economia/2010/06/16/news/l_anomalia_del_lodo_marchionne-4877065/?ref=HRER1-1
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« Risposta #20 inserito:: Giugno 19, 2010, 09:24:58 am »

L'economista

'La soluzione? Più incentivi'

di Federica Bianchi

L'accordo su Pomigliano non è un passo in avanti. La Fiat avrebbe dovuto legare i salari alla produttività.

Intervista a Tito Boeri
(16 giugno 2010)

Tito Boeri"L'accordo proposto dalla Fiat per Pomigliano pone dei paletti ai diritti dei lavoratori. Ma difende l'azienda da un eccessivo livello di assenteismo e da una produttività insufficiente in rapporto all'investimento". Parla Tito Boeri, docente di Economia del lavoro alla Bocconi e uno dei maggiori esperti italiani in materia. "È un accordo importante perché sono in ballo 5 mila posti di lavoro in un'area con tasso di disoccupazione molto alto. Ed è un accordo che mette in luce i ritardi di una riforma degli assetti contrattuali. Se avessimo affrontato per tempo una serie di nodi del nostro sistema di contrattazione questo accordo e molte delle tensioni che ha causato non ci sarebbero. Quello che la Fiat chiede di fatto è che chi non firma l'accordo non possa dichiarare uno sciopero degli straordinari una volta che l'investimento viene fatto. È una richiesta comprensibile perché è un'azienda che deve fare un investimento importante e sa che se non chiude questo accordo prima, una volta fatto, rischia di essere fortemente penalizzata".

Non esistono altre soluzioni?
"La soluzione vera sarebbe quella di avere una legge per cui i lavoratori possano decidere a priori il loro rappresentante e conferirgli il potere di sottoscrivere un accordo a nome di tutti. Sarebbe un modo per vincolare datori di lavoro e lavoratori al rispetto dell'accordo. Se poi i lavoratori non sono contenti del loro agente negoziale lo potranno cambiare. Il problema della Fiat è che ci sono tante sigle diverse e alcune si chiamano fuori dalla firma per avere poi mano libera".

Ma l'accordo è un passo indietro o avanti per il lavoro in Italia?
"Non è né un passo in avanti né indietro. Ci sono degli aspetti che potevano essere meglio affrontati migliorando gli incentivi sulla produttività e ampliando la contrattazione di secondo livello, oppure cambiando alcune regole sulle assenze per malattia. Non mi piace che l'accordo intervenga sulle assenze per malattia e sui permessi sindacali, cose che non dovrebbero rientrare nella contrattazione aziendale. Il modo giusto per risolvere il problema dell'assenteismo sarebbe quello di potenziare gli incentivi alla produttività. Un alto tasso di assenteismo si dovrebbe tradurre in salari più bassi, cosa che costringerebbe i lavoratori ad atteggiamenti più responsabili".

Perché i sindacati non sono riusciti ad ottenere incentivi legati alla produttività?
"È un limite dell'accordo. Credo si potesse fare meglio".

Con questo rimescolamento delle regole non corriamo il rischio che l'Italia assomigli alla Cina?
"Non c'è dubbio che la pressione competitiva dei Paesi emergenti sia fortissima, ma il fatto che ci sia più concorrenza non vuol dire che debba esserci un appiattimento verso il basso nelle retribuzioni e nelle condizioni lavorative. Il nocciolo di tutto è la produttività: se è bassa, conta solo il salario, se è elevata e c'è un differenziale importante tra lavoratori italiani e cinesi, ad esempio, allora la differenza di produttività può trasferirsi sul salario dei lavoratori senza penalizzare la competitività. Per l'azienda quello che conta è il costo del lavoro per unità di prodotto. Se la produttività langue, come accade in Italia da 15 anni, pur in presenza di salari piatti, un Paese perde competitività e il costo del lavoro aumenta".

A cosa è dovuta la diminuzione di competitività in Italia?
"Scarsa innovazione da parte delle imprese, mancate liberalizzazioni dei servizi, concorrenza che non è andata avanti, riforme strutturali mancate, ma anche un rapporto problematico tra salari e produttività. Secondo uno studio che abbiamo fatto per la Fondazione De Benedetti, l'adozione di schemi incentivanti potrebbe portare a sensibili incrementi della produttività del lavoro, intorno al 5 per cento. E poi bisognerebbe ridurre il dualismo del mercato del lavoro: la diffusione dei contratti temporanei porta a una diminuzione della produttività media. Occorrerebbe un contratto unico per tutti, con tutele progressive per i lavoratori".

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/La-soluzione-Pi%C3%B9-incentivi/2129215
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 15, 2010, 12:36:14 pm »

L'ANALISI

Un salto nel buio

di TITO BOERI

A scatola chiusa, meglio sigillata, il Senato oggi voterà la manovra economica. Avremo il solito maxiemendamento (un solo articolo per circa 600 commi) da approvare o rigettare nella sua totalità: o tutto o niente. Sarà un voto di fiducia, politico anziché sui contenuti della manovra. Fin qui nulla di nuovo. Ma questa volta i senatori voteranno ancora più al buio del solito. Dovranno davvero fidarsi dell'esecutivo: a poche ore dal voto dell'Aula non era infatti ancora disponibile la tabella che riassume e quantifica gli effetti delle variazioni apportate al testo originario del decreto nell'ultimo mese e mezzo. Come spesso accade, queste modifiche vengono introdotte all'ultimo momento dai sottosegretari e possono anche differenziarsi significativamente da quelle approvate in Commissione Bilancio.

La manovra è importante, ma piccola al cospetto degli altri paesi europei. Se da noi ci sono "lacrime e  ue", chissà cosa dovrebbero dire i cittadini francesi e belgi, che subiscono un aggiustamento fiscale tre volte superiore al nostro. Per non parlare dei cittadini di paesi nell'epicentro della crisi con aggiustamenti da cinque (Portogallo) a dieci (Irlanda) volte maggiori del nostro. Non possiamo che augurarci che non si rendano fra un anno necessari nuovi interventi correttivi, date dimensioni e crescita inarrestabile del nostro debito pubblico. Aumenta di 1.300 euro al secondo. Ci sono, peraltro, molte scommesse nel decreto, dal successo della lotta all'evasione, che conta per un terzo della manovra, al fatto che i tagli ai consumi intermedi dei Ministeri siano tagli veri e non semplici rinvii di spese ad esercizi futuri. Le misure draconiane inizialmente previste in caso di accertamento di somme dovute al fisco sono state fortemente depotenziate in Commissione Bilancio dopo le proteste di Confindustria e questo non potrà che avere effetti significativi sulle entrate.

Se il governo aveva poco margine nel decidere l'entità dell'aggiustamento, posti i vincoli internazionali, e certamente non poteva fare una cura dimagrante ancora meno impegnativa, certamente aveva ampi margini nel decidere la composizione (fra maggiori entrate e minori spese), la qualità (gli effetti sulla crescita economica) e il profilo distributivo della manovra. È principalmente su questi aspetti che deve essere, dunque, giudicato il suo operato.

La composizione della manovra è molto diversa da quella inizialmente annunciata e da quanto previsto in altri paesi. Ben il 40 per cento dell'aggiustamento è legato a maggiori entrate, anziché a minori spese. Nel Regno Unito i tagli alle spese (soprattutto dei ministeri) contribuiscono fino all'80 per cento della manovra. Anche in Belgio, Germania, Irlanda e Spagna la parte preponderante della manovra avviene sul lato delle spese. I nostri tagli alle spese sono peraltro fortemente concentrati (al 60 per cento) sulle autonomie locali. È quanto avviene, in paesi come Germania e la Svizzera, dove in gran parte il federalismo c'è già e c'è un legame forte fra tasse e gestione della spesa a livello locale, che impone maggiore disciplina ai politici nella gestione dei bilanci decentrati. Da noi il rischio che questi tagli si trasformino in aumento del debito locale è molto più forte. I tagli all'amministrazione centrale dello Stato sono stati inoltre ulteriormente depotenziati dal passaggio parlamentare. Gli emendamenti agli articoli 6, 7, 8 e 9 della manovra sono tutto un fiorire di deroghe. Come dire, i tagli meglio farli fare agli altri.

La qualità della manovra non è certamente migliorata dopo gli emendamenti. Sono state accolte le richieste dei gruppi che avevano maggiore potere contrattuale. Stupisce, in questo quadro, lo scarso peso politico delle Regioni, che non sono riuscite minimamente a incidere sul testo. I commi sulla cosiddetta "premialità" sono una presa in giro. Come possono le Regioni mettersi d'accordo nel ripartire una quota (circa un ottavo) dei tagli? Chiunque subirà in questa redistribuzione tagli ancora più consistenti prevedibilmente si opporrà strenuamente a "premi" dati ad altre Regioni. Il fatto è che i nuovi Governatori della Lega hanno rotto il fronte, forse perché hanno portato a casa il rinvio del pagamento delle rate delle quote latte, un'operazione che costerà fino a 25 milioni di euro di multa al contribuente italiano. Si è, invece, evitato accuratamente di ricalibrare la manovra verso interventi a sostegno della crescita e dell'occupazione e riforme strutturali. Mentre altrove la manovra sostiene la ricerca, da noi i tagli più consistenti hanno sin qui riguardato proprio l'istruzione terziaria. Scelta quanto meno singolare.

È solo peggiorato in Parlamento il profilo distributivo della manovra. Sancito l'abbandono di ogni intervento di contrasto alla povertà, con l'esaurimento della carta acquisti, messo da parte ogni disegno di ampliamento della copertura degli ammortizzatori sociali, si è operato chirurgicamente per introdurre trasferimenti dai ricchi ai poveri. Il blocco degli automatismi stipendiali nella scuola e nell'università colpisce coloro che hanno le retribuzioni più basse, i più giovani, che subiscono perdite fino a un terzo del loro reddito netto, secondo le stime di Baldini e Caruso (www. lavoce. info), quando i docenti con maggiore anzianità vengono quasi del tutto risparmiati dai tagli. I politici, che dovevano dare l'esempio a tutti, sono stati ulteriormente messi al riparo: il passaggio parlamentare ha annullato il taglio degli stipendi dei consiglieri di amministrazione degli enti finanziati dallo stato e ha ripristinato le indennità dei consiglieri circoscrizionali nei Comuni più grandi. Dopo aver ascoltato per giorni i titoli di testa del Tg1 annunciare copiosi tagli dei costi della politica, ci siamo accorti un mese e mezzo fa che questi presunti tagli offrivano un contributo di meno di un milione ad una manovra di quasi 25 miliardi. Adesso anche quel meno di un milione sembra sparito nel nulla. Neanche il simbolo di un taglio alla politica ci hanno lasciato. Ma non lo verremo certo a sapere dal Tg delle 20.

(15 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/07/15/news/boeri_manovra-5595053/?ref=HRER2-1
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 14, 2010, 04:13:04 pm »

Una per una, le bugie di B.

di Tito Boeri

Tasse. Welfare. Edilizia. Alitalia. Aiuti alle imprese. Un economista ha letto dalla prima all'ultima riga il libretto che Berlusconi farà distribuire in autunno. E ha confrontato la propaganda con la realtà dei fatti

(12 agosto 2010)

Se questo è il biglietto da visita per la campagna elettorale, è probabile che Berlusconi farà di tutto per evitarla. Magro il bottino di due anni di Governo sul piano della politica economica, nonostante la grandissima forza parlamentare di cui ha potuto contare quella che era fino a pochi giorni fa la maggioranza uscita vittoriosa dal voto del maggio 2008. Come direbbe l'attuale allenatore del Real Madrid, ci sono nel libretto "molti tituli, ma sero riforme".

Non a caso la parte sulle "grandi riforme" viene pudicamente relegata alla fine. Ne elenca tre: scuola, università e pubblica amministrazione.

La cosiddetta riforma della scuola è sin qui consistita solamente in tagli al personale, con la reintroduzione del maestro prevalente nella scuola primaria, la riduzione dell'orario d'insegnamento nella scuola secondaria (sia di primo che di secondo grado), la riduzione degli indirizzi nella scuola secondaria di secondo grado e la richiesta di compartecipazione delle famiglie alla spesa. Il tutto esclusivamente nella scuola pubblica, dato che il finanziamento alle scuole private "paritarie" non è stato ridotto. Per chiamarla riforma ci vuole tanto coraggio. Simile la strategia seguita nei confronti dell'università, perseguita con la riduzione del fondo di finanziamento ordinario. Il disegno di legge che entro fine anno dovrebbe andare alla Camera porterà, se non viene ulteriormente diluito nei suoi aspetti innovativi, a qualche cambiamento nella governance delle università, e non prima della fine legislatura, dato che si basa sull'esercizio di deleghe. Insomma è, al massimo, una scommessa di riforma, su aspetti relativamente marginali, che non intaccano davvero la ricerca e la didattica.

Quella della pubblica amministrazione è forse l'unica riforma avviata da questo Governo, ma è stata cancellata ancor prima di entrare in vigore dalla manovra appena varata che ha posto tetti alla crescita delle retribuzioni nel pubblico impiego in modo del tutto indiscriminato, in barba ai premi al merito introdotti dalla riforma Brunetta. Nel frattempo la riforma ha perso per strada le norme sulla trasparenza della dirigenza pubblica (davvero importanti anche alla luce degli scandali nella gestione della Protezione Civile), si è esclusa dall'applicazione della riforma la presidenza del Consiglio dei ministri segnale evidente del fatto che nessuno ci crede in questa riforma e si è di molto depotenziata la class action contro le pubbliche amministrazioni e i concessionari pubblici.

C'è molto editing da fare nel documento. Molte le ripetizioni e non poche le contraddizioni. A p.5 si rimarca come si sia dovuto intervenire per ridurre i compensi dei dirigenti pubblici e dei magistrati, ma a p.7 si rivendica il fatto di non avere tagliato gli stipendi a nessuno. Forse gli autori di queste schede non si sono parlati. La verità è che gli unici compensi ad essere tagliati in modo significativo sono quelli dei ricercatori universitari che, con il blocco degli scatti di anzianità, si vedono ridurre le loro retribuzioni fino al 15 per cento. Il vero risultato che questo governo può esibire sul piano della politica economica è quello di aver contenuto il peggioramento dei conti pubblici durante la crisi.

Lo ha fatto adottando la strategia dell'immobilismo. Scegliendo di non scegliere si è evitato di cedere alle richieste di sostegno che venivano un po' da tutte le parti, ma si è anche sbarrata la strada a misure anticicliche, che avrebbero reso la recessione meno pesante, contenendo il calo del reddito pro capite degli italiani. Nonostante i trionfali titoli di testa dei TG1 della scorsa settimana, la produzione industriale è tuttora del 20 per cento al di sotto dei livelli pre-crisi, il prodotto interno lordo + del 6 per cento più basso. Non solo il calo è stato più forte pur non avendo vissuto lo scoppio di una bolla finanziaria o il fallimento di una grande banca, ma anche la ripresa è più lenta che altrove. In effetti il Governo ha preferito accettare un maggior impatto della crisi pur di evitare un aggravamento dei conti pubblici in un paese già fortemente indebitato.

 
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« Risposta #23 inserito:: Agosto 25, 2010, 04:14:53 pm »

FIAT

Quegli errori da evitare

di TITO BOERI


Il Presidente Napolitano ha chiesto alla Fiat 1 di rispettare le sentenze e quindi di reintegrare a tutti gli effetti i tre lavoratori prima licenziati e poi riammessi solo formalmente senza poter esser messi in condizione di lavorare.

Nel ricordare opportunamente i principi cardine di uno stato di diritto, il capo dello Stato ha auspicato che si creino le "condizioni per un confronto pacato e serio su questioni di grande rilievo come quelle del futuro dell'attività della maggiore azienda manifatturiera italiana e dell'evoluzione delle relazioni industriali nel contesto di una aspra competizione sul mercato globale". Perché il Presidente ha inteso riferirsi a questioni di portata così generale anziché limitarsi al caso specifico dei tre lavoratori che lo avevano interpellato?
E perché Fiat ha affrontato uno scontro così duro a Melfi, incorrendo nella censura della massima autorità dello Stato, in un momento in cui in Italia, a Pomigliano, sono in gioco accordi ben più importanti per il suo futuro?

Marchionne è oggi impegnato nella realizzazione di un piano industriale ambizioso che, come negli Stati Uniti, richiederà la massima collaborazione dei lavoratori. Perché allora apre un nuovo terreno di conflitto che ricompatta il sindacato e che schiera anche l'opinione pubblica, gran parte della stampa e la stessa classe politica dalla parte dei tre lavoratori che dovevano essere reintegrati? Alcuni hanno parlato di mobbing, un tentativo di convincere i lavoratori ad autosospendersi, a lasciare volontariamente l'azienda. Anche nelle squadre di calcio i "lavoratori" in esubero, indesiderati, vengono costretti ad allenarsi a parte, non possono lavorare assieme al gruppo.

Formalmente per non contaminare il morale degli altri. In verità per convincerli ad andarsene e risparmiare così sui loro ingaggi. Ma se la famiglia Agnelli si occupa oggi quasi esclusivamente della Juve, e tenderà a farlo ancora di più dopo lo scorporo che ne diluisce la quota di controllo in Fiat-auto, la multinazionale Fiat ha oggi strategie che vanno ben al di là del problema di tre lavoratori in uno dei suoi impianti. Oggi Marchionne può permettersi di scegliere sistema di relazioni industriali e il sistema prevalente in Italia proprio non gli va. Come presumibilmente non va bene a molte altre aziende che potrebbero investire da noi e che non lo fanno. Il fatto è che non esiste in Italia un sistema di relazioni industriali che vincoli al rispetto di un accordo raggiunto prima di realizzare un grande investimento, prima di costruire un nuovo impianto. Fiat vuole tutelarsi contro il rischio che l'accordo raggiunto a Pomigliano possa essere vanificato una volta che l'azienda ha realizzato l'investimento, rinunciando a farlo in altri paesi. Non vuole trovarsi in una condizione in cui una minoranza di lavoratori possa indire uno sciopero per rimettere in discussione i contenuti dell'accordo siglato prima di realizzare l'investimento. Bloccando la produzione che, in uno stabilimento fortemente automatizzato, può essere interrotta avvicinandosi a uno dei radar che costellano la catena di montaggio. È quanto, secondo l'azienda, sarebbe avvenuto a Melfi, quando i lavoratori hanno convocato un'assemblea lungo il ciclo di produzione avvicinandosi troppo ad un sensore "allo scopo di bloccare la produzione".

Un sistema di relazioni industriali deve essere in grado di prendere impegni vincolanti per le parti. Questo è un presupposto perché ci sia contrattazione, perché i lavoratori possano far valere le loro ragioni. Se non c'è modo di impegnarsi in modo credibile, non ci sarà l'accordo, dunque non ci sarà l'investimento. Cosa fareste voi sapendo che un vostro potenziale assicuratore può ridiscutere i contenuti della polizza che state negoziando, riducendo la protezione che vi ha offerto quando avete pagato il premio assicurativo, una volta che avete avuto un incidente? Scegliereste un altro assicuratore in grado di impegnarsi al rispetto dei contenuti della polizza sottoscritta. Un sistema giudiziario in uno stato di diritto serve a permettere che i contratti vengano rispettati. Per questo Fiat ha commesso un grave errore nel non applicare la sentenza di primo grado, anziché limitarsi a cercare di far valere le proprie ragioni in un successivo grado di giudizio. Ma il problema rimane. Come quello affrontato a Pomigliano, dove la Fiat ha scelto di creare una nuova società per assicurarsi il rispetto di un contratto aziendale che avrebbe altrimenti potuto essere impugnato se riconosciuto in violazione del contratto nazionale dei metalmeccanici, applicabile alla "vecchia compagnia". Anche questo è un problema che non può essere ignorato. Il fatto è che il nostro sistema di relazioni industriali funzionava finché c'era un'intesa di fondo fra i diversi sindacati e quindi gli accordi da questi sottoscritti impegnavano tutti i lavoratori. Funzionava anche quando le aziende di una categoria avevano esigenze relativamente simili e quindi contratti sottoscritti a livello nazionale per un insieme di aziende non troppo diverse tra di loro erano adattabili alle diverse realtà aziendali. Oggi queste due condizioni non ci sono più. Il sindacato è diviso al suo interno e le aziende presenti nel nostro paese hanno esigenze talmente diverse che si fatica a chiudere i contratti a livello nazionale. Basti pensare che l'accordo normativo per i metalmeccanici risale addirittura al 1972, come ha ricordato Pietro Ichino.

Per questi motivi raccogliere l'invito di Napolitano a un "confronto pacato e serio", significa varare rapidamente una legge sulle rappresentanze che permetta ai lavoratori, azienda per azienda, di scegliere i loro rappresentanti, offrendo a questi ultimi la possibilità di impegnarsi al rispetto delle intese raggiunte. Nel caso in cui l'accordo non piaccia, i lavoratori potranno cambiare i rappresentanti alle successive elezioni aziendali. Per questi motivi un ministro del Lavoro che ha fatto di tutto per dividere il sindacato deve oggi prendere atto della vera natura del problema, imponendo che il tema delle rappresentanze venga inserito nell'agenda di fine legislatura. Deve anche ammettere nei fatti che quello "storico accordo" del 22 gennaio 2009 sulle nuove regole della contrattazione non è palesemente in grado di governare "l'evoluzione delle relazioni industriali nel contesto di una aspra competizione sul mercato globale". E' tempo allora di riaprire il tavolo sulla riforma del sistema di contrattazione, facendo di tutto questa volta perché un accordo vero venga trovato. Vero significa anche che deve impegnare chi poi dovrà applicare queste regole, a partire dalla Cgil, il sindacato che oggi ha il maggior numero di iscritti.

(25 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/08/25/news/fiat_commento-6493135/?ref=HREA-1
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 05, 2010, 09:55:09 am »

PAROLE D'ESTATE

di Tito Boeri 01.09.2010


L'estate 2010 sarà ricordata per le tante parole spese sulla partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Ne hanno dibattuto ministri e banchieri, gli stessi che non hanno mai fatto niente per metterla in pratica. Ma non serve una legge perché già ora in Italia non c'è nessun impedimento a rendere i dipendenti partecipi dei profitti aziendali. Meglio sarebbe ridurre il carico fiscale che grava sul lavoro spostandolo sulle rendite, a partire da quelle finanziarie. Non farà piacere ai banchieri, ma farà aumentare la partecipazione al mercato del lavoro

Agosto è, da sempre, il mese delle parole in libertà nel Belpaese. I giornali sono avidi di spunti da offrire a lettori che non hanno voglia o modo di approfondire, di chiedersi chi, come e perché. E poi ci sono tante tribune nei luoghi di villeggiatura per chi vuole cimentare le proprie arti oratorie. Gli applausi sono garantiti. Il pubblico è in vacanza, cerca diversivi ed è di bocca buona.

TUTTI PAZZI PER LA PARTECIPAZIONE AGLI UTILI DI IMPRESA

Questo agosto è stata di moda la partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Ne hanno parlato in quel di Rimini, tra gli altri, Cesare Geronzi (“vanno sperimentate forme articolate di partecipazione ai risultati aziendali”), Maurizio Sacconi (“Giusto che i lavoratori acquisiscano il diritto a condividere i risultati delle loro fatiche anche in termini di salario collegato ai risultati dell’attività aziendale”) e, infine, Giulio Tremonti (“la politica di combinazione tra capitale e lavoro va sviluppata con una remunerazione calcolata sugli utili delle imprese”).

Belle parole. Ma cosa vorranno dire? Strano che nessun sul palco abbia chiesto chiarimenti agli illustri relatori. Peccato anche perché forse la folla adriatica avrebbe apprezzato moderatori che incalzavano gli ospiti invece di limitarsi a ossequiarli. Non possiamo allora che cercare di carpire il significato di queste parole dai comportamenti di chi le ha pronunciate. Dopotutto, non c’è nulla, proprio nulla, che impedisca loro di metterle in pratica. Nel loro piccolo o grande che sia.

Cesare Geronzi è stato, in sequenza, direttore generale della Cassa di Risparmio di Roma, poi Banca di Roma e Capitalia, presidente di Mediobanca e di Assicurazioni Generali. Queste aziende hanno conseguito profitti ingenti durante la sua reggenza. Ma non ci risulta che Geronzi abbia reso i suoi dipendenti “partecipi dei risultati aziendali”. Forse intendeva rendere partecipi gli stakeholders, le famiglie che avevano messo i loro risparmi in queste banche. In effetti, la Banca di Roma ha indotto molte di loro a comprare azioni e obbligazioni Cirio e Parmalat, partecipando attivamente al crac di queste società. Una partecipazione utile, ma per qualcun altro.

Giulio Tremonti è stato ministro dell’Economia (per otto degli ultimi dieci anni e in tre degli ultimi quattro governi) e Maurizio Sacconi ministro del Lavoro (da due anni, prima per cinque anni è stato sottosegretario). Da molto tempo hanno annunciato una legge sulla partecipazione agli utili dei lavoratori. L’ultima volta in cui avevano dichiarato che sarebbe stata “legge entro l’anno” era esattamente un anno fa. Da allora non se ne è saputo più nulla. C’era anche un testo bi-partisan elaborato dalla commissione Lavoro del Senato di cui si è perso traccia. I contribuenti italiani (tra cui soprattutto ci sono lavoratori dipendenti) hanno comunque nel frattempo partecipato alle perdite di Alitalia, accollandosi circa 3 miliardi di debiti della “bad company”.

Non che sia andata meglio ai dipendenti degli studi professionali. Forse qualcuno si era illuso leggendo del divieto per gli avvocati di costituirsi in società di capitali, una misura che verrà presto estesa a tutti gli ordini professionali, secondo il Guardasigilli Alfano. Forse, avrà pensato, serve affinché gli studi spartiscano gli utili coi loro dipendenti, anziché con gli azionisti. Purtroppo, bene che ne sia consapevole, serve solo a escludere la concorrenza, quei dipendenti che aspirano, prima o poi, a metter su il loro studio professionale. Avranno, purtroppo, vita ancora più dura: ritorno alle tariffe minime inderogabili, divieto di pubblicità, esami di ingresso ancora più difficili. Invece della partecipazione agli utili si sta promuovendo la cooptazione negli ordini da parte di chi un posto al sole, ce l’ha già. 

Al posto delle promesse liberalizzazioni ci sono quindi solo le parole in libertà. Ne faremmo volentieri a meno. E francamente faremmo a meno anche di una legge sempre promessa e mai realizzata sulla partecipazione agli utili dei lavoratori. Il motivo è che non c’è nessun legittimo impedimento a rendere i propri dipendenti partecipi dei profitti aziendali in Italia, anziché limitarsi a farli partecipare, spesso inconsapevolmente, ai fallimenti societari.

Ma una cosa invece sì, ci sentiamo di chiederla a chi continua a prendere in giro milioni di lavoratori. Riducete il carico fiscale che grava sul lavoro, riequilibrando il gettito, in modo tale da spostarlo dal lavoro alle rendite, a partire da quelle finanziarie. Non farà piacere ai banchieri, ma farà aumentare la partecipazione al mercato del lavoro, rivelandosi utile nel far aumentare la ricchezza di tutti.

http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001875.html
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« Risposta #25 inserito:: Dicembre 29, 2010, 06:37:30 pm »

L'ANALISI

Le regole dimenticate

di TITO BOERI

DA POMIGLIANO a Mirafiori si ripete il copione. La politica si schiera a favore o contro Marchionne. Si parla di accordi storici, di svolte epocali oppure vengono invocati diritti fondamentali calpestati e violazioni della Costituzione. Sono tutte parole fuorvianti, pericolose perché di mezzo ci sono i posti di lavoro e i redditi di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Il nodo vero è sempre quello delle regole della rappresentanza. Ed è perciò ancora più grave che non si sia cercato in tutti questi mesi di porvi rimedio.

La responsabilità ricade in eguale misura sul governo, che continua a ignorare il problema e punta in ogni occasione a dividere il sindacato, e sui vertici sindacali, giunti ai limiti dell'incomunicabilità. È un lusso che non ci possiamo permettere in uno dei momenti più critici della storia economica del paese.

Da quando il sindacato è diviso, le organizzazioni dei lavoratori non sono più nelle condizioni di garantire il rispetto degli accordi presi. Una minoranza può sempre intervenire dopo che l'accordo è stato siglato e impedirne l'attuazione, mettendo in atto una serie di scioperi e di azioni dimostrative che possono gravemente compromettere se non far fallire un investimento attuato coerentemente con i contenuti dell'accordo. Finché questo problema non verrà risolto, non solo avremo continue tensioni e interferenze della politica nelle vicende sindacali, ma soprattutto faremo fatica ad attrarre capitali esteri da noi.

Per convincere un investitore a puntare sul nostro Paese bisogna metterlo in condizione di avere di fronte interlocutori in grado di prendere impegni cogenti circa il rispetto degli accordi sottoscritti. L'investitore sa bene che il potere contrattuale del sindacato aumenterà dopo che l'investimento è stato attuato. A quel punto non sarà più possibile dirottare le risorse altrove, cosa invece possibile prima, quando l'accordo è stato preso. Di qui il timore che il contraente voglia rimettere tutto in discussione, ottenendo condizioni più favorevoli dopo che l'investimento è stato realizzato.

Per attrarre grandi imprese da noi bisogna perciò tutelarle circa il rispetto degli impegni presi dalle organizzazioni dei lavoratori.

Queste garanzie possono essere fornite da un sindacato unito oppure da una legge sulle rappresentanze sindacali che attribuisca al sindacato maggiormente rappresentativo in azienda, ai delegati eletti dai lavoratori, l'autorità di sottoscrivere accordi vincolanti per tutti. I lavoratori dovranno rispettarne i contenuti. Se poi l'accordo si è rivelato per loro insoddisfacente, sceglieranno altri rappresentanti alla prossima tornata elettorale. Esistono diversi disegni di legge che recepiscono questi principi e che da almeno 15 anni attendono di essere discussi in Parlamento. Del problema se ne parla peraltro fin dai tempi di Nenni.

L'accordo sottoscritto a Mirafiori, in assenza di queste regole, riconosce come rappresentanze dei lavoratori solo le organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto l'intesa. È una scelta chiaramente inaccettabile. Esimi giuristi hanno sottolineato come questo comma dell'accordo Mirafiori sia coerente con l'articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori che garantisce diritto di rappresentanza solo alle organizzazioni che abbiano stipulato almeno un contratto in quell'azienda. Trattandosi di una newco, ed essendo questo il primo e unico contratto stipulato, l'interpretazione alla lettera dell'articolo 19 implica che la Fiom che non firma non avrebbe diritto a costituire la rappresentanza sindacale in azienda. Ma chi volesse costruire un sistema di relazioni industriali su questo principio di esclusione condanna il Paese alla conflittualità permanente. Non deve essere il datore di lavoro a decidere quali sono le rappresentanze dei lavoratori.

Non possono che essere i lavoratori, con il loro voto, a scegliere chi li rappresenta.

Bene perciò che si apra al più presto quel tavolo sulla rappresentanza proposto da Susanna Camusso su queste colonne lunedì.

Significative le aperture mostrate nei confronti di questa proposta dal presidente degli industriali metalmeccanici, Pierluigi Ceccardi, e dal segretario della Cisl, Raffaele Bonanni. Quest'ultimo ha rimarcato che le norme sulle rappresentanze dovranno essere decise dai sindacati e non dal Parlamento. Ma il costo dell'incapacità di trovare un accordo su queste norme lo pagano anche molti non iscritti al sindacato e molti giovani che non hanno ancora iniziato a lavorare. Stupisce perciò la sponda offerta a Bonanni dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti i cittadini: "Un intervento del Governo in materia sarebbe autoritario". Un governo che vuole davvero attrarre investimenti dall'estero e che ambisce alla coesione sociale darebbe alle parti sociali un termine di tempo rapportato alle difficoltà attuali dell'economia italiana, diciamo un mese. Se queste in quel lasso di tempo non avranno trovato un accordo, sarà il Parlamento a legiferare in autonomia.

La legge sulle rappresentanze offrirebbe anche alla Fiom, sin qui il sindacato maggioritario fra i metalmeccanici, l'opportunità di rientrare in gioco. L'accordo di Mirafiori sulla carta non glielo consente, anche se dovesse cambiare idea. Il testo infatti prevede che "l'adesione al presente accordo di terze parti è condizionato all'assenso di tutte le parti firmatarie".

Un sindacato non può restare perennemente all'opposizione. Può farlo un partito politico, a vocazione minoritaria. Ma non certo un sindacato.

(29 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #26 inserito:: Gennaio 17, 2011, 11:32:28 am »

L'ANALISI

Quei lavoratori da proteggere

di TITO BOERI

Invece dell'accordo storico abbiamo avuto un disaccordo senza precedenti. Non sarà facile governare Mirafiori. Non sarà facile governare gli impianti con il 50% di operai favorevoli e il 50 di contrari. Sarà una sfida in più per Marchionne. Meglio, comunque, sospendere il giudizio sul suo operato. I manager vanno giudicati dai risultati e non dalle intenzioni. Potremo fra due o tre anni trarre un primo bilancio della sua gestione. Nel frattempo bene che gli azionisti rivedano gli schemi di remunerazione del management in modo tale da incentivare il raggiungimento di obiettivi di lungo periodo. Bene anche che il governo si schieri a favore del paese, spingendo affinché tra questi obiettivi ci sia anche la salvaguardia degli attuali livelli occupazionali senza ulteriori aiuti di Stato, incrementi salariali per i lavoratori in linea con i miglioramenti di produttività e, soprattutto, il mantenimento a Torino del cuore delle fasi di progettazione, quelle in grado di avere ricadute produttive sull'intero sistema produttivo.

Il referendum a Mirafiori è stato salutato dal nostro ministro del Lavoro come una nuova era nelle relazioni industriali. Ci indica, invece, una volta di più che è un sistema che fa acqua da tutte le parti: copre sempre meno lavoratori, interviene sempre più in ritardo e accentua, anziché gestire, i conflitti, non incoraggia gli aumenti di produttività e salari. Costringe a creare una nuova azienda e ad uscire dalle associazioni di categoria per fare contrattazione a livello decentrato, diventando così ancora meno governabile. Le riforme più urgenti riguardano le regole sulle rappresentanze sindacali, i livelli della contrattazione, la copertura delle piccole imprese, i minimi inderogabili e i confini fra contrattazione collettiva e politica.

Nel confronto su Mirafiori la frattura tra i sindacati si è ulteriormente accentuata. Occorrono regole che permettano la contrattazione - il che significa prendere impegni con la controparte e rispettarli - anche quando il sindacato è diviso. E che non condizionino come a Mirafiori la rappresentanza dei lavoratori alla firma del contratto.

I livelli della contrattazione. Nelle aspre polemiche di questi giorni, i sindacati si sono rinfacciati di avere sottoscritto accordi ben più onerosi per i lavoratori in altre imprese. Alla Sandretto la Fiom (non la Fim) ha firmato per deroghe al ribasso dei minimi salariali fissati dal contratto nazionale, pur di salvaguardare i livelli occupazionali. Alla STM, alla Micron e alla Exside, Fim, Fiom e Uilm hanno accettato turni che impongono il lavoro notturno molto più di frequente e con maggiorazioni salariali inferiori a quelle previste alla Fiat. E ci sono molte piccole e medie imprese nel metalmeccanico in cui si accettano condizioni di lavoro ancora più pesanti in quanto a turni e pause. Non c'è nulla di male se un sindacato accetta queste condizioni in un'azienda e non in un'altra. Può farlo perché i lavoratori hanno esigenze diverse, perché le caratteristiche delle mansioni sono differenti, perché le condizioni del mercato e il potere contrattuale dei lavoratori cambiano a seconda dell'impresa e delle condizioni del mercato del lavoro locale. Questo dimostra che c'è bisogno di contrattazione azienda per azienda. E' l'unica che permetta al sindacato di salvaguardare posti di lavoro in aziende in difficoltà o di rinunciare ad aumenti salariali per fare assumere più lavoratori. A livello nazionale si può solo contrattare sui salari, non sui livelli occupazionali. Chi si oppone al rafforzamento del secondo livello della contrattazione, rinuncia di fatto a tutelare molti posti di lavoro.

La contrattazione aziendale è difficile in aziende medio-piccole. In molte di queste non potrà che continuare a valere il contratto nazionale. Oltre a dare copertura contro l'inflazione bene che fissi delle regole retributive più che dei livelli salariali uniformi da imporre in realtà tra di loro molto differenziate. Ad esempio, si può stabilire che una quota minima dell'incremento della redditività di un'azienda sia trasferita ai lavoratori sotto forma di salario più alto. Un sindacato che continua a lasciare da soli i lavoratori delle piccole imprese nel loro tentativo di partecipare agli incrementi di produttività non ha futuro nella stragrande maggioranza delle imprese italiane. Come evidenziato anche dalla composizione del voto a Mirafiori (il turno di notte, che avrà i maggiori carichi di lavoro e incrementi retributivi, ha votato a larga maggioranza a favore del sì, al contrario degli altri reparti) oggi molti lavoratori italiani sono disposti a lavorare di più e in condizioni più pesanti pur di guadagnare di più. Non sorprende data la stagnazione dei salari negli ultimi 15 anni.
Questo ci porta ai minimi inderogabili. Bene definirli con precisione e preoccuparsi di farli rispettare per tutti. Ci vogliono dei minimi al di sotto dei quali nessun contratto può scendere. Devono essere per forza di cosa essere fissati per legge e valere per tutti, anche per chi lavora nel sindacato, nei partiti o nel volontariato. Ci vuole un salario minimo orario. Ma ci vogliono anche un'assicurazione sociale di base, a partire da quella contro la disoccupazione.

Infine i confini tra contrattazione e politica. Troppi politici hanno perso in queste settimane un'ottima occasione per stare zitti, pronunciandosi a favore o contro l'accordo Mirafiori. E' una ingerenza fastidiosa, inaccettabile, e hanno fatto bene i leader confederali a denunciarla. Ma bisogna ammettere che troppe volte è proprio il sindacato a chiamare in causa la politica. Lo ha fatto anche a Mirafiori. Bene che la smetta. La politica non si fa certo pregare quando si tratta di invadere terreni su cui non dovrebbe avere alcuna voce in capitolo.

(17 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #27 inserito:: Maggio 30, 2011, 11:28:46 pm »

LA POLEMICA

Cari prof, studenti, genitori essere valutati non è "umiliazione"

L'economista Tito Boeri ha scritto una analisi dei test Invalsi su Repubblica.

E ha ricevuto molte reazioni, spesso dure, dal mondo della scuola.

E ora su Repubblica.it prova a riassumere le contestazioni e rispondere

di TITO BOERI


Sapevo di toccare un nervo scoperto, ma non immaginavo di suscitare reazioni così virulente difendendo i test Invalsi nella scuola superiore con un mio precedente articolo 1. Sono peraltro a conoscenza solo di una minima parte di queste risposte, presumibilmente quelle più favorevoli perché affidate a messaggi di posta elettronica a me indirizzati, a lettere alla posta di redazione di Repubblica o a blog in qualche modo filtrati. Altre reazioni, presumibilmente più feroci, sono contenute nei blog intrattenuti da docenti che dichiarano di avere postato e vivisezionato il mio articolo. Alcuni docenti giungono fino a minacciare di incatenarsi alla sede del mio giornale. Li prego davvero di non farlo perché 1) il mio articolo non impegna certo Repubblica che ha una sua propria linea editoriale, e 2) il sito che coordino, www.lavoce.info (forse è questo che si intende per il "mio giornale"), ha solo una sede virtuale, cui difficilmente potrebbero incatenarsi.

Ringrazio comunque chi mi ha scritto per l'attenzione. Non riesco a rispondere a tutti e alcune obiezioni sono ricorrenti. Dunque posso a loro contro-obiettare in questa forma collettiva.  Premetto che sono anche io un docente e che mi sottometto periodicamente a valutazioni. Ci sono infatti classifiche standardizzate che guardano alle mie pubblicazioni e al modo con cui vengono citate. Esistono poi valutazioni degli studenti che seguono i miei corsi e vengono raccolti dati sugli esiti di questi studenti in altri esami e poi sul mercato del lavoro, valutando poi il valore aggiunto dei miei corsi. Certo qualche volta non posso non avvertire un senso di fastidio nel leggere qualche giudizio negativo di studenti o provare gelosia nel vedere che qualche collega più bravo di me mi precede nei ranking, ma, al contrario di chi mi ha scritto, non mi sento affatto "umiliato" da queste valutazioni. Mi sentirei umiliato, sia come docente che come contribuente, se non ci fossero perché vorrebbe dire che molti miei colleghi possono ricevere uno stipendio rimanendo inattivi senza che nessuno se ne accorga e che ogni mio sforzo per migliorare la qualità della ricerca e della didattica non viene minimamente monitorato e riconosciuto.

Alcuni docenti sostengono che i test Invalsi servono come strumento per "propagandare surrettiziamente delle ideologie" nel corpo studentesco. Non capisco di quale ideologia si tratterebbe dato che il metodo è lo stesso dei test Pisa condotti in tutto il mondo. Si tratta di metodiche consolidate a livello internazionale nella costruzione di test di competenza cognitiva. Allego comunque qui sotto alcuni esempi di domande del test Invalsi affinché tutti si rendano conto di cosa stiamo parlando. Dove sta l'ideologia, nelle reazioni ai test o nei test? Ai lettori l'ardua sentenza.

Altri docenti si lamentano della natura fredda dei test che "minano con quattro parole e poche crocette la professione docente", il che, incidentalmente, conferma che non si tratta di test propagandistici. Propongono allora valutazioni di ispettori ,"uomini che giudicano altri uomini" (si tratterebbe per la verità spesso di donne che giudicano altre donne). Non ho mai sostenuto che i test Invalsi debbano essere l'unico strumento di valutazione e concordo che valutazioni che prescindano anche da rilievi strettamente quantitativi siano utili. I test Invalsi sono solo uno degli ingredienti del processo valutativo. Hanno il vantaggio di essere comparabili tra scuole, regioni e addirittura paesi, a differenza delle valutazioni "soft" che molti docenti sostengono di preferire e alle quali, ripeto, non sono affatto contrario. Non vorrei solo che il "ci vuole ben altro" per valutare sostenuto da molti sia solo un modo per non farsi valutare del tutto, rendendo la valutazione talmente onerosa da non poter essere effettuata.

Lo sport nazionale in Italia è riempirsi la bocca di termini come "merito" e "meritocrazia", applicati sistematicamente agli altri, per poi rifiutare qualsiasi metrica, qualsiasi misura della propria produttività. Senza queste misure "merito" è un termine vuoto, perché diventa del tutto arbitrario. E' lo stesso atteggiamento mostrato dai nostri politici quando negano le statistiche ufficiali. Il Ministro Tremonti sostiene spesso che le statistiche dell'Istat sono inaffidabili (guarda caso quando documentano che durante il suo regno l'economia italiana non è cresciuta a differenza che in tutti gli altri paesi Ocse). Non vorrei che un simile atteggiamento affiorasse fra quei  docenti che sostengono che i test standardizzati applicati in tutto il mondo sono del tutto fuorvianti.

Mi si contesta ancora il fatto di voler usare i test per differenziare le retribuzioni del corpo docente. A mio giudizio, allo stato attuale, i test servono semplicemente a informare gli insegnanti, gli studenti e le loro famiglie. Proprio per questo proponevo di fare i test in modo tale da poter rendere pubblici i dati scuola per scuola. A proposito: c'è chi contesta la possibilità di mandare ispettori a controllare che gli studenti non copino (talvolta gli stessi che propongono di fare valutare tutti i docenti da ispettori), sostenendo che non ci sono risorse per l'attività ispettiva. Ovvio che si tratterebbe di controlli a campione soprattutto sulle scuole dove si ha il sospetto che si siano riscontrati comportamenti volti a svilire il significato dei test.

Ritengo che in prospettiva, quando i test e altri strumenti di valutazione saranno consolidati, questi strumenti possano essere utilizzati anche per allocare in modo più selettivo le poche risorse disponibili (talmente ridotte che è in discussione la sopravvivenza stessa dell'Invalsi!). La valutazione dell'istruzione è una premessa fondamentale per assegnare più risorse alla scuola. Dato che le risorse sono limitate, occorre evitare in ogni modo di disperderle dandole a istituti che dimostrano di non arricchire ( o di arricchire troppo poco) le conoscenze degli studenti che si iscrivono in quelle scuole. Questo significa che bisogna tenere conto del livello delle conoscenze all'atto dell'iscrizione alla scuola. Premiando le scuole che operano in realtà difficili, che hanno magari punteggi bassi nel test, ma sono in costante miglioramento.

Le reazioni al mio intervento su Repubblica comunque dimostrano che l'Invalsi (e il ministro che in questi mesi si è impegnata soprattutto a difendere la condotta non solo diurna del nostro presidente del consiglio) abbiano fatto di tutto per non informare gli insegnanti. Molte delle domande che sono state poste al sottoscritto, andrebbero in effetti girate all'Invalsi.  Mi auguro che molti di coloro che mi hanno scritto, cambino il destinatario e che l'Invalsi dedichi a queste richieste di chiarimento la dovuta attenzione.

Ecco alcuni esempi di test Invalsi per il secondo anno della scuola secondaria superiore 2
 

(30 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #28 inserito:: Agosto 09, 2011, 06:28:18 pm »

PAREGGIO DI BILANCIO: È MEGLIO FARLO SUL CAMPO

di Tito Boeri e Fausto Panunzi 08.08.2011

C’è solo un modo con cui il nostro Governo può acquistare credibilità rispetto a chi ritiene alto il rischio di un ripudio del nostro debito pubblico: mostrandosi capace di contenere le spese e di raggiungere un bilancio in pareggio fin dal 2012. Non è introducendo nella Costituzione l’obbligo del bilancio in pareggio che si esce dalla crisi.

“Se stai annegando, ti aggrappi anche a un serpente” recita un proverbio turco. Il Governo, di fronte a una pesantissima crisi di credibilità e all’incapacità di reagire tempestivamente con nuove misure di contenimento della spesa, ha tirato fuori dal cappello una riforma costituzionale che introduca l’obbligo del pareggio di bilancio. È chiaramente un modo per cercare di comprare credibilità a basso costo. Ma i tempi di attuazione della riforma sono troppo lunghi per rassicurare i mercati. E come per ogni regola fiscale è molto difficile trovare un equilibrio tra la rigidità richiesta perché la regola non sia aggirabile e la flessibilità indispensabile nella gestione del bilancio. Il rischio è dunque quello di legarsi le mani inutilmente impedendo politiche anticicliche e risposte a crisi esterne. L’unico modo che il nostro Governo ha per rendersi credibile di fronte ai mercati nel proprio impegno a ridurre il debito pubblico è raggiungere al più presto, fin dal 2012, il pareggio di bilancio con interventi di contenimento strutturale della spesa pubblica e sospendere l’attuazione del federalismo fiscale. Bisogna mostrare sul campo anziché con le regole che siamo capaci di tanto.

PERCHÉ NON POSSIAMO SCIMMIOTTARE LA GERMANIA

La ragione che ha spinto la Germania a introdurre nella Costituzione regole che impongano il bilancio in pareggio è il tentativo di rendere più credibile il proprio impegno a tenere sotto controllo i conti pubblici e quindi poterli collocare sul mercato offrendo rendimenti più bassi. Come Ulisse si fece legare saldamente all’albero maestro per resistere al canto delle sirene, così può essere utile legare le mani dei futuri governi per impedire che cedano alle pressioni delle loro basi elettorali deviando da una politica di contenimento del deficit pubblico.
Oggi il nostro Governo, messo sotto pressione da mercati che ormai ci considerano più a rischio della Spagna, vorrebbe scimmiottare Berlino. Ma ci sono due differenze importanti fra noi e la Germania.  La prima differenza è che la Germania ha varato o avviato queste riforme costituzionali mentre beneficiava di un premio di rischio paese relativamente contenuto. Questo ha permesso di adottare regole sufficientemente flessibili, tali da permettere l’adozione di politiche anticicliche, come discusso nella scheda di Giuseppe Pisauro. Il nostro Governo, invece, vorrebbe procedere ora nel mezzo di una grave crisi, sotto la pressione dei mercati e delle istituzioni internazionali. In queste condizioni la credibilità di tale misura rischia di essere percepita come molto bassa dai mercati, un mero espediente per salvare la faccia e guadagnare tempo. Inoltre l’iter di una riforma costituzionale è molto lungo, richiede come minimo nove mesi, una infinità in una congiuntura come quella attuale. Insomma, rischiamo di porci vincoli molto rigidi – al pari di quelli contro cui ha dovuto combattere Obama nelle ultime settimane – senza trarne alcun beneficio.

IL NODO DEL FEDERALISMO

La seconda differenza è che noi dovremmo imporre queste regole mentre si procede ad attuare i decreti attuativi del cosiddetto federalismo fiscale, che non poco inquietano i mercati nel timore che gli enti locali siano ancora meno virtuosi del governo nazionale nel gestire i conti pubblici. Per questo motivo, le regole di cui dovremmo dotarci nella Costituzione dovrebbero vincolare anche le amministrazioni locali. Non è un caso che la proposta di legge costituzionale sulla “riforma fiscale” presentata qualche giorno fa in Parlamento a firma di senatori che fanno riferimento tanto alla maggioranza quanto all’opposizione (vedi allegato) ponga il vincolo di bilancio in pareggio non solo per l’amministrazione centrale dello Stato, ma anche per le Regioni, gli enti locali e il complesso delle amministrazioni pubbliche. È una norma la cui gestione è fortemente problematica come spiegato da Giuseppe Pisauro.

I COSTI DELLE REGOLE FISCALI

L’introduzione dell’obbligo del bilancio in pareggio nella Costituzione rischia perciò di non darci alcun beneficio in termini di credibilità. Al contempo ci porrebbe di fronte ai costi tipici di tutte le regole fiscali. Innanzitutto è molto difficile farle rispettare. I vincoli valgono ex-ante, non ex-post. La norma che prevede la possibilità di ricorso al debito con una maggioranza dei due terzi in ciascuna Camera, come previsto dalla proposta bipartisan, rischia di non essere molto stringente, vista la propensione altrettanto bipartisan mostrata nel ridurre la spesa pubblica negli ultimi decenni.  Certo, la bozza bipartisan prevede che, in caso di mancato rispetto del pareggio in bilancio, bisognerebbe predisporre un piano triennale di ammortamento del debito. Ma piani di questo tipo rischiano di essere del tutto privi di credibilità e ridurre ulteriormente la trasparenza dei conti pubblici se, come notato da Michele Ainis sul Corriere della Sera del 7 agosto, sarà consentito di iscrivere a bilancio poste aleatorie o addirittura da libro dei sogni quali entrate future legate alla lotta all’evasione o a future privatizzazioni.
Inoltre legarsi le mani sulla politica di bilancio può risultare in alcuni casi eccessivamente penalizzante. Nel caso di una recessione, dato che le entrate diminuiscono in linea con l’andamento del prodotto interno lordo, il pareggio di bilancio imporrebbe una riduzione della spesa che potrebbe andare a scapito della fornitura di servizi essenziali quali la protezione sociale e la sanità impedendo ai cosiddetti stabilizzatori automatici (se non a politiche fiscali discrezionali) di operare nel contenere l’ampiezza della recessione. 

LA CREDIBILITÀ SI OTTIENE COI FATTI

Il furore con il quale il Governo oggi si ripromette di cambiare la Costituzione imputandole tutti i problemi ci sembra l’ennesimo diversivo per non guardare in faccia la realtà. Un esecutivo poco credibile come il nostro, anche per il modo dilettantistico con cui ha gestito la crisi sin qui, può oggi guadagnarsi la credibilità solo sul campo, con misure concrete e dagli effetti immediati, dimostrando di essere in grado di portarci al pareggio di bilancio, soprattutto con provvedimenti di contenimento della spesa pubblica. Avendo aspettato così a lungo ad agire, non può più permettersi di fare melina. Il nodo è non solo quello dell’orizzonte entro il quale raggiungere il pareggio di bilancio, ma anche come si intende farlo. I governi italiani non sono mai stati capaci di ridurre la spesa pubblica in modo strutturale. Per quanto difficile e impopolare, sarà questo il terreno su cui i mercati valuteranno la risposta del governo Berlusconi. Utile anche rinviare a tempi migliori il disegno di federalismo fiscale, che pone non pochi interrogativi agli investitori. Non sarebbe allo stato attuale una rinuncia dolorosa: i decreti attuativi approvati in questa legislatura sono un insieme di principi tra di loro contraddittori che rendono meno trasparenti i bilanci delle amministrazioni pubbliche senza avvicinarci in alcun modo al federalismo. Meglio ripartire da capo e in tempi migliori.

da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002489.html
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« Risposta #29 inserito:: Agosto 28, 2011, 05:01:22 pm »

l Pd, la Cgil e la contro-manovra quant´è difficile fare opposizione

Fonte: TITO BOERI - la Repubblica | 27 Agosto 2011


    La Cgil ha indetto uno sciopero generale contro una manovra che non c´è, dato che il decreto di Ferragosto viene ormai sconfessato anche dai ministri che lo hanno approvato.
Il Pd da allora si interroga su che posizione prendere, lacerato tra chi sostiene la scelta del maggiore sindacato italiano e chi, invece, ritiene che sia quantomeno intempestiva. Se non è facile governare in condizioni di emergenza, è ancora più difficile essere all´opposizione in questi frangenti. Bisogna salvare il Paese senza coprire le responsabilità di chi ci ha portato sull´orlo dell´abisso. E non è certo agevole spiegare dai banchi dell´opposizione che bisogna accettare ulteriori sacrifici, quanto sia forte il rischio che stiamo correndo e quali scelte ben peggiori dovranno essere fatte se il Paese affonda. Il modo migliore per riuscire in questo intento è dare l´esempio col proprio comportamento responsabile. È un modo al tempo stesso di offrire un contributo fondamentale al salvataggio del Paese. Non è un caso che il presidente della Repubblica Napolitano abbia nelle ultime settimane ripetutamente sollecitato comportamenti di questo tipo. Servono a rassicurare chi sta decidendo se rinnovare o meno i nostri titoli di stato in scadenza. Bisogna convincerli che chi potrebbe essere chiamato a guidare un governo dopo le prossime elezioni farà non solo meglio, ma anche molto meglio di un esecutivo che si è rilevato del tutto inadeguato nel gestire l´emergenza. Purtroppo il decalogo di proposte presentato da Bersani martedì alla stampa e mercoledì alle parti sociali non ha né i numeri, né i contenuti per riuscire in questo intento. Era stato preannunciato come una vera e propria "contro-manovra". Di "contro" nel decalogo c´è molto. Di "manovra" molto meno. Più o meno un decimo di quanto sarebbe necessario. Quasi metà del testo consiste in critiche alla manovra del governo. Il resto del documento è un elenco di titoli generici, più che un insieme coerente e articolato di proposte. Ed è un elenco che trascura del tutto il 90 per cento del nostro bilancio pubblico: non una proposta sulla previdenza (40 per cento della spesa corrente primaria), non una sulla sanità (17%), oppure su istruzione ricerca e cultura (13%), difesa e ordine pubblico (8%) agricoltura, trasporti ed energia (5%), ammortizzatori e assistenza (4%), ambiente e sviluppo urbanistico (2%). E sì che i tagli da qualche parte dovremo pur farli. A ben vedere di tagli alla spesa pubblica nel decalogo di Bersani c´è solo il dimezzamento delle province (perché non abolirle del tutto?) e dei parlamentari (perché non ridurli a un terzo mettendoci in linea con le altre democrazie in termini di rapporto fra eletti ed elettori?), gli accorpamenti delle funzioni dei Comuni con meno di 5000 abitanti (perché non parlare più esplicitamente di fusione, il che tra l´altro non porrebbe i problemi di costituzionalità che insorgono togliendo funzioni ad alcuni Comuni?) misure giuste, ma ancora parziali, al punto che difficilmente possono portare risparmi superiori al miliardo di euro. A fronte di queste sforbiciatine, ci sono spese aggiuntive (o mancate entrate), come quelle legate alla stabilizzazione dell´agevolazione fiscale del 55% per l´efficienza energetica (in scadenza a fine 2011), il finanziamento dei progetti per l´innovazione tecnologica italiana e la ricerca, il finanziamento pluriennale del contratto di apprendistato e l´abolizione dell´abolizione dell´Istituto per il commercio estero. Vero che c´è un piano di dismissioni nel decalogo, ma è ridotto anch´esso al lumicino. Si tratta unicamente di vendite di immobili, anziché di partecipazioni in società quotate. Dovrebbe portare a raccogliere 25 miliardi: in termini strutturali significa risparmi per circa 800 milioni all´anno in spesa di interessi sul debito.
La parte più convincente del decalogo sono le misure di contrasto all´evasione, che abbassano le soglie di tracciabilità (a 300 euro), anche se non sembrano ancora utilizzare le rilevazioni sui patrimoni, che potrebbero davvero permettere di localizzare i grandi evasori. Il grosso della "manovra" sono le entrate, a partire dalla tassa sui grandi valori immobiliari, che assomiglia molto al ripristino dell´Ici sulla prima casa abolita a inizio legislatura. Si può essere più o meno d´accordo con alcune di queste misure, ma è del tutto evidente che non avvicinano neanche lontanamente l´obiettivo dei 40 miliardi di aggiustamento. Coprono, a mala pena, un decimo di questo. Ed è ancora più evidente che il contributo delle entrate al piccolo aggiustamento proposto dal Pd è addirittura superiore a quello della manovra del governo. È come se si cercasse di rassicurare i parenti al capezzale di un malato che ha un´emorragia, offrendo nuove trasfusioni, nuovi prelievi del sangue agli italiani, anziché dimostrarsi capaci di bloccare l´emorragia. Se si vuole essere meno ambiziosi nel miglioramento dei saldi, bisognerà dimostrarsi in grado di tagliare in modo permanente la spesa corrente e di saper fare quelle riforme strutturali che aumentano la partecipazione al lavoro e la dimensione dei mercati permettendoci di tornare a crescere. Invece di misure a favore dello sviluppo nel decalogo c´è solo un imprecisato piano di liberalizzazioni degli ordini professionali e delle farmacie. Difficile pensare che il mantenimento dello status quo in termini di politiche del lavoro richiesto nel decalogo (ottavo comandamento) o il ripristino del reato di falso in bilancio (nono) possano affrontare i problemi della bassa crescita del nostro paese.
Speriamo che gli emendamenti che lunedì verranno presentati al Senato dal Pd e dalle altre forze politiche siano di ben altro tenore. Perché c´è bisogno davvero di una contro-manovra, che faccia tagli veri e stimoli la crescita non aumentando ulteriormente la pressione fiscale, ma semmai creando le condizioni per una sua graduale riduzione. C´è bisogno di una manovra che orienti le poche risorse disponibili a sostegno dei poveri creati nella recessione, fra i quali non figurano certo coloro che si apprestano a prendere la pensione d´anzianità. Dato che risorse per l´assistenza ai poveri ce ne sono comunque poche, bene che un partito come il Pd si chieda anche se è giusto che la fondazione Monte dei Paschi, ai cui vertici è assai bene rappresentato, si indebiti per sostenere l´aumento di capitale della banca conferita. Non possiamo più permetterci il lusso di enti che, invece di perseguire unicamente le proprie finalità sociali diversificando il proprio portafoglio onde meglio salvaguardare il proprio patrimonio, decidono consapevolmente di dissanguarsi per mantenere il controllo delle banche. Anche in questo caso si tratta di dare il buon esempio, scegliendo con coraggio le proprie priorità.

da - http://www.dirittiglobali.it/home/categorie/18-lavoro-economia-a-finanza/19677-il-pd-la-cgil-e-la-contro-manovra-quantae-difficile-fare-opposizione.html
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