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Autore Discussione: La frontiera dei confini - MARCO D'ERAMO  (Letto 942 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Ottobre 20, 2023, 07:28:12 pm »

La frontiera dei confini - MARCO D'ERAMO

Non c'è niente di più mutevole di un confine. Non è una linea, non è una cosa, è un dispositivo socialmente costruito per generare un dentro e un fuori, e appunto perché costruito cambia, si sposta, scompare, riappare, producendo molto spesso sanguinose guerre, invenzioni architettoniche folli, dolore e morte.

“Il primo che, avendo recintato un terreno, ebbe l’idea di dire:  Questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici da credergli, fu il vero fondatore della società civile”. Con questo celeberrimo incipit della seconda parte del Discorso sull’origine delle diseguaglianze (1750), Jean-Jacques Rousseau ci ricorda quel che c’è dietro l’istituzione del confine, e quanto problematico sia questo concetto. C’è prima l’introduzione di una discontinuità fisica nello spazio: una linea, un filo (spinato), un recinto, un muro. Poi c’è una proclamazione, l’affermare che quel che è dentro quella linea (quel recinto, quel muro) è mio. Infine c’è l’accettazione da parte della società della mia affermazione: io divento proprietario legittimo dell’interno del recinto, quando la società mi crede proprietario.

Rousseau ci spiega – quel che la storia ha dimostrato innumerevoli volte – che un confine non è una linea, una cosa, ma è un dispositivo socialmente costruito per generare un dentro e un fuori, un dispositivo che appunto perché costruito cambia, si sposta, scompare, riappare.

In effetti non vi è niente di così mutevole come i “sacri confini della patria”. Fa quasi tenerezza sfogliare gli atlanti di cinquanta anni fa. E viene un magone, come ogni volta che viaggio tra l’Italia e l’Austria e penso alle centinaia di migliaia di esseri umani uccisi (nella Prima guerra mondiale) per spostare un confine che non esiste più. Lo stesso quando percorro l’Alsazia e la Lorena passate dal Sacro Romano Impero germanico alla Francia nel tardo Seicento, ripassate dalla Francia alla Germania con la guerra del 1870, e di nuovo dalla Germania alla Francia con la Prima guerra mondiale. Al contrario, appaiono confini dove prima non c’erano: basti pensare alle lunghissime frontiere che corrono tutte all’interno dell’ex Unione sovietica: il Kazakistan confina non solo con la Russia, ma con l’Uzbekistan, il Kyrgyzstan, il Turkmenistan; la stessa Ucraina confina con Moldavia e Bielorussia oltre che con la Russia.

La stessa guerra in Ucraina non è altro che una disputa sui confini; confini dell’Ucraina e confini della Nato. Da qui il sapore ottocentesco, anacronistico di questo scontro, non solo perché sempre più ricorda il primo conflitto mondiale con la sua guerra di trincea, ma perché il suo obiettivo ultimo è in definitiva uno spostamento di confini. Ed è per questo spostamento di “confine” che il Pianeta è da più di un anno e mezzo sull’orlo dell’olocausto nucleare.

D’altronde, in quanto dispositivo socialmente costruito, il confine è sempre l’esito (temporaneo) di un rapporto di forza. E anzi, vi è una misura, quasi disumana nella sua astrattezza, della violenza con cui è stato tracciato il confine, e questa misura è la rettilineità. Dove i confini sono sinuosi, frastagliati, là ogni rientranza, ogni sporgenza racconta una secolare, o millenaria, storia di conflitti, compromessi, accordi, rivalse. Dove invece i confini sono rettilinei, potete essere sicuri che non c’è stato nessun negoziato tra due parti, ma un diktat autocratico è stato esercitato, uno strapotere, un arbitrio di cui la geometria è diretta espressione. Un confine nord-sud quasi rettilineo lo trovate per migliaia di chilometri tra Canada e Usa (anche con l’Alaska a ovest); rette anche tra vari stati degli Stati uniti, soprattutto a Ovest degli Appalachi, dove la storia dei precedenti abitanti fu ignorata, la terra considerata “vergine”, la geografia ordinata con riga e squadra sulle mappe. Le stesse frontiere rettilinee le trovate in Africa dove le potenze coloniali le imposero ai “selvaggi”. Fu sempre con una retta che le potenze coloniali divisero in due Papua Nuova Guinea. Lo stesso “disprezzo della retta” lo leggete in Medio Oriente dove confini tra i futuri stati di Siria e Iraq, e Iraq e Arabia saudita vennero decisi a tavolino da due funzionari, l’inglese Mark Sykes e il francese François-Georges Picot quando nel 1916 furono incaricati di smembrare i futuri assetti del morente impero ottomano.

Ma mentre i confini mutano, appaiono e scompaiono, si fa sempre più ingombrante il confine come istituzione fondante la geopolitica mondiale.

Sembra un paradosso che nell’epoca della globalizzazione, quando la Terra ci appare come un piccolo pianeta azzurro, quando le dimensioni dell’umano agire si moltiplicano sotto i mari, nello spazio, sulle onde dell’etere, proprio allora il problema dei confini sembra diventare più urgente che mai. Anzi, è proprio alla fine degli anni Novanta del secolo scorso e all’inizio di questo secolo, all’apogeo ideologico della globalizzazione, che si configura e consolida una nuova disciplina, i Border Studies che si dota delle sue riviste accademiche, dei suoi congressi e dei suoi padri ispiratori.

In quegli anni ne scrivono i sociologi più di tendenza, a qualunque bordo appartengano: Etienne Balibar (“The Borders of Europe”, 1998), Manuel Castells, M. (End of Millennium, 2000), Saskia Sassen (“New Frontiers Facing Urban Sociology at the Millennium”, 2000), Ulrich Beck (What Is Globalization? 2000; “The Cosmopolitan Society and Its Ennemies”, 2002), Zygmunt Bauman (Society Under Siege, 2002).

Con la globalizzazione economica, la caduta del muro di Berlino, l’integrazione europea, i confini tradizionali paiono obsoleti, nuove forme di delimitazione emergono e i confini sembrano cambiare di natura. Così Saskia Sassen: “Una caratteristica dell’attuale fase della globalizzazione è il fatto che un processo, che si produce all’interno del territorio di uno stato sovrano, non è necessariamente un processo nazionale. All’inverso, ciò che è nazionale (imprese, capitale, cultura) può sempre più essere situato fuori dal territorio nazionale, per esempio in un Paese straniero o nello spazio digitale. Questa localizzazione del globale, o del non-nazionale, furi dai territori nazionali, ha minato una contrapposizione chiave che percorre molti metodi e molte impostazioni concettuali delle scienze sociali, e cioè l’idea che nazionale e non nazionale si escludano a vicenda”.

È quella che Ulrich Beck chiama “globalizzazione dall’interno”, per cui i confini non seguono più i limiti territoriali dello Stato-nazione, ma si moltiplicano e si diversificano, si settorializzano (per esempio in uno stato multietnico, multiculturale o multireligioso, le linee di confine saranno tracciate dall’etnia, dalla cultura, dalla religione e possono non coincidere affatto): “Quando i confini culturali, politici, economici e legali non sono più congruenti, si spalancano contraddizioni tra i vari principi di esclusione. La globalizzazione interna, intesa come plurlizzazione dei confini, produce in altre parole una crisi di legittimazione della moralità nozionale di esclusione”. Perciò, “se il paradigma Stato-nazione delle società va a pezzi dall’interno, lascia spazio alla rinascita e al rinnovo di ogni tipo di movimenti culturali, politici e religiosi. Soprattutto va capito il paradosso etnico della globalizzazione. In un’epoca in cui il mondo si sta avvicinando e diventa più cosmopolita, in cui quindi confini e barriere tra nazioni e gruppi etnici vengono meno, le identità etniche e le divisioni si rafforzano di nuovo”.

È vero che con la rivoluzione dei trasporti appaiono forme inedite di confine. Già gli aeroporti rappresentavano un’anomalia, visto che la frontiera per uscire dal Paese si trova non al bordo del Paese stesso ma al suo interno. Oppure: un confine del Regno Unito si trova al centro di Parigi, alla Gare du Nord da cui parte l’Eurostar e in cui è situato il posto di frontiera britannico. Per la stessa ragione un altro posto di confine inglese si trova nel bel mezzo di Bruxelles. Ed è vero che col confinamento abbiamo assistito alla creazione di nuovi confini temporanei, come quelli che durante la pandemia da Covid-19 impedivano di entrare o uscire da metropoli cinesi anche decine di milioni di abitanti.

Ma fa comunque sorridere la sicumera con cui i più sagaci scienziati sociali dell’epoca davano la globalizzazione per irreversibile e, senza ammetterlo apertamente, si situavano all’interno dell’orizzonte concettuale della “fine della storia” proclamata da Francis Fukuyama, da tutti sfottuto, ma tacitamente condiviso. Proprio mentre costoro proclamavano la “globalizzazione dall’interno”, la definitiva cosmopolitizzazione della società umana, la deglobalizzazione era già lì dietro l’angolo a ripresentarsi con il martellante succedersi di Brexit, elezione di Donald Trump, Covid-19, guerra ucraina, decoupling dalla Cina. E intanto le buone vecchie frontiere di una volta si preparavano a prendersi la rivincita, e nella forma più antica e mitica della storia umana, quella del vallo (di Adriano), quella della Muraglia (cinese).

Intendiamoci, non si era mai cessato di erigere barriere o in cemento o in reticolati e fili spinati (la lista non è esaustiva):

1953: 4 km di muro tra Corea del Sud e Corea del Nord;

1959: 4.057 km della Line of Actual Control tra India e Cina;

1969: 13 km di peace lines in Irlanda tra la Belfast cattolica e la Belfast protestante;

1971: 550 km di line of control tra India e Pakistan per dividere il Kashmir;

1974: 300 km di cosiddetta linea verde tra zona greca e zona turca di Cipro;

1989: 2.720 km il Berm tra Marocco e Sahara occidentale;

1990: 8,2+11 km di muro tra le enclave spagnole di Ceuta e Melilla e il Marocco per   bloccare l’immigrazione;

1991: 190 km di barriera tra Iraq e Kuwait;

1994: 1.000 km di muro di Tijuana tra Usa e Messico

Ma la globalizzazione non ha fatto nulla per frenare la frenesia muraria degli stati, anzi:

2003: 482 km tra Zimbabwe e Botswana;

2007: 700 km tra Iran e Pakistan;

2010: 230 km tra Egitto e Israele;

2014: 30 km di muro antimigratorio tra Bulgaria e Turchia;

2013: 1.800 km tra Arabia saudita e Yemen;

2015: 523 km di barriera antimigratoria tra Ungheria e Serbia;

2022: 550 km di barriera antimigratoria tra Lituania e Bielorussia;

2022: 183 km di barriera antimigratoria tra Polonia e Bielorussia

Senza contare le muraglie acquatiche, gli sbarramenti navali per impedire lo sbarco via mare dei migranti.

Ma forse il caso che meglio descrive la sofisticazione, anzi la perversione che ha raggiunto il concetto di confine, è quello di Israele. Ecco come Eyal Weizman descrive il piano di pace di Clinton per la partizione di Gerusalemme, elaborato secondo il principio che “ogni parte della città abitata da ebrei sarà israeliana e ogni parte abitata da palestinesi sarà palestinese. In accordo coi principi di divisione di Clinton, 64 km di muro dovevano frammentare la città in due arcipelaghi  tracciati secondo linee nazionali. Quaranta ponti e tunnel dovevano connettere queste aree-enclaves isolate tra loro. Il principio di Clinton significava anche che qualche edificio nella Città Vecchia sarebbe stato diviso verticalmente tra i due Stati, con il piano terra e lo scantinato in cui si entrava dal quartiere musulmano e usato dai bottegai palestinesi, e i piani superiori a cui si accedeva dal quartiere ebreo, usato da ebrei membri dello stato israeliano.” Insomma la soluzione proposta era quella degli aeroporti, in cui l’area Arrivi e quella Partenze sono situate in due piani differenti non comunicanti tra di loro, ognuno con la sua entrata e uscita. Quindi il confine non come linea in un piano bidimensionale (una carta geografica), bensì come separazione in uno spazio tridimensionale, ma su una scala di complicazione labirintica.

Però dove la creatività umana si è sbizzarrita nella sua più immaginosa estrosità è nella costruzione del muro (730 km) iniziato nel 2002 che separa gli insediamenti ebraici dalle terre palestinesi: Weizmann dedica a questo muro e alle sue conseguenze un capitolo del suo bellissimo Hollow Land. Poiché le due parti al di qua e al di là del muro devono comunque interagire, il problema per i pianificatori israeliani è come garantire insieme l’interazione e l’isolamento, per esempio in un’autostrada che deve servire sia israeliani che palestinesi. Ecco la soluzione: “La strada è divisa al centro da un’alto muro in cemento, che sepra le corsie israeliane da quelle palestinesi. Si estende per tre ponti e tre tunnel prima di finire in un complesso nodo volumetrico che si aggroviglia a mezz’aria, incanalando separatamente israeliani e palestinesi lungo differenti soprelevate a spirale che sbucano e atterrano nei rispettivi lati del Muro. È emerso un nuovo modo di immaginare lo spazio. Dopo aver frammentato la superficie della West Bnak con muri e altre barriere, i pianificatori israeliani hanno cominciato a tesserle insieme come due geografie nazionali separate ma sovrapposte; due reti territoriali che si sovrappongono sulla stessa area in tre dimensioni, senza mai dover incrociarsi o venire a contatto.
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 25, 2023, 09:13:44 pm »

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Giorgio Cavicchioli

La carne coltivata, o carne a base cellulare, è un tipo di carne animale prodotta in laboratorio a partire da cellule staminali animali. Le cellule staminali vengono prelevate da un animale vivente e fatte crescere in un ambiente controllato, dove si differenziano in cellule muscolari, adipose e connettivali. La carne coltivata è quindi un prodotto di carne animale che non richiede l'uccisione di animali.
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In terzo luogo, la carne coltivata può essere personalizzata in base alle preferenze dei consumatori. La carne coltivata può essere prodotta con diversi tipi di carne, come manzo, pollo, maiale e pesce. Inoltre, la carne coltivata può essere prodotta con diversi livelli di grasso e proteine.
Tuttavia, la carne coltivata presenta anche alcuni potenziali svantaggi. Innanzitutto, è ancora in fase di sviluppo e il suo costo è attualmente molto elevato. In secondo luogo, la sicurezza della carne coltivata non è ancora stata completamente valutata.
Nonostante i suoi potenziali svantaggi, la carne coltivata è una tecnologia promettente che potrebbe avere un impatto significativo sul settore alimentare. La carne coltivata potrebbe aiutare a ridurre l'impatto ambientale dell'industria della carne e a migliorare il benessere degli animali.

Ecco alcuni dei vantaggi e degli svantaggi della carne coltivata:
Vantaggi:
    Più sostenibile dal punto di vista ambientale
    Più etica
    Può essere personalizzata
Svantaggi:
    Ancora in fase di sviluppo
    Costo elevato
    Sicurezza non ancora completamente valutata
Alcuni dei potenziali benefici della carne coltivata includono:
    Riduzione delle emissioni di gas serra
    Conservazione delle risorse naturali
    Miglioramento del benessere degli animali
    Maggiore accessibilità alla carne

Alcuni dei potenziali rischi della carne coltivata includono:
    Costo elevato
    Sicurezza alimentare
    Allergie
    Controversie etiche

La carne coltivata è una tecnologia emergente che sta suscitando un crescente interesse da parte dei consumatori, degli investitori e delle aziende. È ancora troppo presto per dire se la carne coltivata diventerà un'alternativa mainstream alla carne tradizionale, ma ha il potenziale di rivoluzionare il settore alimentare.

Da FB del 25 ottobre 2023.
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 27, 2023, 11:42:44 am »

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