L'EREDITA' DI TONI NEGRI
Buongiorno, ecco una serie di notizie selezionate per te dal Corriere del Veneto.
Luca Barbieri, giornalista e imprenditore, già capocronista di Padova al Corriere del Veneto, parla di Toni Negri.
Buona lettura!
Il 10 maggio 2022, in una piccola aula di via del Santo a Padova, lì dove il 7 aprile del 1979 piombavano le camionette impegnate nella retata, una piccola folla di persone ascoltava Toni Negri in collegamento da Parigi. Non annunciato nel programma ufficiale dell’evento (ed è facile capire il perché), in quello che era stato il suo istituto di Scienze Politiche Negri commemorava, in occasione dell’uscita del libro «Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo», il suo amico «fratello maggiore, un vero rivoluzionario umanista».
Era evidente a molti che sarebbe stata una delle ultime apparizioni, se non l’ultima, e pure a distanza, in città. Avevo contato ottanta persone, coetanei di Negri da una parte e giovanissimi dall’altra, quasi senza nessuno che rappresentasse le generazioni in mezzo. Non è un caso: nel diventare simboli, magari non proprio involontariamente, le narrazioni si cristallizzano e si polarizzano. E da certi simboli, te lo insegnano da bambini fino a interiorizzarlo, è bene tenersi lontani. Sì, perché chi era il «cattivo maestro» Toni Negri? E con lui cos’erano l’operaismo e l’autonomia? E cosa hanno lasciato nella memoria collettiva e nella pratica di quella città che ne fu considerata laboratorio?
Solo venti anni fa, quando nel 2002 scrissi «I giornali a processo: il caso 7 aprile», la mia tesi di laurea, Toni Negri a Padova era ancora letteralmente un tabù. Almeno al di fuori del centro sociale Pedro. A più di 20 anni dal 7 aprile, quella era la prima volta che una tesi affrontava il caso da un punto di vista che tentava di non essere di parte. E la affrontava mettendo al centro la narrazione che i giornali avevano dato negli anni del caso giudiziario.
L’intento del lavoro, in cui mi aveva seguito con un certo coraggio Gianni Riccamboni, era misurare la discrasia tra verità processuale e verità mediatica nella certezza che nella memoria collettiva Toni Negri fosse rimasto, per gran parte della nostra società, quello che non è mai stato, sulla base di cose che peraltro non sono mai esistite: «il grande vecchio del terrorismo italiano», «l’anello di congiunzione tra le Br e l’autonomia», addirittura per alcuni tempi «il mandante del sequestro Moro». Ma la memoria collettiva, e i giornali, che della memoria di noi giornalisti son fatti, non funzionano come le verità giudiziarie. Se alle accuse di insurrezione armata contro i poteri dello Stato e di essere il capo delle Br togli tutti i pezzi fino a rimanere in mano con l’associazione sovversiva e il concorso nell’omicidio di Argelato, cosa si è nel frattempo cristallizzato nella narrazione pubblica? La polarizzazione, i fan delle opposte verità, senza nessuna possibilità di riconciliazione o dialogo.
Di mezzo, in quello che lo storico Roberto Colozza ha definito l’«affaire 7 aprile», ci rimangono le vittime della violenza (che in quella stagione c’è stata eccome), Toni Negri, che comunque una condanna l’aveva portata a casa, ma anche Emilio Vesce, Guido Bianchini, Luciano Ferrari Bravo – tutti assolti – e una intera generazione con colpe molto differenziate.
Ecco allora che cercare di capire Toni Negri – dall’azione cattolica al Psi, da Potere Operaio all’autonomia, dal carcere al successo planetario di Impero – vuol dire raccontare il rapporto tra noi e gli anni Settanta, tra noi e una parte della società veneta che da quegli anni «di piombo», sembra essere evaporata. Nel Veneto del «progresso scorsoio», per dirla come l’avrebbe detta Zanzotto, quella fetta di società che fine ha fatto? E non parlo di quei rivoli più o meno evidenti, che discendono dalle esperienze disobbedienti degli anni Novanta e Duemila. Parlo di un lascito più culturale e (dis)organizzativo di cui potrebbe essere provata l’esistenza lì dov’era nato, nel mondo del lavoro. Ruotando attorno a quel concetto di autonomia che prima che diventare territoriale doveva essere di autodeterminazione soggettiva della persona all’interno dei meccanismi economici dominanti del tempo. E che dice moltissimo, anche se con un lessico diversissimo, alle generazioni di oggi.
Eppure mi rimane ancora un’ipotesi di ricerca da percorrere. Provare a capire cosa di quell’esperienza, di quella cultura, rimane in quello che è il Veneto imprenditoriale di oggi. Tra la generazione direttamente precedente a quella del sottoscritto si muovono biografie ricche e sfaccettate. Quanti, constatata l’impossibilità di percorrere quelle idee nella dimensione pubblica, le hanno fatte evolvere all’interno di aziende che sembrano isole di sperimentazione soprattutto sociale? Forse un giorno scopriremo che parte del lascito di Toni Negri e di quella esperienza sta anche qui, dove forse meno ce lo aspettiamo.
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