TITO BOERI. -
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L'ANALISI
Le regole dimenticate
di TITO BOERI
DA POMIGLIANO a Mirafiori si ripete il copione. La politica si schiera a favore o contro Marchionne. Si parla di accordi storici, di svolte epocali oppure vengono invocati diritti fondamentali calpestati e violazioni della Costituzione. Sono tutte parole fuorvianti, pericolose perché di mezzo ci sono i posti di lavoro e i redditi di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Il nodo vero è sempre quello delle regole della rappresentanza. Ed è perciò ancora più grave che non si sia cercato in tutti questi mesi di porvi rimedio.
La responsabilità ricade in eguale misura sul governo, che continua a ignorare il problema e punta in ogni occasione a dividere il sindacato, e sui vertici sindacali, giunti ai limiti dell'incomunicabilità. È un lusso che non ci possiamo permettere in uno dei momenti più critici della storia economica del paese.
Da quando il sindacato è diviso, le organizzazioni dei lavoratori non sono più nelle condizioni di garantire il rispetto degli accordi presi. Una minoranza può sempre intervenire dopo che l'accordo è stato siglato e impedirne l'attuazione, mettendo in atto una serie di scioperi e di azioni dimostrative che possono gravemente compromettere se non far fallire un investimento attuato coerentemente con i contenuti dell'accordo. Finché questo problema non verrà risolto, non solo avremo continue tensioni e interferenze della politica nelle vicende sindacali, ma soprattutto faremo fatica ad attrarre capitali esteri da noi.
Per convincere un investitore a puntare sul nostro Paese bisogna metterlo in condizione di avere di fronte interlocutori in grado di prendere impegni cogenti circa il rispetto degli accordi sottoscritti. L'investitore sa bene che il potere contrattuale del sindacato aumenterà dopo che l'investimento è stato attuato. A quel punto non sarà più possibile dirottare le risorse altrove, cosa invece possibile prima, quando l'accordo è stato preso. Di qui il timore che il contraente voglia rimettere tutto in discussione, ottenendo condizioni più favorevoli dopo che l'investimento è stato realizzato.
Per attrarre grandi imprese da noi bisogna perciò tutelarle circa il rispetto degli impegni presi dalle organizzazioni dei lavoratori.
Queste garanzie possono essere fornite da un sindacato unito oppure da una legge sulle rappresentanze sindacali che attribuisca al sindacato maggiormente rappresentativo in azienda, ai delegati eletti dai lavoratori, l'autorità di sottoscrivere accordi vincolanti per tutti. I lavoratori dovranno rispettarne i contenuti. Se poi l'accordo si è rivelato per loro insoddisfacente, sceglieranno altri rappresentanti alla prossima tornata elettorale. Esistono diversi disegni di legge che recepiscono questi principi e che da almeno 15 anni attendono di essere discussi in Parlamento. Del problema se ne parla peraltro fin dai tempi di Nenni.
L'accordo sottoscritto a Mirafiori, in assenza di queste regole, riconosce come rappresentanze dei lavoratori solo le organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto l'intesa. È una scelta chiaramente inaccettabile. Esimi giuristi hanno sottolineato come questo comma dell'accordo Mirafiori sia coerente con l'articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori che garantisce diritto di rappresentanza solo alle organizzazioni che abbiano stipulato almeno un contratto in quell'azienda. Trattandosi di una newco, ed essendo questo il primo e unico contratto stipulato, l'interpretazione alla lettera dell'articolo 19 implica che la Fiom che non firma non avrebbe diritto a costituire la rappresentanza sindacale in azienda. Ma chi volesse costruire un sistema di relazioni industriali su questo principio di esclusione condanna il Paese alla conflittualità permanente. Non deve essere il datore di lavoro a decidere quali sono le rappresentanze dei lavoratori.
Non possono che essere i lavoratori, con il loro voto, a scegliere chi li rappresenta.
Bene perciò che si apra al più presto quel tavolo sulla rappresentanza proposto da Susanna Camusso su queste colonne lunedì.
Significative le aperture mostrate nei confronti di questa proposta dal presidente degli industriali metalmeccanici, Pierluigi Ceccardi, e dal segretario della Cisl, Raffaele Bonanni. Quest'ultimo ha rimarcato che le norme sulle rappresentanze dovranno essere decise dai sindacati e non dal Parlamento. Ma il costo dell'incapacità di trovare un accordo su queste norme lo pagano anche molti non iscritti al sindacato e molti giovani che non hanno ancora iniziato a lavorare. Stupisce perciò la sponda offerta a Bonanni dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti i cittadini: "Un intervento del Governo in materia sarebbe autoritario". Un governo che vuole davvero attrarre investimenti dall'estero e che ambisce alla coesione sociale darebbe alle parti sociali un termine di tempo rapportato alle difficoltà attuali dell'economia italiana, diciamo un mese. Se queste in quel lasso di tempo non avranno trovato un accordo, sarà il Parlamento a legiferare in autonomia.
La legge sulle rappresentanze offrirebbe anche alla Fiom, sin qui il sindacato maggioritario fra i metalmeccanici, l'opportunità di rientrare in gioco. L'accordo di Mirafiori sulla carta non glielo consente, anche se dovesse cambiare idea. Il testo infatti prevede che "l'adesione al presente accordo di terze parti è condizionato all'assenso di tutte le parti firmatarie".
Un sindacato non può restare perennemente all'opposizione. Può farlo un partito politico, a vocazione minoritaria. Ma non certo un sindacato.
(29 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/12/29/news/boeri_fiat-10670814/?ref=HRER1-1
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L'ANALISI
Quei lavoratori da proteggere
di TITO BOERI
Invece dell'accordo storico abbiamo avuto un disaccordo senza precedenti. Non sarà facile governare Mirafiori. Non sarà facile governare gli impianti con il 50% di operai favorevoli e il 50 di contrari. Sarà una sfida in più per Marchionne. Meglio, comunque, sospendere il giudizio sul suo operato. I manager vanno giudicati dai risultati e non dalle intenzioni. Potremo fra due o tre anni trarre un primo bilancio della sua gestione. Nel frattempo bene che gli azionisti rivedano gli schemi di remunerazione del management in modo tale da incentivare il raggiungimento di obiettivi di lungo periodo. Bene anche che il governo si schieri a favore del paese, spingendo affinché tra questi obiettivi ci sia anche la salvaguardia degli attuali livelli occupazionali senza ulteriori aiuti di Stato, incrementi salariali per i lavoratori in linea con i miglioramenti di produttività e, soprattutto, il mantenimento a Torino del cuore delle fasi di progettazione, quelle in grado di avere ricadute produttive sull'intero sistema produttivo.
Il referendum a Mirafiori è stato salutato dal nostro ministro del Lavoro come una nuova era nelle relazioni industriali. Ci indica, invece, una volta di più che è un sistema che fa acqua da tutte le parti: copre sempre meno lavoratori, interviene sempre più in ritardo e accentua, anziché gestire, i conflitti, non incoraggia gli aumenti di produttività e salari. Costringe a creare una nuova azienda e ad uscire dalle associazioni di categoria per fare contrattazione a livello decentrato, diventando così ancora meno governabile. Le riforme più urgenti riguardano le regole sulle rappresentanze sindacali, i livelli della contrattazione, la copertura delle piccole imprese, i minimi inderogabili e i confini fra contrattazione collettiva e politica.
Nel confronto su Mirafiori la frattura tra i sindacati si è ulteriormente accentuata. Occorrono regole che permettano la contrattazione - il che significa prendere impegni con la controparte e rispettarli - anche quando il sindacato è diviso. E che non condizionino come a Mirafiori la rappresentanza dei lavoratori alla firma del contratto.
I livelli della contrattazione. Nelle aspre polemiche di questi giorni, i sindacati si sono rinfacciati di avere sottoscritto accordi ben più onerosi per i lavoratori in altre imprese. Alla Sandretto la Fiom (non la Fim) ha firmato per deroghe al ribasso dei minimi salariali fissati dal contratto nazionale, pur di salvaguardare i livelli occupazionali. Alla STM, alla Micron e alla Exside, Fim, Fiom e Uilm hanno accettato turni che impongono il lavoro notturno molto più di frequente e con maggiorazioni salariali inferiori a quelle previste alla Fiat. E ci sono molte piccole e medie imprese nel metalmeccanico in cui si accettano condizioni di lavoro ancora più pesanti in quanto a turni e pause. Non c'è nulla di male se un sindacato accetta queste condizioni in un'azienda e non in un'altra. Può farlo perché i lavoratori hanno esigenze diverse, perché le caratteristiche delle mansioni sono differenti, perché le condizioni del mercato e il potere contrattuale dei lavoratori cambiano a seconda dell'impresa e delle condizioni del mercato del lavoro locale. Questo dimostra che c'è bisogno di contrattazione azienda per azienda. E' l'unica che permetta al sindacato di salvaguardare posti di lavoro in aziende in difficoltà o di rinunciare ad aumenti salariali per fare assumere più lavoratori. A livello nazionale si può solo contrattare sui salari, non sui livelli occupazionali. Chi si oppone al rafforzamento del secondo livello della contrattazione, rinuncia di fatto a tutelare molti posti di lavoro.
La contrattazione aziendale è difficile in aziende medio-piccole. In molte di queste non potrà che continuare a valere il contratto nazionale. Oltre a dare copertura contro l'inflazione bene che fissi delle regole retributive più che dei livelli salariali uniformi da imporre in realtà tra di loro molto differenziate. Ad esempio, si può stabilire che una quota minima dell'incremento della redditività di un'azienda sia trasferita ai lavoratori sotto forma di salario più alto. Un sindacato che continua a lasciare da soli i lavoratori delle piccole imprese nel loro tentativo di partecipare agli incrementi di produttività non ha futuro nella stragrande maggioranza delle imprese italiane. Come evidenziato anche dalla composizione del voto a Mirafiori (il turno di notte, che avrà i maggiori carichi di lavoro e incrementi retributivi, ha votato a larga maggioranza a favore del sì, al contrario degli altri reparti) oggi molti lavoratori italiani sono disposti a lavorare di più e in condizioni più pesanti pur di guadagnare di più. Non sorprende data la stagnazione dei salari negli ultimi 15 anni.
Questo ci porta ai minimi inderogabili. Bene definirli con precisione e preoccuparsi di farli rispettare per tutti. Ci vogliono dei minimi al di sotto dei quali nessun contratto può scendere. Devono essere per forza di cosa essere fissati per legge e valere per tutti, anche per chi lavora nel sindacato, nei partiti o nel volontariato. Ci vuole un salario minimo orario. Ma ci vogliono anche un'assicurazione sociale di base, a partire da quella contro la disoccupazione.
Infine i confini tra contrattazione e politica. Troppi politici hanno perso in queste settimane un'ottima occasione per stare zitti, pronunciandosi a favore o contro l'accordo Mirafiori. E' una ingerenza fastidiosa, inaccettabile, e hanno fatto bene i leader confederali a denunciarla. Ma bisogna ammettere che troppe volte è proprio il sindacato a chiamare in causa la politica. Lo ha fatto anche a Mirafiori. Bene che la smetta. La politica non si fa certo pregare quando si tratta di invadere terreni su cui non dovrebbe avere alcuna voce in capitolo.
(17 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2011/01/17/news/boeri_fiat-11312175/?ref=HREC1-4
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LA POLEMICA
Cari prof, studenti, genitori essere valutati non è "umiliazione"
L'economista Tito Boeri ha scritto una analisi dei test Invalsi su Repubblica.
E ha ricevuto molte reazioni, spesso dure, dal mondo della scuola.
E ora su Repubblica.it prova a riassumere le contestazioni e rispondere
di TITO BOERI
Sapevo di toccare un nervo scoperto, ma non immaginavo di suscitare reazioni così virulente difendendo i test Invalsi nella scuola superiore con un mio precedente articolo 1. Sono peraltro a conoscenza solo di una minima parte di queste risposte, presumibilmente quelle più favorevoli perché affidate a messaggi di posta elettronica a me indirizzati, a lettere alla posta di redazione di Repubblica o a blog in qualche modo filtrati. Altre reazioni, presumibilmente più feroci, sono contenute nei blog intrattenuti da docenti che dichiarano di avere postato e vivisezionato il mio articolo. Alcuni docenti giungono fino a minacciare di incatenarsi alla sede del mio giornale. Li prego davvero di non farlo perché 1) il mio articolo non impegna certo Repubblica che ha una sua propria linea editoriale, e 2) il sito che coordino, www.lavoce.info (forse è questo che si intende per il "mio giornale"), ha solo una sede virtuale, cui difficilmente potrebbero incatenarsi.
Ringrazio comunque chi mi ha scritto per l'attenzione. Non riesco a rispondere a tutti e alcune obiezioni sono ricorrenti. Dunque posso a loro contro-obiettare in questa forma collettiva. Premetto che sono anche io un docente e che mi sottometto periodicamente a valutazioni. Ci sono infatti classifiche standardizzate che guardano alle mie pubblicazioni e al modo con cui vengono citate. Esistono poi valutazioni degli studenti che seguono i miei corsi e vengono raccolti dati sugli esiti di questi studenti in altri esami e poi sul mercato del lavoro, valutando poi il valore aggiunto dei miei corsi. Certo qualche volta non posso non avvertire un senso di fastidio nel leggere qualche giudizio negativo di studenti o provare gelosia nel vedere che qualche collega più bravo di me mi precede nei ranking, ma, al contrario di chi mi ha scritto, non mi sento affatto "umiliato" da queste valutazioni. Mi sentirei umiliato, sia come docente che come contribuente, se non ci fossero perché vorrebbe dire che molti miei colleghi possono ricevere uno stipendio rimanendo inattivi senza che nessuno se ne accorga e che ogni mio sforzo per migliorare la qualità della ricerca e della didattica non viene minimamente monitorato e riconosciuto.
Alcuni docenti sostengono che i test Invalsi servono come strumento per "propagandare surrettiziamente delle ideologie" nel corpo studentesco. Non capisco di quale ideologia si tratterebbe dato che il metodo è lo stesso dei test Pisa condotti in tutto il mondo. Si tratta di metodiche consolidate a livello internazionale nella costruzione di test di competenza cognitiva. Allego comunque qui sotto alcuni esempi di domande del test Invalsi affinché tutti si rendano conto di cosa stiamo parlando. Dove sta l'ideologia, nelle reazioni ai test o nei test? Ai lettori l'ardua sentenza.
Altri docenti si lamentano della natura fredda dei test che "minano con quattro parole e poche crocette la professione docente", il che, incidentalmente, conferma che non si tratta di test propagandistici. Propongono allora valutazioni di ispettori ,"uomini che giudicano altri uomini" (si tratterebbe per la verità spesso di donne che giudicano altre donne). Non ho mai sostenuto che i test Invalsi debbano essere l'unico strumento di valutazione e concordo che valutazioni che prescindano anche da rilievi strettamente quantitativi siano utili. I test Invalsi sono solo uno degli ingredienti del processo valutativo. Hanno il vantaggio di essere comparabili tra scuole, regioni e addirittura paesi, a differenza delle valutazioni "soft" che molti docenti sostengono di preferire e alle quali, ripeto, non sono affatto contrario. Non vorrei solo che il "ci vuole ben altro" per valutare sostenuto da molti sia solo un modo per non farsi valutare del tutto, rendendo la valutazione talmente onerosa da non poter essere effettuata.
Lo sport nazionale in Italia è riempirsi la bocca di termini come "merito" e "meritocrazia", applicati sistematicamente agli altri, per poi rifiutare qualsiasi metrica, qualsiasi misura della propria produttività. Senza queste misure "merito" è un termine vuoto, perché diventa del tutto arbitrario. E' lo stesso atteggiamento mostrato dai nostri politici quando negano le statistiche ufficiali. Il Ministro Tremonti sostiene spesso che le statistiche dell'Istat sono inaffidabili (guarda caso quando documentano che durante il suo regno l'economia italiana non è cresciuta a differenza che in tutti gli altri paesi Ocse). Non vorrei che un simile atteggiamento affiorasse fra quei docenti che sostengono che i test standardizzati applicati in tutto il mondo sono del tutto fuorvianti.
Mi si contesta ancora il fatto di voler usare i test per differenziare le retribuzioni del corpo docente. A mio giudizio, allo stato attuale, i test servono semplicemente a informare gli insegnanti, gli studenti e le loro famiglie. Proprio per questo proponevo di fare i test in modo tale da poter rendere pubblici i dati scuola per scuola. A proposito: c'è chi contesta la possibilità di mandare ispettori a controllare che gli studenti non copino (talvolta gli stessi che propongono di fare valutare tutti i docenti da ispettori), sostenendo che non ci sono risorse per l'attività ispettiva. Ovvio che si tratterebbe di controlli a campione soprattutto sulle scuole dove si ha il sospetto che si siano riscontrati comportamenti volti a svilire il significato dei test.
Ritengo che in prospettiva, quando i test e altri strumenti di valutazione saranno consolidati, questi strumenti possano essere utilizzati anche per allocare in modo più selettivo le poche risorse disponibili (talmente ridotte che è in discussione la sopravvivenza stessa dell'Invalsi!). La valutazione dell'istruzione è una premessa fondamentale per assegnare più risorse alla scuola. Dato che le risorse sono limitate, occorre evitare in ogni modo di disperderle dandole a istituti che dimostrano di non arricchire ( o di arricchire troppo poco) le conoscenze degli studenti che si iscrivono in quelle scuole. Questo significa che bisogna tenere conto del livello delle conoscenze all'atto dell'iscrizione alla scuola. Premiando le scuole che operano in realtà difficili, che hanno magari punteggi bassi nel test, ma sono in costante miglioramento.
Le reazioni al mio intervento su Repubblica comunque dimostrano che l'Invalsi (e il ministro che in questi mesi si è impegnata soprattutto a difendere la condotta non solo diurna del nostro presidente del consiglio) abbiano fatto di tutto per non informare gli insegnanti. Molte delle domande che sono state poste al sottoscritto, andrebbero in effetti girate all'Invalsi. Mi auguro che molti di coloro che mi hanno scritto, cambino il destinatario e che l'Invalsi dedichi a queste richieste di chiarimento la dovuta attenzione.
Ecco alcuni esempi di test Invalsi per il secondo anno della scuola secondaria superiore 2
(30 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/scuola/2011/05/30/news/
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PAREGGIO DI BILANCIO: È MEGLIO FARLO SUL CAMPO
di Tito Boeri e Fausto Panunzi 08.08.2011
C’è solo un modo con cui il nostro Governo può acquistare credibilità rispetto a chi ritiene alto il rischio di un ripudio del nostro debito pubblico: mostrandosi capace di contenere le spese e di raggiungere un bilancio in pareggio fin dal 2012. Non è introducendo nella Costituzione l’obbligo del bilancio in pareggio che si esce dalla crisi.
“Se stai annegando, ti aggrappi anche a un serpente” recita un proverbio turco. Il Governo, di fronte a una pesantissima crisi di credibilità e all’incapacità di reagire tempestivamente con nuove misure di contenimento della spesa, ha tirato fuori dal cappello una riforma costituzionale che introduca l’obbligo del pareggio di bilancio. È chiaramente un modo per cercare di comprare credibilità a basso costo. Ma i tempi di attuazione della riforma sono troppo lunghi per rassicurare i mercati. E come per ogni regola fiscale è molto difficile trovare un equilibrio tra la rigidità richiesta perché la regola non sia aggirabile e la flessibilità indispensabile nella gestione del bilancio. Il rischio è dunque quello di legarsi le mani inutilmente impedendo politiche anticicliche e risposte a crisi esterne. L’unico modo che il nostro Governo ha per rendersi credibile di fronte ai mercati nel proprio impegno a ridurre il debito pubblico è raggiungere al più presto, fin dal 2012, il pareggio di bilancio con interventi di contenimento strutturale della spesa pubblica e sospendere l’attuazione del federalismo fiscale. Bisogna mostrare sul campo anziché con le regole che siamo capaci di tanto.
PERCHÉ NON POSSIAMO SCIMMIOTTARE LA GERMANIA
La ragione che ha spinto la Germania a introdurre nella Costituzione regole che impongano il bilancio in pareggio è il tentativo di rendere più credibile il proprio impegno a tenere sotto controllo i conti pubblici e quindi poterli collocare sul mercato offrendo rendimenti più bassi. Come Ulisse si fece legare saldamente all’albero maestro per resistere al canto delle sirene, così può essere utile legare le mani dei futuri governi per impedire che cedano alle pressioni delle loro basi elettorali deviando da una politica di contenimento del deficit pubblico.
Oggi il nostro Governo, messo sotto pressione da mercati che ormai ci considerano più a rischio della Spagna, vorrebbe scimmiottare Berlino. Ma ci sono due differenze importanti fra noi e la Germania. La prima differenza è che la Germania ha varato o avviato queste riforme costituzionali mentre beneficiava di un premio di rischio paese relativamente contenuto. Questo ha permesso di adottare regole sufficientemente flessibili, tali da permettere l’adozione di politiche anticicliche, come discusso nella scheda di Giuseppe Pisauro. Il nostro Governo, invece, vorrebbe procedere ora nel mezzo di una grave crisi, sotto la pressione dei mercati e delle istituzioni internazionali. In queste condizioni la credibilità di tale misura rischia di essere percepita come molto bassa dai mercati, un mero espediente per salvare la faccia e guadagnare tempo. Inoltre l’iter di una riforma costituzionale è molto lungo, richiede come minimo nove mesi, una infinità in una congiuntura come quella attuale. Insomma, rischiamo di porci vincoli molto rigidi – al pari di quelli contro cui ha dovuto combattere Obama nelle ultime settimane – senza trarne alcun beneficio.
IL NODO DEL FEDERALISMO
La seconda differenza è che noi dovremmo imporre queste regole mentre si procede ad attuare i decreti attuativi del cosiddetto federalismo fiscale, che non poco inquietano i mercati nel timore che gli enti locali siano ancora meno virtuosi del governo nazionale nel gestire i conti pubblici. Per questo motivo, le regole di cui dovremmo dotarci nella Costituzione dovrebbero vincolare anche le amministrazioni locali. Non è un caso che la proposta di legge costituzionale sulla “riforma fiscale” presentata qualche giorno fa in Parlamento a firma di senatori che fanno riferimento tanto alla maggioranza quanto all’opposizione (vedi allegato) ponga il vincolo di bilancio in pareggio non solo per l’amministrazione centrale dello Stato, ma anche per le Regioni, gli enti locali e il complesso delle amministrazioni pubbliche. È una norma la cui gestione è fortemente problematica come spiegato da Giuseppe Pisauro.
I COSTI DELLE REGOLE FISCALI
L’introduzione dell’obbligo del bilancio in pareggio nella Costituzione rischia perciò di non darci alcun beneficio in termini di credibilità. Al contempo ci porrebbe di fronte ai costi tipici di tutte le regole fiscali. Innanzitutto è molto difficile farle rispettare. I vincoli valgono ex-ante, non ex-post. La norma che prevede la possibilità di ricorso al debito con una maggioranza dei due terzi in ciascuna Camera, come previsto dalla proposta bipartisan, rischia di non essere molto stringente, vista la propensione altrettanto bipartisan mostrata nel ridurre la spesa pubblica negli ultimi decenni. Certo, la bozza bipartisan prevede che, in caso di mancato rispetto del pareggio in bilancio, bisognerebbe predisporre un piano triennale di ammortamento del debito. Ma piani di questo tipo rischiano di essere del tutto privi di credibilità e ridurre ulteriormente la trasparenza dei conti pubblici se, come notato da Michele Ainis sul Corriere della Sera del 7 agosto, sarà consentito di iscrivere a bilancio poste aleatorie o addirittura da libro dei sogni quali entrate future legate alla lotta all’evasione o a future privatizzazioni.
Inoltre legarsi le mani sulla politica di bilancio può risultare in alcuni casi eccessivamente penalizzante. Nel caso di una recessione, dato che le entrate diminuiscono in linea con l’andamento del prodotto interno lordo, il pareggio di bilancio imporrebbe una riduzione della spesa che potrebbe andare a scapito della fornitura di servizi essenziali quali la protezione sociale e la sanità impedendo ai cosiddetti stabilizzatori automatici (se non a politiche fiscali discrezionali) di operare nel contenere l’ampiezza della recessione.
LA CREDIBILITÀ SI OTTIENE COI FATTI
Il furore con il quale il Governo oggi si ripromette di cambiare la Costituzione imputandole tutti i problemi ci sembra l’ennesimo diversivo per non guardare in faccia la realtà. Un esecutivo poco credibile come il nostro, anche per il modo dilettantistico con cui ha gestito la crisi sin qui, può oggi guadagnarsi la credibilità solo sul campo, con misure concrete e dagli effetti immediati, dimostrando di essere in grado di portarci al pareggio di bilancio, soprattutto con provvedimenti di contenimento della spesa pubblica. Avendo aspettato così a lungo ad agire, non può più permettersi di fare melina. Il nodo è non solo quello dell’orizzonte entro il quale raggiungere il pareggio di bilancio, ma anche come si intende farlo. I governi italiani non sono mai stati capaci di ridurre la spesa pubblica in modo strutturale. Per quanto difficile e impopolare, sarà questo il terreno su cui i mercati valuteranno la risposta del governo Berlusconi. Utile anche rinviare a tempi migliori il disegno di federalismo fiscale, che pone non pochi interrogativi agli investitori. Non sarebbe allo stato attuale una rinuncia dolorosa: i decreti attuativi approvati in questa legislatura sono un insieme di principi tra di loro contraddittori che rendono meno trasparenti i bilanci delle amministrazioni pubbliche senza avvicinarci in alcun modo al federalismo. Meglio ripartire da capo e in tempi migliori.
da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002489.html
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l Pd, la Cgil e la contro-manovra quant´è difficile fare opposizione
Fonte: TITO BOERI - la Repubblica | 27 Agosto 2011
La Cgil ha indetto uno sciopero generale contro una manovra che non c´è, dato che il decreto di Ferragosto viene ormai sconfessato anche dai ministri che lo hanno approvato.
Il Pd da allora si interroga su che posizione prendere, lacerato tra chi sostiene la scelta del maggiore sindacato italiano e chi, invece, ritiene che sia quantomeno intempestiva. Se non è facile governare in condizioni di emergenza, è ancora più difficile essere all´opposizione in questi frangenti. Bisogna salvare il Paese senza coprire le responsabilità di chi ci ha portato sull´orlo dell´abisso. E non è certo agevole spiegare dai banchi dell´opposizione che bisogna accettare ulteriori sacrifici, quanto sia forte il rischio che stiamo correndo e quali scelte ben peggiori dovranno essere fatte se il Paese affonda. Il modo migliore per riuscire in questo intento è dare l´esempio col proprio comportamento responsabile. È un modo al tempo stesso di offrire un contributo fondamentale al salvataggio del Paese. Non è un caso che il presidente della Repubblica Napolitano abbia nelle ultime settimane ripetutamente sollecitato comportamenti di questo tipo. Servono a rassicurare chi sta decidendo se rinnovare o meno i nostri titoli di stato in scadenza. Bisogna convincerli che chi potrebbe essere chiamato a guidare un governo dopo le prossime elezioni farà non solo meglio, ma anche molto meglio di un esecutivo che si è rilevato del tutto inadeguato nel gestire l´emergenza. Purtroppo il decalogo di proposte presentato da Bersani martedì alla stampa e mercoledì alle parti sociali non ha né i numeri, né i contenuti per riuscire in questo intento. Era stato preannunciato come una vera e propria "contro-manovra". Di "contro" nel decalogo c´è molto. Di "manovra" molto meno. Più o meno un decimo di quanto sarebbe necessario. Quasi metà del testo consiste in critiche alla manovra del governo. Il resto del documento è un elenco di titoli generici, più che un insieme coerente e articolato di proposte. Ed è un elenco che trascura del tutto il 90 per cento del nostro bilancio pubblico: non una proposta sulla previdenza (40 per cento della spesa corrente primaria), non una sulla sanità (17%), oppure su istruzione ricerca e cultura (13%), difesa e ordine pubblico (8%) agricoltura, trasporti ed energia (5%), ammortizzatori e assistenza (4%), ambiente e sviluppo urbanistico (2%). E sì che i tagli da qualche parte dovremo pur farli. A ben vedere di tagli alla spesa pubblica nel decalogo di Bersani c´è solo il dimezzamento delle province (perché non abolirle del tutto?) e dei parlamentari (perché non ridurli a un terzo mettendoci in linea con le altre democrazie in termini di rapporto fra eletti ed elettori?), gli accorpamenti delle funzioni dei Comuni con meno di 5000 abitanti (perché non parlare più esplicitamente di fusione, il che tra l´altro non porrebbe i problemi di costituzionalità che insorgono togliendo funzioni ad alcuni Comuni?) misure giuste, ma ancora parziali, al punto che difficilmente possono portare risparmi superiori al miliardo di euro. A fronte di queste sforbiciatine, ci sono spese aggiuntive (o mancate entrate), come quelle legate alla stabilizzazione dell´agevolazione fiscale del 55% per l´efficienza energetica (in scadenza a fine 2011), il finanziamento dei progetti per l´innovazione tecnologica italiana e la ricerca, il finanziamento pluriennale del contratto di apprendistato e l´abolizione dell´abolizione dell´Istituto per il commercio estero. Vero che c´è un piano di dismissioni nel decalogo, ma è ridotto anch´esso al lumicino. Si tratta unicamente di vendite di immobili, anziché di partecipazioni in società quotate. Dovrebbe portare a raccogliere 25 miliardi: in termini strutturali significa risparmi per circa 800 milioni all´anno in spesa di interessi sul debito.
La parte più convincente del decalogo sono le misure di contrasto all´evasione, che abbassano le soglie di tracciabilità (a 300 euro), anche se non sembrano ancora utilizzare le rilevazioni sui patrimoni, che potrebbero davvero permettere di localizzare i grandi evasori. Il grosso della "manovra" sono le entrate, a partire dalla tassa sui grandi valori immobiliari, che assomiglia molto al ripristino dell´Ici sulla prima casa abolita a inizio legislatura. Si può essere più o meno d´accordo con alcune di queste misure, ma è del tutto evidente che non avvicinano neanche lontanamente l´obiettivo dei 40 miliardi di aggiustamento. Coprono, a mala pena, un decimo di questo. Ed è ancora più evidente che il contributo delle entrate al piccolo aggiustamento proposto dal Pd è addirittura superiore a quello della manovra del governo. È come se si cercasse di rassicurare i parenti al capezzale di un malato che ha un´emorragia, offrendo nuove trasfusioni, nuovi prelievi del sangue agli italiani, anziché dimostrarsi capaci di bloccare l´emorragia. Se si vuole essere meno ambiziosi nel miglioramento dei saldi, bisognerà dimostrarsi in grado di tagliare in modo permanente la spesa corrente e di saper fare quelle riforme strutturali che aumentano la partecipazione al lavoro e la dimensione dei mercati permettendoci di tornare a crescere. Invece di misure a favore dello sviluppo nel decalogo c´è solo un imprecisato piano di liberalizzazioni degli ordini professionali e delle farmacie. Difficile pensare che il mantenimento dello status quo in termini di politiche del lavoro richiesto nel decalogo (ottavo comandamento) o il ripristino del reato di falso in bilancio (nono) possano affrontare i problemi della bassa crescita del nostro paese.
Speriamo che gli emendamenti che lunedì verranno presentati al Senato dal Pd e dalle altre forze politiche siano di ben altro tenore. Perché c´è bisogno davvero di una contro-manovra, che faccia tagli veri e stimoli la crescita non aumentando ulteriormente la pressione fiscale, ma semmai creando le condizioni per una sua graduale riduzione. C´è bisogno di una manovra che orienti le poche risorse disponibili a sostegno dei poveri creati nella recessione, fra i quali non figurano certo coloro che si apprestano a prendere la pensione d´anzianità. Dato che risorse per l´assistenza ai poveri ce ne sono comunque poche, bene che un partito come il Pd si chieda anche se è giusto che la fondazione Monte dei Paschi, ai cui vertici è assai bene rappresentato, si indebiti per sostenere l´aumento di capitale della banca conferita. Non possiamo più permetterci il lusso di enti che, invece di perseguire unicamente le proprie finalità sociali diversificando il proprio portafoglio onde meglio salvaguardare il proprio patrimonio, decidono consapevolmente di dissanguarsi per mantenere il controllo delle banche. Anche in questo caso si tratta di dare il buon esempio, scegliendo con coraggio le proprie priorità.
da - http://www.dirittiglobali.it/home/categorie/18-lavoro-economia-a-finanza/19677-il-pd-la-cgil-e-la-contro-manovra-quantae-difficile-fare-opposizione.html
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