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Autore Discussione: Vieusseux di Giovanni Spadolini. Autunno del Risorgimento. Miti e contraddizioni  (Letto 916 volte)
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« inserito:: Febbraio 06, 2024, 11:54:41 am »

Vieusseux (1986)
di Giovanni Spadolini – In “Autunno del Risorgimento. Miti e contraddizioni dell’unità”,

Edizioni della Cassa di Risparmio di Firenze, 1986, pp. 27-33.

Giovan Pietro Vieusseux (Oneglia, 1779 - Firenze, 1863)

Per quanto di origine svizzera, per quanto trasferitosi non più giovanissimo nella capitale granducale, Vieusseux rappresenta la Toscana, la Toscana moderata e liberale dell’ultimo trentennio lorenese, la Toscana dei fermenti di rinnovamento religioso, delle correnti di revisione letteraria, dei gruppi di rinascita scientifica: coincide con quella Toscana riformista e ricercatrice che non è già più «Toscanina», che anticipa i brividi del ’59 e del ’60.
Gian Pietro Vieusseux è al centro di un movimento che è insieme culturale e politico. Il valore di quella esperienza non sarà affatto diminuito dai limiti del protagonista, né personalità eminente nel campo della cultura, né pensatore politico particolarmente originale e vigoroso.
Viaggiatore, commerciante, più sensibile alle risorse dei paesi stranieri che alle loro attrattive culturali, pronto a criticare Chateaubriand per non aver capito le ricchezze della Tunisia, condannato da Bonaparte per aver esportato illegalmente una grossa partita di tessuti di provenienza inglese dall’Olanda in Francia, in regime di blocco continentale, Vieusseux arriva a Firenze nel 1819 e decide di fondarvi un «gabinetto di lettura», per un fine di cauta speculazione commerciale che si unisce ad un autentico programma di diffusione della cultura (anzi lo presuppone).
I primi due anni dell’Antologia, fra il 1821 e il 1822, non escono dai limiti di una rivista di confusa e spesso farraginosa divulgazione, dove ad articoli prevalentemente tecnici si alternano squarci di filosofia della storia di ispirazione illuministica, o divagazioni di natura morale. Com’è che da quella prima iniziativa del Vieusseux, nascerà quella gloriosa rivista, che rappresenterà un simbolo di progresso e di libertà fino a suscitare le ire della reazione e dell’Austria?
C’è un trapasso dal primo al secondo Vieusseux, che nessuno ha saputo cogliere meglio di Raffaele Ciampini nella sua monumentale biografia einaudiana. La vera intelligenza di Vieusseux consisterà dell’adattare i propri piani all’ambiente. In questo senso è giusto parlare del Vieusseux come di un grande «impresario» culturale. Come tutti i veri impresari, come tutti i veri organizzatori, il commerciante di Oneglia intuirà il valore dei suoi collaboratori e creerà lo strumento idoneo ad esprimere la loro personalità: rinunciando ai primi disegni, abdicando ai fini di speculazione economica, affrontando le più gravi difficoltà politiche.
Dall’Antologia al Giornale agrario, dalla Guida dell’educatore all’Archivio storico, le varie iniziative culturali del Vieusseux obbediranno tutte allo stesso scopo: allargare il respiro della cultura italiana, sottrarre la letteratura all’impaccio dell’arcadia, conciliare la cultura umanistica col progresso scientifico. Non a caso, anche dopo il decisivo intervento di Gino Capponi, vero ideatore della rivista, e poi di Niccolò Tommaseo, gli argomenti di agricoltura, di finanza, di economia continueranno a prevalere nell’Antologia. Il fatto è che il liberalismo moderato, di cui la rassegna toscana rifletteva le aspirazioni e le tendenze, si traduceva in concreto in una forma di riformismo illuministico, sensibile ai nuovi problemi economici della società italiana, attento alle trasformazioni dell’Occidente, finalizzato ad una «europeizzazione» dell’Italia.
Si trattava, naturalmente, di riformismo moderato, inserito negli ordinamenti presenti. Il piano politico del Vieusseux coincideva con la tenace richiesta di una serie di riforme all’interno dei vari Stati italiani e successivamente di una confederazione, che ne rendesse più spediti i rapporti, fino a far cadere le barriere divisorie fra gli uni e gli altri. Nulla, nel Vieusseux, dell’ideale unitario, che sarà proprio della scuola democratica. E nulla di quel liberalismo radicale che distinguerà, per esempio, la Lombardia dei Cattaneo e dei Ferrari.
La fede nel «mite e paterno governo» dei Lorena dura fino e oltre il 1848. La sfiducia nei metodi rivoluzionari permane assoluta, anche dopo le delusioni reazionarie del ’49. L’ideale è rappresentato da una forma di statuto, da un complesso di garanzie costituzionali, che consentano una feconda collaborazione fra il principe e il popolo, attraverso una classe di notabili, sagace ed avveduta mediatrice, filtro fra la cultura e il potere.
Sarebbe improprio parlare, per il gruppo toscano, di un liberalismo dinamico e progressivo. Quella che gli amici del Vieusseux sentiranno e vivranno sarà soltanto la lezione di un liberalismo temperato, all’inglese, capace di contrapporsi alle seduzioni giacobine non meno che alle indulgenze reazionarie. Un liberalismo alla juste milieu, ma senza il cemento unitario della Monarchia di luglio. Il che spiegherà le contraddizioni dei moderati toscani, nella crisi del 1848: contraddizioni cui non sarà estraneo lo stesso Ricasoli.
Impossibile non rilevare le incertezze e le insufficienze politiche del cenacolo di Palazzo Buondelmonti. Ma senza mai perdere di vista l’altissima coscienza religiosa del gruppo, quel senso austero del dovere e della missione, che rappresenterà una delle componenti fondamentali della futura Destra. L’opera culturale di Vieusseux, in questo senso, sarà conclusa soltanto dall’azione politica di Bettino Ricasoli.
L’abbiamo già detto. Vieusseux prima di fare il direttore di riviste ha viaggiato per l’Europa, ha frugato l’Europa, ha percorso tutto il vecchio continente nei limiti geografici fissati da Voltaire, dalla Russia alla Norvegia. Quell’Europa che era allora, o quasi, il mondo. Ha messo da parte un po’ di soldi e già quarantenne, con una discreta biblioteca propria, con una cultura del tutto da autodidatta, piuttosto attendo ai fenomeni economici e mercantili, senza nessun residuo paralizzante dell’arcadia o del classicismo, pianta le tende a Firenze, nel clima pacioso e assonnato e tutto sommato abbastanza tollerante della restaurazione. Siamo al 1819. Vieusseux vuole fondare, con criteri economici, un’impresa di cultura. Pensa – idea assolutamente nuova per la Toscana e per l’Italia – a un gabinetto di lettura che presti libri, che offra sale di consultazione (per le enciclopedie e i prontuari), che riunisca un certo numero, oltre quaranta all’inizio, di gazzette straniere.
Investe i suoi risparmi per un’impresa che poteva sembrare cervellotica o avveniristica all’inizio: ha successo, non tanto per le adesioni dei fiorentini che saranno scarse (gli inediti raccolti a Firenze lo dimostrano) quanto per le numerose sottoscrizioni di stranieri sostanti sulle rive dell’Arno. Impone una tassa equa per le iscrizioni al circolo: 90 paoli per un anno, 60 per sei mesi, 40 per tre mesi, 30 per un mese, 10 per una settimana, 2 per un giorno.
I profitti dell’impresa saranno volti ad alimentare la cultura. «Si deve pagare per leggere, ma si deve pagare chi scrive».
È una specie di rivoluzione copernicana, contro le tradizioni del paternalismo cortigiano. Vieusseux introduce un metodo egualitario: paga a pagina, me con le varianti delle gerarchie intellettuali del tempo. Pietro Giordani, per esempio, l’altero e scontroso maestro di Leopardi, riceve 50 franchi a pagina: il medio collaboratore fra 30 e 40. Tommaseo che riesce a farsi assumere come una specie di «redattore» ante litteram scrive tanto che il suo cottimo rischia di compromettere le sorti della rivista: il bonario editore lo richiama all’ordine, seleziona gli argomenti, respinge i riempitivi.
Ecco la grande novità poco rilevata e finora quasi sconosciuta: fin dal primo numero dell’Antologia Vieusseux instaura il sistema di retribuire tutti gli articoli, compresi, dato fondamentale per chi è stato direttore di giornale per tanti anni come sono stato io, quelli che commissiona e che respinge (era la grande forza di cui disponevo quando dirigevo il Corriere: poter chiedere un articolo, secondo la vecchia tradizione albertiniana, e Vieusseux sotto questo profilo appare un progenitore di Albertini: se l’articolo non piaceva al direttore era pagato, ma non pubblicato). È principio fondamentale nell’editoria di cultura, ed egli lo attua in modo inflessibile.
È la stessa linea che seguirà vent’anni dopo, nel campo dell’editoria, Felice Le Monnier, il primo che paga gli autori sbalordendo Niccolini quando gli corrisponde i diritti per l’Arnaldo da Brescia; il sistema cui si atterrà Felice Le Monnier dopo il 1843 nella Toscana granducale retribuendo gli autori di libri e ponendo fine al metodo del saccheggio delle edizioni, riprodotte all’infinito e non autorizzate, metodo che aveva trovato in Gian Pietro Vieusseux un avversario implacabile.
Per almeno undici anni, fino al ’33, il ginevrino corrisponde compensi sui quali i dati sono abbastanza incerti, ma che comunque ci permettono di cogliere l’adeguamento delle mercedi – principio tipico dell’economia liberale – alle migliori o via via migliorate condizioni del mercato. Un esempio: nel gennaio del ’23, dopo le modeste agevolazioni doganali presso le poste lombarde, il compenso a foglio di stampa viene portato da due a tre zecchini.
C’è qualcosa in Vieusseux che anticipa Gobetti, come impresario di cultura. Una fede illimitata nella carta stampata; l’editoria come veicolo dell’illuminismo. E una vita, tanto più lunga di quella di Gobetti, impegnata a formulare progetti, a schizzare piani anche irrealizzabili. Dopo la morte dell’Antologia nel 1833 (era arrivata a 711 copie: un primato per l’Italia di allora, divisa in dieci stati), penserà perfino a una rivista da chiamare la Fenice, la riapparizione. Resterà tutta la vita con la nostalgia di quella sua Antologia, un po’ la Rivoluzione liberale del nostro Gobetti.
E non riuscirà, per soli tre anni, a vedere la Nuova Antologia che saluta nel 1866 la capitale trasferita, senza nessuna voglia dei fiorentini, nella città del giglio. Non a caso Montale, il futuro direttore del «gabinetto Vieusseux» stamperà il suo primo libro di poesia da «Piero Gobetti editore».
***
Dalla vecchia alla Nuova Antologia. Diverso scenario; diverso sfondo. Vieusseux è scomparso da due anni; ma i suoi ideali rivivono, trasfigurati e ingranditi, in un clima storico completamente diverso. Maggio 1865: la capitale è trasferita a Firenze. La protesta di Torino, protesta soffocata nel sangue, è ormai spenta. La Convenzione di settembre si accinge a diventare realtà: un po’ arma di difesa contro il Sillabo, un po’ strumento di estrema abilità diplomatica per rabbonire e acquetare l’Impero napoleonico d’oltralpe, senza declinare le speranze, le speranze mai rinunciate e irrinunciabili, di Roma.
Il Re Vittorio Emanuele II fa il suo ingresso a Firenze, l’antica capitale lorenese, in mezzo a un entusiasmo popolare che contraddice a tutte le tradizioni di scetticismo e di distaccata ironia della gente toscana. La Corte chiusa e arcigna dell’antica Monarchia montanara si sposta nel cuore di tutte le dolcezze e di tutte le estenuazioni post-rinascimentali; all’ombra del Cupolone si fondono lingue, dialetti, costumi diversi per non dire opposti. La Reggia si installa a Palazzo Pitti; il Parlamento a Palazzo Vecchio; la presidenza de Consiglio e il Ministero dell’Interno a Palazzo Riccardi. Sulla città del 27 aprile torna e distendersi, accigliata e corrusca come quattro anni prima, l’ombra del barone di ferro, l’ombra di Bettino Ricasoli, primo successore di Cavour nella Torino trasfigurata dal miracolo dell’unità.
E sulle rive dell’Arno, alla fine di quel fortunato 1865 che aveva visto anche le grandi e tripudianti feste per il senso centenario dantesco, all’alba del 1866 che doveva consacrare il ritorno di Venezia all’Italia, nasce, ad opera di Francesco Protonotari, tipografi i successori di Felice Le Monnier, la Nuova Antologia. Simbolo delle nuove speranze; compendio delle nuove certezze.
Nuova Antologia. Il vecchio e il nuovo si uniscono intimamente in quella bandiera di italianità e di umanesimo, al servizio della causa, sempre inseparabile, della patria e della libertà. Il tronco della vecchia Antologia e quindi l’esempio, altissimo e non ripetibile, di Gian Pietro Vieusseux: esempio di apertura a tutte le culture, di dialogo col mondo, di rottura con le superstiti paratie di un provincialismo duro a morire.
Italia ed Europa, l’Italia nella vita della civiltà: il motto degli uomini del Risorgimento torna nella testata della nuova rivista. Antologia, discorso, dialogo: ma «nuovo», improntato cioè ai tempi nuovi, al clima nuovo di un’Italia assurta a indipendenza e ad unità di Nazione. Non più le strutture chiuse e un po’ soffocanti della Toscanina granducale in cui la rivista dei Capponi e dei Leopardi si era chiusa e quasi intisichita, prima dei brutali divieti dell’Austria; non più le evasioni letterarie o i complici ripari nella mitologia in vista di nascondere l’impossibile, o mutilata, adesione ad un presente di lotte civili e di impegno politico.
Un programma pieno e leale e spiegato: senza ipocrisie e senza pruderies. La cultura ma al servizio della libertà. L’umanesimo ma fuori del clima avvilente delle Corti o dell’Arcadia. Il cittadino onorato ed esaltato in quanto credente nella religione della libertà. Il rinnovamento delle lettere promosso e alimentato nel quadro del rinnovamento del costume.
Cento anni di milizia civile e di educazione letteraria. La rivista, alla quale Carducci fu legato come a nessuna altra, interpretò, dopo Porta Pia, dopo il trasferimento a Roma di alcuni anni successivo, gli ideali dell’Italia laica e umbertina, che culminò nelle abilità di Depretis e negli slanci di Crispi. Con accenti sonniniani verso la fine del secolo, accompagnò, con la sua cauta voce di commento e di interpretazione, la mirabile ascesa del primo quindicennio del nuovo secolo.
Fedele alla tradizione umanistica e classica, che in Carducci si era rispecchiata, che nella scuola bolognese aveva trovato il suo massimo baluardo, aprì le sue pagine al mondo dell’Università ma anche al mondo della cultura libera, ospitò insieme De Sanctis e De Amicis, Fogazzaro e Murri, Pascoli e il primo D’Annunzio; resisté alla devastazione irrazionalista e decadentista di tutte le filosofie dell’attivismo che si compendiarono nella tardiva mistica del dannunzianesimo, a cavallo fra guerra e dopoguerra. Patriottica, non fu mai nazionalista; liberale, non fu mai chiusa alle voci del progresso; fedele alle istituzioni scaturite dal Risorgimento, non si esaurì in una devozione cortigiana. Almeno fino alla svolta del fascismo, che non riuscì a deturparla fino in fondo.

Fedeltà al Risorgimento e alla libertà: sempre con un richiamo all’Europa. L’Europa, appunto, di Gian Pietro Vieusseux.
Giovanni Spadolini
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