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Autore Discussione: TITO BOERI. -  (Letto 33384 volte)
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« inserito:: Giugno 27, 2007, 12:09:10 pm »

26/6/2007
 
Taglio delle tasse addio
 
TITO BOERI
 

Con l'intesa raggiunta al Consiglio dei ministri di ieri gli italiani possono dire addio alla speranza di un taglio delle tasse in questa legislatura. L'extra gettito è stato tutto impegnato per finanziare nuove spese, molte delle quali sono destinate a durare nel corso del tempo. Anzi, se l'extra gettito dovesse poi rivelarsi un dono effimero, si dovranno nuovamente aumentare le tasse. Si rassegnino i più giovani: la montagna del debito pubblico non si abbassa.

Nonostante il contesto macroeconomico favorevole, che dovrebbe favorire una sensibile riduzione del debito pubblico, non ci sarà alcuna manovra nel 2008. E, a meno di sorprese nell'ultima fase della trattativa sulle pensioni, i lavoratori possono abituarsi fin d'ora all'idea che fra pochi mesi dovremo aprire un nuovo tavolo sulle pensioni per trattare dei veri problemi del nostro sistema previdenziale, una volta di più elusi, rinviati ai governi, politici e sindacalisti futuri.

La miopia della politica economica italiana sta diventando talmente forte da impedire di mettere a fuoco i numeri della calcolatrice. Il negoziato interno alla maggioranza, forse ancora più serrato che quello coi sindacati, si è sbloccato, a quanto pare, a partire dai risultati dell'autotassazione di giugno. Come se si stesse discutendo di come coprire le spese del prossimo mese e non invece di scelte che riguarderanno lo Stato sociale, dunque la lotta alla povertà e il futuro previdenziale nei prossimi 50 anni. In virtù di risultati dell'autotassazione migliori del previsto, il governo anziché abbassare l'obiettivo sul rapporto deficit/Pil per fine anno, ha deciso di alzarlo dal 2,1 al 2,5 per cento. Questo significa permettere di finanziare, con maggiore deficit pubblico, l'aumento delle pensioni minime, l'allungamento della durata dei sussidi di disoccupazione ordinari, il rifinanziamento delle ferrovie e dell'Anas. Il tutto per circa 6 miliardi di euro. Non c'è in tutte queste misure alcuna organicità. Se si voleva contrastare la povertà, ad esempio, si poteva varare una seria riforma degli ammortizzatori sociali che coprisse contro questo rischio a tutte le età. Sarebbe costata di meno di questa serie confusa di interventi. Avendo alzato il deficit per il 2007, il governo adesso cercherà di vendere a Bruxelles un obiettivo per il 2008 al 2,2%. Come dire che nel 2008 i saldi saranno peggiori di quelli su cui ci eravamo impegnati fino ad oggi per il 2007. Difficile che Bruxelles accetti questo artificio contabile perché infrange non una ma due regole al tempo stesso. Queste impongono, da una parte, che tutto l'extra gettito vada a riduzione del deficit e, dall'altra, che ogni anno si proceda ad un aggiustamento strutturale di almeno lo 0,5% fino all'azzeramento del deficit.

Sulle pensioni la partita è ancora aperta. La parola spetta ora ai sindacati. Nelle intenzioni del governo sembra che lo scalone verrà trasformato in due scalini. Nel 2008 si dovrebbe poter andare in pensione a 58 anni (anziché a 60 anni) e poi dal 2010 ci dovrebbe essere un inasprimento dei requisiti contributivi e anagrafici per avere una pensione piena. E' un nuovo scardinamento della riforma varata nel 1996 che prevedeva solo requisiti anagrafici (dai 57 ai 65 anni) per l'andata in pensione. Le quote sono complicate da capire, penalizzano le donne che hanno carriere contributive più brevi e portano a risparmi di spesa minimi. Non si sa ancora come verranno finanziati i costi della rimozione dello scalone. Soprattutto non sembra in vista un accordo riguardo ai cosiddetti coefficienti di trasformazione, quelli che serviranno a calcolare l'importo delle pensioni nel nuovo sistema contributivo. Il problema vero delle nostre pensioni è proprio quello di attribuire regole certe a chi inizia oggi a lavorare, mettendolo al riparo dal rischio politico di nuovi cambiamenti dei criteri di calcolo delle pensioni magari a ridosso dell'andata in pensione, quando si ha meno tempo per premunirsi. L'operazione che andava fatta, che doveva essere fatta fin dal 2005 per applicare la riforma Dini del 2006, era proprio la revisione dei coefficienti di trasformazione. Si annuncia solo l'ennesimo rinvio. Ciò significa che milioni di famiglie rimarranno in ansia. Il tormentone sulle pensioni non è affatto finito. Ci sarà solo la tradizionale pausa estiva.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Febbraio 25, 2012, 04:48:26 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 21, 2008, 12:23:53 pm »

21/1/2008
 
Camicia di forza
 
TITO BOERI

 
Dopo nove mesi e otto giorni di estenuanti trattative, con sei mesi di ritardo rispetto alla scadenza naturale del contratto, i lavoratori metalmeccanici hanno ieri finalmente trovato un accordo. Questa volta hanno firmato tutti, anche la Fiom. E’ un bene che si ponga fine a un conflitto sociale che poteva degenerare in una fase delicata, di crescente instabilità politica.

È un bene anche porre fine a manifestazioni di piazza e blocchi stradali, che avevano già arrecato non pochi disturbi ai cittadini. Ma non ci sono lezioni né di merito, né di metodo da imparare da questo contratto. L’accordo è figlio di quegli assetti centralizzati della contrattazione, con un forte coinvolgimento dell'esecutivo e con un forte appiattimento retributivo, che hanno portato all'esplosione della cosiddetta questione salariale.

La presenza di un accordo nazionale inderogabile, con un ulteriore incremento salariale uniforme per tutte le imprese che non fanno contrattazione di secondo livello, impone incrementi salariali uguali su tutto il territorio nazionale, a dispetto di differenze consistenti nel costo della vita. Lo impone a un insieme di imprese molto diverse, che vanno dalla Fiat alle aziende che producono software, da quelle della componentistica elettronica a quelle artigianali della lavorazione dei metalli, dagli odontotecnici agli orafi. Non si rendono possibili quelle innovazioni nella struttura retributiva che possono favorire un recupero della produttività e, con essa, un più forte incremento dei salari. Non si riesce, una volta di più, a innovare l'organizzazione del lavoro: la sua disciplina, peraltro molto dettagliata, nel contratto dei metalmeccanici rimane ancora la stessa di 35 anni fa. E il coinvolgimento diretto del governo nella contrattazione salariale lo espone a pressioni che non dovrebbe subire: il salario nel settore privato non è materia di sua competenza.

Da domani, c'è da scommetterlo, torneremo ad assistere alla questua per spartirsi il nuovo tesoretto sotto la minaccia di uno sciopero generale, già indetto per il 15 febbraio. Non passa giorno senza che arrivino nuove richieste per spartirsi la torta, da chi sin d'ora è stato escluso dal negoziato. Prima Confindustria ha chiesto di ridurre di 5 punti il cuneo fiscale sul lavoro, proponendo, bontà sua, di destinare questa volta 3 punti ai lavoratori e 2 ai datori di lavoro. Poi sono arrivate le richieste delle sigle destinate normalmente alle briciole, ai posti in seconda fila ai tavoli della concertazione. E poi c'è una concertazione in atto all'interno della stessa maggioranza. Si discute su a chi dare e a chi togliere. Non stupisce che i sindacati reclamino sconti fiscali per i loro iscritti; né che l'associazione degli imprenditori li reclami, questi sgravi, per i propri aderenti. Sorprende invece che il governo non abbia sin qui avuto la capacità di arginare queste richieste sempre più pressanti indirizzandole a una strategia di politica economica che miri a risolvere i due problemi di fondo del paese: la bassa crescita strutturale e gli oneri imposti dalla montagna di debito pubblico. Il malessere che i lavoratori lamentano trae origine proprio dalla combinazione di questi due problemi. In una economia che non cresce non vi sono risorse da redistribuire, non ve ne sono per migliorare le condizioni di vita, non ve ne sono per investire nel proprio futuro. In un'economia oberata dal debito pubblico, il peso della tassazione lascia poche risorse disponibili ai consumatori limitandone la capacità di spesa.

Proprio per questo non si possono risolvere i problemi del nostro paese con una semplice redistribuzione delle risorse. L'unico risultato sarebbe quello di avere l'anno successivo un'altra categoria pronta a porgere il cappello perché è venuto il suo turno. Il reddito disponibile del settore privato nel suo complesso non cambierebbe e, con esso, in modo significativo la domanda di beni. Gli squilibri della finanza pubblica rimarrebbero gli stessi di prima o peggiorerebbero. Questo modo di procedere ci condanna, in prospettiva, a una guerra fra poveri, destinandoci a perdere sempre più posizioni nella gerarchia internazionale dei paesi per reddito pro capite. Dopo la signora Ruiz sarà il signor Stavrakis a superarci.

Per cercare una via d'uscita ai problemi del paese e al malessere degli italiani bisogna che la politica economica e, con questa, la contrattazione tra le parti, tornino a guardare in avanti anziché indietro. La questua di queste settimane guarda solo all'indietro, vuole ridistribuire l'extragettito del 2007, dando per scontato il fatto che si ripeterà nel 2008. Il governo prende tempo aspettando di conoscere i consuntivi dell'anno scorso. Mentre la contrattazione salariale interviene in costante e crescente ritardo per rimediare a posteriori alla perdita di potere d'acquisto dei salari. Tutto questo non può incentivare, stimolare comportamenti che facciano crescere il paese, la produttività del lavoro e l'occupazione, quantità e qualità dell'impiego al tempo stesso.

Ecco un impegno che il governo e l'opposizione potrebbero prendere nei confronti degli italiani. Il prelievo fiscale sul lavoro diminuirà quando e dove si riuscirà a far crescere produttività e occupazione al tempo stesso. Le parti sociali saranno così stimolate a rafforzare il legame fra salario e produttività in ciascuna impresa. Forse penseranno di più a come rendere più produttivi e stabili i tanti nuovi posti creati in questi anni tra i giovani e gli immigrati, ignorati una volta di più dal contratto dei metalmeccanici (che pone un tetto di quasi 4 anni al lavoro temporaneo, un’eternità). E sarà chiaro a tutti che è la crescita a rendere possibile il taglio delle tasse anziché il contrario.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 11, 2008, 11:48:57 pm »

Una missione per la politica

di TITO BOERI


Sono in molti in Italia ad avere issato lo spinnaker sperando di gonfiarlo col ponente teso che spira dopo la vittoria di Barack Obama. Ma non basta usare vele con nomi anglosassoni e agitare le bandiere di "chi può" per tornare a essere politicamente competitivi. Il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha di fronte a sé un'agenda obbligata e margini di manovra molto ristretti. Ha vinto con un programma meno radicale di quello di Hillary Clinton. Né si intravedono sin qui quei grandi cambiamenti nelle coalizioni di governo, i cosiddetti "political realignments", che preludono alle grandi svolte nella politica americana. I ripetuti messaggi di continuità con l'amministrazione Bush lanciati nella prima conferenza stampa da presidente degli Stati Uniti in pectore sono indicativi.

Investire sul futuro di Obama è perciò un'impresa ad alto rischio. Molto meglio investire sul passato di Obama, sulla sua incredibile campagna elettorale, fatta di primarie vere, dall'esito spesso imprevedibile perché molto più partecipate che in passato, e di internet, come strumento di comunicazione e di finanziamento. Abbiamo molto da imparare dal candidato Obama nel migliorare i processi di selezione della classe politica all'interno del nostro paese.

Il suo "yes, we can" è soprattutto un riconoscimento alla democrazia di internet, alla sua capacità di moltiplicare il potere delle idee, al di là, se non contro, i grandi mezzi di comunicazione. Ma internet non sarebbe bastato se non ci fossero state regole che permettono una vera competizione all'interno dei partiti, aperta anche a chi sta fuori dall'establishment.

Chi vuole raccogliere la bandiera di Obama deve accettare queste regole, deve permettere una vera competizione nel mercato del lavoro dei politici. Ne abbiamo disperato bisogno. I problemi del nostro paese sono in gran parte problemi di inadeguatezza della nostra classe dirigente, a partire dalla classe politica.
Nel passaggio dalla Prima alla seconda Repubblica il processo di selezione della nostra classe politica è solo peggiorato. Una volta esistevano i partiti di massa che svolgevano al loro interno la selezione. Contavano le decisioni dei vertici, ma anche i militanti potevano dire la loro. Difficile essere candidato senza il gradimento della base, anche in un collegio elettorale sicuro. Poi i partiti di massa si sono sgonfiati, il rapporto fra militanti ed elettori è crollato, e sono rimasti quasi solo i capi partito a selezionare la classe politica.

Il loro potere è sopravvissuto alla crisi dei partiti, in alcuni casi si è addirittura rafforzato grazie alla crisi dei partiti, come dimostrano i tanti one-man party che sono fioriti negli ultimi anni.

Cosa ha dato a questi comandanti senza esercito tanto potere? Sicuramente il finanziamento pubblico dei partiti che ha messo ingenti risorse a disposizione delle segreterie. Ma anche regole elettorali, come le liste bloccate, che hanno reso autocratica la selezione dei politici. Come è stato usato tutto questo potere dai segretari dei partiti? Male, molto male, almeno dal nostro punto di vista. Abbiamo avuto parlamentari sempre più vecchi e sempre meno istruiti, come documentano i dati raccolti da un gruppo di ricercatori coordinati da Antonio Merlo dell'Università della Pennsylvania (www. frdb. org). La quota femminile è rimasta più o meno la stessa. Sono, invece, aumentate le cooptazioni all'interno della classe dirigente: la quota di manager tra i nuovi parlamentari, ad esempio, è costantemente cresciuta fino a toccare il record nelle ultime elezioni, con un manager ogni quattro nuovi eletti.

La candidatura di qualcuno dell'establishment rientra spesso in uno scambio di favori. Meglio se il candidato è inesperto e non intende fare carriera in politica. Anche a costo di sguarnire le commissioni parlamentari, è bene tarpare le ali a potenziali concorrenti. Fatto sta che in Italia c'è una fortissima rotazione nei parlamentari: un deputato su tre rimane in carica per un solo mandato, contro, ad esempio, uno su cinque negli Stati Uniti. E' un bene? Niente affatto. La politica è una professione impegnativa, si impara facendo.

Oggi l'Italia è dominata da un gruppo ristretto di politici a vita che danno l'illusione del ricambio permettendo a innocui "volti nuovi" di entrare a Montecitorio o a Palazzo Madama. Non si investe in nuovi parlamentari. Né i nuovi parlamentari investono in una carriera tra gli scranni: semmai il Parlamento diventa un parcheggio, una pausa in cui coltivare reti di relazioni utili per il dopo.

Il tutto avviene, ovviamente, a carico dei contribuenti. Ed è un carico elevato dato che gli stipendi dei parlamentari sono aumentati a tassi da boom economico (+4% l'anno) dal 1980 ad oggi, mentre il Paese entrava progressivamente in una lunga fase di stagnazione. La nostra ben pagata pattuglia al Parlamento Europeo è storicamente quella coi tassi di rotazione più alti dell'Unione: addirittura un parlamentare su tre lascia prima della fine del suo mandato. E' un mestiere complicato quello del parlamentare europeo. Quando si comincia a imparare qualcosa, si sono già fatte le valige, meglio i bauli, del rimpatrio.

I cappellini pro-Barack sono "one size fits most", una taglia va bene per molti, ma non per tutti. Chi vuole metterseli in testa deve accettare di cambiare le regole di selezione della classe politica. Basta col finanziamento pubblico dei partiti. Basta con le liste bloccate. Meno parlamentari e, quei pochi, scelti con cura dalla base dei partiti nell'ambito di primarie vere, il cui esito non è precostituito dalle segreterie. C'è qualcuno lassù disposto a raccogliere questa sfida?


(11 novembre 2008)
da repubblica.it
« Ultima modifica: Dicembre 09, 2008, 02:56:20 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 25, 2008, 12:10:32 pm »

ECONOMIA    LE RISORSE ANTICRISI

Come trovare più soldi per le famiglie

di TITO BOERI


IL GOVERNO ieri sera ha presentato un piano di circa quattro miliardi di euro per contrastare la recessione. Sono troppo pochi e vengono dispersi, come al solito, in mille rivoli. Quindi saranno del tutto inefficaci. È possibile invece attuare interventi più ambiziosi senza mettere a rischio i nostri conti pubblici. Per farlo però ci vogliono due condizioni. La prima è saper scegliere le priorità, le cose da fare e quelle da non fare. Solo pochi interventi mirati, consistenti e duraturi sono in grado di avere un impatto sul comportamento di famiglie e imprese riducendo la durata della crisi, contribuendo in questo modo a migliorare i nostri conti pubblici. La seconda condizione è saper approfittare della recessione per rimettere la casa in ordine, come stanno facendo tutte le famiglie e le imprese italiane.

È possibile avviare fin da subito un processo di ristrutturazione della spesa pubblica che porti a risparmi consistenti quando saremo usciti dalla crisi. Nessuno ci chiede di ridurre il nostro indebitamento oggi, nel mezzo della crisi. Possiamo permetterci di agire su due tempi: oggi stimolare l'economia, preparando le condizioni per riduzioni di spesa che si materializzeranno domani, completando il risanamento dei nostri conti pubblici.

I veri vincoli sono politici
L'impressione è che i veri vincoli contro i quali oggi si scontra l'azione di governo siano politici. Da settimane si succedono gli annunci di grandi piani a sostegno di banche, imprese e famiglie o per grandi infrastrutture. Poi tutti questi piani faraonici il giorno prima di essere varati vengono rinviati o derubricati. Il fatto è che non si è trovata una sintesi. I costi di queste indecisioni sono altissimi. In un periodo in cui grande è solo l'incertezza, con le famiglie italiane terrorizzate dalla crisi, questi continui rinvii alimentano il sospetto che alla fine tutti questi annunci si risolveranno nel nulla. Così le banche continuano a disfarsi di attività e a stringere il credito, le imprese a tagliare costi e personale e le famiglie a stringere la cinghia.

Quali priorità nel contrastare la recessione?
La riforma degli ammortizzatori sociali, come ormai riconosciuto da tutti (incluso il Fondo Monetario Internazionale) è la priorità numero uno per il nostro paese. Ma non per il ministro del Welfare. Secondo Sacconi (intervista a Repubblica di venerdì scorso) ci sono al massimo le risorse per ampliare i cosiddetti "fondi in deroga" e per concedere una copertura una-tantum "di emergenza" ai lavoratori del parasubordinato. Chi propone una riforma definitiva degli ammortizzatori sociali, sempre secondo il ministro, "non si confronta con i numeri di finanza pubblica".

Vediamoli allora questi numeri. Nel 2009 scadranno titoli di stato per un quinto del nostro debito. La crisi ha fatto scendere il loro rendimento di circa uno-due punti, a seconda delle scadenze. Come stimano Angelo Baglioni e Luca Colombo su lavoce questo significa risparmi dell'ordine di 3,8 miliardi di euro di spesa per interessi sul debito. Sommando a questi le risorse che si risparmierebbero abrogando l'anacronistica detassazione degli straordinari, che sta contribuendo a distruggere posti di lavoro, vorrebbe dire avere a disposizione più di 4 miliardi di euro per riformare gli ammortizzatori.

Bastano e avanzano per introdurre un sussidio unico di disoccupazione allargato ai lavoratori parasubordinati (costo nella recessione di 2 miliardi e mezzo) e per allungare i sussidi forniti ai lavoratori delle piccole imprese (circa un altro miliardo e mezzo di euro). A regime queste risorse potranno essere reperite razionalizzando la spesa per le cosiddette politiche attive, molto costose e di dubbia efficacia, specie in periodi di recessione. Quindi la riforma degli ammortizzatori si può fare senza aumentare le spese rispetto a quanto previsto a settembre. Se non la si fa è per pura scelta politica.

Ci sono risorse per altri interventi?
I nostri conti pubblici sono fortemente peggiorati nel 2008. Il rapporto deficit-pil è quasi raddoppiato dal 2007 (1,6%) al 2008 (dovrebbe attestarsi al 2,7-2,8%). Non è solo colpa della congiuntura. Nel 2008 le entrate fiscali sono cresciute meno che in passato in rapporto all'andamento dell'economia e dei prezzi. Soprattutto le entrate dell'Iva sono state deludenti. Il Governo ha abolito una serie di misure antievasione introdotte nella passata legislatura (dall'obbligo di tenere l'elenco clienti fornitori alla tracciabilità dei compensi, dall'innalzamento del tetto per i trasferimenti in contante all'eliminazione dell'invio telematico dei corrispettivi). Il messaggio di lassismo fiscale è stato forte e chiaro, anche alla luce della performance dell'attuale ministro dell'Economia nel quinquennio 2001-6.

L'aumento dell'evasione finisce anche oggi per concentrare il prelievo fiscale sul lavoro dipendente, la cui quota sulle entrate tributarie dovrebbe quest'anno raggiungere il massimo assoluto (26,5%, più di un euro su quattro). Quindi le minori entrate non riducono la necessità di riduzioni del carico fiscale del lavoro dipendente, che finirebbero per beneficiare subito le famiglie e, gradualmente, anche le imprese. Ad esempio, un incremento permanente di 500 euro delle detrazioni fiscali a favore di lavoratori dipendenti e parasubordinati costerebbe circa 6 miliardi. Sarebbe di gran lunga più efficace di interventi estemporanei, che essendo percepiti come tali, finirebbero per alimentare soprattutto i risparmi delle famiglie. L'aumento delle detrazioni beneficerà soprattutto chi ha redditi più bassi, stimolando maggiormente i consumi.

Come finanziare queste riduzioni del prelievo sul lavoro?
Sia la Commissione Europea che il Fondo Monetario Internazionale ci chiedono di rinviare l'aggiustamento a dopo il 2009. Si potranno trovare le coperture dopo. Ma questo non significa non cercare subito di procurarsele. Al contrario, bene approfittare della crisi per avviare un processo di ristrutturazione della spesa pubblica che può portare a consistenti risparmi e a un miglioramento dei servizi forniti ai cittadini. Si tratta qui di entrare nei dettagli, capitolo di spesa per capitolo. Non sono possibili generalizzazioni. Solo il metodo è lo stesso. Occorre individuare i tagli di spesa fatti bene, che permettano riduzioni di tasse migliorando la qualità dei servizi resi ai cittadini, rimuovendo i vincoli legislativi e agendo sugli incentivi delle amministrazioni e sul controllo sociale che viene esercitato su di loro dalle famiglie.

Nelle prossime settimane cominceremo a fare questa ricognizione, prendendo in considerazione una varietà di voci. Partiremo da scuola ed edilizia scolastica (il 9% del bilancio dello Stato) per occuparci poi di giustizia (1,6%), trasporti (1,7%), infrastrutture (0,8%), ordine pubblico e sicurezza (2%) previdenza (14,7%) e, infine, rapporti con le autonomie locali (22,6%). In tutto copriremo così più del 50 per cento del bilancio pubblico, addirittura due terzi di quello al netto degli oneri sul debito.

(Questo articolo esce oggi anche sul sito lavoce)

(25 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 09, 2008, 02:56:49 pm »

ECONOMIA      LA POLEMICA

Se Gheddafi spazza le norme anti-Opa

di TITO BOERI


La prima della Scala è stata trasmessa in mondovisione sugli schermi di mezzo pianeta, ma non in Italia.
I nostri telespettatori non sono così balzati sulla sedia accorgendosi che un tenore americano era stato affiancato all'ultimo minuto alla soprano.

Ma hanno avuto anche loro una sorpresa: il corposo ingresso nell'Eni di un fondo sovrano, di dubbio candore, nella prima delle nuove norme sulle Opa.
Ricordiamo i passi salienti di questa vicenda, purtroppo meno avvincente dell'opera verdiana. Nelle pieghe del decreto anti-crisi approvato dieci giorni fa dal governo vi sono alcune norme che rendono più difficile scalzare il management di un'impresa mal gestita.

In particolare, si è rimossa la passivity rule, la norma che impedisce agli amministratori della società bersaglio di intraprendere azioni per ostacolare il successo di un'offerta pubblica d'acquisto (Opa) di azioni della società. È una scelta paradossale in un pacchetto anti-crisi perché deprime ulteriormente i corsi delle azioni delle società quotate a Piazza Affari e, dunque, i risparmi di milioni di piccoli risparmiatori che già hanno subito ingenti perdite in conto capitale negli ultimi 12 mesi. Il nostro presidente del Consiglio aveva preannunciato questo provvedimento fin da metà ottobre come una misura necessaria "per evitare che aziende italiane sottovalutate per le attuali condizioni di mercato fossero oggetto di Opa da parte di fondi sovrani".

Aveva anche aggiunto di avere avuto notizia di fondi sovrani, soprattutto "di paesi produttori di petrolio", intenzionati a "investire massicciamente sui nostri mercati".

Da allora ci siamo chiesti, anche su queste colonne, perché per ostacolare l'intervento di fondi sovrani nel capitale delle nostre imprese si dovessero irrigidire le nostre norme sulle Opa, internazionalmente riconosciute come equilibrate e trasparenti.

Ammesso e non concesso che i fondi sovrani fossero davvero una minaccia per le nostre imprese, non sarebbe stato meglio regolare l'ingresso di fondi sovrani nel capitale delle nostre imprese strategiche anziché irrigidire le norme sulle Opa? E a quali temibili fondi sovrani di paesi produttori di petrolio faceva riferimento il nostro presidente del Consiglio?

In questi giorni abbiamo avuto la risposta alla seconda domanda, ma non alla prima. Un comunicato della Presidenza del consiglio dei ministri ci ha informato che il governo libico ? attraverso il suo fondo sovrano (il Lybian Energy Fund, Lef) ? entrerà nel capitale azionario della maggiore azienda energetica italiana, l'Eni, con una quota fino al 10 per cento, una partecipazione più alta di quella oggi detenuta dalla Cassa Depositi e Prestiti, ormai trasformata in banca governativa. Il Lybian Energy Fund, come secondo azionista, potrà nominare un proprio rappresentante nel consiglio d'amministrazione dell'Eni, una compagnia di cui lo Stato ha voluto mantenere il controllo proprio in virtù della sua natura strategica.

Sebbene un tempestivo editoriale del Sole24ore, quotidiano di proprietà di Confindustria, che a sua volta riceve un'importante quota associativa dall'Eni, ci abbia prontamente rassicurato sul vero significato di questa operazione ("una nuova pagina nei rapporti fra Italia e paesi emergenti"), è legittimo pensare che tra i temibili fondi sovrani cui faceva riferimento il nostro presidente del Consiglio ci fosse anche il Lef. Del resto, Sergio Romano ha ieri svelato sul Corriere della Sera che i reggenti dei paesi alle porte di casa nostra si erano sentiti direttamente chiamati in causa dalle parole del nostro presidente del Consiglio.

Cerchiamo allora di capire. Il nostro governo vara norme che rendono meno contendibili le nostre imprese in nome della protezione delle nostre imprese strategiche dai fondi sovrani dei paesi produttori di petrolio. Al tempo stesso accoglie a braccia aperte un fondo sovrano libico in un'impresa strategica per i nostri approvvigionamenti di energia. Torniamo perciò alla domanda inevasa. A cosa servono veramente le nuove norme sulle Opa? Forse a proteggere la struttura di controllo delle nostre imprese, anche quelle meno strategiche, da qualunque investitore intenzionato a fare meglio del management attuale?

E in cambio di cosa si concede protezione a questo management, che in diversi casi ha contribuito attivamente al declino economico del nostro paese? Confidiamo questa volta in delle risposte vere. Perché la foglia di fico messa sulle nuove norme anti-Opa è volata via con il libeccio di questo lungo weekend.


(9 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 22, 2008, 10:38:39 am »

ECONOMIA      IL COMMENTO

Improvvisazione al potere

di TITO BOERI


Un mese fa il governo annunciava, per bocca del ministro del Welfare Sacconi, la proroga al 2009 della detassazione delle ore di lavoro straordinario, una misura volta a incoraggiare orari di lavoro più lunghi (per chi un lavoro ce l'ha e lo avrà anche nel 2009).

I tecnici del ministero del Welfare legittimavano pubblicamente questa scelta perché per "sostenere la crescita e incrementare la produzione occorre lavorare di più". Sabato, nella conferenza stampa di fine anno, il Presidente del Consiglio Berlusconi ha, invece, proposto di ridurre l'orario di lavoro, portando la settimana lavorativa a 4 giorni. E gli stessi tecnici che avevano fino a qualche settimana fa elogiato la detassazione degli straordinari si sono affrettati a rimarcare (sugli stessi giornali che avevano ospitato i loro interventi precedenti) che queste misure serviranno per "fronteggiare l'emergenza economica e salvaguardare i livelli occupazionali".

Intuendo lo smarrimento degli italiani, poniamoci la domanda che molti di loro si saranno posti: aveva ragione il Governo (e i suoi tecnici) un mese fa a incoraggiare il lavoro straordinario o ha ragione il Governo (e i suoi tecnici) a sostenere ora esattamente il contrario, vale a dire, l'orario di lavoro ridotto?

A giudicare dalle esperienze internazionali, la risposta è nessuno dei due. La detassazione degli straordinari era una misura del tutto anacronistica in una fase recessiva, quando si tratta soprattutto di contenere la distruzione di posti di lavoro. I texani amano parlare senza mezzi termini. Il più titolato studioso di domanda di lavoro, Daniel Hamermesh, viene da lì e in un recente incontro all'Isae ha definito la detassazione degli straordinari una misura "demenziale" nell'attuale congiuntura.

Il giudizio lapidario non voleva, crediamo, incoraggiare a fare esattamente l'opposto anche perché non sempre l'opposto di una cosa demenziale è una cosa giusta. Eppure il Senatore Francesco Casoli, che sembra abbia ispirato le affermazioni di Berlusconi a favore degli orari ridotti, ha riesumato lo slogan comunista degli anni 90: "lavorare meno, lavorare tutti". Purtroppo, come mostrano le ripetute fallimentari esperienze francesi, prima con le 39 ore di Mitterrand e poi con le 35 ore della Aubry, ogni volta che lo stato riduce d'imperio l'orario di lavoro finisce per distruggere posti di lavoro e scontentare tutti, a partire dagli stessi lavoratori. Il fatto è che gli orari di lavoro non possono che essere definiti e contrattati azienda per azienda, sulla base delle specifiche esigenze dell'organizzazione del lavoro e del personale.

E' auspicabile che in molte aziende, invece di licenziare dei lavoratori, si riesca a rimodulare gli orari di lavoro, prevedendo orari di lavoro ridotti per molti, se non proprio per tutti. Ma sono scelte e decisioni che vanno prese azienda per azienda e nell'ambito di patti di solidarietà fra gli stessi lavoratori, che accettino in questo caso riduzioni del proprio salario mensile, pur di salvaguardare il posto di lavoro di altri lavoratori. Gli strumenti normativi per permettere tutto ciò, dalla Cassa Integrazione Ordinaria ai contratti di solidarietà, esistono già nel nostro paese. Quello che manca, semmai, è la contrattazione decentrata, azienda per azienda. Ma questo è un altro discorso. Non riguarda il Governo, ma le parti sociali.

Berlusconi nel lanciare la sua proposta sugli orari ridotti non ha citato il senatore Casoli, ma Angela Merkel. C'è una cosa che accomuna il nostro governo e quello tedesco. Entrambi stanno facendo molto poco per contrastare la recessione. Invece di stimolare la domanda, il Governo tedesco ha introdotto un sistema di garanzie agli investimenti (soprattutto delle piccole imprese e nell'industria dell'auto). Le garanzie, tuttavia, funzionano solo in fasi espansive, quando c'è una forte domanda di investimenti.

Il nostro paese ha addirittura varato misure, almeno sulla carta, di contrazione fiscale. Toglieranno risorse a famiglie e imprese, anziché metterne di più in circolazione. Forse per questo sia in Germania che in Italia chi è al governo preferisce parlare di materie che non sono di sua competenza, come l'orario di lavoro.
"La crisi è nelle mani dei consumatori" ha detto nella stessa conferenza stampa, il nostro Presidente del Consiglio. In verità la durata e l'intensità della crisi è innanzitutto nelle mani del governo. Dovrebbe dare ai cittadini messaggi meno contraddittori se vuole che aumenti la fiducia di famiglie e imprese. Dovrebbe parlare apertamente della crisi, invece di cercare di inventarsi altri terreni di confronto, come Nixon che di fronte all'esplosione dello scandalo Watergate decise nel 1972 di andare in Cina per spostare altrove l'attenzione generale.

Non è esorcizzando i problemi e chiedendo ai giornali di parlare d'altro (magari dedicando intere paginate alla band del ministro dell'Interno) che si risolve la crisi. Per questo speriamo che nessuno voglia raccogliere l'invito di Berlusconi a non pubblicare previsioni a tinte fosche, come quelle elaborate dal Centro Studi Confindustria, perché "le profezie negative si autoavverano". Al contrario, è proprio ridurre l'informazione e spargere finto ottimismo che allunga la crisi. Quando l'informazione non è accurata, aumenta solo l'incertezza, e l'incertezza è la peggiore nemica di quegli investimenti che ci porteranno, prima o poi, fuori dalla recessione.

(22 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 02, 2009, 10:12:43 am »

ECONOMIA     

A Parigi il 25% per 300 milioni.

Ecco come sarà la nuova Alitalia

Un conto da 4 miliardi

Accordo fatto con Air France

di TITO BOERI


DIECI mesi dopo, con quasi lo 0,3 per cento di pil sottratto ai contribuenti e 7.000 posti di lavoro in meno, Alitalia torna a parlare francese. Era il 14 marzo 2008 quando Air France-KLM depositava la propria offerta vincolante, subito accettata dal Consiglio di Amministrazione di Alitalia. Sono stati 10 mesi da incubo per i viaggiatori, presi ripetutamente in ostaggio in una battaglia senza esclusioni di colpi in cui la politica ha occupato un ruolo centrale, dimentica della recessione che ci stava investendo. In questi 300 giorni gli italiani hanno visto franare il prestito ponte di 300 milioni di euro concesso quasi all'unanimità dal Parlamento italiano. Oltre a perdere così un milione al giorno, i contribuenti si sono accollati i debiti contratti dalla bad company per quasi tre miliardi.

Ci sono poi circa 7.000 posti di lavoro in meno nella nuova compagnia rispetto all'offerta iniziale di Air France, che comporteranno, oltre ai costi sociali degli esuberi (soprattutto di quelli che riguardano i lavoratori precari), oneri aggiuntivi sul contribuente legati al finanziamento in deroga degli ammortizzatori sociali, per almeno un miliardo di euro. Il conto pagato dal contribuente è, dunque superiore ai 4 miliardi di euro, più o meno un terzo di punto di pil, quasi due volte il costo della social card e del bonus famiglia messi insieme.

Sarà Air France-KLM l'azionista di maggioranza, in grado di decidere vita, morte e miracoli della compagnia sorta dalle ceneri di Alitalia. Poco importa che sia italiana la faccia, che si chiami ancora Alitalia la nuova compagnia. Sarebbe stato così comunque, anche con il 100 per cento del capitale nelle mani di Air France-KLM. Come canta Carla Bruni, chi mette la faccia "non è nulla", chi mette la testa "è tutto".

La composita cordata italiana ha dovuto subito rinunciare all'italianità della compagnia perché non era da sola in grado di far decollare neanche il primo aereo, previsto in volo sui nostri cieli il 13 gennaio prossimo venturo. Air France rileva il 25% della nuova compagnia, versando 300 milioni. Questo significa che il 100 per cento del capitale viene oggi valutato 1200 miliardi, circa 150 milioni in più dei 1052 pagati a Fantozzi da Colaninno e soci solo un mese fa. Questo sovrapprezzo si spiega col fatto che CAI ha nel frattempo acquisito Air One. Si tratta di una compagnia in crisi, con un debito verso i soli fornitori valutato attorno ai 500 milioni di euro, ma il valore dell'acquisizione di Air One è tutto nella soppressione dell'unico concorrente sulla tratta Milano-Roma, consumatosi con il beneplacito della nostra Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Anche questi 150 milioni vanno aggiunti al conto pagato dagli italiani. E' sono sicuramente una sottostima dei costi che dovremo pagare per la mancata concorrenza.

Conti fatti, è soprattutto Air France dunque ad aver fatto un affare. Rileva una compagnia più leggera di 7000 dipendenti rispetto a quella che avrebbe acquisito nel marzo scorso, che ha nel frattempo assunto una posizione di monopolio nella tratta più redditizia versando molto meno di quel miliardo su cui si era impegnata solo 10 mesi fa.

Dopo avere subìto un danno ingente in conto capitale e avere assistito alla beffa finale di vedere documentata, nero su bianco, la svendita della loro compagnia di bandiera allo straniero da parte dei "patrioti" della Cai, i cittadini italiani rischiano ora di vedere salire ulteriormente le tariffe aeree, in barba alla deflazione. Per scongiurare questo pericolo l'Autorità Antitrust dovrà assicurarsi fin da subito che gli slot lasciati liberi da Alitalià vengano venduti sul mercato. Le speranze di concorrenza in Italia riposano ormai solo sull'ingresso di Lufthansa-Italia nella tratta Milano-Roma. Varrà senz'altro molto di più della moral suasion esercitata da chi, dopo aver benedetto la fusione fra CAI e Air One il 3 dicembre scorso, oggi promette di monitorare da vicino le tariffe della nuova compagnia.

(2 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 07, 2009, 04:39:59 pm »

Boeri: «Il Parlamento? Oggi è un luogo dove coltivare i propri interessi»


di Claudia Fusani

Un Parlamento che sembra diventato «terreno dove coltivare gli interessi della propria impresa». Una corruzione, «di favori e non di bustarelle», fenomeno «sommerso» e difficile da pesare anche nella nostra economia. E il Pd che deve «assolutamente cercare un nuova identità nella «capacità di ricambio della propria classe politica».

Il viaggio nell’ Italia dei favori continua con il professor Tito Boeri, economista, docente della Bocconi e fondatore della Voce.info.

Che tipo di corruzione è quella raccontata dalle inchieste di Firenze, Napoli, Pescara, Potenza?
«Sembra più un fenomeno legato agli scambi, siamo quasi nel campo del baratto, voti in cambio di una gara d’appalto confezionata su misura, di un incarico prestigioso o di una nomina. Più difficile anche da perseguire da un punto di vista giudiziario».
L’Ocse ci mette al 41° posto, la Banca Mondiale al 70° nella percezione del malaffare, lontanissimi dalle democrazie occidentali. Quanto pesa la corruzione sulla capacità di attrarre patrimoni e investimenti?
«In Italia gli investimenti esteri sono molto bassi per le inefficienze del sistema legale e la poca trasparenza nelle regole. La corruzione pesa sul nostro sviluppo perchè evita la concorrenza».

Stato “estraneo” rispetto al popolo, classe dirigente “barricata” a difesa dei suoi privilegi. In questi giorni giornalisti e sociologi indicano i responsabili di questo paese che sembra condannato alla corruzione.
Come continua?
«Con la Fondazione studi Rodolfo Debenedetti abbiamo individuato due problemi. Il primo attiene ai meccanismi di selezione della classe dirigente in Italia. Il secondo a quella che definiamo sanzione sociale contro la corruzione».
Quello che un tempo era il senso civico...
«Entrambi funzionano molto male. Sui meccanismi di selezione della classe politica, ad esempio. Una volta avevamo i partiti di massa che facevano scuola di politica e selezionavano i funzionari e li valutavano sul campo. Ora i partiti di massa non ci sono più, la selezione viene fatta dal segretario del partito, da vertici molto ristretti che hanno accentrato il potere anche grazie al finanziamento pubblico. Da ultimo è arrivata la ciliegina della legge elettorale senza preferenza. Di fatto oggi un segretario sceglie il candidato con meccanismi di cooptazione».

Il risultato?
«Abbiamo analizzato le coorti di ingresso in Parlamento dal dopoguerra a oggi. E abbiamo notato due cose: invecchiamento e abbassamento del livello di istruzione dei parlamentarii e calo di quelli con esperienze amministrative».
L’identikit del nostro parlamentare?
«Il 25% dei nuovi ingressi vengono dalle imprese. È la quota di manager più alta dal dopoguerra a oggi. Il risultato è che stanno in Parlamento una o al massimo due legislature. Restano però in contatto con il mondo della politica e diventano dei perfetti lobbisti. E il Parlamento è diventato il terreno dove si coltivano i propri interessi».
Lobbismo non vuol dire corruzione.
«No. Però è più facile perdere di vista il confine tra lecito e illecito quando la distinzione tra politica e affari non è netta. Sei stato in Parlamento per una legislatura, ti sei creato il tuo sistema di networking che poi utilizzi anche quando torni in azienda».

Leggendo le intercettazioni delle ultime inchieste, che idea si è fatto di questa nuova ipotetica classe di corruttori e corrotti?
«È una classe politica con un turn over molto elevato tra i parlamentari e zero ricambio tra i dirigenti del partito che si sentono garantiti nei loro incarichi anche se perdono e vanno all’opposizione».
Perchè il Pd boccheggia sotto l’onda della questione morale?
«Perchè avere una classe dirigente onesta è uno dei valori identitari del partito. Se quella classe viene travolta, perchè ha tradito quei principi, assistiamo agli effetti devastanti che abbiamo visto. Serve una segnale di rottura e riacquistare una nuova identità».

Come?
«C’è solo un modo: le primarie. Primarie vere, dal basso e senza cooptazioni dall’alto, far piazza pulita dei capibastone e selezionare persone nuove che siano responsabili di quello che fanno. Invece di rivendicare una unicità non più credibile, come quella di non essere corrotti, serve trovarne una nuova»


06 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #8 inserito:: Aprile 14, 2009, 06:12:34 pm »

NESSUN COMPROMESSO SULLE MACERIE


di Tito Boeri 14.04.2009


Il Governo ha tempo fino a domani per decidere se tenere in un'unica consultazione, in un unico election day, elezioni europee, amministrative e referendum sulla legge elettorale. Lo stato risparmierebbe 173 milioni (stime, probabilmente per difetto, del Ministro Maroni che, più da esponente di un partito che da Ministro, si è speso molto per non fare l'election day), e i cittadini risparmierebbero altri 200 milioni di costi indiretti. In totale 373 milioni: uno spreco di risorse che non possiamo permetterci soprattutto dopo il terremoto in Abruzzo.

Un Governo responsabile dovrebbe prenderne atto, tenere conto del plebiscito che sul web c'è stato in questi settimane a favore dell'election day e, dunque, cambiare la data del referendum.

Eppure quello che si profila all'orizzonte è un "compromesso" molto costoso per i contribuenti e per chi ha bisogno di aiuto dallo Stato: il referendum sulla legge elettorale si dovrebbe tenere il 21 giugno con il secondo turno delle amministrative. E' un compromesso che costerebbe al contribuente circa 300 milioni, tra costi diretti e indiretti.

Infatti, il ballottaggio in Italia, in genere, coinvolge un terzo dell’elettorato potenziale e solo i collegi in cui ci sono elezioni provinciali e in cui si vada al ballottaggio. Secondo le nostre stime, solo 21 delle 63 province potenzialmente coinvolte, torneranno a votare a due settimane dal voto alle europee.

Le altre 88 province italiane (81 per cento del totale) saranno chiamate a votare unicamente per il referendum.

Di qui lo spreco enorme di risorse che si avrebbe anche in questo caso.

Ma che razza di compromesso è questo? Qui stiamo barattando una soluzione che fa risparmiare soldi allo Stato e tempo e denaro alle famiglie con una soluzione che costa ai contribuenti e a chi va a votare - e che per giunta riduce la partecipazione al voto, uno dei valori conclamati nella nostra Costituzione - pur di fare un piacere a un partito.

E perché gli italiani tutti devono subire il diktat di un partito, votato dall'8 per cento dei cittadini?

E’ un compromesso inaccettabile soprattutto dopo il terremoto.

da lavoce.info
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 25, 2009, 10:51:40 am »

22/7/2009
 
Troppi appartamenti sfitti
 

STEFANO BOERI
 
Immaginatevi di creare dal nulla in cinque anni una città di circa duecentocinquantamila abitanti, estesa su quindici chilometri quadrati. Come Mestre, o Messina, o Prato.

E di realizzare questa città grazie a una importante quota di finanziamenti statali (200 milioni di euro di partenza) e al supporto di fondi privati; cioè di costruttori, proprietari, banche interessate a investire per realizzare dell’edilizia residenziale destinata ai ceti meno abbienti.

Ecco visualizzato in un’immagine il Piano Casa varato ieri dal Governo. È tanto? È poco? È sufficiente a rispondere al disagio abitativo di migliaia di cittadini italiani (famiglie a basso reddito, studenti fuori-sede, giovani coppie, sfrattati, immigrati)? Per rispondere a queste domande dobbiamo fare tre considerazioni.

La prima è che si tratta di un atto politico opportuno e utile, che riprende una promessa di stanziamento del governo Prodi e ne attua una prima cospicua parte. Ma resta un atto parziale e limitato, se pensiamo che una sola Regione italiana, la Campania, avrebbe, da sola, bisogno di tutte le 100.000 nuove abitazioni previste nel prossimo quinquennio dal Piano Casa per dare risposta alla drammatica domanda di case a prezzi contenuti che proviene dai suoi abitanti. In altre parole, è come se una nuova Mestre o una nuova Messina servissero per ospitare i cittadini bisognosi di una sola, seppur grande, regione italiana. Lasciando insoddisfatto per i prossimi cinque anni il resto del Paese.

La seconda considerazione è che questo Piano Casa è un intervento salutare e però anche monco. Gli manca quel pezzo importantissimo, anzi fondamentale, che riguarda tutti gli interventi di recupero, ristrutturazione e ampliamento che - grazie a facilitazioni e incentivi legati alla possibilità di rottamare edifici fatiscenti e di sostituirli con architetture sostenibili dal punto di vista energetico - il governo prevede di concordare con le Regioni italiane.

È come se dopo aver discusso per mesi del Piano Casa vero, che potrà sul serio cambiare - nel bene e nel male - la situazione dell’edilizia residenziale dei territori del nostro Paese, ieri se ne fosse rubato il nome per metterlo sul cappello di un progetto molto più limitato, anche se importante. Se è dunque un bene che si sia partiti con l’intenzione di rispondere alle situazioni più drammatiche, va anche detto che proprio perché il disagio abitativo è oggi un fenomeno trasversale, che riguarda fasce diverse della popolazione urbana, è necessario che al più presto i due strumenti legislativi vengano riaccorpati e portati a coerenza.

La terza considerazione, la più importante, è piuttosto un appello. Siamo ancora in tempo - anche per le ragioni appena esposte - a convincere il governo a varare un Piano integrato di politiche sulla casa che non eviti di affrontare il primo grande paradosso delle città italiane: sono città che continuano a crescere, a divorare annualmente in misura maggiore di ogni altro Paese europeo terreni verdi e campi agricoli, nonostante siano per gran parte degli immensi gusci vuoti, dei deserti di cemento.

Siamo ancora in tempo a capire che senza una politica che si occupi con forza e ostinazione di recuperare alla vita quotidiana le migliaia e migliaia di vani oggi disabitati, ogni previsione di nuova edilizia residenziale assume dei toni caricaturali e addirittura minacciosi. Come abbiamo già scritto su queste pagine, per rendersi conto di questo paradosso basterebbe guardarsi attorno; memorizzare le offerte di affitto e vendita sui portoni delle case e soprattutto quelle infinite persiane chiuse delle abitazioni e quei serramenti senza vita degli uffici che - come le palpebre di occhi che non vedono più - ci guardano con una sospetta fissità nei nostri percorsi quotidiani in centro, in periferia, nella città diffusa. A Roma, su 1.715.000 abitazioni, 245.000 - una su sette - sono oggi vuote. A Milano su 1.640.000 appartamenti, più di 80.000 non sono abitati, e quasi 900.000 metri cubi di uffici sono deserti (l’equivalente di 30 grattacieli Pirelli vuoti). Muri, pavimenti, soffitti, arredi che aspettano da anni che qualcuno entri, li abiti, vi riporti le pulsazioni della vita quotidiana.

Una seria politica di rivitalizzazione di questo immenso patrimonio sfitto o abbandonato muoverebbe le energie molecolari di migliaia di piccole imprese edili, l’intelligenza delle innumerevoli associazioni che si occupano di instaurare (ecco la vera sussidiarietà) uno scambio fiduciario tra proprietari e inquilini, aumenterebbe il reddito di migliaia di famiglie impaurite da un sistema dell’affitto sregolato e darebbe casa a prezzi calmierati a altrettante migliaia di cittadini bisognosi ma esclusi dai requisiti a volte rigidi delle politiche centralizzate. Qualcosa che sta accadendo, per fare un esempio vicino, in Spagna, a Barcellona, dove un’Agenzia di immobiliare sociale in pochi anni ha reimmesso sul mercato più di 20.000 abitazioni ad affitti calmierati.

Altro che una nuova Mestre o una nuova Messina... Le case di cui abbiamo bisogno stanno già, costruite e vuote, dentro le città del nostro Paese. Recuperarle, ridar loro una linfa vitale è il primo modo di rispondere al fabbisogno abitativo; ed è il miglior modo per difendere da un’inutile - ripeto inutile - cementificazione le campagne che, ancora per poco, circondano le nostre bulimiche città.

Architetto, docente di Progettazione urbanistica al Politecnico di Milano. Dirige la rivista Abitare

 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 31, 2009, 11:47:54 pm »

L'ANALISI

Governo, 15 mesi di vita spericolata


di TITO BOERI


TRA i politici italiani va di moda Vasco Rossi. Oggi Berlusconi, nella conferenza stampa in cui presenterà i risultati dei primi 15 mesi del suo quarto governo, probabilmente farà molte bollicine. E cercherà di convincere tutti che il suo esecutivo è stato perfetto ed è andato al massimo. Ci lascerebbe senza parole. Quindi preferiamo scriverle prima.

Il Berlusconi IV ha effettivamente avuto una vita spericolata, nel mezzo della recessione più grave del Dopoguerra. Non sono condizioni in cui è facile governare, benché avesse tutti i numeri per farlo. La grande crisi era e rimane globale, importata dall'estero, quindi certamente non imputabile al Governo. Anche se il nostro paese era già ben avviato verso una recessione e la prima manovra economica, quella varata in 5 minuti, non ne teneva affatto conto, la crisi sarebbe stata molto meno intensa di quella stiamo vivendo. A queste turbolenze se ne sono poi aggiunte altre tutt'altro che inevitabili. Ma questo è un altro discorso.

È stato anche un Governo molto attivo. Sui media. Uno stillicidio di annunci. Serviti a guadagnare tanti titoli sulle prime pagine dei giornali, a occupare, se ce n'era ancora bisogno, ampie fasce dei Tg in prima serata. Non pochi, comunque, i provvedimenti varati. Un contrasto abissale rispetto all'immobilismo del Governo Prodi. Ma non c'è stata alcuna riforma, se non quella ancora tutta in fieri della pubblica amministrazione. Molti provvedimenti ad hoc, transitori, in deroga o in proroga. Ci lasceranno un'eredità pesante nel paese delle eccezioni e delle complessità normative. Renderanno più difficile il controllo della spesa pubblica. Se ne è già accorto l'esecutivo perché nella legge di assestamento di bilancio ha dovuto rifinanziare per 10 miliardi misure la cui entità era stata in origine sottostimata.

Rimane una distanza siderale fra dichiarazioni di principio e atti concreti. Purtroppo in Italia c'è una memoria corta. Anzi cortissima. Cerchiamo allora di ricordare, spulciando il sito www.lavoce.info, cosa è successo di alcuni provvedimenti che hanno a lungo occupato le prime pagine dei giornali.

Il Governo è indubbiamente avviato a soluzione il grave problema dei rifiuti in Campania. Da una settimana sono anche state pubblicate le graduatorie delle università che dovrebbero servire a distribuire il 7% dei fondi di finanziamento ordinario agli atenei. Il meccanismo di riparto, a quanto si sa, rende l'intervento poco più che simbolico. Ma anche i simboli contano.

Si sono persi nel nulla la convenzione fra il ministero dell'Economia e l'Abi sui mutui prima casa e la Robin tax, che avrebbe dovuto tassare petrolieri, banche e assicurazioni. La crisi, con il calo dei tassi e dei prezzi del greggio, ha reso questi provvedimenti, già di per sé inefficaci, del tutto anacronistici. Basti pensare alle tasse trasformatesi in aiuti alle banche. Chi aveva sbandierato queste misure non si potrà certo vantare di avere previsto la crisi. Sorte analoga è toccata alla detassazione del lavoro straordinario che rischiava di aggravare ulteriormente le perdite occupazionali. Svolta a U. Roba da ritiro della patente. Ma bene essersi accorti dell'errore non troppo tardi.

Poco successo hanno avuto i Tremonti bond, varati con grave ritardo dopo che le banche avevano rischiato di essere travolte dalla tempesta. Nessuno sembra volerli, tranne forse i Prefetti che avrebbero dovuto monitorarne l'utilizzo. Caduto nel vuoto anche l'impegno a mantenere inalterati i livelli di credito concessi alle piccole imprese applicando "condizioni di credito non penalizzanti". Se è vero, come lamentato più volte dal ministro dell'Economia, che le nostre piccole imprese sono strozzate dalle banche, anche il rifinanziamento del fondo di garanzia sembra essere stato del tutto inefficace. Dei ben quattro piani casa annunciati, ne è rimasto uno, per ora solo sulla carta, che non prevede nulla a sostegno dell'edilizia popolare. Innumerevoli anche gli annunci di opere infrastrutturali. Anche quei pochi progetti approvati riceveranno dal Cipe "finanziamento parziale", uno stratagemma per aprire i cantieri, ma creare in partenza le condizioni perché, come sempre, le opere non vengano completate.

Non si è persa nel nulla l'abolizione dell'Ici sulla prima casa. Come pure il blocco delle addizionali Irpef (comunali e regionali) e Irap. Ma a questo punto la legge delega sul federalismo fiscale, che predica l'autonomia tributaria, "un senso non ce l'ha". Singolare che queste misure vengano oggi sbandierate nei documenti del governo, come volte a "sostenere i redditi e di ridurre la pressione fiscale". Peccato che sia il blocco delle addizionali che la riduzione dell'Ici siano stati introdotti a pressione fiscale invariata. Significa che verranno coperte da altre tasse, quelle che tipicamente colpiscono il lavoro. Oppure sui poveri. Per non "mettere le mani nelle tasche dei cittadini", si è infatti fatto ampio ricorso a imposte sui giochi, tasse che colpiscono i ceti meno abbienti. Non si è persa traccia neanche delle misure che servono a proteggere da scalate i gruppi di controllo delle nostre società (ad esempio riducendo i vincoli all'acquisto di azioni proprie).

Chi invece non è stato protetto sono i più poveri. Molti i "titoli" sul contrasto della povertà: dal bonus famiglia, alla social card, al fondo di credito per i nuovi nati. Misure una tantum, poco più che simboliche e troppo selettive per raggiungere chi davvero ne ha bisogno. I dati Istat di ieri confermano che l'Italia, più di altri, vede crescere drammaticamente la povertà durante le crisi. Il fatto è che non ha strumenti universali di contrasto alla povertà. E i nostri ammortizzatori sociali sono pieni di buchi. Lo sapeva questo governo (a dispetto delle dichiarazioni sui nostri ammortizzatori "migliori del mondo"). Lo sapevano anche i Governi di centro-sinistra che non avevano fatto questa riforma. Ma con una crisi così dura all'orizzonte la riforma era davvero improrogabile. Non ci sono attenuanti per questo operato.

Poco consola il fatto che Alitalia, che continua a perdere 2 milioni al giorno nonostante alcuni incredibili titoli di giornale, sia stata privatizzata. Lo Stato ha incassato poco più di 1 miliardo per cedere, inter alia, 64 aeromobili, tutti i diritti di atterraggio e decollo e il marchio. Lasciando in eredità al contribuente una massa debitoria, di gran lunga superiore a quanto incassato.

Infine, nell'anno del G8 e delle grandi dichiarazioni sui sostegni all'Africa, sono state quasi dimezzate le risorse per la cooperazione allo sviluppo. E i famosi Global Legal Standards, che promettono battaglia senza quartiere ai paradisi fiscali e all'evasione fiscale, sono stati approvati appena in tempo per fornire una cornice all'introduzione dello scudo fiscale, un premio a chi ha esportato illegalmente capitali e alle organizzazioni criminali. Sulle intenzioni di questo governo nella lotta all'evasione fanno testo lo smantellamento di un insieme di importanti provvedimenti di prevenzione dell'evasione e la riduzione delle sanzioni in caso di mancato o ritardato pagamento delle imposte. La riduzione dei controlli sui posti di lavoro, volti a prevenire il lavoro nero, ci espone ancor di più al rischio di immigrazione clandestina, che sfrutta proprio l'ampia area di irregolarità presente nel nostro paese. Bene ricordarsi che i disperati che arrivano sulle coste siciliane rappresentano meno del 10% dei clandestini che oggi arrivano in Italia. In Africa si è troppo poveri per emigrare. È l'unica area del mondo rimasta in gran parte tagliata fuori dai grandi flussi migratori degli ultimi due decenni. Ma abbiamo fatto patti col diavolo pur di non far arrivare gli africani da noi.

(31 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Settembre 07, 2009, 10:50:18 am »

ECONOMIA
     
IL COMMENTO

Il ministro e lo stregone

di TITO BOERI


ADESSO capiamo perché il nostro ministro dell'Economia evoca così spesso gli stregoni. Il suo stile di governo ricorda da vicino quello del mago di Oz.
Il mago di Oz era un pallonista (non necessariamente nel senso di contaballe quanto di guidatore di mongolfiere), trascinato da un ciclone (non è esattamente la stessa cosa di un grande ciclo economico negativo), su territori fino ad allora inesplorati.

Oz era riuscito a convincere il popolo, che lo aveva visto scendere dal cielo su di un pallone, di essere un mago. Sarebbe stato in grado di proteggere le loro enormi ricchezze dalle streghe che popolavano ad ogni punto cardinale quelle lande. Si erano convinti di essere molto ricchi perché il "mago" li aveva costretti a indossare occhiali verdi, in grado di trasformare ai loro occhi i sassi in smeraldi. Non passava giorno che il Mago non se la prendesse con qualche strega, tranne che, curiosamente, con quella del Nord. Spingendo tutti a pensare alle streghe, riusciva a nascondere il fatto di non avere quelle capacità che gli venivano così generosamente attribuite.

Da quanto è tornato in via XX Settembre, Giulio Tremonti è riuscito a evocare tante streghe quanti sono i venti: dai cinesi "che mangiano come noi" agli speculatori, dall'utilitaria "Tata Nano venduta in India per soli 2000 dollari" agli "avidi petrolieri". Mali assoluti, cui indiscriminatamente contrapporre la propria bravura altrettanto assoluta. Ieri è stata la volta dei banchieri, bersaglio facile facile nell'immaginario popolare. Come ci racconta David Landes, studioso delle grandi dinastie, sono sempre immancabilmente loro, i grandi banchieri dai Baring ai Morgan ai Rotschild, ad essere quelli più odiati dal popolo.

Ecco una breve summa degli strali lanciati ai banchieri da un ramo del lago: "Fanno malefici alle imprese", "sono come signorotti sui ponti che impediscono il transito", "parlano in russo, si rivolgano a Putin", "vanno contro l'interesse del paese".

Tanta violenza verbale fa il paio con l'inconcludenza del vertice dei Ministri delle Finanze del G20 a Londra, cui aveva partecipato "on his way to Cernobbio", riunione quest'ultima da lui seguita con ben maggiore attenzione e impatto del vertice londinese. Serve forse a coprire l'insuccesso dei Tremonti-bond, stranamente attribuito per una volta agli "utilizzatori finali", anziché a chi aveva ideato questi strumenti onorandoli del proprio nome.

Vuole forse celare l'inefficacia delle misure approntate in questi mesi dal Ministro dell'Economia per fare accedere credito alle piccole imprese. Che il fine ultimo fosse uno scaricabarile è risultato evidente quando il Ministro ha esplicitamente attribuito ai banchieri gli stessi fallimenti della politica: le banche sono diventate talmente grandi, secondo Tremonti, da decidere loro al posto dei Governi democraticamente eletti.

Se anche fosse vero, negli anni delle grandi aggregazioni bancarie Tremonti sedeva alla scrivania di Quintino Sella ed è stato un processo abbastanza lento, prevedibile, addirittura annunciato dalla costruzione del mercato unico. Perché allora non ha rafforzato in tutti questi anni i controlli e la supervisione delle banche di maggiori dimensioni, possibilmente coordinandosi con gli altri paesi dell'Unione? Sarebbe servito anche ad affrontare la grande crisi che, ovviamente, lui aveva "previsto sin dal 1995".

Si narra che il mago di Oz avesse scelto come Governatore del suo regno uno spaventapasseri, cui aveva opportunamente riempito il cervello con una miscela fatta di crusca, spilli ed aghi. Forse il nostro apprendista stregone nutre in cuor suo lo stesso desiderio. Non vorremmo che fosse il Governatore di Banca d'Italia, il cui nome incute timore forse anche ai maghi, il vero bersaglio del nostro Ministro dell'Economia. Prepariamoci in ogni caso a vederne di nuove di streghe. Chissà a chi toccherà oggi. Anzi, proviamo a indovinarlo: toccherà proprio a noi, agli economisti.

(7 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Ottobre 09, 2009, 07:00:27 pm »

Il PATTO STUPIDO E LA PROSSIMA MANOVRA TRIENNALE

di Tito Boeri e Pietro Garibaldi 09.10.2009


La Commissione Europea ha aperto una procedura per disavanzo eccessivo contro l'Italia. Certo, siamo in buona compagnia: sono venti gli Stati membri che non hanno rispettato le regole comunitarie sul bilancio. Ma il nostro caso nasconde un doppio paradosso. Imputabile essenzialmente al fatto che la manovra triennale avviata nel 2008 è stata particolarmente attenta a vincoli europei ormai del tutto anacronistici di fronte alla crisi. Senza affrontare i problemi strutturali del paese. Intanto, neanche i conti pubblici sono a posto. La vera manovra triennale sarà la prossima?

Il Patto questa volta è davvero stupido. C’è dell’accanimento ragionieristico nella scelta della Commissione Europea di aprire procedure per disavanzo eccessivo nei confronti di 20 (su 27) stati membri. Mercoledì è stata la volta dell’Italia in compagnia di Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Germania, Olanda, Portogallo, Slovenia e Slovacchia. L’avvio della procedura serve a infliggere una sanzione politica, segnalando all’opinione pubblica governi che non rispettano le regole comuni. Ma quando sono tutti a violare le regole, la sanzione diventa un semplice adempimento burocratico. Come chiedere a un’intera classe indisciplinata di andare dietro alla lavagna.

DOPPIO PARADOSSO

Eppure è importante cogliere il doppio paradosso che si cela dietro questa nuova procedura contro il nostro paese. La manovra di bilancio triennale di cui va orgoglioso il nostro ministro dell’Economia ha preso avvio nell’estate del 2008, gli stessi giorni in cui Bruxelles certificava il nostro rientro dal disavanzo eccessivo registrato sotto la precedente reggenza Tremonti in via XX Settembre. Paradossalmente, la nuova manovra triennale ci ha portato in una nuova procedura di disavanzo eccessivo. Indubbiamente molte delle responsabilità vanno alla crisi. Ma anche alla volontà di non adeguare la manovra triennale alla crisi stessa, facendo per lungo tempo finta che non ci fosse. Ecco il secondo paradosso: la procedura si apre nonostante il nostro ministro dell’Economia sia stato particolarmente attento a vincoli europei divenuti del tutto anacronistici di fronte alla crisi. Ai ragionieri di Bruxelles abbiamo risposto con le armi del ragiunatt. Invece di concentrare le poche risorse disponibili su uno o due al massimo provvedimenti significativi, orizzontali, di sicuro impatto come la riforma degli ammortizzatori sociali o una significativa riduzione della tassazione sul lavoro, si è scelta la strada delle micro riallocazioni di bilancio a saldo pressoché invariato. Mille piccoli interventi per placare la lobby di turno, coperti da mille nuovi prelievi. Tutto rigorosamente una tantum. Al netto di tutte queste una tantum e del ciclo il disavanzo primario dell’Italia sarebbe non lontano dalla soglia fatidica del 3 per cento!
In altre parole, si è guardato ossessivamente al bilancio e non si è pensato a curare l’economia. È vero che non abbiamo avuto né fallimenti di grandi banche, né lo scoppio di bolle immobiliari. Ma i problemi strutturali dell’Italia continuano a farci perdere posizioni. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, pure richiamate nell’audizione al Senato del ministro, l’Italia è destinata a essere superata anche da Grecia e Slovenia in termini di reddito pro capite a parità di potere d’acquisto. Sembrano lontani anni luce i tempi in cui si diceva che finché c’è la Grecia in Europa non saremo mai gli ultimi. Remoti anche i giorni in cui guardavamo con superiorità agli ex paesi socialisti. Ci stanno superando.
Si dirà: almeno i conti pubblici sono rimasti sotto controllo e quando l’economia finalmente ripartirà saremo in grado di rientrare dal disavanzo senza bisogno di grandi manovre correttive. Non è vero. L’Europa dice che dovremo aggiustare il bilancio di 1 punto strutturale per i prossimi tre o quattro anni. Significa circa 15 miliardi annui di tagli di spesa o nuove tasse. Il rischio vero è che la vera manovra triennale sarà quella dei prossimi tre anni.

da lavoce.info

 
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 05, 2010, 10:21:59 am »

DOPO L'EDITORIALE DI GIOVANNI SARTORI

I musulmani e i tempi dell'integrazione

di Tito Boeri


Caro Direttore,
dunque Giovanni Sartori ha deciso che gli immigrati di fede islamica non sono integrabili nel nostro tessuto sociale, non devono poter diventare cittadini italiani (Corriere del 20 dicembre, ndr). Non si tratta di un’affermazione di poco conto. Parliamo di circa un milione e mezzo di persone che oggi vivono in Italia.

Da cosa trae Sartori questa convinzione? Da un’analisi dei processi di integrazione degli immigrati di fede islamica in Paesi a più antica immigrazione? Si direbbe di no. Il 77 per cento dei maghrebini di seconda generazione immigrati in Francia ha sposato una persona di cittadinanza francese. Dichiarano di sentirsi francesi tanto quanto gli altri immigrati. In Germania un figlio di immigrato turco (al 90 per cento di religione islamica) ha la stessa probabilità di un figlio di immigrato italiano di sposarsi con una persona nata in Germania. Si identificano di più con il Paese che li ha accolti di quanto non facciano i figli dei nostri emigrati. Nel Regno Unito gli immigrati del Pakistan o del Bangladesh, le due più grandi comunità di fede islamica ivi presenti, si integrano allo stesso modo degli indiani, dei caraibici e dei cinesi. Si sentono britannici e parte del Regno Unito più degli immigrati di fede cristiana, anche se mantengono la loro religione. Si integrano economicamente e socialmente, nel lavoro, sposandosi con persone del Paese che li accoglie e parlando a casa l’inglese, indipendentemente da quanto spesso vadano in moschea, da quanto siano devoti all’Islam. Ritengono di poter essere al tempo stesso britannici e musulmani. Si sbagliano forse?

Pensa Sartori, come quei sindaci leghisti che si battono contro la costruzione di moschee nelle loro città, che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse da noi, per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica? Non voglio certo negare che ci sia un problema di integrazione degli immigrati in generale e dei musulmani in particolare. Ma trattare di questi problemi con superficialità, alimentando pregiudizi tanto diffusi quanto lontani dalla realtà non aiuta certo a risolverli. Impedire poi ai musulmani di praticare la loro religione da noi, a differenza di quanto avviene in Paesi che da decenni ospitano grandi comunità di fede islamica, e precludere loro a priori la cittadinanza italiana, serve solo ad allungare i tempi dell’integrazione.


04 gennaio 2010(ultima modifica: 05 gennaio 2010)
da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Gennaio 11, 2010, 06:09:26 pm »

La lettera di Tito Boeri

Integrazione e società


Caro Direttore
i terribili avvenimenti di Rosarno mostrano in modo inequivocabile quanto sia cruciale il tema dell’integrazione degli immigrati nella società italiana, su cui lei ha deciso di aprire un dibattito sul suo giornale. Ci dicono che i flussi migratori sono non solo fonte di grandi benefici economici, ma anche di gravi tensioni sociali per le comunità che li ospitano. Dimostrano al contempo come sia riduttivo (e intellettualmente disonesto) confinare alla dimensione religiosa il problema dell’integrazione.

La tesi sull’”impossibile integrazione degli islamici” è stata sostenuta sulle sue colonne con riferimenti storici quanto meno azzardati (non è vero che i mussulmani hanno imposto la propria fede con forza in India sotto l’impero dei Moghul, non è vero che solo la cultura islamica ha prodotto chi si fa uccidere per uccidere, basti pensare ai kamikaze o ai guerrieri Tamil), e su testi di autori, come Toynbee, scomparsi 35 anni fa, quindi impossibilitati a studiare il lungo processo di integrazione delle minoranze islamiche nelle società europee contemporanee. Non un solo dato è stato citato a supporto di questa tesi così impegnativa. Né sono stati presi in considerazione le statistiche che avevo fornito e che documentano che l’integrazione di minoranze mussulmane nei paesi a più antica immigrazione è difficile, ma tutt’altro che impossibile. Il compito di uno studioso è quello di fornire informazioni sui casi tipici, sui grandi numeri (di aneddoti ed eccezioni è costellata la nostra vita quotidiana).

Approfitto allora di questo spazio per far nuovamente parlare i dati, questa volta sulla realtà dell’immigrazione nel nostro paese, alla luce della prima indagine rappresentativa degli immigrati clandestini condotta in Italia, a cura della Fondazione Rodolfo Debenedetti, nel novembre-dicembre 2009. Primo dato: un italiano su tre non vorrebbe avere un mussulmano come vicino di casa; pochi meno di quanti non vorrebbero estremisti (di destra o sinistra) o malati di aids nella porta accanto; tre volte la percentuale di italiani che non vorrebbero ebrei come vicini di casa. Secondo dato: gli immigrati in provenienza da paesi mussulmani parlano più spesso l’italiano, mandano i loro figli alla scuola pubblica e hanno più frequenti contatti con italiani delle altre minoranze, soprattutto dei cinesi. Terzo dato: gli immigrati, di tutte le etnie, lavorano più degli italiani (il loro tasso di occupazione è del 15 per cento superiore al nostro) sebbene circa un quarto di loro sia presente irregolarmente nel nostro paese, non abbia permesso di soggiorno e regolare contratto di lavoro.

Il primo dato spiega molte reazioni dei lettori; fa riflettere anche sul comportamento di chi, dopo aver compiaciuto la vox populi, conta il numero di commenti favorevoli raccolti sul sito web del suo giornale. Il secondo dato apre speranze sull’integrazione dei mussulmani nel nostro paese; soprattutto se sapremo investire, come in altri paesi, nel sistema scolastico, come strumento per trasmettere la nostra identità culturale. Pone dubbi sulla decisione di imporre un tetto del 30 per cento agli immigrati nelle nostre scuole. Ci sono comuni in cui l’80 per cento della popolazione è straniera: dovremmo forse impedire ai figli di questi immigrati di andare a scuola? Il terzo dato è cruciale per capire come contrastare davvero l’immigrazione clandestina, nei fatti e non con le parole. Rafforzando i controlli sui posti di lavoro per contrastare l’impiego in nero degli immigrati si può essere molto più efficaci che introducendo nuove leggi (come quelle che istituiscono il reato di immigrazione clandestina) destinate a non essere applicate. Non ho le rocciose certezze di alcuni suoi editorialisti che hanno risposte su tutto: dalle riforme costituzionali, al rapporto fra islam e immigrazione, al modo con cui salvare la Terra dagli effetti del cambiamento climatico. Essendo indiscutibilmente più limitato, temo di non avere risposte a molti quesiti posti dai lettori.

Ma di una cosa sono convinto: queste risposte non possono alimentarsi sui pregiudizi né essere trovate nelle (peraltro autorevoli) pagine di libri scritti alcuni decenni fa. Dovremo avere tutti l’umiltà di dubitare, di osservare per imparare, di farci aiutare dai dati e dai numeri. In fondo è proprio questo che trovo interessante nel mio lavoro.

La ringrazio ancora per lo spazio che mi ha gentilmente concesso.

Tito Boeri

10 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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