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Autore Discussione: Maria Luisa Agnese - L’inferno della classe operaia  (Letto 2279 volte)
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« inserito:: Gennaio 19, 2008, 11:19:04 pm »

Le denunce Bettin: lavoratori che danno tutto

L’inferno della classe operaia


Il primo omaggio, meno ufficiale e più intimo, ai due morti di Porto Marghera, si è svolto a poche ore dall’incidente, e a due passi da lì. Nel cuore del quartiere simbolo della città della chimica. A Ca’ Emiliani, nella Chiesa del Gesù operaio di Nazareth, in piazzale del Lavoratore, alla confluenza di via del Lavoratore e di via Mutilati del lavoro. Lì, nel crocevia più simbolico della toponomastica del dopoguerra, ieri mattina poco dopo l’alba era riunito un popolo molto rappresentativo di una fetta di storia veneziana per dare l’ultimo saluto a Francesco Casucci detto Ciuke, fondatore di Pitura Freska, gruppo reggae in salsa veneta, destinato a rimanere nella piccola storia della canzone con il suo Marghera reggae: «Marghera sensa fabriche saria più sana/’na Jungla de panoce pomodori e marijuana».

E proprio lì, di fronte alla parete del grande mosaico anni Cinquanta che racconta la dignità del lavoro, molti hanno ricordato il discorso che papa Wojtyla, il papa guerriero e lavoratore, fece, improvvisando, nella sua visita dell’85 dicendo che «i lavoratori non si devono mai sentire soli». Di storie di solitudine e di senso di abbandono invece, parlano purtroppo ancora le morti sul lavoro che si succedono oggi, a anni di distanza, dopo il disastro della Thyssenkrupp, questo di Porto Marghera, con un ritmo dice il giudice e senatore Felice Casson che dall’inizio dell’anno, solo nel Veneto, è di uno ogni due giorni, se si escludono le feste. Qualche mese fa, a settembre, Casson, che è stato il magistrato che per primo ha raccolto le denunce degli operai di Porto Marghera, ha scritto un libro proprio sulla lunga storia dei crimini del Petrochimico, La fabbrica dei veleni, in cui ha denunciato, documentandolo, il patto di silenzio che sancisce l’accordo segreto fra le grandi multinazionali per nascondere i dati sulla nocività.

Dal libro l’attore e regista Sergio Castellitto vuole ora trarre un film, un po’ su modello di Erin Brockovich, dove Julia Roberts interpretava la grintosissima mamma che riusciva a incastrare una multinazionale della chimica. Anche Felice Casson racconta come in un thriller la storia di una resistenza che parte dal basso: «Ma non basta» dice. «Questa, mi si passi il termine crudo, rischia di essere una mattanza». La questione invisibile, quella che per lunghi anni si è fatto finta di non vedere o si è cinicamente liquidata alla voce «costo sociale», è invece sotto gli occhi di tutti, e non sono sufficienti la commozione ai funerali ufficiali, i pronunciamenti politici e le buone intenzioni aziendali. «Ci vogliono impegni, azioni, una mobilitazione capillare e reale, per affrontare la lotta all’insicurezza sul lavoro come se fosse la lotta all’evasione fiscale» dice Casson e annuncia che la prossima settimana si tratterà in Commissione giustizia del Senato un disegno di legge bipartisan che prevede l’irrigidimento delle sanzioni in materia di infortuni.

La classe operaia non va in soffitta, insomma, e neppure in paradiso, è qui fra noi e spesso vive nell’inferno. E pensare che spesso l’operaio o meglio il lavoratore contemporaneo ha una concezione del lavoro molto orgogliosa, puntigliosa, professionale, forse più dei suoi datori. In Cous cous, il film rivelazione di Venezia, l’operaio francese di origine algerina guarda sconsolato nel cantiere marsigliese il suo capomastro che lo considera un costo da abbattere e lo vuol sostituire con un immigrato di fresca generazione, più spiccio e meno caro, e ripete: «Ma io il mio lavoro lo faccio bene». E a voler scrivere davvero la storia di questo lavoro contemporaneo, oscuro ma non invisibile, che è fatto con la testa e con le mani, «bisogna parlare di professionalità molto faticosa, che implica conoscenza» secondo Gianfranco Bettin, intellettuale perfettamente bifronte, diviso fra la ricerca e la narrativa (ha scritto nell’89 un libro di riferimento al riguardo, Qualcosa che brucia, educazione sentimental- conflittuale fra Venezia e Porto Marghera), ma che non si nega l’impegno: è consigliere comunale a Venezia dopo essere stato a lungo prosindaco. «Sono persone molto implicate nel lavoro che fanno, spesso fino a dimenticare la loro sicurezza. E stride il fatto che mentre loro si impegnano con tutti se stessi, testa e corpo, il contesto non li sostenga». Anzi spesso si distragga, come è sicuramente successo a Marghera, dove resta da chiarire chi si è dimenticato di avvertirli del pericolo, nonché di riempire la bombola di ossigeno per le emergenze. E questo non solo è inaccettabile, ma preoccupante perché queste nuove professionalità spesso non sono residuali, ma, come nel caso della realtà portuale di Venezia, rappresentano il cuore dello sviluppo futuro.

Maria Luisa Agnese
19 gennaio 2008

da corriere.it
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