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Autore Discussione: SINISTRA DEMOCRATICA 2 (del dopo elezioni).  (Letto 50687 volte)
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« inserito:: Gennaio 18, 2008, 05:29:56 pm »

Nel nome di Galileo

Fabio Mussi


Io non sono un credente. Non appartengo alla Chiesa cattolica. E non capisco perché Papa Benedetto XVI non possa oggi qui pronunziare di persona il discorso che ha inviato scritto a questa cerimonia della Sapienza di Roma. È già pubblico, qualcuno lo ha già letto, altri lo ascoltano qui: è un testo che merita di essere ascoltato, e discusso. Io parlo dell’Università, non d’altro. L’Università è laica: cioè libera, tollerante, aperta. Se c’è un luogo in cui la regola è la parola, la parola di tutti, questa è la Universitas.

Non esistono, nell’Università territori inaccessibili alla critica. Quello che dice un Papa può ben essere criticato. Ma non è un attentato al principio di laicità il fatto che il Papa possa prendere la parola in questa sede. Un intervento, e non la lectio magistralis a nome dell’Ateneo. E da ministro della Repubblica, che ha difeso con intransigenza il carattere laico delle Istituzioni pubbliche sotto la sua responsabilità, confermo il mio rammarico, grande, sincero, per il fatto che si siano create le condizioni che lo hanno spinto a rinunciare. (...)

Io parlo di Università, del suo supremo statuto di libertà. Della sua autonomia, che la preserva da vincoli ideologici e confessionali. Dei contrasti intellettuali che la rendono viva, e del piacere del dialogo e del confronto che accende la didattica e la ricerca. In una agorà che non tollera steccati e dogane. (...)

Il mondo contiene tutti i saperi, tutte le filosofie,tutte le concezioni religiose, tutte le idee. È la libera circolazione delle idee che fa evolvere la mente. La terra gira effettivamente intorno al sole, ha avuto ragione Galileo, dunque ha vinto il pensiero critico che poggia su “sensate esperienze”, non su un principio esterno di autorità. Proprio per questo bisogna spalancare le porte al confronto. In anni lontani, in un’epoca di contrapposizioni certo non meno dure di quelle attuali, un matematico, professore di questa Università, Lucio Lombardo Radice, scriveva: «il pluralismo come dialogo tra diversi, come confronto delle idee, come collaborazione dialettica nella reciproca libertà, si impone come principio informatore essenziale di ogni educazione, di ogni scuola che meriti questo nome. Le preclusioni e le incompatibilità, i “ghetti” per cattolici e acattolici, sono davvero revenants, spettri che tornano dal trapassato remoto».

La Sapienza ha voluto quest’anno dedicare l’inaugurazione del suo anno accademico alla moratoria della pena di morte, votata dall’Assemblea delle Nazioni Unite. Un evento che ha visto protagonista l’Italia e il Governo italiano. Non sarà facile passare dalla proposta d moratoria alla moratoria effettiva, alla cancellazione della pena di morte. È un lungo cammino. Il primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte è stato il Granducato di Toscana, il 30 novembre 1786. Si respirava l’aria dell’Illuminismo alla vigilia della Rivoluzione francese. È nota poi, una «Dialettica dell’Illuminismo»,studiata in particolare da uno dei miei maestri, Th. W. Adorno: le nuove forme di dominio e alienazione determinatesi nell’era della tecnica e della società di massa. Ma questa dialettica non può essere scagliata contro l’illuminismo da cui scaturiscono nuovi valori, principi democratici e diritti della persona. Quel valore della tolleranza che è uno dei pilastri della nostra civiltà.

L’Illuminismo raccoglieva la lezione della “scienza nuova”, di quello straordinario XVII secolo in cui si era andata accumulando una enorme quantità di conoscenze del mondo naturale e che aveva fatto annunciare a Sir Francis Bacon la nascita di una scienza «a beneficio di tutti, non di qualcuno».

Da allora sono stati fatti passi giganteschi. Ci saranno sempre domande sull’uomo alle quali la scienza non sarà in grado di rispondere, anzi, che non rientrano nei suoi compiti. Ma la scienza ha guardato dentro se stessa, ha scavato nella sua propria logica e nei suoi metodi. Essa è fondata non perché scopre “la verità”, ma perché le sue teorie sono falsificabili. Perché esisterà sempre, ad ogni livello di complessità, una proposizione “indecidibile” - ecco la grande idea di Kurt Godel - , di cui non si potrà mai dire né che sia vera né che sia falsa. Un sistema è coerente, dunque incompleto, è completo, dunque incoerente. C’è un motore democratico che muove il pensiero scientifico. Naturalmente, le tecnologie che si applicano all’economia e alla società possono essere appropriate o inappropriate, inefficiente o efficienti, amichevoli o minacciose. Qui intervengono le scelte politiche ed etiche. Basti ricordare, il tumulto, i drammi di coscienza degli scienziati che lavorano al «Manhattan Project», la bomba atomica. (...)

Quello che è sicuro è che i grandi problemi attuali dell’umanità non avranno soluzione senza uno straordinario sviluppo del sapere e delle conoscenze scientifiche. Della libertà della scienza. Presto sulla Terra saremo nove miliardi, con una inedita concentrazione in alcune zone del Pianeta e nelle città, con una vita media più lunga. E dovremo nell’arco di poche generazioni affrontare problemi inediti, della salute, delle comunicazioni, dell’energia, dei cambiamenti climatici, della scarsità di risorse vitali come l’acqua. In un mondo sempre più globalizzato e connesso.

C’è la via del dominio, della forza del conflitto di civiltà, della guerra. E c’è la via della cooperazione, della solidarietà, della pace. Della humanitas una. Questa seconda via ha bisogno di una diffusione mai conosciuta prima di valori umani, di conoscenze, di scienza. Di un nuovo inventario di beni comuni dell’umanità: primo, il sapere.

L’Università, le istituzioni della ricerca scientifica, hanno dunque un valore immenso. Il nostro Paese deve recuperare ritardi gravi, a cominciare dalle risorse che vi destiniamo.

Quest’anno in finanziaria ci sono più risorse dell’anno scorso. Meno di come la finanziaria era partita: il taglio in extremis alla “tabella C”, per finanziare una cascatella di emendamenti parlamentari minori e l’accordo con i camionisti, ha portato le risorse aggiuntive da 550 a 460 milioni di euro. Tutto il mondo corre. Gli Atenei sono 17.000, il finanziamento globale degli investimenti in formazione superiore e ricerca è passato in pochi anni da 300 a 1000 miliardi di dollari. Corrono velocissime America del Nord ed Asia. Grandi Paesi come la Cina e l’India tornano ad occupare posizioni di primato intellettuale che già hanno avuto in passato. L’Europa è più lenta. Il nostro Paese lentissimo.

Occorre accelerare il passo, e proseguire nelle riforme, volte ad aprire l’Università ai giovani, a fortificare l’autonomia (è pronto il progetto sulla nuova governance), elevare la qualità alzando la capacità di valutare i risultati (l’Anvur, Agenzia di valutazione dell’Università e della Ricerca sarà operativa a metà 2008), premiare il merito. Il merito è l’unico metro con cui si misura il valore di persone e istituzioni, nel nostro campo.

Ho visto volantini che me lo rimproverano. Ma quelli che pensano che invocare il merito significa apologia della diseguaglianza, sono teorici dell’ignoranza, e dimenticano da quali tasche vengono le risorse pubbliche sulle quali si reggono didattica e ricerca: prima di tutto le tasche dei lavoratori italiani. L’Università è preziosa. Dobbiamo averne cura, tutti insieme.



Stralci del discorso tenuto ieri dal ministro dell’Università e della Ricerca alla Sapienza di Roma

Pubblicato il: 18.01.08
Modificato il: 18.01.08 alle ore 8.25   
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 18, 2008, 05:59:49 pm »

Sinistra, che fare?

Giuseppe Tamburrano


Che fare? Così titolava il famoso opuscolo di Lenin. Già: che fare? Vorrei proporre alcune riflessioni sul risultato più clamoroso e inaspettato di queste elezioni: la (quasi) scomparsa della sinistra. E mi chiedo, preliminarmente: è l’effetto del superamento nella moderna società della dicotomia destra-sinistra, come molti sostengono, o è il «tradimento» della sinistra politica che non ha saputo interpretare i bisogni e le aspirazioni di un’area sociale - e culturale - che c’è, che è rimasta orfana e si è dispersa nel non voto, nel voto per partiti estranei di centro e di destra?

La sinistra sociale e culturale c’è, c’è stata e con molte articolazioni, divisioni, errori era - nella prima repubblica - attorno al 40% (socialisti, comunisti e «sinistra diffusa»). Non può essere scomparsa.

È mutata perché cambiata è la società, ma c’è. Ci sono le vecchie e nuove povertà, i bisogni sociali, le aspirazioni ideali. La società moderna è divisa, diversamente divisa rispetto a ieri, ma divisa: e la dialettica che è la forza del cambiamento e del progresso non si è esaurita: la storia non è finita. E per tanti aspetti nuova perché è il portato, appunto, del processo e del progresso. Prima conclusione: la sinistra c’è ma si è quasi dissolto il soggetto politico che la incarna e la rappresenta.

La controprova empirica è che in Europa c’è la destra e c’è la sinistra. E la sinistra è socialista: anche se lo è più di nome che di fatto e deve aprire gli occhi sui problemi del mondo e rinnovarsi.

Oggi in Italia ci sono fondamentalmente due “poli” ma uno, quello diretto da Berlusconi, paradossalmente è alleato con un partito, la Lega, che si reclama rappresentante di vaste categorie operaie, e ospita una intellighenzia che civetta con concetti di sinistra (Tremonti); e l’altro, quello diretto da Veltroni, che, con un altro paradosso, pur avendo le sue radici nella sinistra storica, ha fatto ogni sforzo per non apparire (e non essere?) di sinistra rifiutando persino e recisamente la parola, l’etichetta “sinistra” per disputare all’altro polo la rappresentanza di interessi e di ceti moderati ed occupare un’area di centro.

Insomma vi è una sinistra storica che rifiuta di esserlo tout court, che non si riconosce nemmeno nella sinistra moderata che è il socialismo europeo, e vi è una sinistra politica che ha preteso di esserlo in modo radicale ma è svanita perché ha doppiamente “tradito” la sua area di riferimento partecipando ad un governo che ha praticato una politica impopolare e non rinnovando il suo “antagonismo” in un progetto di socialismo moderno.

Che fare? È possibile rimettere le cose al loro posto? E rivolgo la domanda prima di tutto a Veltroni. Il quale ha tentato di realizzare in Italia l’operazione riuscita a Blair in Inghilterra. Il leader laburista, senza cambiare nome al partito, ha adottato il liberismo della signora Thatcher: molti elettori conservatori stanchi e delusi di un lungo e ormai inefficiente governo conservatore (erano finiti i tempi ruggenti della signora!) hanno sposato il liberismo del giovane e brillante Tony.

In Italia - questo è stato l’handicap di Veltroni - il governo che ha deluso non è stato diretto dall’avversario Berlusconi, ma dall’amico Prodi. E Veltroni non ha potuto scrollarsi di dosso l’impopolarità di quel governo. E il suo disegno non ha avuto successo. Se ha imparato la lezione il leader del Partito democratico deve guardare dalla sua parte, deve guardare a sinistra, a quel progetto tante volte annunciato e mai neanche avviato di costruire anche in Italia un grande partito socialista di tipo europeo e se possibile più avanzato e moderno di quello europeo.

Sarà un processo lungo - ma abbiamo lunghi anni di governo Berlusconi - che forse vedrà la scissione di Calearo e di Colaninno (e speriamo non di tutta l’ex Margherita), ma è l’unica via per un leader che voglia costruire il futuro e “rassembler” la sinistra: come ha fatto Mitterrand il quale ha invertito il corso e la crisi della screditata socialdemocrazia francese; come ha fatto Nenni che, nel 1956, ha capovolto la sua politica frontista e ha restituito al Psi la sua identità democratica.

Ma un compito importante spetta alla residua sinistra radicale. Bertinotti ha lasciato la carica, ma non ha perso la “carica”. Coinvolgendo il Partito socialista occorre avviare un profondo processo costituente, una Epinay o un congresso di Venezia (Psi 1957) ma non per rilanciare l’Arcobaleno: lo lasci perdere perché non ha annunciato bel tempo, ma è stato foriero dell’uragano. La «via maestra, l’immortale» (ho citato Lenin, cito anche Turati), il quadro di riferimento è il socialismo.

Quella sinistra può rinascere dalle sue ceneri a condizione che 1) a provarci non siano solo quelli che in cenere l’hanno ridotta: e perciò Bertinotti deve cercare nuove facce; 2) si parta dalle idee, dalla ricerca di una nuova identità del progetto socialista, e si cerchi di propagare questo processo al Pd, incalzando Veltroni.

E concludo con l’ultimo paradosso. Il modello del capitalismo globalizzato è in crisi; si accentua il malessere sociale nelle aree metropolitane colpite dalla recessione e si aggravano le già drammatiche condizioni dei Paesi poveri colpiti anche da una crisi alimentare di enormi proporzioni. Ormai il ricorso alla mano pubblica è chiesto e praticato dall’establishment. È il momento della sinistra: la quale invece cerca il “centro”, difende il mercato o si gingilla con un “antagonismo” fraseologico mentre operai, lavoratori precari o a reddito insufficiente, pensionati, famiglie povere, giovani in cerca di avvenire, cittadini tartassati da tasse o rifiuti se ne vanno verso la Lega o la sfiducia.

Pubblicato il: 18.04.08
Modificato il: 18.04.08 alle ore 14.44   
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« Ultima modifica: Aprile 19, 2008, 12:17:16 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 19, 2008, 12:17:54 pm »

Ripartire è possibile

Due compiti all'indomani della nostra Caporetto. Capire e ripartire.



Proviamo dal primo: capire le cause senza cadere nella facile logica delle colpe e delle recriminazioni.

Non solo non siamo stati nuovi, ma non é il concetto di nuovo che determina la qualità di un progetto politico, ma soprattutto non siamo stati convincenti, non siamo stati alternativi. Era evidente, ed ecco la responsabilità degli organismi dirigenti, che la sinistra arcobaleno fosse una creatura artificiale, costruita in fretta e furia per non soccombere alle logiche di questa improvvida legge elettorale.
Troppo visibile la discrepanza tra il messaggio politico lanciato (ricambio classe dirigente, questione morale, abbattimento costi politici) e la logica molto partitica che ha caratterizzato sia la scelta di alcuni candidati sia e soprattutto la gestione piatta e rassegnata con la quale si é impostata la campagna elettorale.

Fausto Bertinotti in questa campagna ha fatto il possibile per promuovere il soggetto unitario e per convincere sulla necessità impellente della sinistra ad unirsi ed a proporsi come soggetto politico moderno e plurale.

Ma per la gente, si per la gente, per gli elettori, per il popolo, hanno prevalso l'assuefazione al personalismo della politica e la logica elementare ma efficace del voto utile. Ergo Bertinotti non era spendibile né per la prima né per la seconda.


Ripartire: come, con quale progetto politico, con chi.

A mio avviso o si prosegue, allargandolo,  con il progetto unitario o spariamo del tutto. Chi non ci sta si accomodi nella falce e martello. Punto.
Come: intanto superare il metodo classico verticale della rappresentanza politica (classe dirigente-elettorato) e inaugurare un movimento orizzontale che sia in  grado di capire e  rappresentare la società nella sua interezza, non solo la classe operaia, non solo nelle fabbriche, caro il mio Diliberto, ma anche nelle scuole, nelle università, nei centri di ricerca, nelle attività produttive.

Su questa base allora ridiscutere dei contenuti, del rapporto tra lavoro, rendita, profitto, di laicità e beni comuni, di ambiente e partecipazione.

Cogliere pero´anche i disagi di chi paga molte tasse e ma non ne vede il beneficio diretto sui servizi di cui fruisce, capire, e fare proprio ribaltando la dinamica pericolo-immigrazione, il problema della sicurezza, specie al nord.

Cogliere e fare nostri gli aspetti positivi del federalismo, inteso come diretta amministrazione della cosa pubblica.

Non solo abbiamo perso rappresentanza del mondo operaio, come drammaticamente dimostrano i dati di Sesto San Giovanni, dove la Lega ha rimontato incredibilmente solo a scapito nostro, ma bisogna che ci rendiamo conto che noi scontiamo il silenzio sui ceti medi.

Non abbiamo capito che anche la raffigurazione sociale classica del cittadino piccolo borghese come lo si chiamava un tempo é drasticamente cambiata.
Anche lui non arriva a fine mese ed ha problemi enormi a pagare il mutuo. Anche lui vive con disagio e frustrazione le anomalie di questo sistema capitalistico frutto di una globalizzazione mal governata.

I suoi figli, nostri compagni di scuola e di università non sanno dove sbattere la testa perché non hanno uno sbocco nel mondo del lavoro e pagano il prezzo di una preparazione scolastica ed universitaria non competitiva. Il precariato é un male che non ha classe sociale.

Rivediamo anche la posizione vetusta sul veto al numero chiuso; dobbiamo proporre un sistema che sia in grado di permettere ai più meritevoli di proseguire il percorso formativo che deve essere all'avanguardia garantendo allo stesso tempo la possibilità di percorsi alternativi.

E` necessario poi che si oltrepassino i comodi confini entro i quali si muove la comunicazione politica attuale (televisione con i vari Vespa) per fare spazio alla comunicazione orizzontale, andare incontro alla cultura digitale (reti,  bloggers,  comunità virtuale), ovvero a quella che Baumann definirebbe la comunità liquida. Che oggi si auto rappresenta in maniera spontanea e che é numericamente molto elevata. Pensiamo ai milioni di persone che condividono informazioni, musica, video e che instaurano tra loro una sorta di solidarietà interna, di condivisione orizzontale che trascende e d oltrepassa ogni differenziazione sociale.

Non lasciamo questo popolo attento ed informato solo a Grillo.
La questione morale, uno dei punti cardini della nostra  identità politica, deve riflettersi e rappresentarsi attraverso la pubblicità e la chiarezza che solo questi mezzi di comunicazione, come detto orizzontali, possono garantire. Ogni nostra mossa, ogni nostro messaggio deve essere chiaro, veloce ed accessibile.

Infine, il ricambio generazionale. Dall'osservatorio privilegiato che é l'Europa, l'Italia é un paese gerontocratico con troppi politici poltronipeti.
Allora non basta mischiare le carte, occorre giocare con un nuovo mazzo.

Questo week end si inizieranno a definire alcuni aspetti importanti.

Rifondazione e PDCI hanno convocato i loro direttivi, da cui usciranno lacrime e sangue, ma almeno dopo si saprà cosa e chi vorrà continuare il percorso unitario. 

E sabato a Firenze, dove l'associazione x una sinistraunitaeplurale ha indetto un'assemblea alla quale, insieme ad alcuni eurodeputati (a proposito, l'unica istituzione che vede rappresentanti della sinistra Arcobaleno é il Parlamento europeo, cosa sulla quale invito a ragionare) parteciperò e spero sia occasione di riflessione e di confronto per impostare questa nuova partenza. Spero saremo in molti.
 

da sinistra-democratica.it
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« Risposta #3 inserito:: Aprile 19, 2008, 12:19:31 pm »

Abbiamo commesso errori ma dobbiamo guardare avanti


Guardiamo lo studio dei flussi elettorali di Carlo Buttaroni, della società Gpf e del professor Paolo Natale, dell'Università di Milano: un milione e mezzo di persone che nel 2006 avevano scelto PRC, PdCI e Verdi questa volta ha scelto il “voto utile” e votato per il PD. Sono certamente voti contro Berlusconi Un'altra parte di elettori della sinistra che non ha votato PD si è divisa tra l'Arcobaleno e l'astensione. Entrambi gli studi fissano attorno al 20% la quota degli ex elettori della sinistra che non hanno votato. C'è un altro dato particolarmente significativo:2,5 milioni di elettori che nel 2006 avevano votato alla Camera dei Deputati per l'Ulivo questa volta non sono tornati a votare. Sono divisi, più o meno, in parti uguali tra elettori dei DS e della Margheritra. Il fatto che il PD abbia incassato 100 mila voti in più rispetto al 2006 è dato dal fatto – sostiene Buttaroni – che 1,5 milioni di astensionisti di due anni fa sono tornati alle urne e hanno scelto Veltroni.

Dunque gli astensionisti hanno fatto la differenza anche in questa occasione determinando la vittoria di Berlusconi e della sua coalizione.

Ci sono stati poi spostamenti di voti  in misura minore dall'arcobaleno verso la Lega, soprattutto nel Nord, e verso IDV, ad esempio nelle Marche.  Piccoli spostamenti, invece, si  registrano nella coalizione di Centro destra.

Queste tendenze nazionali sono le stesse  che emergono nelle Marche. L'Arcobaleno perde più del 10% dei voti (alla Camera conquista il 3,02% – 29,603 voti e al Senato 27.882 voti pari al 3,09%) che oltre ad una quota di astensionismo si riversano sul PD e anche su l'IdV. Il PD migliora le sua forza elettorale superando il 41% in tutte e due le schede e tocca come coalizione il 46% dei voti. Ma non sono tutti quelli che perde la sinistra. Ciò vuol dire che come sul piano nazionale non porta a casa tutti i voti dell'Ulivo del 2006. E questo voto è più o meno omogeneo a livello territoriale e sociale, nelle Marche e in Italia.

A destra il movimento dei flussi elettorali è, invece, marginale. Forza Italia cede piccole quote alla Lega a Nord e AN alla destra di Storace. Sostanzialmente l'elettorato di destra e assai stabile e fedele.

Da questi dati marchigiani e nazionali emerge chiaramente  la grande instabilità dell'elettorato di centro sinistra.  La  straordinaria  mobilità di voti da una forza all'altra dello schieramento,  le notevoli percentuali di astensionisti di sinistra del 2006 e del 2008, che peraltro mutano da una consultazione all'altra,  spiegano più di tante parole  il vero motivo politico della grave sconfitta della Sinistra segnata il 13 e 14 aprile; I soggetti della sinistra sono ( e questo vale anche per il PD) da troppo tempo ormai non più partiti politici (forse alcuni non lo sono mai stati) ma movimenti di opinione senza radici nella società reale. Il loro legame con i cittadini appare  del tutto superficiale e provvisorio. Anche il linguaggio, le forme organizzative e di lavoro, non sono certo in sintonia con una società cambiata e in movimento. Nella campagna elettorale siamo apparsi con poche idee e poco credibili nella possibilità di ottenere trasformazioni a vantaggio dei ceti che abbiamo detto di voler rappresentare. Io credo che anche la scelta di manifestarci come una forza condannata di nuovo ad un ruolo di opposizione non ha giovato. Nell'Italia del 2000 la sinistra deve concorrere al governo del Paese: dev'essere questa la nostra vocazione non quella minoritaria e di testimonianza che una parte della coalizione ha manifestato nel corso della campagna elettorale e subito dopo. 

Hanno pesato, poi,  fortemente in senso negativo i metodi che sono stati usati nella formazione delle liste, tagliando fuori in maniera drastica non solo la base elettorale ma perfino i gruppi dirigenti territoriali.

Infine, ha giocato negativamente anche la scelta dei candidati, in molti casi inadatti a guidare la campagna elettorale. Invece di volti nuovi, rappresentativi e credibili delle reali esigenze delle categorie sociali che più soffrono nella società, dei giovani, delle donne, del la scuola. ecc..., abbiamo spesso presentato in troppe parti d'Italia la rappresentanza di un ceto politico sotto tiro mediatico in questa fase come non mai.

E' vero, il “voto utile” e la critica al governo Prodi ha inciso sulla sconfitta della Sinistra ma non dobbiamo illuderci che sia stato soprattutto per questo. Ora bisogna indagare più a fondo per scovare il male che affligge la Sinistra in Italia.  Dobbiamo però ripartire prima possibile (la perdita di tempo può essere letale) , facendo tesoro degli errori commessi, per rilanciare quel progetto alla base della nascita stessa del nostro  Movimento. La Sinistra l'Arcobaleno ha subito una sconfitta ma non dobbiamo pensare che ha perso la guerra. Non si può tornare indietro: dobbiamo rilanciare la costruzione del nuovo partito della sinistra unitario, plurale, di governo, d'ispirazione socialista, partendo dalle posizioni
che abbiamo nei tanti livelli istituzionali.

*Coordinatore SD delle Marche.

da sinistra-democratica.it
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 19, 2008, 04:47:16 pm »

Una Sinistra unitaria e plurale resta la strada


Sarà un pezzo più lungo di quelli che scrivo di solito, me ne scuso. Ma il momento è serio. Il Popolo delle libertà e la Lega stravincono le elezioni,  il Pd resta inchiodato a oltre nove punti di distanza , Berlusconi torna al governo, la Sinistra Arcobaleno subisce una sconfitta storica  e per la prima volta non entra in Parlamento. Siamo stati penalizzati dall’appello ossessivo al voto utile ( tanti elettori di sinistra hanno votato Pd illudendosi  di poter  battere Berlusconi ma il loro voto non è servito) e dall’astensione di un’altra parte delusa dall’operato del Governo Prodi appoggiato anche dalle forze di sinistra.

Questi due elementi però non spiegano una sconfitta tanto bruciante maturata nell’ultimo anno, e che deriva dai nostri enormi e persino incredibili errori.
 
Non abbiamo convinto gli elettori che avevano votato a sinistra nel 2006, non abbiamo conquistato nuove forze. La Sinistra Arcobaleno in versione lista elettorale finisce qui.

Quando nacque il Pd dicemmo che era un terremoto politico, che nulla sarebbe più stato come prima.  Che nessuna delle forze della sinistra  poteva da sola rispondere al vuoto che si creava a sinistra del Pd: che era necessaria e urgente una sinistra unitaria e plurale, un nuovo soggetto politico. Ma tra il nostro dire e il nostro fare c’è stato di mezzo il mare. Abbiamo sprecato un anno .

Nonostante gli Stati Generali in dicembre , dove tutti i dirigenti della sinistra politica si erano dichiarati pronti a promuovere e a farsi “travolgere” da una costituente della Sinistra , capace di risvegliare la partecipazione alla politica, pochi giorni dopo tornavano a prevalere chiusure, piccoli egoismi e nessuna costituente è partita nei  territori. Siamo così arrivati tardi all’appuntamento delle elezioni anticipate,  solo con una lista elettorale ( la Sinistra Arcobaleno), senza una idea di sviluppo di questo paese, senza un progetto chiaro e credibile per il dopo elezioni, noncuranti di ristabilire un minimo di radicamento sociale. Abbiamo puntato tutto sul fatto che la sinistra rischiava di scomparire, che bisognava difenderne l’esistenza. Questo appello non poteva essere sufficiente perché per quanto un elettore di sinistra sia sensibile al mantenimento di una Sinistra nel suo Paese egli vuole capire come sarà, dove lo porta, quali politiche concrete propone per cambiare in meglio la vita delle persone, quali principi mette a base del suo progetto.  E vuole anche democrazia nelle scelte programmatiche, nella elezione dei gruppi dirigenti, nella definizione delle liste, condivisione e partecipazione.

Senza democrazia diventa asfittico qualsiasi organismo politico ( oppure diventa leaderistico e personalistico come sono il PDL e il PD). Senza partecipazione siamo stati percepiti come uno dei tanti ceti politici che cercano di salvare loro stessi, e questo, per una sinistra che aveva denunciato la crisi della politica e si era proposta di cambiarla nelle forme e nei modi è risultata una contraddizione enorme. Se ci guardiamo intorno siamo, paradossalmente, noi dirigenti della Sinistra Arcobaleno quelli che più di tutti gli altri risultano travolti dalla pesante critica che montava, spesso con analisi che io non ho condiviso, dalla cosiddetta antipolitica. E  a questo voglio aggiungere che l’aver dato una immagine  totalmente maschile è stato un  limite serissimo che denuncia una cecità profonda e mai superata.

Se sono vere anche solo una parte delle cose che ho scritto fin qui è chiarissimo che siamo di fronte ad una mole enorme di problemi da capire e da risolvere se vogliamo pensare ad una ripartenza. Per ricominciare bisogna avere chiare le ragioni di una sconfitta, rimettere mano in fretta alle pratiche politiche sbagliate che hanno condotto a quegli errori, cambiare con la democrazia ( e non con sommarie rese dei conti) coloro che dirigeranno in futuro l’eventuale progetto di rilancio. Ma bisogna anche dirsi con chiarezza e senza prese in giro qual’è la proposta politica e il progetto di paese che vogliamo rimettere in campo.  Ho scritto tante volte della Sinistra che vorrei e non potrei adesso scrivere cose diverse .

Vedo moltiplicarsi in questi giorni convulsi appelli di ogni genere ma ciò che li accomuna è un dato chiaro: la richiesta di tornare ognuno nei propri accampamenti e nei vecchi perimetri culturali. Il solito ritornello che vuole i comunisti con i comunisti, i verdi con i verdi, i socialisti con i socialisti..ripropone solo la congenita e maledetta incapacità delle varie culture della sinistra italiana a stare insieme. E’ una resa. Credo che ognuna di queste culture politiche per quanto ben organizzata non possa, da sola, andare da nessuna parte.  Temo che andrebbe solo verso il suo esaurimento. Sento anche che alcuni altri ( pochi per fortuna) propongono di trasferirci armi e bagagli nel Pd : mi pare anche questa una proposta disperata e sbagliata. Se siamo uomini e donne di sinistra come potremmo ritrovarci in un partito che , per sua stessa ammissione non è e non vuole essere un partito di Sinistra?

Tutte le ipotesi che ho elencato rinunciano alla sfida che resta intatta davanti a noi e che ci è caduta addosso quando è nato il Pd : come e chi ridarà forza ad una sinistra in italia? Come ricostruirla?

E su quali basi? Dobbiamo tenere i nervi saldamente ancorati alla ragione perché in un momento tanto grave i gesti istintivi e frettolosi possono apparire  più semplici, ma in genere  sono sostenuti da poco pensiero e rischiano di diventare altri errori che si accumulano a quelli già fatti. Io penso che resti tutto intero davanti a noi l’obiettivo di una sinistra unitaria e plurale perché ritengo maturo ( anzi oramai quasi scaduto) il tempo nel quale le culture più storiche della sinistra possano convivere insieme a quelle più recenti  e nuove ( quelle nate dall’ecologia scientifica, dal pensiero della differenza di sesso e dalla libertà femminile, dalla critica alla globalizzazione). E del resto quanti di noi interrogando la loro coscienza ( e anche la loro pratica politica quotidiana) potrebbero dirsi oggi solo e soltanto comunisti, o solo socialisti o soltanto verdi? Siamo molte culture ( ognuno di noi ne raccoglie nel suo intimo molte più di quel che ci diciamo) e insieme dobbiamo cercare di radicare nel paese una sinistra unitaria e plurale. Che non può essere la somma di tanti partitini e dei suoi gruppi dirigenti, ma un soggetto politico nuovo.

Per quel che attiene al progetto riparto anche qui da cose già dette :
“Se non si cresce non c’è nulla da ridistribuire. La crescita prima di tutto e il Pil come totem” Questo è stato il tema della campagna elettorale del PDL ma purtroppo è diventato anche il motivo dominante di quella del Pd.   La Sinistra parte da altri presupposti: è una forza politica che vede il mondo e le sue contraddizioni globali e ha il coraggio di dire al Paese cosa deve crescere e cosa invece deve decrescere. Devono crescere, ad esempio,i servizi immateriali, i trasporti di merci su ferro e per mare e i mezzi pubblici per le persone, il risparmio energetico e le energie rinnovabili, il salario e gli stipendi, la sicurezza  e il ruolo sociale del lavoro, l’agricoltura non modificata, le reti idriche, l’edilizia di manutenzione e di recupero , l’impresa sociale, i diritti. Devono diminuire le rendite, le speculazioni edilizie e finanziarie, l’uso di cemento che ci vede tra i primi Paesi nel mondo, il trasporto di merci su gomma, la dipendenza dal petrolio,  il numero di automobili, la chimica più inquinante, le spese per armamenti ( che negli ultimi dieci anni toccano il  picco). La chiave di volta è una idea di sviluppo fondata sulla riconversione ecologica di settori importanti della nostra economia. Una diversa concezione dei consumi,dei cicli produttivi e delle merci. Lanciare allarmi sui cambiamenti climatici e sui limiti delle risorse naturali non vale nulla se si rinuncia ad indirizzare lo sviluppo verso altri fini, anche attraverso indirizzi chiari e forti dello Stato in economia.
Il cambiamento del modello di sviluppo liberista è il nostro obiettivo e la riconversione ecologica dell’economia è l’insieme di riforme da mettere in campo per conseguirlo. Spesso la Sinistra non ha saputo vedere quanta giustizia sociale passi attraverso la riconversione ecologica, e ha sbagliato. Proviamo a pensare all’acqua. Di quale giustizia sociale si può mai parlare in un mondo nel quale una parte enorme di persone non ha accesso all’acqua e da qualche settimana neppure al cibo minimo? Che l’acqua resti un bene comune, un diritto, e che la gestione delle reti resti pubblica è una scelta precisa, di sinistra, redistributiva, antiliberista. Il Pil misura in modo indifferenziato la produzione di un Paese, non ci parla degli squilibri. Il Pil non misura i diritti e non li garantisce, non riequilibra le risorse, non ci parla di democrazia, non si cura della sicurezza sul lavoro, non ci dice che stiamo consumando troppo territorio agricolo, che cementifichiamo le coste ( vera risorsa  per un turismo di qualità), che abbiamo il 40 per cento di acqua che si disperde . Il Pil è un indicatore nudo e crudo.

Lo consideriamo, ma non è la bussola della Sinistra. A noi interessa il benessere economico netto . Il disco rotto della crescita indifferenziata gira sul piatto da molti anni. E da molti anni nulla di buono cresce. Noi lavoriamo invece per l’aumento della qualità sociale e ambientale dello sviluppo. Se queste ( e molte altre ancora) sono alcune delle nostre idee, dalle quali derivano progetti di cambiamento che migliorano la vita delle persone, un altro nodo va sciolto al nostro interno.

Si tratta del fatto se la Sinistra alla quale pensiamo debba avere oppure no una cultura di governo. Che non vuole dire stare al governo. Io provengo da una forza politica, il Pci, che aveva una solida cultura di governo. Che sapeva misurarsi con tutti i problemi che i lavoratori, i cittadini, gli insegnanti, i tecnici, le città come organismi complessi presentavano. Si può stare all’opposizione con una solida cultura di governo e ottenere risultati importanti, si sta spesso al governo per anni senza ottenere alcun risultato e senza governare ( la Campania insegna). Ebbene io penso che una sinistra unitaria e plurale per diventare una forza popolare, radicata socialmente, presente sui problemi del territorio debba avere una cultura di governo su tutti i temi che si aprono davanti a noi in questo secolo così difficile. Nessuno escluso, anche quelli che ci imbarazzano di più o che vedono una nostra elaborazione assai scarsa. Parlerei di egemonia, una parola fondante per la sinistra, ma non vorrei aprire un confronto filosofico.

Da ultimo le forme, i modi, le relazioni, le nostre parole.  L’unica forma per organizzare una forza politica di qualsiasi genere  è la democrazia. Nessuno accetta più, a sinistra di vivere senza democrazia. Se la Pdl e il Pd hanno scelto il modello leaderistico e personale di tanti uomini soli al comando io ritengo che la Sinistra non possa farlo perché negherebbe in radice la sua natura. I modi sono quelli della trasparenza delle scelte, della partecipazione e dell’ascolto, del ritorno ad organizzazioni territoriali e a rete.

Le relazioni sono quelle tra le persone nelle quali si riconosce ad ogni livello e si rispettano le differenze e la presenza e la libertà di tutti e due i sessi. Le parole nuove ce le dobbiamo inventare tutti e tutte insieme, e non sarà facile perché spesso, parlando quasi sempre tra noi abbiamo assunto un linguaggio autoreferenziale e incomprensibile a chi ci ascolta, ai giovani in particolare. Vedo in questi giorni tentativi sommari di trovare capri espiatori, di consumare  rese dei conti. Inutili pratiche, vecchie come il mondo.

Chiarito il percorso che vorranno fare tutti coloro che non sono disponibili a tornare dentro i recinti di prima allora democraticamente e con un forte collegamento con i territori dovremo trovare tutta la democrazia che serve per eleggere in modo trasparente chi dovrà portare più responsabilità di altri. Vendola  nella sua intervista di ieri ha detto un nuovo gruppo dirigente che comprenda al suo interno anche una nuova generazione, e io concordo. Dice anche che si potrebbe pensare ad una direzione duale ( un uomo e una donna), può essere e sarebbe un fatto nuovo. Ma la condizione è che percorsi, programmi, persone vengano scelte con la democrazia e con il voto. Abbiamo fretta da una parte ma abbiamo anche un po’ di tempo. Rifondazione è alle prese con un dibattito congressuale difficile che io rispetto e che credo vada svolto. Ma pur seguendo con attenzione quella riflessione non è detto che nel frattempo si debba restare fermi.

Ripartiamo dal territorio, dai gruppi unitari che si sono formati in tante realtà, dalle case della sinistra, dalle associazioni che sono disponibili, dagli eletti nei comuni, nelle province e nelle regioni. Costruendo attorno a loro partecipazione , legame con i territori e discussione politica. Riuniamoci, compagne e compagni, diciamoci tutto quello che pensiamo…e poi, finite le critiche e le invettive, rimettiamoci in cammino.

*della Presidenza di Sinistra Democratica

da sinistra-democratica.it
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 20, 2008, 03:35:48 pm »

POLITICA

Aria di guerra al Comitato politico nazionale di Rifondazione

Giordano, commosso, al suo "ultimo" intervento da segretario: "Ecco i nostri errori"

L'Arcobaleno muore, Rc va avanti

Sinistra tra diaspora e resa dei conti

In mattinata assemblea a Firenze per chiedere "un nuovo soggetto"

Bertinotti assente. Ferrero e Russo Spena con una loro mozione. A luglio il congresso

di CLAUDIA FUSANI

 
L'intervento di Franco Giordano, segretario dimissionario di Rc, al Comitato politico nazionale del partito
ROMA - Rifondazione comunista vive, diranno poi, i mesi a venire, come, in che forma e con quali alleati. La Sinistra Arcobaleno è morta, defunta, un mese e mezzo di vita, passerà alla storia come il simbolo che ha estromesso la sinistra dal Parlamento. Fatte queste premesse vale la pena segnalare che Bertinotti, il grande assente, strappa un applauso quando Franco Giordano, segretario dimissionario con tutta la segreteria di Rifondazione comunista, lo ringrazia per "essersi messo in gioco in prima persona".
Lo stesso Giordano ne strappa appena due, di applausi: glieli concede la platea del Comitato politico nazionale del suo partito per fargli coraggio quando la voce si rompe e non riesce ad andare avanti. Mentre dice: "Non possiamo permettere di smarrirci, dobbiamo - proprio adesso - tenerci stretto sia questo partito sia il progetto di un nuovo soggetto unico a sinistra. Rifondazione comunista può sopravvivere a una sconfitta elettorale ma non a una spirale di dissolvimento". E quando precisa: "Non ho mai detto di voler sciogliere Rifondazione comunista...sfido chiunque a trovare una mia dichiarazione in questo senso".

Ma a parte questi due momenti di solidarietà, il clima al Comitato politico nazionale di Rifondazione comunista è da resa dei conti. Finale e definitiva. Da ripulisti generale, via tutti i vecchi avanti i "nuovi". O meglio, via tutti quelli che in questi anni hanno sposato come un sol uomo la linea di Bertinotti e avanti con i riformisti - forse - ma duri e puri.

Auditorium di via dei Frentani, sabato pomeriggio romano quasi estivo. E' qui che Rifondazione va sempre a contarsi nei momenti che contano. Ed è qui anche oggi per questo Cpn (Comitato politico nazionale) che comunque vada, tra oggi e domani, segna la fine di una storia. E l'inizio - lo sperano in molti - di un'altra. Franco Giordano arriva solo, Gennaro Migliore anche, l'erede e il delfino di Bertinotti simulano sorrisi ma hanno facce tesissime. Gli altri, quelli che li aspettano al varco, dal ministro uscente Paolo Ferrero al capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena sono già dentro. Sono loro che hanno chiesto il Cpn e che vogliono le dimissioni immediate della segreteria in vista del congresso di luglio. Giordano prende la parola alla 17 e 30. Potrebbe essere il suo ultimo discorso da segretario. A suo modo è un Comitato storico. Alle sue spalle è ricomparso il simbolo di Rifondazione comunista, la falce, il martello, il rosso, la scritta sinistra europea. Quello della Sinistra-Arcobaleno travolto dal voto, è scomparso. Per molti è già un passo avanti. Si ricomincia spesso da piccole cose che possono dare sicurezza. Un simbolo, per esempio.

Il funerale della Sinistra Arcobaleno. Il funeral party del simbolo che doveva riunire la sinistra massimalista è stata celebrato ufficiosamente stamani a Firenze. L'assemblea ("Sinistra unita e plurale") era stata convocata prima delle elezioni da intellettuali come Paul Ginsborg. Lo tsunami politico l'ha trasformata in una civilissima seduta di autocoscienza collettiva che ha stabilito un paio di cose. La prima: un nuovo soggetto unito e plurale a sinistra è "necessario". La seconda: gli applausi della platea indicano in Nichi Vendola, governatore della Puglia, il prossimo leader. Forse proprio perchè da lui arrivano le parole più dure: "Di fronte a fatti di questa importanza i nostri strumenti analitici e strategici sono asfittici, desueti, poveri, ce la caviamo solo con un pò di sociologia della catastrofe". Vendola, in linea con quello che dirà nel pomeriggio Giordano, avverte: "Evitiamo show down prima del congresso. Attenti alla parole perchè Rifondazione è un soggetto delicato".

Diliberto se ne va. I Verdi guardano al Pd? Della Sinistra-l'Arcobaleno resta in pratica solo Rifondazione. Diliberto e il Pdci risponde all'appello dei comunisti per una nuova unità comunista che potrebbe tenere un suo congresso a luglio. I Verdi - anche loro presto a congresso - sono con un segretario dimissionario e, soprattutto, senza una vera alternativa. Molti di loro stanno guardando al Pd. Il soggetto unico e plurale su cui continua a insistere Giordano, ma anche l'assemblea di Firenze, deve ripartire quindi da Rifondazione. Giordano è chiarissimo: "No alla costituente comunista, tragica regressione culturale e politica".
 
Nichi Vendola e Franco Giordano, futuro e passato di Rifondazione?

"Perchè abbiamo perso". Franco Giordano parla mezz'ora, inizia allentando il nodo la cravatta, finisce citando Andrè Gide. Inizia parlando di "assunzione collettiva di responsabilità", presentando la segreteria come "dimissionaria" e chiarendo che "tra di noi non ci sono nè vincitori nè vinti". Termina con un appello perchè Rc resti "unita" e "nessuno prefiguri adesso l'esito del congresso (10-11 luglio ndr) cedendo a forzature in nome di logiche politiche di parte".

In mezzo Giordano elenca senza pietà le tre cause della sconfitta. 1)"Non siamo riusciti a tradurre in azione di governo quello per cui abbiamo lottato e che avevamo promesso; abbiamo preteso sacrifici senza poi concedere alcun risarcimento sociale". 2) "L'utilizzo cinico e truffaldino dell'appello al voto da parte del Pd". Il terzo punto è quello "più grave" perchè "è il problema soggettivo, è la nostra difficoltà, quella per cui siamo stati percepiti come un residuo e un fuscello nella tempesta: abbiamo uno scarsissimo radicamento nel territorio". Il partito del popolo che non parla più col popolo perchè nel frattempo ha trovato le parole la Lega.

Rifondazione in mille pezzi. Giordano intiepidisce ma non scalda. Dopo di lui si iscrivono a parlare a decine. Finiranno domattina. Ma si capisce subito che quando domani saranno votate le mozioni quella di Giordano (comitato di gestione fino al congresso senza nessuno dell'attuale segreteria) non basta al parlamentino di Rifondazione. Paolo Ferrero, che in questi giorni ha messo alle strette Giordano, presenterà un documento politico insieme con la minoranza di Essere comunisti, guidata da Claudio Grassi per chiedere "un comitato di garanzia che guiderà il partito in vista del congresso". Non c'è molta differenza con la mozione Giordano. Ma è la fine dell'unità. Il segno della deflagrazione. "La cosa importante - spiega Ferrero - è che gli iscritti possano decidere su posizioni politiche chiare, senza ambiguità. Per noi l'importante è ripartire da Rifondazione e avanzare una proposta a tutta la sinistra". Una specie di federazione dove partiti e associazioni sono insieme "ma ognuno con la propria autonomia".

Correnti e scenari. L'annuncio di Ferrero mette a nudo giorni e mesi di divisioni all'interno di Rifondazione. Una volta la maggioranza del partito, circa il 70 per cento, era saldamente in mano a Bertinotti-Giordano-Migliore. Poi c'erano correnti minori come quella di Grassi (Essere comunisti) e l'altra di Pegolo, Giannini e Masella (l'Ernesto). Senza contare che in questi due anni Rifondazione ha perso per strada Sinistra critica e i trotzkisti. Nei venti mesi di governo le cose si sono complicate perchè Ferrero e Russo Spena si sono messi sempre più in contrapposizione con Bertinotti. Oggi infatti Ferrero se ne va con l'Essere comunisti, Russo Spena anche, Ramon Mantovani, molto arrabbiato, pure. In più prende forma una corrente di outsider, per lo più donne, capeggiate da Elettra Deiana, un po' la coscienza critica del partito che prima ancora che la Sinistra-L'Arcobaleno prendesse forma avvertiva: "Così non funziona, è una fusione a freddo che i nostri elettori non capiranno...".

Sono tutte le anime di una possibile diaspora che sarà ratificata domani alla fine del Cpn di Rifondazione. La domanda ora è: quale spazio per Rifondazione e il nuovo soggetto a sinistra tra il Pd e i comunisti?

(19 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 21, 2008, 01:43:59 am »

L’Osservatorio

L’8% dei voti lumbard è «rubato» alla sinistra


La Lega è il partito che in queste elezioni ha visto il maggiore incremento di voti in assoluto: 1.300.000. La seconda forza nella graduatoria dell’accrescimento di consensi è, non a caso, l’Idv, con circa 700.000 voti in più: rappresenta la componente «radicale» del centrosinistra, così come la Lega lo è nel centrodestra. Ma il partito di Bossi non ha vinto solo perché ha saputo attrarre nuovi voti. Esso registra il valore massimo nel tasso di fedeltà, vale a dire nel mantenimento degli elettori già acquisiti nel 2006: quasi tutti (95%) hanno riconfermato la loro opzione. Infine, gli elettori della Lega sono stati i più «decisi»: è qui che si trova la più alta percentuale di chi dichiara di avere formato la propria scelta da molto tempo, indipendentemente o quasi dalla campagna elettorale. Proprio lo straordinario afflusso di voti «nuovi» e, al tempo stesso, l’elevata capacità di mantenere quelli vecchi, consigliano di evitare un’unica interpretazione delle motivazioni di voto.

La Lega è un fenomeno composito, dalle tante sfaccettature, e nelle origini del suo voto coesistono molteplici fattori. Che vanno dalla difesa degli interessi economici territoriali, al timore per le novità originate dalla globalizzazione e dal conseguente arrivo di «diversi», sino a ragioni più direttamente legate alla collocazione politica del partito. Ciò suggerisce di distinguere diversi «tipi» di voti leghisti a seconda del prevalere dell’una o dell’altra motivazione. Un primo segmento è costituito da votanti «storici», consolidati nel tempo, spinti soprattutto dall’identificazione col territorio e dalla percezione di questo come prevalente su altre identità. Si tratta dell’elettorato che potremmo definire «padano», assai radicato nelle zone tradizionali della Lega e mosso per lo più dalla difesa degli interessi territoriali economici, specie quelli connessi alla fiscalità. Esso costituisce la maggioranza relativa — grossomodo il 40%— degli attuali votanti per la Lega.

Per un’altra parte di elettori tradizionali della Lega (cui si è aggiunta in queste consultazioni una quota di votanti che nel 2006 si era astenuta), la scelta è più determinata dall’insicurezza sociale, assieme alla paura suscitata del processo di globalizzazione e, soprattutto, dalla conseguente ostilità verso il «diverso», in particolare, verso gli immigrati. È la componente che potremmo definire «xenofoba»: corrisponde al 20% circa dell’attuale elettorato leghista. Entrambi questi settori sono sostanzialmente slegati dal continuum sinistra-destra, in quanto non si identificano con nessun segmento di quest’ultimo o, semmai, si definiscono «di centro». Viceversa una terza, importante, componente, si autocolloca esplicitamente nel centrodestra. Sono gli elettori transfughi da Forza Italia e, in misura minore, dall’Udc, che, in questa occasione, le hanno abbandonate per dare una maggiore radicalità alla propria scelta, pur mantenendo il proprio posizionamento politico.

La motivazione è stata prevalentemente economica, legata alla percezione di lentezza e di inefficienza dello Stato centrale e anche sollecitata, da ultimo, dal «caso Malpensa». Sono stimabili più o meno nel 30% dell’attuale elettorato leghista. C’è, infine, un ulteriore segmento di «nuovi» elettori leghisti, assai meno numeroso, ma molto significativo. Si tratta dei votanti provenienti dalla sinistra, in particolare da quella estrema. Che l’hanno lasciata per dare il voto ad una forza ritenuta più efficace nel difendere i loro interessi. Si tratta dell’8% circa dell’elettorato leghista. Solo un’analisi che tenga conto di questi diversi gruppi coesistenti può dar conto appieno del successo del Carroccio in queste elezioni. Non esiste, insomma, una lettura univoca del fenomeno leghista.

Renato Mannheimer
20 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 21, 2008, 01:52:59 am »

Vendola: «non rinserrarsi nel fortino delle antiche certezze»

Ferrero: ripartire da opposizione sociale

Al comitato di Rifondazione vince la linea dell'ex ministro che critica la linea di Giordano.

La segreteria si dimette

 
ROMA - «Bisogna ripartire da un'opposizione sociale al governo Berlusconi e provvedere al rilancio del Prc dentro una sinistra plurale». Paolo Ferrero analizza la secca sconfitta elettorale delle sinistre e butta lo sguardo sulle prospettive future. Nessuna ricerca di un capro espiatorio, ma la linea politica della segreteria di Rifondazione comunista «è fallita», spiega l'ex ministro della Solidarietà sociale, e ora bisogna «ricostruire la sinistra sul piano sociale, rilanciando il Prc nell’aggregazione di sinistra più ampia».

COMITATO DI GARANZIA - Intanto la segreteria nazionale di Rifondazione comunista guidata da Franco Giordano si è ufficialmente dimessa dalla guida del partito. Il comitato politico nazionale ha approvato a larga maggioranza le dimissioni del gruppo dirigente e ha eletto proporzionalmente ai consensi ricevuti un comitato di garanzia per l'attività ordinaria del partito. Il comitato sarà composto da sei rappresentanti della nuova maggioranza guidata da Ferrero (insieme a Claudio Grassi), cinque componenti del gruppo rappresentato dall'ex segretario Franco Giordano e da Nichi Vendola e un esponente della minoranza dell'Ernesto. Il dispositivo prevede la convocazione del prossimo comitato politico per il 3 e 4 maggio mentre il congresso straordinario del partito si terrà dal 17 al 20 luglio. «È stata una discussione sofferta e difficile. L’elemento positivo è che ora Rifondazione ha un indirizzo politico, non si scioglie, si prosegue verso la costruzione di una sinistra più ampia senza scorciatoie. Ora dobbiamo costruire l’opposizione sociale a Berlusconi e all’aggressione di Montezemolo» ha detto Ferrero in conclusione di seduta.

GIORDANO - «Sono convinto che al congresso possa prevalere la cultura del Prc - è il commento di Franco Giordano -. Nel nostro documento c’è tutta intera la storia e l’apertura alla società del Prc e aggreghiamo personalità importanti come Nichi Vendola e Gennaro Migliore. Nell’altro documento, quello di Ferrero e Grassi, non ci sono i capisaldi del Prc: non c’è la nonviolenza, non c’è il rapporto con i movimenti, mi pare più un cartello elettorale». A chi gli chiede se sia ipotizzabile una scissione dopo il congresso, Giordano risponde: «Assolutamente no perché dovremo scinderci da quello che abbiamo costruito».

BARBARIZZAZIONE - Ferrero ribadisce dunque le critiche alla linea «bertinottiana» di Giordano, pur sgombrando il campo da quelli che chiama «elementi di barbarizzazione». «Io sono tra i massimi responsabili della sconfitta: non cerco capri espiatori, ho condiviso il percorso politico, non barbarizziamo il dibattito». Ma c’è stata «una sconfitta pesante, nel punto fondante del rapporto tra la sinistra e la società: la gente non ha capito a cosa serviva votare la Sinistra arcobaleno. Nelle ultime settimane di campagna elettorale è diventata soggetto unico, in alcuni casi partito unico, si è parlato di comunismo come tendenza culturale e della necessità di superare i partiti come se fossero degli ostacoli». Per Ferrero «la colpa di Franco Giordano non è stata quella di portare avanti questa linea, ma di non contrastarla: se avessimo preso l’8% alle elezioni ora non staremo facendo questa discussione. Per questo ho chiesto con durezza la riunione di questo comitato politico: c’è Diliberto che propone la costituente comunista, c’è stata l’assemblea di Firenze, la politica non aspetta. La partita si gioca nelle prossime settimane».

VENDOLA - Diverso il punto di vista di Nichi Vendola, governatore della Puglia e anche lui candidato alla segreteria del Prc. Secondo lui bisogna ritrovare un'idea di Paese senza rinserrarsi «nel fortino delle antiche certezze», a cominciare dalla forma partito «come se fosse un dato in sé». Vendola interviene al comitato politico di Rifondazione assicurando che «ognuno farà la sua parte, anche io, per rimettere in piedi questa comunità». Il probabile sfidante di Ferrero inizia il suo intervento mettendo in guardia dal compiere «un’analisi della sconfitta che guarda solo alla superfice e alla fenomenologia dei comportamenti del gruppo dirigente. La realtà è che questo voto è un’autobiografia della nazione: improvvisamente ci rivela in modo imprevisto la società italiana», che ha subìto un mutamento radicale e che ha lasciato il Prc spiazzato». Interessante, per Vendola, quello che succede al nord dove la mancanza di un’identità trova risposta solo nella Lega. Rifondazione deve dunque ritrovare «un’idea del Paese, fermarsi a discutere sulla geografia dei lavori e sulla costruzione delle forme della politica».


20 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Aprile 21, 2008, 01:56:12 am »

POLITICA

Il Parlamentino di Rifondazione muove le prime mosse verso il difficile futuro

Vendola: "Spaccare non serve, guardare avanti e non chiudersi in un fortino"

Rifondazione, vince la linea Ferrero nel partito cambia la maggioranza

Passa con quasi 30 voti di scarto il documento del ministro

Sconfitta la proposta del segretario dimissionario Giordano

di CLAUDIA FUSANI


ROMA - Finisce male. Comunque. Dopo la sconfitta elettorale Rifondazione va in pezzi in nome della difesa di non si sa bene cosa e di un progetto vago come può essere quello contenuto tra il no alla costituente comunista e sì a quella di una sinistra allargata. Finisce con un parricidio, quello di Fausto Bertinotti e della sua segreteria - da Franco Giodano a Gennaro Migliore passando per Patrizia Sentinelli - cacciati senza se e senza ma. E con una nuova maggioranza affidata al ministro dimissionario Paolo Ferrero e a Giovanni Russo Spena e alle minoranze più radicali come "Essere comunista" di Claudio Grassi e "l'Ernesto" di Fosco Giannini. E' l'anima più conservatrice del partito, quello che non ha mandato giù due dei leit motiv della campagna elettorale di Bertinotti: l'ipotizzato scioglimento di Rc nella Sinistra-l'Arcobaleno; quel dire che il comunismo è ormai "un orientamento filosofico e culturale". Saranno loro a condurre quel che resta di Rifondazione al congresso di luglio. Finisce tra l'emozione di Franco Giordano, segretario per neppure due anni (fu eletto nel maggio 2006) e l'assenza drammatica di Fausto Bertinotti. Sul palco dell'auditorium di via dei Frentani resta un simbolo, la falce e il martello di Rifondazione. Basterà per ricominciare?

Alle 18, dopo una giornata tesissima in cui fino in fondo Giordano e Nichi Vendola hanno cercato un punto di mediazione e si sono appellati al buon senso per evitare oggi, adesso, una guerra per bande, la segreteria di Giordano non ha più la maggioranza del partito. Il Comitato politico nazionale di Rc, costretto a votare due mozioni - per la verità non così diverse l'una dall'altra - sceglie Ferrero e l'area di "Essere comunisti" con 98 voti. Quello di Giordano resta fermo a 70 consensi. Il documento presentato dall'aerea dell'"Ernesto" prende 16 voti, quello di Bellotti 5, e quello di Franco Russo 1. Quattordici gli astenuti, un'altra frangia del partito che ha seguito l'appello di Elettra Deiana. Nel comitato di garanzia - obiettivo a cui tendevano entrambi i documenti - che guiderà il partito al congresso di luglio (17-20) saranno tutti rappresentati in proporzione rispetto ai risultati del parlamentino di ieri e oggi. Dodici persone quindi di cui 6 che fanno capo a Ferrero, 5 all'area dell'ex segretario Giordano e uno dell'area dell'Ernesto.

E' finita come tutti temevano che andasse a finire. Il segretario dimissionario Franco Giordano aveva letto ieri la sua relazione, aveva parlato della sconfitta di tutti e aveva proposto un comitato di saggi neutrale e superpartes, precluso agli attuali membri della segreteria, per condurre per mano il partito al congresso. Un partito che comunque deve dire no alla costituente comunista proposta da Diliberto e sì a quella di una nuova Sinistra. Per il partito della Rifondazione comunista il ruolo di essere il centro e il motore di questo processo.

Poteva essere una buona soluzione per tutti, anche per i più arrabbiati. Anche per chi, come Ramon Mantovani, da giorni dice: "Il frequentatore dei salotti deve andarsene a casa". Ma Ferrero stamani ha fatto quello che aveva promesso. Quando ha preso la parola sul podio sovrastato dal simbolo storico di Rifondazione comunista, è stato durissimo col segretario. Nonostante la chiacchierata tra i due, a quattr'occhi, durante la pausa caffè, lo ha messo con le spalle al muro. "La sua colpa non è stata quella di portare avanti una linea ma di non averla contrastata. Ho apprezzato che abbia cambiato idea circa il destino di questo partito ma al tempo stesso mi domando se avessimo fatto lo stesso questa discussione nel caso avessimo preso l'8 per cento. Questo gruppo dirigente va azzerato perché il partito nei prossimi mesi deve sapere se esiste o no e deve capire cosa fare". Le colpe di questa segreteria sono varie, ma più di tutte "l'aver detto che il comunismo era destinato a diventare un orientamento filosofico" e aver messo in dubbio la sopravvivenza stessa di Rifondazione. Per non parlare poi del simbolo: "Fare la campagna elettorale con quell'arcobaleno è stato un suicidio" aveva detto un altro delegato. Sul futuro Ferrero sembra avere le idee chiare: "Rinsaldare il ruolo di Prc in una sinistra più ampia contro costituenti comuniste o di sinistra che rischiano di spaccare e sono la negazione del progetto politico di Rifondazione". Insomma, Ferrero come garante etico della nuova mission di Rc. Un ruolo che non è piaciuto e che proabilmente gli ha tolto qualche voto. Elettra Deiana, infatti, ha a sua volta attaccato sia Ferrero che la gestione Giordano e ha chiesto "l'astensione dal voto sulle due mozioni e la costituzione di un Comitato di garanzia neutrale che organizzi il congresso".

Sempre stamani, era toccato a Nichi Vendola. Il governatore della Puglia ha provato in tutti i modi a mettere in guardia da spaccature e lacerazioni, soprattutto in questo momento di grande debolezza. E ha avvisato: "Guai a chiudersi. Dobbiamo rimettere in piedi una comunità a cui dare come orizzonte l'innovazione e non un fortino delle antiche certezze in cui rinserrarsi".

Ci sono le premesse per una nuova scissione a sinistra? Era il timore più forte della vigilia del Cpn. Tutto sommato il parlamentino, pur mettendo in minoranza Giordano e quindi Bertinotti, non ha loro totalmente voltato loro la faccia. Resta da capire chi sarà il competitor di Ferrero per la segreteria visto che Nichi Vendola continua a ripetere di voler finire il mandato in Puglia. Ferrero nega ogni interesse in questo momento ("non è questo il problema e io non mi sto candidando alla segreteria") ma molti sono sicuri che a luglio proverà a farsi eleggere segretario. Lo dice chiaro, alla fine, Giordano:"Il nostro documento ricorda la storia di Rifondazione comunista, le sue passioni e le sue aperture: nell'altro documento non vedo nessuno di questi capisaldi, mi sembra più un cartello elettorale".

(20 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Aprile 22, 2008, 03:15:59 pm »

Ingrao: «Basta recriminare, dobbiamo salvare Roma»

Simone Collini


Pietro Ingrao confessa di vivere «con rabbia e con dolore» la situazione politica che si è venuta a creare dopo il 14 aprile. «C’è stata una vittoria delle forze reazionarie raccolte intorno a Silvio Berlusconi e di questo successo di una brutta destra, e delle sue fonti, bisognerà fare un’analisi cruda e approfondita», dice lo storico leader comunista. «Ma guai a rassegnarsi o a considerare la partita conclusa».

«Ci sono questioni brucianti tutt’ora aperte - sottolinea Ingrao - prima fra tutte la lotta per la guida di Roma».

È questa secondo lei la priorità, ora?
«Sono necessarie, contemporaneamente, un’analisi approfondita e di massa delle cause della sconfitta e un tornare in campo, un rilancio della lotta, innanzitutto per le elezioni del sindaco della Capitale. Roma è città simbolo, e oggi la scelta di chi dovrà dirigere il Campidoglio assume una doppia valenza: per il domani di questa metropoli così radicata nella storia d’Italia e del mondo, e per gli sviluppi dell’aspro scontro aperto con la destra berlusconiana».

Una destra diversa da quella che vinse nel 2001, con una Lega più forte. Una destra peggiore sostiene la sinistra.
«Sì, è peggiore. E del resto a questa deriva reazionaria non ha resistito nemmeno la relazione con un moderato come Casini».

È preoccupato per quello che potrà fare il prossimo governo?
«Purtroppo sì. E mi sembra che sia non abbastanza forte l’allarme per questa deriva autoritaria di schietta marca berlusconiana. Forse non tutti, nella sponda democratica, hanno capito bene tutto il rischio di questo blocco reazionario a cui hanno dato vita Berlusconi e Bossi».

Per alcuni commentatori la Lega abbandona i tratti a cui ci ha abituato nel passato e ne assume di più istituzionali. Lei che dice?
«A me sembra di cogliere anche nelle file democratiche una tendenza a leggere la Lega come un buffo folklore. Sarà che ho una chiusura paesana, perché invece io sono colpito dall’intensità con cui si è allargata la connotazione reazionaria dei bossiani».

Che risposta va data a questa destra?
«Noi, forze dell’opposizione, siamo chiamati in questi giorni, direi in queste ore, a sviluppare una doppia azione: capire e rendere chiare le cause della nostra sconfitta e contemporaneamente impegnare compattamente tutte le nostre forze per la prova di Roma e per quelle delle altre città in cui si torna subito a votare. Non ci sono consentiti ritardi o esitazioni».

Parla col “noi”: per la prima volta nella storia repubblicana, in Parlamento non ci saranno esponenti di partiti comunisti e socialisti.
«È un dato su cui non c’è stata finora un’adeguata riflessione. Eppure io mi ricordo che svolta e che emozione per noi quando, cacciati i tedeschi da Roma, nelle nuove assemblee elettive entrarono finalmente anche i “rossi”, quelli che venivano da Gramsci...».

Nelle forze della Sinistra arcobaleno si è aperto un vero e proprio scontro sulle cause della sconfitta. Secondo lei è ciò di cui c’è bisogno, adesso?
«Non propongo né a me né ai miei compagni e amici il silenzio sulle cause e le responsabilità della sconfitta. Vengo da una storia di aspre battaglie anche interne alla mia parte, forse c’era anche una pesante inclinazione a “punizioni” pesanti e affrettate. Ma io credo, spero, che noi della sinistra abbiamo anche imparato qualche cosa dai nostri errori del passato».

Cosa vuole dire?
«Ho una formazione leninista-stalinista. Ho vissuto in Italia le vicende straordinarie e talvolta eroiche con cui la componente comunista ha animato nel mio Paese, ma più largamente nel vasto mondo, una lotta epica per i diritti dei lavoratori. E tuttavia quella lettura e pratica del mondo, che chiamammo leninismo, è stata sconfitta. E oggi io e tanti altri miei compagni sappiamo bene per quali errori pesanti si determinò il crollo».

Tornando alla sinistra e applicando il suo ragionamento all’oggi?
«Lo scontro con la destra reazionaria è tutt’ora in corso, e anche il confronto elettorale è ancora in atto in molte città italiane. Per me questo passa avanti a tutto. Può anche darsi che dentro di me ciò sia radicato nell’antica, ostinata tensione che avevamo per realizzare l’unità, quella parola scelta addirittura a nome e simbolo del nostro giornale...»

Però è innegabile che errori a sinistra sono stati commessi, non c’è da stupirsi se ora si avverte la necessità e l’urgenza di capire...
«Ripeto, non sto chiedendo il silenzio. Anzi. La stessa battaglia aperta per Roma e altre città italiane chiede una iniziativa fresca e rapida per realizzare ciò che ci è mancato per la vittoria. Seppure da lontano, riesco a vedere le carenze, le divisioni, i silenzi che ci hanno fatto male. Ma dico un duro no alla rissa interna nelle nostre file».

Insiste molto sul ballottaggio di domenica: che ne è delle questioni di più ampio respiro a cui si è dedicato?
«Questo è il primo passo, necessario, ma è chiaro che l’amara vicenda italiana non cancella per nulla - non deve cancellare - lo scontro che continua nel vasto mondo: scontro a mano armata. In luoghi cruciali del globo tuttora si spara: nei modi della moderna “uccisione di massa”. Sembra incerto persino il luogo in cui si terranno le Olimpiadi. Le dimensioni della lotta hanno questi connotati. È viva in me l’amarezza per la scomparsa di quella nozione solenne e dimenticata che usammo chiamare: pace. Chi spera ancora nella pace?».

È la cosa che più la turba?
«Questa, sì. Ma resto turbato anche da questioni - come dire? - più semplici. Ostinatamente (forse ottusamente...) non riesco a capire perché siano ancora in campo istituzioni umane (chiamiamole così...) come la pena di morte, o anche l’ergastolo. Non le capisco nemmeno quando vengono usate contro gli assassini o i massacratori come quel tale Saddam Hussein...».

I difensori della pena di morte sostengono che sia per scoraggiare gli assassini.
«Scoraggiare uccidendo... Che straordinaria invenzione. Quante ne sappiamo inventare noi esseri umani».


Pubblicato il: 22.04.08
Modificato il: 22.04.08 alle ore 9.37   
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« Risposta #10 inserito:: Aprile 22, 2008, 03:17:07 pm »

NON E’ CON IL RITORNO ALLE PROPRIE IDENTITA’ CHE RISOLVEREMO LA CRISI CHE CI HA INVESTITO

di Tino Magni*


Quando si perde nel modo in cui abbiamo perso, occorre prima di tutto guardare in casa propria e chiedersi perché questo disastro, che nessuno di noi aveva percepito, intellettuali compresi, è potuto accadere. Tutto il resto sono delle concause che hanno accentuato la sconfitta. Il voto utile, l’astensionismo, la dispersione a sinistra, la mancanza di visibilità sulla stampa, ecc., sono dettagli e non le cause vere della nostra disfatta.
So bene che, in questi anni dove abbiamo dovuto continuamente difenderci dall’attacco del pensiero unico capitalistico, la cultura liberista ha inciso profondamente sia sui comportamenti politici dei singoli individui, sia su quelli collettivi, ma quanto è avvenuto è certamente il frutto dei nostri ritardi e dei nostri limiti di elaborazione. La conseguenza di un modo di agire da ceto politico, non migliore, né peggiore di altri, ma incapace di interpretare una richiesta di rinnovamento profondo che viene dal paese reale. Per questo siamo apparsi vecchi nel linguaggio, prevedibili e confusi nelle proposte, a tratti autoreferenziali.

Vorrei sottolineare che al Nord la Lega ha avuto un consenso senza precedenti tra i lavoratori, le lavoratrici e i ceti popolari meno abbienti, ciò è avvenuto perché noi in questi anni ci siamo allontanati dai problemi concreti e reali della gente, che chiedeva: sicurezza sia del e sul posto di lavoro, ma non in modo indistinto; di avere un salario o una pensione adeguata per arrivare alla fine del mese; di valorizzare la propria professionalità e il proprio sapere; di avere un mutuo equo per la casa; di avere una pubblica amministrazione, una scuola e dei servizi efficienti; il rispetto delle regole da parte degli emigranti; una corretta applicazione della pena e non un indulto senza criteri; un fisco meno oppressivo; un intervento per ridurre i costi della politica… e potrei continuare.

Dico tutto questo, perché durante la campagna elettorale che ho svolto, distribuendo volantini fuori dalle fabbriche e ai mercati, la gente mi rinfacciava che non ci avrebbe votato, perché anche noi siamo uguali agli altri, anzi peggio, perché avevano investito su di noi e sulla nostra capacità di risolvere i loro problemi, ma li avevamo delusi, con motivazioni diverse tra loro. Una parte della gente ci rimprovera che col nostro agire, nei due anni di Governo Prodi, abbiamo di fatto impedito al governo di governare, maturando un giudizio di inaffidabilità, un’altra parte, che aveva sperato nella nostra presenza al governo per cambiare qualcosa in positivo e per il miglioramento delle condizioni di vita, dal momento che ciò non è avvenuto si è sentita tradita.
Oltre al fallimento dell’esperienza di governo, dobbiamo aggiungere che come sinistra abbiamo perso l’egemonia politica e culturale sia nei posti di lavoro, che nella società e nella scuola, su temi importanti quali quelli dell’uguaglianza, della solidarietà e dei diritti collettivi. A supporto di questa tesi posso portare l’esempio della Lombardia, dove il monopolio di cosa sia la “solidarietà” è in mano a “Comunione Liberazione”, sia nel sociale che nella scuola, mentre nei luoghi di lavoro le persone tendono a darsi le risposte in modo individuale, accettando il concetto non tanto della meritocrazia, ma della disponibilità aziendale con lo straordinario e non solo.

Liquidare questi comportamenti, con affermazioni come quelle che ho sentito dire in campagna elettorale (chi vota Lega è razzista, o peggio accecato dall’egoismo), è una semplificazione che ci porta a non capire cos’è avvenuto tra questi lavoratori.
Io credo che dietro questi comportamenti che ritengo sbagliati, si nasconda la paura che sia la globalizzazione sia le persone straniere possano mettere in discussione il posto di lavoro le condizioni acquisite. Non è rimuovendo il problema che lo risolvi, ma cercando di capire, correggendo e proponendo un’altra soluzione, cioè in poche parole sporcandoci le mani! Questo è quello che ci hanno insegnato i nostri padri del novecento, come Di Vittorio, mentre troppe volte come sinistra abbiamo dato l’impressione di comportarci in modo burocratico ed elitario.

Condivido quanto hanno scritto altri: siamo arrivati all’appuntamento delle elezioni anticipate, con una lista elettorale senza un progetto chiaro e credibile, puntando tutto sul fatto che la sinistra rischiava di scomparire. Per ricominciare bisogna, perciò, avere chiare le ragioni della sconfitta, dire con chiarezza qual è la proposta politica e il progetto di paese che vogliamo a partire da una pratica democratica che è venuta meno in tutta questa fase, compreso la costituzione delle liste, per questo penso che dobbiamo aprire una fase di discussione che coinvolga tutti i territori in modo unitario. Pertanto ritengo che la prima cosa da evitare, sia quella di chiudersi dentro i singoli partiti, a discutere e a fare la resa dei conti tra gruppi dirigenti.

Occorre un processo di democrazia dal basso, nel quale tutti partecipano con pari dignità. Un percorso costituente per una sinistra plurale, in grado di rinnovarsi, favorendo la partecipazione attraverso il coinvolgimento di una sinistra diffusa, che esiste e che ha scelto di non votarci, come dice Claudio Fava, non per aver abbandonato i nostri simboli, ma perché siamo stati troppo autoreferenziali e rinchiusi nelle nostre stanze. Questa sinistra sociale va rimotivata, offrendole responsabilità e sovranità sul processo. Costruendo insieme ad essa un percorso inedito nelle pratiche, fortemente democratico, solido nei contenuti, capace di parlare al paese reale e di farsi ascoltare.

Concludendo sottolineo nuovamente quanto sia profondamente sbagliato chiudersi nelle proprie identità, perché sarebbe una risposta miope e di corto respiro politico, che condannerebbe la sinistra ad un ruolo minoritario e subalterno, per un lungo periodo al pensiero dominante. Inoltre sarebbe un messaggio di ulteriore frustrazione, per quei militanti che si sono spesi con convinzione, in questa campagna elettorale, per la costruzione di una sinistra “radicale” nei contenuti, ma nello stesso tempo capace di governare in campo economico e sociale il cambiamento di cui il paese ha bisogno.

*Coordinatore Regionale di Sinistra Democratica in Lombardia.

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« Risposta #11 inserito:: Aprile 22, 2008, 03:26:39 pm »

Sinistra Democratica: Mussi se ne va Verso la troika


Fabio Mussi dà l'addio alla guida della Sinistra Democratica. Con una lettera al direttivo del movimento che si è riunito a Roma, il ministro della Ricerca ha lasciato la guida della formazione che riunisce l'ex correntone Ds. «Vicende personali e politiche si intrecciano», ha scritto Mussi. «In questo momento la sinistra ha bisogno del massimo impegno e di un vero rinnovamento. Non potendo garantire, per motivi indipendenti dalla mia volontà, il contributo necessario e volendo favorire un rinnovamento anche generazionale, lascio l'incarico di coordinatore», avrebbe spiegato Mussi nella lettera.

Il movimento che raccoglie l´ex Correntone deve ora nominare un nuovo gruppo dirigente. Due le ipotesi che saranno discusse in giornata dal direttivo.
Da una parte, quella più gettonata, di un "Trimvirato" a tempo, composto dai Marco Fumagalli, più i due capigruppo uscenti, Cesare Salvi e Titti Di Salvo.

Allo studio anche la possibilità di affidare ad una quarta persona il ruolo di "speaker" ufficiale del partito. A loro spetterà portare Sd a "congresso". Dall'altra la convocazione del comitato promotore, il parlamentino di Sd, per l'elezione di un nuovo coordinatore.

I lavori sono stati aperti da Marco Fumagalli con una relazione incentrata sull'analisi della sconfitta elettorale e sui prossimi passi da compiere. L'addio alla leadership da parte di Mussi non rappresenta però un passo indietro dalla vita politica. Mussi ha ribadito il suo impegno per il partito e per un rinnovamento della sinistra, un impegno che in questo momento non può essere in prima linea visto il tempo che l'ex leader di SA dovrà dedicare alla riabilitazione dopo il trapianto di reni subito qualche mese fa. Mussi aggiungeva nella lettera: «Continuo ostinatamente a ritenere impensabile che in futuro, in un paese europeo come l'Italia, scompaia qualunque formazione politica di sinistra. Non bisogna disperare: spes contra spem. Una sinistra in Italia c'è.

È necessario lavorare fin da ora a unificare davvero tutte le forze disponibili alla formazione di un partito nuovo, in grado di competere e riguadagnare il suo posto in Parlamento. Progetto possibile solo con una nuova generazione, uomini e donne, militanti e dirigenti. In Sinistra democratica ce ne sono tanti».

Per quanto riguarda gli scenari politici, l'idea prevalente all'interno di Sd è quella di accelerare verso una Costituente della sinistra, aperta a tutti i soggetti interessati, anche ai socialisti. L'ipotesi di un riavvicinamento al Pd è quindi per il momento è da escludere. «Noi ci siamo, siamo qui», sintetizza il vicepresidente della camera Carlo Leoni: «Iniziamo un percorso che porta alla costituente della sinistra al fianco di rifondazione e di quanti ci stanno».

Pubblicato il: 22.04.08
Modificato il: 22.04.08 alle ore 14.24   
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 29, 2008, 05:10:15 pm »

29/4/2008
 
La sinistra succube della destra
 
FABRIZIO RONDOLINO

 
C’è la sinistra in Italia? Dal punto di vista lessicale, per la prima volta dal 1946 non è presente in Parlamento. Non soltanto non ci sono più i comunisti e i socialisti: non c’è più neppure la parola «sinistra», che i Ds ancora portavano sulle loro insegne. I risultati delle ultime elezioni non sono meno drastici: grosso modo, il Pd è fatto per un terzo di ex Margherita e per due terzi di ex Ds; sommando alla quota diessina i voti raccolti da tutte le sinistre antagoniste (compresi Ferrando e Turigliatto) e dal Ps, si arriva al 27,3% dei voti validi. Tre punti in meno di quanto raccolse il Fronte popolare di Nenni e Togliatti nel '48. Sette punti in meno della «gioiosa macchina da guerra» assemblata da Occhetto nel ‘94. Più di cinque punti in meno rispetto ad appena due anni fa.

Si è più volte polemizzato, in campagna elettorale, sulle somiglianze fra i programmi del Pd e del Pdl, con reciproche accuse di «aver copiato» e con l’inevitabile evocazione del nuovo mostro, il «Veltrusconi». In realtà, che i programmi dei due partiti che competono per il governo di un qualsiasi Paese occidentale siano relativamente simili è un’assoluta ovvietà. Non è infatti sui programmi che si decide il successo di una forza politica, ma sulla sua identità. In generale, l’idea che far politica e vincere le elezioni significhi presentare una lista della spesa più o meno credibile, più o meno compatibile, e più o meno gradita agli esperti del Sole 24Ore, è un'idea risibile. Sebbene la parola sia carica di equivoci, la politica è fatta di valori, non di programmi. Ciò naturalmente non significa che le «cose», cioè i programmi elettorali e le leggi che (a volte) ne conseguono, non abbiano un peso e un significato: ma quel significato è inscritto e dipende da un sistema di valori che lo precede e lo contestualizza.

L’esempio più clamoroso è lo scontro sulla sicurezza. È evidente a tutti che chi commette un reato va punito, e che i crimini vanno prevenuti: non è dunque di questo che si sta discutendo. Negli ultimi sette anni, Berlusconi ha governato per cinque, e se c’è oggi un’emergenza, una qualche responsabilità deve avercela anche il centrodestra: ma all’elettore di Berlusconi quest’ipotesi non viene neppure in mente. Viceversa, né i provvedimenti già presi dal centrosinistra (la criminalità nelle aree metropolitane è oggettivamente diminuita), né quelli annunciati in campagna elettorale, riescono a soddisfare un’opinione pubblica che, si legge sui giornali, «non ne può più». La ragione è semplice. Nell’identità valoriale della destra c’è un’idea di ordine sociale tendenzialmente esclusivo anziché inclusivo, c’è il valore della comunità e della nazione, c’è l'idea un poco paternalistica per cui uno scappellotto ogni tanto fa bene, e così via. I fallimenti pratici dei governi di centrodestra sono oscurati dalla saldezza dell’orizzonte simbolico di riferimento.

Per la sinistra, accade esattamente il contrario. I valori storici della sinistra hanno a che fare con la solidarietà e con la difesa dei più deboli. Una politica di sinistra moderna dovrebbe chiedersi come declinare questi valori nel mondo d’oggi; se però, come accade regolarmente, finge che siano andati fuori corso e suggerisce l’impressione di scimmiottare la destra, il risultato è un cortocircuito vistoso che lascia perplessi i simpatizzanti e certo non convince gli incerti.

In altre parole, la sinistra su molte questioni suona inautentica a chi non è di sinistra, e ambigua o irriconoscibile a chi lo è, perché nel dibattito pubblico insegue sempre più spesso (magari per moderarne la portata) le proposte della destra, cioè quelle proposte, giuste o sbagliate, che sorgono e fruttificano all’interno di un universo valoriale tradizionalmente di destra. In questo modo la sinistra subisce la scelta del campo di gioco e accetta di giocare una partita non sua. Oggi è la destra a detenere saldamente l’egemonia culturale del dibattito pubblico, di cui regolarmente scrive l’agenda. Si tratta di una novità che pochi, persino a destra, sanno riconoscere. Ma è questa la novità politica del nuovo secolo, e da qui discende tutto il resto.

Fare politica significa convincere i cittadini delle proprie buone ragioni, per poi agire di conseguenza una volta eletti; non significa rincorrere l’opinione pubblica in cambio di una poltrona. L’idea stessa di «opinione pubblica» è fuorviante, e andrebbe maneggiata con cura. La sinistra invece ne è diventata succuba, e scambia regolarmente il sismografo per il terremoto; come una mosca impazzita, sbatte contro il vetro dell'avversario senza accorgersi che tutt'intorno lo spazio è aperto. Il moderatismo e il radicalismo, le due malattie mortali della sinistra italiana, sono precisamente questo sbattere senza fine della mosca contro il vetro.

Il moderatismo del Pd ha paura di spaventare i «moderati», rincorre la Lega al Nord, nasconde i Radicali e archivia i Dico; il radicalismo dell'Arcobaleno si trincera dietro una serie estenuante di no. Entrambi sono figli del Pci di Berlinguer, che dapprima annacquò il profilo programmatico fino a renderlo indistinguibile da quello di Andreotti, nel tentativo di cancellare l’appartenenza, seppur su posizioni critiche, all’universo sovietico; e che poi, fallita la «solidarietà nazionale», si rifugiò nel fondamentalismo ecopacifista e finì col condividere fin nei dettagli la politica estera di Breznev. Da allora, la sinistra ha sempre oscillato e si è sempre divisa fra il tentativo di cancellare il colore di una pelle di cui si vergogna, e l’esibizione rancorosa della propria impotenza.

Eppure non è così difficile, nel mondo, essere di sinistra, «essere sinistra». Lasciamo da parte Blair, che è stato a lungo indicato come modello e che nel frattempo se ne è andato in pensione senza che una sola delle sue idee trovasse ospitalità nella prassi della sinistra italiana. Guardiamo a Zapatero. Il suo straordinario successo elettorale non si deve a una complessa alchimia di alleanze moderate o a un cambio di nome, ma, più semplicemente, all’aver rifondato una sinistra per la Spagna, e all’aver convinto gli spagnoli che quella sinistra avrebbe governato (cioè interpretato) la contemporaneità meglio della destra.

Il centrosinistra italiano in sette anni di governo non è stato capace di legiferare sulle unioni civili, sulla libertà di ricerca scientifica, sul conflitto d'interessi, sulle droghe leggere, sulla procreazione assistita, sulla liberalizzazione dell'accesso alle professioni… In compenso i conti pubblici sono un po’ meno in disordine, mentre quelli delle famiglie non quadrano più. Nulla di ciò che segna oggi l’idea e il concetto di sinistra è stato fatto dalla «sinistra» italiana. In particolare, il campo cruciale delle libertà individuali e dei diritti civili è stato congelato in nome di un malinteso rapporto con il mondo cattolico, dimenticando che la sinistra ha sfondato al centro, negli Anni Settanta, grazie alle battaglie sul divorzio e sull'aborto.

Se non si comincia da qui, cioè dalla definizione di un un’identità radicata nella tradizione e capace di fruttificare nel presente, la sinistra, nonostante abbia persino smesso di chiamarsi così, continuerà a perdere. Fra l’originale e una confusa contraffazione, non è difficile scegliere l’originale.

Paralizzata fra il rifiuto della modernità e l’esaltazione dei suoi aspetti più stupidi, la sinistra dovrebbe invece fermarsi a riflettere, riordinare un po’ le idee, convincersi che il Pci non c’è più (e neppure la Dc), che il mondo non ha bisogno di essere cambiato ma, finalmente, interpretato, e che soltanto fidandosi di se stessa potrà sperare di convincere gli italiani a fidarsi di lei.

Francamente, non so se Veltroni abbia il tempo, la voglia, la capacità o l’interesse a compiere un’impresa del genere. Ma fra i tanti effetti collaterali della disintegrazione della sinistra in Italia c'è stata anche, com’è noto, la disintegrazione sistematica dei suoi leader. Veltroni è l'ultimo: non ci sono alternative, né ruote di scorta. Dunque tocca a lui, e speriamo che ce la faccia.

da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 30, 2008, 07:29:58 pm »

Lalla Trupia

A Vicenza vince il Sindaco che ha detto no al Dal Molin


Dopo tanti giorni amari oggi sono felice. Nella mia città,Vicenza,anche se per una manciata di voti, vince il candidato Sindaco del centrosinistra,Achille Variati.  Solo due settimane fa alle elezioni politiche il voto dei vicentini premiava con cifre da capogiro la Lega  Nord e la vittoria del centrodestra appariva schiacciante.
Oggi invece comincia un altro giorno ed è lecito tornare a sperare dopo le tante amarezze e le cocenti delusioni di queste settimane.
Questa vittoria “sudata e difficile” non viene dal niente.  Da quasi due anni questa città è in mobilitazione permanente contro la realizzazione della seconda base militare americana Dal Molin.  Una mobilitazione straordinaria e tenace che ha  costruito forme inedite di partecipazione e suscitato passione civile fuori dalle sedi tradizionali dei partiti,coinvolgendo tanti cittadini,tante donne e soprattutto tanti giovani lontani dalla politica attiva.
Achille Variati ha avuto il coraggio di dire NO fin dall’inizio a questo progetto insensato ,anche contro il parere del suo partito –il PD – e questa scelta autonoma gli ha portato in dote quella autorevolezza e  quella fiducia che l’hanno sicuramente aiutato a vincere.
Nei giorni antecedenti al ballottaggio  si è pubblicamente impegnato davanti alla città a favore di un Referendum cittadino sulla  realizzazione della base sempre negato dalla precedente Amministrazione di centrodestra, impegnandosi così a sanare la ferita inferta alla nostra comunità da una decisione presa dall’alto e con arroganza da Berlusconi prima e da Prodi poi.
I cittadini hanno negato la fiducia al centrosinistra a livello nazionale,perché lo considera lontano dagli interessi e dai bisogni di questa comunità,ma gliel’hanno ridata dopo pochi giorni perché è apparso vicino alla sua comunità locale con Achille Variati.
Questa vittoria elettorale dimostra dunque che è possibile cambiare il corso delle cose se la politica torna tra la gente e ne rappresenta le speranze.
Anche in una piccola città del NordEst,considerata  perduta per sempre da troppi nel centrosinistra,a cominciare dal Governo Prodi,è possibile cominciare una storia nuova.
Se  Variati ha vinto è anche perché la candidata del centrodestra era poco amata e imposta da Galan; ma soprattutto perchè tutte le Sinistre gli hanno dato il loro voto: la lista civica dei NO Dal Molin e la Sinistra L’Arcobaleno.  E hanno fatto la differenza. Un voto utile dunque alla vittoria del Centrosinistra a Vicenza.  Da una piccola realtà  può trarre  un grande insegnamento chi, facendo un’altra scelta, quella  di scaricare la Sinistra, ha consegnato inevitabilmente l’ Italia al centrodestra.
Il voto di Vicenza, sull’onda di una grande battaglia popolare per la pace, dice semplicemente che si vince solo con la Sinistra e con la forza della partecipazione .


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Raffaele Porta*


Adesso tocca a Sinistra Democratica
La più significativa e preoccupante conseguenza del voto del 13 e 14 aprile - prima ancora dell’assenza nel prossimo Parlamento di una forza dichiaratamente di sinistra -  è stata la schiacciante vittoria della destra. Una destra nè moderata nè conservatrice di stampo europeo, ma  semplicemente populista. La lunga transizione politica, iniziata nel nostro paese con tangentopoli ed il dissolvimento dei tradizionali partiti di massa alla fine degli anni ’80, se non può dirsi terminata, sembra essere comunque giunta in prossimità di una sua probabile chiusura. Appare pertanto semplicistico qualsiasi schema interpretativo del risultato delle recenti elezioni se non si scava in profondità per comprendere quali processi economici, culturali e socio-politici hanno determinato la chiusura “a destra” di un lungo periodo di transizione caratterizzato dai crescenti fenomeni di globalizzazione, precarizzazione e frammentazione sociale.
Dalla seconda metà degli anni settanta il modello keynesiano, che aveva coniugato la crescita e lo sviluppo con il benessere delle comunità, è stato via via sostituito, e non solo nel nostro paese, da un modello in cui l’economia non è stata più governata  dalla politica. Le leggi del mercato hanno da allora preso il sopravvento e l’aumento del PIL ha sempre più rappresentato il principale parametro di una crescita e di uno sviluppo indistinti. Perchè il PIL da solo non misura il benessere di uomini e donne né la loro qualità di vita. Infatti, parallelamente al PIL è spesso cresciuta anche la miseria e si è ampliata la forbice tra ricchi e poveri e tra i vari nord e sud.
In questi anni sono profondamente mutate nel nostro paese identità personali e collettive. E’ cambiato sia il senso di cittadinanza che di appartenenza. Il dato politico è che venti anni fa, dalle elezioni del giugno del 1987 emersero ancora due grandi blocchi. Il primo, rappresentato dalla forza elettorale della DC che raggiunse ancora in quell’anno il 34.3% dei consensi. Il secondo, concentrato nei due partiti di sinistra, il PCI ed il PSI, che superarono insieme il tetto del 40.8% dei voti. Oggi il PD, - che analogamente alla DC si configura come un partito interclassista di centro (che guarda a sinistra?) - raccoglie un consenso simile a quello della DC (33.7%), mentre la sinistra è scomparsa ed ha preso il suo posto, con oltre il 50% dei voti, un blocco di partiti di centrodestra di cui un soggetto politico, la PDL,  rappresenta una destra populista capace di concentrare su di sé oltre il 38% dei consensi. C’è chi parla di una vera e propria mutazione antropologica avvenuta nel nostro paese negli ultimi vent’anni. Veltroni oggi dichiara che l’imprenditore è un lavoratore come gli altri, anzi un lavoratore che rischia. Montezemolo gli fa eco rispondendo che i lavoratori preferiscono l’impresa ai sindacati. L’uno definisce “ambientalisti del no” gran parte degli ecologisti. L’altro apostrofa i sindacalisti quali “professionisti del veto”. Entrambi reclamano un paese nuovo, più veloce, un paese capace di crescere, cioè di far crescere il PIL. La Lega Nord, che presenta il più vecchio simbolo sulla scheda elettorale (sic!), sfonda nelle roccaforti storiche delle lotte sindacali e del movimento operaio organizzato, dove sono in atto profonde ristrutturazioni, e finanche in Emilia (7.1%). Al voto dei qualunquisti e dei protestatari la Lega aggiunge e consolida anche quello di tanti lavoratori abituati a far valere i propri diritti.
La sinistra, cancellata dal Parlamento, non ha avuto alcuna preventiva percezione della disfatta alla quale stava andando incontro probabilmente perché non ha compreso cosa è avvenuto nel nostro paese e, quindi, non ha capito i bisogni, le richieste e le paure di coloro che avrebbe voluto rappresentare. La Sinistra Arcobaleno è apparsa una sinistra “artificiale”. Un cartello elettorale, e non un soggetto politico in grado di dare risposte, che ha eccessivamente confidato in certezze identitarie che avrebbero dovuto garantire una “resistenza” che non c’è stata. La separazione consensuale delle forze del vecchio centrosinistra, la delusione del governo Prodi, il desiderio catartico di opposizione e l’eccessiva fiducia in un ormai inesistente zoccolo duro, hanno avuto l’unico effetto, alla fine, di far considerare “inutile” il voto alla Sinistra Arcobaleno il 13 e 14 aprile. 
Ed allora che fare. Il PdCI è andato. I Verdi rischiano di evaporare. Concordo con quanti dicono che non possiamo attendere passivamente che Rifondazione Comunista svolga il proprio congresso… per poi decidere. C’è chi lo pensa. Io penso che limitarci a tifare per Vendola non serva a molto perché Vendola non andrà al congresso con una mozione che prevede lo scioglimento di Rifondazione. Ed allora, mi chiedo, se Vendola vincerà il congresso cosa accadrà? Scioglierà il partito dopo? Dopo aver vinto il congresso ed essere diventato segretario? Certo che no. Ed allora? Ed allora è possibile che chiederà a chi è fuori di costruire all’interno di Rifondazione la nuova sinistra. E’ questo che vogliamo? E se invece Vendola perde… cosa accadrà? O se invece lo scontro in atto, cosa molto probabile a mio avviso, si trasformerà in mediazione? Insomma tutto questo mi convince che non possiamo e non dobbiamo attendere. E mi convince che il movimento della Sinistra Democratica può avere  un ruolo da svolgere se non apparirà più come un soggetto politico“virtuale”, come qualcuno ci ha definito in campagna elettorale, e se da subito si farà promotore di una costituente della sinistra partecipata dal basso e guidata da un nuovo gruppo dirigente.

*Coordinatore Regionale della Campania



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« Risposta #14 inserito:: Aprile 30, 2008, 11:26:23 pm »

Sinistra democratica che fare?

Cesare Salvi-Massimo Villone


Dopo la pesante sconfitta del 13 e 14 aprile, è ineludibile la domanda: serve ancora Sinistra democratica? Noi pensiamo che possa servire, perché c’è in Italia uno spazio politico, sociale e culturale a sinistra del Pd, e perché in campagna elettorale i quadri e i militanti di Sd hanno mostrato di esserci, numerosi e combattivi. Per rilanciare l’iniziativa di Sd, bisogna però recuperare due elementi centrali nella nostra originaria proposta, - la cultura di governo e l’identità socialista - abbandonati nei successivi drammatici mesi, e bisogna dare una struttura, leggera e democratica, al nostro movimento.

Il 5 maggio dell’anno scorso parlammo (tra l’altro) di una «sinistra di governo». Questa non c’è stata nell’ultimo biennio, e non per nostra responsabilità. Sia ben chiaro, non parliamo di una sinistra che voglia governare ad ogni costo, e che subordini tutto alla conquista e al mantenimento del potere.
Questa è stata la strada seguita dalla maggioranza dei Ds prima e dal Pd poi. Ha portato anche loro a una pesante sconfitta. Parliamo di una sinistra che parta dai suoi ideali e dai suoi valori, e da una cultura critica del mondo in cui viviamo. Ma che sappia tradurre gli uni e l’altra anzitutto nel radicamento nella società, in secondo luogo in concrete indicazioni per il cambiamento, infine in una credibile proposta politica, a partire dalle alleanze (politiche e sociali). E si ponga quindi l’obiettivo di costruire un nuovo centro-sinistra.

Seconda questione. Ci siamo chiamati «Sinistra democratica per il socialismo europeo». Ma la seconda parte del nostro nome è scomparsa. Va ripresa e rilanciata. Anche perché esiste in Italia un mondo socialista (una cultura politica, e un elettorato potenziale) certamente non limitato allo zero virgola qualcosa per cento. È possibile che affermare la nostra identità socialista ponga un problema a una parte delle forze con cui va costruito il nuovo partito della sinistra. Ma questa difficoltà non è una ragione sufficiente per rimuovere il tema. Anche perché sarebbe riduttivo chiamarsi socialisti solo per definire un’identità o un’appartenenza organizzativa. Socialismo oggi vuol dire porre il tema del governo, nei termini che abbiamo cercato prima di indicare sommariamente. Del resto, se stessimo in un altro paese europeo saremmo nel partito socialista di quel paese, e ne costituiremmo l’ala sinistra.

Infine, il percorso delle prossime settimane. Dobbiamo assumere scelte politiche di fondo, e le conseguenti iniziative nel Paese e verso gli altri partiti della sinistra; decidere il necessario rinnovamento del gruppo dirigente; assicurare la presenza nel territorio.

L’idea che sarebbe stato inutile, anzi dannoso, darsi un minimo di regole e di struttura (per evitare di fondare un nuovo «partitino») si è rivelata alla prova dei fatti un’illusione. L’illusione di avere più tempo, e l’illusione che comunque il nuovo soggetto politico della sinistra (unitario e plurale) era a portata di mano. Così non è stato e non è.

Per questo riteniamo che Sinistra democratica deve darsi da subito una struttura, leggera e democratica. Come farlo?

Fra le molte promesse mancate di Sinistra Democratica troviamo di certo quella di un nuovo modo di far politica. La critica alla riduzione oligarchica dei processi democratici, alla mancanza di partecipazione da parte di iscritti e militanti, alla assunzione di decisioni in sedi ristrette e poco trasparenti era stata per molti decisiva nella scelta di uscire dai Ds con l’ultimo congresso. Pensavamo che nel Pd non sarebbe andata meglio. Anche per questo abbiamo scelto un’altra strada. Ma quella che abbiamo preso non ha realizzato le speranze.

Pensiamo che, dopo la catastrofe del voto, la musica debba cambiare. Abbiamo affrontato una campagna elettorale difficilissima. Compagne e compagni in tutto il paese si sono battuti fino all’ultimo, per un risultato che diventava ogni giorno più difficile. Ora, dopo il terremoto, a loro dobbiamo rivolgerci perché indichino la strada da seguire e scelgano il nuovo gruppo dirigente.

Per questo non ci persuade l’idea di tornare al Comitato promotore, perché elegga un altro coordinatore, che formi una nuova presidenza, che apra un dibattito dai contorni e delle modalità imprecisate. Il Comitato promotore era ed è in buona parte diretta filiazione del congresso Ds. Doveva avere una funzione transitoria, e per questo il nostro Statuto provvisorio - consultabile sul sito - gli assegna esclusivamente il compito di «lanciare la fase di adesione al Movimento». Quella fase è alle nostre spalle. È giusto e corretto che a partecipare e a decidere le scelte di oggi siano le compagne e i compagni che oggi, qui ed ora, hanno fatto o confermato le loro scelte e sono scesi in campo.

Proponiamo un altro percorso per Sd. Un percorso innovativo, un pezzo di riforma della politica. Convocare al più presto assemblee territoriali, per esempio a livello provinciale, di tutte le compagne e i compagni che hanno aderito a Sd, hanno partecipato alla campagna elettorale, e intendono proseguire il loro impegno nel nostro Movimento. Assemblee aperte a tutti quelli che a sinistra volessero partecipare e contribuire. Assemblee che sarebbero per noi l’equivalente di una grande primaria democratica sul progetto, perché convocate per discutere di politica, e non per l’elezione plebiscitaria di un leader. E che, sulla base della discussione politica, eleggano i propri rappresentanti per una grande Assemblea nazionale chiamata a decidere, entro giugno, sulla linea politica e sul nuovo gruppo dirigente nazionale.

Noi e la sinistra abbiamo bisogno di cambiamento vero. E non possiamo consentirci altri errori. Il primo errore sarebbe non dare la parola, per decidere davvero, a tutti coloro che si sono guadagnati sul campo tale diritto.


Pubblicato il: 30.04.08
Modificato il: 30.04.08 alle ore 8.14   
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