13 febbraio 2024
Contro la carbofobia.
Tra supermercati e grani antichi, all’estero chiedono la pasta italiana che cuoce in un minuto
Lidia Baratta
Siamo i primi al mondo nella classifica dei produttori, con 3,7 milioni di tonnellate. Maccheroni e spaghetti si moltiplicano in forme e colori occupando sempre più spazio tra le corsie della grande distribuzione e nelle vetrine degli alimentari bio. E qualcuno è disposto a mangiarla anche a colazione e a merenda (Unsplash)
Uno spettro si aggira tra gli scaffali dei supermercati: la «carbofobia». La paura del carboidrato. Eppure, nel pieno boom delle diete proteiche, la pasta italiana resiste, provando a rispondere anche alle esigenze alimentari dei più intransigenti salutisti. Dai grani antichi ai legumi, dall’integrale al senza glutine fino alla spirulina, maccheroni e spaghetti si moltiplicano in forme e colori occupando sempre più spazio tra le corsie della grande distribuzione e nelle vetrine degli alimentari bio.
E i dati del mercato lo confermano. L’Italia resta prima al mondo nella classifica dei Paesi produttori con 3,7 milioni di tonnellate prodotte nel 2022 (in aumento del 3,6 per cento sul 2021) e un fatturato che sfiora i sette miliardi di euro (più 24,3 per cento sul 2021). Oltre la metà della produzione, circa 2,4 milioni di tonnellate, finisce sulle tavole straniere, soprattutto in Germania, Regno Unito, Francia, Stati Uniti e Giappone.
Con la fiammata inflazionistica, i dati di vendita del 2023 sono in leggera flessione. Ma la filiera della pasta italiana resta forte, contando 26.600 occupati e centodieci pastifici. Da Nord a Sud. Dal leader di mercato Barilla fino ai più piccoli laboratori artigianali delle storiche famiglie della pasta arrivate alla terza o quarta generazione. Il venticinque per cento della pasta consumata a livello globale è prodotta in un pastificio italiano, così come il settantacinque per cento di quella mangiata in Europa. L’anno scorso l’export è calato di circa il tre per cento. E gli italiani, anche se più attenti alla linea e al portafoglio, restano quelli che mangiano più pasta al mondo, con 23 chili pro capite l’anno e 1,3 milioni di tonnellate consumate nel 2022.
«Il consumo interno è in leggera diminuzione e siamo più attenti alla qualità della pasta che compriamo», spiega Margherita Mastromauro, presidente dei pastai italiani di Unione italiana food, associazione di Confindustria che riunisce cinquecentocinquanta aziende dell’industria agroalimentare. «Il consumatore italiano oggi è più informato, più esigente e più attento alla sostenibilità. La pasta però è e resta l’alimento simbolo della nostra dieta. Un prodotto semplice e sano, fatto di solo grano duro e acqua, con una lavorazione che, per quanto industriale, resta semplice in termini di processo».
Il consumo più attento di carboidrati e la crescita delle intolleranze al glutine, insomma, ci rende anche più “sensibili” alla tipologia di pasta acquistata. E così, da commodity «porta sugo» destinata per pochi euro a riempire la dispensa, la pasta si sta via via trasformando in un prodotto da assaggiare e tracciare, di cui conoscere composizione e provenienza. Ricorrendo anche alla blockchain.
Da dove viene la pasta
Ma partiamo dalle basi. La gran parte della pasta italiana è composta dalla semola ricavata dal grano duro, più l’acqua. La catena di montaggio è questa: «Dal grano duro si ottiene la semola, che equivale a circa un settanta per cento della materia prima iniziale. Dalla semola alla pasta, poi, c’è un ulteriore calo di circa il 5-10 per cento», spiega Margherita Mastromauro.
Con quattro milioni di tonnellate su 1,3 milioni di ettari coltivati, il grano duro resta la principale coltura italiana. Nonostante questo, però, il primo anello della filiera non basta a soddisfare le necessità dell’industria nazionale. Quindi, parte del grano lo importiamo dall’estero, in media il trentacinque per cento circa.
L’Italia compra la materia prima mancante prevalentemente da Canada, Francia e Grecia, ma anche da Stati Uniti, Australia, Russia e Turchia. Le quantità ovviamente variano di anno in anno, a seconda dei raccolti, delle condizioni del clima, e anche delle tensioni geopolitiche.
Ma nonostante le crociate del ministro della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida nel nome di una filiera cento per cento made in Italy, le importazioni di grano straniero non diminuiscono. Anzi, sono in aumento. Nei primi dieci mesi del 2023, l’Italia ha acquistato 2,6 milioni di tonnellate di grano duro, in crescita dell’ottantacinque per cento su base annua. Il deficit estero per la prima volta a fine anno potrebbe superare la soglia del cinquanta per cento.
Perché? C’entrano i prezzi pagati ai produttori che, al contrario dei costi di produzione, sono crollati del trentacinque per cento dall’inizio della campagna di commercializzazione di luglio, disincentivando gli investimenti. Un contadino che semina grano oggi riceve solo ventidue centesimi al chilo.
La stima è che le semine autunnali siano già calate del dieci per cento. Ma la guerra in Ucraina e l’inflazione non sono le unica variabili che incidono sui prezzi, contro i quali manifestano gli agricoltori a bordo dei loro trattori. C’entra, ovviamente, pure il cambiamento climatico. Le semine sono anche in ritardo, visto che il caldo anomalo tra novembre e dicembre ha fatto slittare in avanti le operazioni anche nelle aree storicamente vocate alla produzione di frumento, Puglia e Campania in primis. E a questo si aggiungono gli effetti del maltempo dello scorso anno, con le piogge abbondanti cadute poco prima della raccolta (pensiamo all’alluvione in Emilia e nelle Marche), che hanno compromesso le coltivazioni destinate all’industria molitoria, quella che compra il grano per trasformarlo nella semola con cui si produce la pasta.
C’è pasta e pasta
La pasta di semola classica resta oggi quella ancora più consumata in Italia, con un milione di tonnellate circa. Le altre trecentomila tonnellate si dividono tra l’integrale (in crescita), gli altri cereali (dal farro al kamut) e il gluten free. Sul mercato vince la pasta secca, con l’ottantacinque per cento della produzione. La pasta fresca copre solo il cinque per cento, quella ripiena il sei per cento, quella all’uovo il quattro per cento. Il comparto del senza glutine nel 2022 ha fatto registrare 10.300 tonnellate vendute, in crescita di oltre il sei per cento.
«Le aziende della pasta fanno grande ricerca sia sulle materie prime sia sulla tecnologia usata nelle linee di produzione. Si studia rigorosamente la quantità di glutine del grano, l’indice di giallo (l’intensità di pigmenti carotenoidi presenti, ndr) e tutti i parametri che garantiscono qualità e resistenza alla cottura», spiega Mastromauro.
Oltre l’ottanta per cento dei pastifici italiani, sia grandi sia piccoli, è gestito dalle storiche famiglie della pasta. L’11,5 per cento è controllato dall’estero e solo il 7,4 per cento fa capo a investitori finanziari.
Secondo l’ultimo studio di Mediobanca sul settore, la Campania, con la iconica area di Gragnano, è la prima regione italiana per produzione (diciannove per cento) ed esportazione di pasta (24,4 per cento), ospitando il tredici per cento dei pastifici nazionali. Segue l’Emilia-Romagna. Mentre la Sicilia, pur ospitando il maggior numero di molini (trentasei per cento), vede la propria produzione di pasta scendere al sette per cento e quella dell’export allo 0,4 per cento. La Puglia resta invece la prima regione per produzione di grano duro (23,2 per cento del totale nazionale).
In relazione al tipo di pasta prodotta, l’Italia si divide in due: quasi il sessanta per cento dei siti produttivi di pasta secca si trova al Centro e al Sud, mentre oltre il novanta per cento di quelli di pasta fresca è a Nord Est e Nord Ovest.
Ma l’intero territorio nazionale è costellato di pastifici, persino dove non te lo aspetti. Anche sulle Dolomiti dove, nel cuore della Val di Fiemme, nasce e viene prodotta la pasta Felicetti nel nuovo avveniristico stabilimento inaugurato nel 2022. Il marchio, prima diffuso solo tra i “nerd” della pasta, negli anni si è trasformato in un prodotto di alta gamma ormai esportato in più di cinquanta Paesi al mondo, dall’Australia al Canada, fino ad alcune città della Patagonia e pure in qualche resort delle Maldive. Con una produzione che raggiunge ormai le quarantamila tonnellate annue.
Il brand non partiva avvantaggiato, vista la provenienza geografica non certamente associata alla tradizionale pasta italiana. «Ma proprio il luogo, le Dolomiti, hanno fatto la differenza nella nostra storia», racconta Riccardo Felicetti, alla guida del pastificio di famiglia nato nel 1908. «Veniamo da un’area geografica molto privilegiata dal punto di vista della possibilità di innovare. Ci siamo potuti permettere certe diversificazioni, senza essere ingabbiati nei canoni più tradizionali». Felicetti dall’inizio ha scommesso sul “monograno”, diventato un marchio di riconoscimento. Permettendosi pure il lusso di andare oltre il grano duro e puntando prima degli altri su cereali come il farro, il grano Senatore Cappelli o il kamut.
E se nella quasi totalità dei casi gli anelli della filiera sono separati, c’è anche chi prova a riunirli tutti, dalle coltivazioni alla trasformazione in pasta, sotto un unico marchio. Come ha fatto il Pastificio Mancini, uno dei pochi “pastifici agricoli” italiani, nato a Fermo, nelle Marche, nel 2010, dalle fondamenta dell’azienda agricola fondata nel 1938 dal nonno Mariano.
«La nostra è una pasta agricola», spiega Lorenzo Settimi, marketing manager del pastificio. «È qualcosa di diverso dalla classica dicotomia tra pasta industriale e pasta artigianale».
Dal lavoro agricolo nei campi fino alla trasformazione della semola in pasta, in un pastificio agricolo tutti i passaggi sono collegati. Il lavoro comincia ogni anno l’11 novembre, data di inizio dell’annata agraria. Dalla costa marchigiana alle montagne, il marchio Mancini coltiva ottocentodieci ettari, con quattro varietà di grani moderni, sviluppati con la genetista Oriana Porfiri. A luglio, poi, il grano viene raccolto e stoccato a temperatura controllata nei magazzini, dove si realizza uno speciale blend tra le quattro varietà. «Questa montagna di grano poi viene via via pastificata nel corso del periodo che va da settembre al settembre successivo, dopodiché parte la nuova annata», racconta Settimi.
«Tutta la pasta prodotta proviene dai nostri campi. È questa la differenza», continua Settimi. «La semola di solito arriva nei pastifici già trasformata. I pastai tendono a chiedere aspetti specifici come tenori proteici o indici di glutine, ma non lavorano effettivamente sulla varietà del grano. E questo banalizza il prodotto perché finisci per pensare che sia inerte, che qualsiasi sia l’andamento dell’annata agraria ottieni sempre lo stesso prodotto. In realtà la pasta è figlia del grano e il grano è figlio di annate agrarie, di conseguenza porta con sé delle caratteristiche differenti».
Questo è quello che distingue un pastificio agricolo: considerare la pasta come un prodotto vivo. Sulle confezioni della Pasta Mancini è indicata anche l’annata del grano usato. E non è detto che lo spaghetto cuocia tutti gli anni in dieci minuti. «L’annata più piovosa o quella più soleggiata danno vita a una materia prima diversa, per cui noi indichiamo non un tempo preciso di cottura ma una forbice», spiega Settimi.
Contro la percezione della pasta come un semilavorato, un prodotto “porta sugo”, Mancini ha abbracciato la missione di voler fare “cultura della pasta”. «Nel menù del ristorante», spiega, «si tende a scrivere “spaghetti” e poi si descrive il condimento. Al massimo troviamo scritto “pasta di Gragnano” per sottolineare il fatto che ci sia stata della selezione dietro. Ma non c’è quasi mai un racconto della pasta». Il pastificio ha brevettato invece un format di assaggio chiamato “Spaghetti allo specchio” per distinguere il sapore differente tra la pasta industriale, artigianale e agricola, condendola con un solo filo d’olio.
«Ce l’abbiamo lì, la pasta, ne mangiamo 23 chili a testa all’anno, ma poi fondamentalmente non abbiamo mai l’occasione o il momento per rimanerne un po’ sorpresi», dice Settimi. «Le cose però stanno cambiando. Nell’arco di dieci anni, l’attenzione verso la pasta è cambiata, anche da parte dei ristoranti che prima puntavano solo su quella fresca e che consideravano la pasta secca un prodotto da osteria adatta solo a sfamare le grandi masse».
L’attenzione alla composizione della pasta è confermata dal trend crescente dei grani antichi, in contrapposizione a quelli moderni. Dal kamut al Senatore Cappelli, dal farro al grano monococco, le varietà di cereali coltivate prima dell’avvento dell’agricoltura industriale sono diventati una sorta di mantra, soprattutto tra i frequentatori di alimentari e negozi bio.
E come tutte le mode c’è da fare la tara. Spesso, come racconta Luigi Cattivelli (direttore del Centro di ricerca Genomica e Bioinformatica del Crea a Fiorenzuola d’Arda) nel libro “Pane nostro. Grani antichi, farine e altre bugie” (Il Mulino), alla base di questa corsa al grano migliore cavalcata dal marketing, c’è molta disinformazione. Perché, bisogna dirlo, un mondo di soli grani antichi non reggerebbe: il grano antico ha un basso livello di resa produttiva e se volessimo passare del tutto ai frumenti pre-moderni, scenderemmo al venti per cento di produzione nazionale, essendo così costretti a importare ancora di più dall’estero.
Andate e moltiplicatevi
Circa il settantacinque per cento dei consumi di pasta in Italia arriva dagli scaffali dei supermercati della grande distribuzione, dove i reparti destinati a spaghetti, rigatoni e affini si sono allargati a vista d’occhio. Dalla più economica pasta di semola di grano duro a quella integrale, passando per gli altri cereali e i legumi, fino alla più costosa pasta gluten free (5,46 euro al chilo), il cui mercato si è ormai esteso anche ai non celiaci.
Nel cuore del “granaio d’Italia”, a Gravina di Puglia, in provincia di Bari, nel 2009 i fratelli Andriani sono stati pionieri della produzione di «pasta senza glutine per tutti», fondando il marchio Felicia. Dopo aver studiato economia in Gran Bretagna, Michele e Francesco Andriani sono rientrati nella terra d’origine per prendere in gestione lo storico pastificio di famiglia, rivoluzionandolo da capo a piedi e introducendo qualcosa di cui fino ad allora non si era mai sentito parlare, soprattutto in Puglia: la pasta di legumi. Un’intuizione che li ha portati a scommettere sul mercato del senza glutine in Italia quando, di fatto, ancora non esisteva.
«I fratelli Andriani hanno sdoganato il concetto del gluten free», racconta Marco Lentini, a capo del marketing di Andriani spa. «Trattiamo solo materie prime naturalmente prive glutine. Ma il posizionamento di Felicia oggi non è solo legato al mondo degli intolleranti, è una pasta senza glutine aperta a tutti. Anzi, l’ambizione è quella di essere una pasta healthy che si rivolge a un target molto più ampio, con uno stile di vita orientato al benessere».
L’idea di base è di offrire varietà di scelta non solo in termini di formato, ma anche come materia prima. Così come si può variare di giorno in giorno dagli spaghetti alle farfalle, lo stesso si può fare tra la pasta d’avena, quella alle lenticchie rosse o ai fagioli Mung. Negli impasti di Felicia, è stato fatto spazio a nuovi ingredienti: avena, grano saraceno, riso integrale e persino il teff etiope, il più piccolo cereale al mondo. Fino ad arrivare a una pasta colorata, dal campo al packaging, che veicola un immaginario differente rispetto alla pasta tradizionale. Da qui il claim «Fatti di un’altra pasta».
Il brand Felicia ha oggi un mulino integrato e negli anni ha creato intorno a sé una filiera di coltivazione dei legumi che è la più estesa d’Italia con oltre trecentocinquanta aziende agricole e circa 6mila ettari coltivati. Con un fatturato di 12 milioni di euro, di recente ha anche annunciato l’apertura di un nuovo stabilimento produttivo in Ontario, Canada, per presidiare il mercato del Nord America.
Dove va la pasta
Dai negozi specializzati, i pacchi colorati della pasta fatta con ingredienti diversi dal grano duro hanno ormai raggiunto la grande distribuzione. E pure i big player del settore, Barilla compresa, si sono convertiti alla pasta di legumi per presidiare il mercato dei flexetariani dello spaghetto.
A dispetto di una presunta impronta “conservatrice” degli italiani, secondo un sondaggio di Unione italiana food, per più di un italiano su due (cinquantanove per cento) la pasta in futuro verrà declinata in nuove tipologie, con farine o ingredienti alternativi, e per oltre un terzo (35,4 per cento) si aggiungeranno anche nuovi formati.
E per soddisfare le esigenze dei mercati internazionali sempre più ampi, il 54,1 per cento delle imprese italiane segue gli standard della certificazione Kosher compatibili con la tradizione ebraica e il 32,8 per cento quella Halal, in linea con i requisiti della religione islamica. Circa un terzo attesta la conformità dei prodotti ai criteri vegetariani e vegani e il diciotto per cento ha chiesto le certificazioni di pasta gluten free.
Ma la novità inaspettata riguarda il consumo di pasta in momenti della giornata diversi dal pranzo o dalla cena. Otto italiani su dieci dicono di essere pronti a inforcare gli spaghetti anche appena svegli o per merenda, come già si fa all’estero. Basta cercare l’hashtag #breakfastpasta su Instagram o TikTok per rendersi conto di come, soprattutto Oltreoceano, iniziare la giornata con un piatto di penne al formaggio stia diventando una moda culinaria.
Per “svecchiare” la classica pasta italiana e renderla più appetibile anche ai nuovi mercati esteri, all’interno del Future Food Institute di Bologna, che da anni studia l’innovazione del cibo legata alla sostenibilità ambientale, è nato il progetto “Re-think pasta”, “Ripensare la pasta”. «All’estero non sempre la pasta è solo il primo piatto come in Italia, per cui è sempre più importante valorizzarlo e renderlo fruibile per consumi e consumatori differenti», spiega Andrea Magelli, responsabile del progetto.
Nella patria del tortellino e della pasta ripiena, il team di “Re-think” pasta ha osato abbattere alcuni dogmi delle ricette bolognesi. E così sono nati quattro nuovi prodotti: un cappelletto con ripieno vegano, un cappelletto tradizionale ma senza glutine, un raviolo con brasato veg e un tortello il cui ripieno deriva dagli scarti della cottura del malto della birra.
«In una città come Bologna, dove i cibi tradizionali sono molto a base di carne e carboidrati, con la crescita del turismo ci sono persone che chiedono prodotti diversi da quelli tradizionali», spiega Magelli. «Se c’è un vegano che visita Bologna, chiaramente non può mangiare un tortellino. Noi non abbiamo la pretesa di sostituire il tortellino tradizionale, però vogliamo dare la possibilità, anche alle persone che hanno fatto scelte alimentari diverse dalle proteine animali, di avvicinarsi comunque a un qualcosa di tradizionale».
I prodotti innovativi di “Re-think Pasta” si trovano in alcuni ristoranti di Bologna e nei Living Lab del Future Food Institute. E una volta abbattuta la barriera culturale, i feedback sono positivi, soprattutto tra i giovani studenti e i turisti stranieri.
«Una delle grandi capacità che devono avere i pastai, noi compresi, è quella di interpretare le attitudini diverse nella fruizione del piatto di pasta, proponendo i nostri prodotti in maniera tale da avvicinarci ai mercati stranieri», spiega anche Riccardo Felicetti.
Il tempo di cottura, ad esempio, è una delle variabili tenute sempre più in considerazione nella scelta della pasta all’estero. In un mondo che corre, anche la pasta deve cuocere in meno tempo.
Negli Stati Uniti, Felicetti sta sviluppando un sistema di cottura ridotto per cuocere la pasta velocemente nel corso degli eventi gestiti dalle società di catering.
E soprattutto dall’Asia, arriva la richiesta di pasta con tempi di cottura sempre più brevi. «Mentre in Italia cresce il trafilato in bronzo che richiede tempi di cottura lunghi, nei mercati esteri chiedono il prodotto che si cucina più velocemente», conferma Margherita Mastromauro.
Secondo i pastai di Unione italiana food, ci sarà uno sviluppo delle pasta da cucinare in maniera più veloce anche per rispondere alle esigenze di chi ha meno tempo di stare ai fornelli. Molto dipende dal formato, ma gli imprenditori italiani scommettono che presto si potrà scegliere di tutto, dalla cottura di diciotto minuti a quella di un minuto.
E se il pacco di pasta di plastica ha ormai lasciato il posto alle scatole di carta o di altri materiali riciclabili, la sostenibilità ambientale oggi è il mantra anche in questo settore, di per sé molto energivoro. «Molte aziende pastaie si stanno convertendo alle rinnovabili mettendo a punto anche sistemi di risparmio energetico», spiega Mastromauro.
E anche i pastifici tradizionali, rilevati dalle ultime generazioni delle famiglie, stanno puntando anche sulla trasparenza e la tracciabilità delle materie prime usate attraverso sistemi di certificazione digitale dei grani tramite blockchain. Il marchio 28 Pastai, nell’area di Gragnano, ha posto ad esempio un QR Code su ogni singola confezione per accedere a tutte le informazioni del lotto di pasta e verificare tutti gli standard di qualità adottati sulla filiera cento per cento italiana. Il Pastificio Mancini ha fatto una scelta simile, partecipando a un progetto di ricerca dell’Università di Macerata.
Un vantaggio competitivo che arriva dall’adozione di nuove tecnologie in un settore che, come gran parte della manifattura italiana, soffre però della carenza di manodopera specializzata. «Mancano soprattutto esperti di processo, tecnici in grado di operare sulle linee, manutentori e tecnologi esperti della produzione di pasta. È difficile trovarne di già formati e facciamo fatica a trovare giovani», dice Margherita Mastromauro.
L’età media di chi guida questa industria, in realtà, è molto alta. I presidenti delle società hanno in media sessantacinque anni, i consiglieri cinquantacinque. Gli appartenenti alla Gen X sono la fascia più rappresentata (41,7 per cento), seguiti dai Baby Boomer (36,8 per cento). Mentre i Millennial occupano solo il 9,3 per cento delle cariche. Poche le donne: nei board dei pastifici sono il 16,6 per cento, mentre la rappresentanza femminile nelle compagini proprietarie è pari al 38,6 per cento.
«Dal campo alla tavola, negli uffici e sulle linee, servono professionalità specifiche su temperature di essiccazione, impasto, temperature dell’acqua e trafilazione, digitale e sostenibilità», spiega Mastromauro. Ma non ci sono scuole specializzate, nemmeno nelle aree più vocate alla produzione di pasta. «Ci sono gli Its, sì, ma non abbiamo avuto grandi riscontri quando ci siamo rivolti a loro», dice la presidente.
Abbiamo il ministero della sovranità alimentare, il liceo del Made in Italy e persino un ministro delle Infrastrutture che visita i pastifici provocando nevrotiche campagne di sabotaggio. Ma poi non ci importa se nessuno sa più fare la pasta italiana.
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