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Autore Discussione: L'epidemia invisibile: quelle imprese "fallite" con 156 miliardi di debiti verso  (Letto 410 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Febbraio 11, 2024, 10:46:22 pm »

05 febbraio 2024   Versione web

 Mercoledì scorso il viceministro all’Economia Maurizio Leo, di Fratelli d’Italia, ha creato polemiche nella sua maggioranza: “L’evasione fiscale è come un macigno – ha detto –. Tipo il terrorismo”. Dalla Lega si sono levate voci contro la “caccia alle streghe”, mentre dal resto del mondo politico – maggioranza e opposizione – nessuno ha pronunciato una parola a sostegno di Leo. Un’osservazione interessante si è però sentita il giorno dopo, per bocca del direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini: il cosiddetto “magazzino” della riscossione, in sostanza lo stock delle tasse e multe non pagate, vale 1.206 miliardi di euro (al 31 dicembre scorso). Ora, era 987 miliardi tre anni e mezzo prima. Dunque, sta crescendo al ritmo medio di 62 miliardi all’anno. Costa succede in Italia? Davvero dei “terroristi” fiscali si aggirano fra noi? (Non esitate a scrivermi: commenti o domande, contestazioni e proposte)

 L'epidemia invisibile: quelle imprese "fallite" con 156 miliardi di debiti verso il fisco
Ho l’impressione che con quella battuta Leo volesse lanciare un messaggio al garante della privacy Pasquale Stanzione (nominato a suo tempo dai 5 Stelle), perché permetta più controlli sui dati personali dei contribuenti. Ma un aumento in pochissimi anni di oltre duecento miliardi dei debiti degli italiani verso lo Stato, riconosciuti ma non pagati, richiede qualche spiegazione di più. Quel “magazzino” in buona parte è come un cimitero delle tasse: si sa già che almeno il 40% delle somme è irrecuperabile, sepolto da qualche parte, anche perché spesso riguarda imprese che non esistono più. E l’aumento impressionante dal 2020 non può essere solo il risultato dell’ingresso trionfale del “magazzino” dei crediti delle amministrazioni autonome della Sicilia. Dev’esserci anche qualcos’altro.
Ho dato un’occhiata all’andamento del “cimitero” fiscale dell’ultimo decennio. E almeno un’anomalia salta fuori. E’ riportata nei numeri allegati all’audizione dell’Agenzia delle Entrate alla commissione Finanze e Tesoro del luglio scorso (tabella 3) e riguarda il sistema produttivo. I crediti fiscali dello Stato verso “soggetti falliti”, cioè imprese in bancarotta, hanno un andamento bizzarro. Fra l’inizio del secolo e il 2010 si erano formati al ritmo di circa tre miliardi l’anno. Poi, fra il 2011 e il 2015 e fra il 2016 e il 2020, la velocità dell’accumulo dei debiti delle imprese fallite verso l’Erario è cresciuta a poco più di cinque miliardi l’anno. E anche qui, soprattutto nel primo quinquennio, tutto sempre abbastanza normale: fra il 2009 e il 2013 il prodotto lordo collassò del 7,6% e in seguito è rimasto quasi stagnante fino al Covid. E’ comprensibile che in quella fase siano stati più numerosi i fallimenti, anche di soggetti che avevano arretrati con il fisco. 
Poi però anche nel 2021 e nel 2022 i crediti fiscali verso lo Stato delle imprese fallite hanno continuato a formarsi sempre allo stesso ritmo. Sempre cinque miliardi l’anno. E questo è molto più strano. Quasi misterioso. Com’è possibile? In quel biennio il prodotto lordo è cresciuto del 10,7% e infatti ci sono stati molti meno fallimenti. Come vedete dal grafico qui sopra (la linea rossa), si viaggia al ritmo di circa duemila fallimenti a trimestre, mentre per gran parte del decennio precedente erano fra tremila e quattromila. Ovvio, anche perché il Fondo pubblico di garanzia per le piccole e medie imprese sta garantendo i debiti di queste ultime per più di 100 miliardi. Ma se ci sono molti meno fallimenti; eppure, questi ultimi generano sempre gli stessi (enormi) insoluti verso lo Stato, può voler dire solo una cosa: le aziende che saltano in questi anni sono molto più cariche di arretrati fiscali e contributivi. Come se stesse diventando di moda concentrare tasse e contributi non pagati dentro veicoli societari ai quali poi si stacca la spina. Vengono fatti fallire ad arte: bancarotta fraudolenta ai danni dei contribuenti onesti.
Oggi il “magazzino” delle imprese fallite presso l’Agenzia delle Entrate vale 156 miliardi e vale invece 168 miliardi quello dei “soggetti deceduti e ditte cessate” (in gran parte, di queste ultime). Impossibile dire quanto di queste somme sia legato a frodi fiscali, ma sicuramente una parte sostanziale. Il danno alla cosa pubblica è enorme, anche perché il Fondo di garanzia dell’Istituto nazionale previdenza sociale (Inps) deve poi intervenire per circa mezzo miliardo all’anno a coprire gli ultimi tre mesi di contributi e la liquidazione dei dipendenti di quelle aziende usate e poi mandate contro gli scogli (qui a pagina 410).
E che le bancarotte siano sempre più spesso concepite per frodare il fisco si nota da alcuni dettagli. A novembre il ministero delle Imprese ha firmato un’intesa con la Procura di Roma per rafforzare la vigilanza contro l’“illegalità” nelle false cooperative. Parlate con qualunque commissario liquidatore nominato dal ministero per gestire i fallimenti, e vi dirà (a registratore spento) che la stragrande maggioranza dei casi risulta palesemente volta all’evasione su larga scala: si caricano di debiti fiscali e contributivi aziende che poi vengono sfasciate, con dentro i lavoratori che si trovano senza lavoro e senza copertura pensionistica.
Lo schema di solito è elaborato da un consulente fiscale dell’azienda-madre. Vengono esternalizzate a un “consorzio” funzioni ad alta intensità di lavoro come la gestione del magazzino, le consegne o le pulizie e il facchinaggio. Il consorzio a sua volta appalta le attività a cooperative o a “società semplificate a responsabilità limitata” (ssrl), che si possono costituire in modo semplice e senza costi. I dipendenti, spesso stranieri, ricevono il netto mensile e l’attestazione della busta-paga, ma i loro contributi e il Tfr in realtà non sono mai versati. Il consorzio scherma la società-madre e l’operazione viene gestita da prestanome prezzolati. Dimostrare le responsabilità e risalire ai veri colpevoli è spesso defatigante, ben aldilà delle forze della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate. I debiti contributivi e fiscali si accumulano, fin quando la finta cooperativa o ssrl viene lasciata andare al suo destino, con dentro il suo carico umano. E’ semplice: basta che il consorzio non la finanzi più.
Ogni tanto qualche bagliore illumina la cronaca nera: la Procura e il Tribunale di Milano che commissariano una società di logistica dell’aeroporto di Malpensa, dopo il pesante fallimento di una cooperativa; a marzo scorso la Guardia di Finanza di Milano che arresta 22 persone e sequestra 292 milioni di euro, in un’inchiesta fondata sull’accusa di bancarotte pilotate in serie che andavano avanti dall’anno duemila; a Verona un’indagine molto simile nel 2022 individua 24 società “spurie” e porta all’accusa verso 71 persone.
Tutti i coinvolti sono innocenti fino all’ultimo grado di giudizio, doveroso. Ma tutte queste esternalizzazioni, cresciute in anni recenti “esponenzialmente” – secondo lo studio legale milanese Morri Rossetti – non si spiegano se non con l’intento di pagare in qualche modo qualcosa di meno da qualche parte. E' come un'epidemia di illegalità silente e invisibile in una parte del tessuto economico del Paese, una di quelle malattie non diagnosticate o ignorate fin oltre il possibile. Perché questi non sono fenomeni isolati, ma sempre più diffusi in certe parti della società e dei ceti professionali d'Italia. Sono fenomeni epidemici perché, abbattendo i costi, innescano emulazione fra concorrenti. Siamo per questo un popolo di terroristi fiscali? Senz’altro no. Ma fra noi si aggirano insospettabili e ben vestiti terroristi fiscali? Be', vale la pena chiederselo. 
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