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Autore Discussione: Mondo Capovolto | la newsletter del Corriere della Sera  (Letto 1291 volte)
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« inserito:: Settembre 22, 2023, 12:41:44 am »

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Perché la Finlandia è il paese più felice al mondo, da anni
«Siamo un paese piccolo, con poca corruzione, e non passiamo mai col semaforo rosso», dicono.
Headshot of Matteo AlbaneseDi Matteo AlbanesePubblicato: 26/08/2023
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Il lago Saimaa
di Marie Claire IT

Esiste un proverbio finlandese, onnellisuus on se paikka puuttuvaisuuden ja yltäkylläisyyden välillä, «la felicità è uno spazio tra mancanza e abbondanza». In finlandese esistono due termini traducibili con “felicità”, onnellinen e iloinen, e la differenza è presto detta. Iloinen è una contentezza breve, quando sei felice di aver incontrato una persona che non vedevi da tempo, o comunque, per intenderci, ascrivibile a piccoli ambiti della quotidianità. C’è poi onnellinen, che è il termine del proverbio e indica invece un sentimento più profondo e globale di felicità, la gratitudine. Mica per caso, in finlandese, ilo vuol dire “gioia” mentre onni“ fortuna”. È qui la differenza tra una contentezza momentanea e un’atarassia prolungata. Se l’antropologo John L. Steckley fece notare come gli Inuit avessero cinquantadue termini con cui chiamare la neve, a seconda di forma e consistenza dei fiocchi, sembra quasi una contraddizione che in Finlandia – il paese che da sei anni consecutivi è in cima alle classifiche mondiali di felicità pro capite, davanti all’Islanda e alla Danimarca – esistano due sole varianti di felicità. Com’è possibile?
Qualche mese fa, il New York Times ha intervistato una dozzina di finlandesi, dai 13 agli 88 anni, un campione di ex atleti olimpici, immigrati, un violinista e un agricoltore in pensione, della capitale Helsinki, da Turku e da altre città del paese. Si sono mostrati scettici sulla misurazione della felicità – ok, ci sono benefici nel vivere circondati dalla natura, nel praticare sport, perdipiù il welfare dei paesi della Fennoscandia è democratico, un po’ liberista e un po’ socialista, con spese importanti in protezione sociale e programmi universalistico di assistenza sanitaria e istruzione – ma concordi su un punto: «Quando capisci cosa è realmente sufficiente per vivere, sei felice». È una specie di minimalismo, dei video che forse hai visto su YouTube di Matt D’Avella, che su Netflix ha peraltro girato il documentario con Joshua Fields Millburn e Ryan Nicodemus, in arte The Minimalists. C’è di più. La CNBC chiese il segreto della felicità a un filosofo finlandese, Frank Martela, dell’Università di Aalto (a Espoo, seconda città per abitanti del paese, sulla sponda settentrionale del Golfo di Finlandia), e lui ha risposto con un altro proverbio.
Questo contenuto è stato importato da youTube. Potrai trovare lo stesso contenuto in forma diversa o informazioni in più sul loro sito.
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Kell’onni on, se onnen kätkeköön, «chi è felice dovrebbe nasconderlo». È una massima del poeta Eino Leino e, se cerchi su Google, compare in due siti. Il primo è “The funny world of Finnish idioms”, sito di Cai-Göran Alexander Stubb, europarlamentare ed ex primo ministro finlandese dal giugno 2014 al maggio 2015. Si legge: «I finlandesi non sono i più sorridenti al mondo. A parte quando gli dici che la Svezia, in questa classifica, è quattro posizioni sotto». E poi c’è www.happinessinfinland.com, che in un post di qualche anno fa pone l’esempio del Bhutan, che misura la prosperità di un paese non attraverso il PIL, prodotto interno lordo, quanto il FIL, felicità interna lorda. È la media di nove fattori, dal benessere psicologico alla sanità, dall’istruzione alla vivacità culturale. Ma perché, dunque, chi è felice dovrebbe nasconderlo? Semplice: si crede che mostrando la felicità si rischi di perderla. Per questo, pare, a Helsinki non si parla dei vincitori della lotteria a meno che non abbiano dilapidato i propri soldi. Così i finlandesi odiano i paragoni, tendono a fidarsi dei connazionali e smarriscono appositamente i portafogli.
È successo davvero, nel 2022. Ogni anno, il Reader's Digest lascia cadere dodici portafogli contenenti 50$, alcune foto di famiglia e un biglietto con un numero di cellulare in sedici città del mondo. Quando li hanno volutamente abbandonati per Helsinki, undici su dodici sono stati restituiti chiamando il numero scritto nel bigliettino. «Siamo un paese piccolo, con poca corruzione, e non passiamo mai col semaforo rosso», commentavano gli intervistati. In un sondaggio del 2021 i finlandesi hanno descritto le fonti della loro felicità. Ci sono famiglia, salute, gli amici e l’amore, ma al primo posto (per l’87%) c’è la natura. Non c’è bisogno di praticare assiduamente il nordic walking, spiegano – basterebbe una passeggiata di un quarto d’ora al giorno – o esagerare con la sauna. Ce n’è quasi una per abitante (3,3 milioni di saune, 5,5 milioni di finlandesi). Il paese che conoscevi per la Nokia, o l’aeroporto di Helsinki, il più efficiente al mondo, è anche il paese di sisu e dei Mökki – i tipici cottage sui laghi –, di Vaasa e di Tampere, la città nordica più popolosa tra quelle prive di sbocco sul mare. Eppure, sono i più felici al mondo.

Headshot of Matteo Albanese
Matteo Albanese
Classe 1997, genovese e genoano (pure non in quest'ordine), ha studiato a Savona spaziando tra il giornalismo e la SEO. Ha scritto e scrive tra gli altri per La Gazzetta dello Sport, Rivista Undici, PianetaGenoa1893.net e Cronache di Spogliatoio. Nel 2018 ha pubblicato 'Narrami, o Dellas', un libro sulla Grecia vincitrice dell'Europeo di calcio 2004. Fin qui solo calcio, ma c'è altro: playlist di musica elettronica, biografie, una genuina ossessione per l'IKEA e le storie scandinave.   
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da - https://www.esquire.com/it/lifestyle/viaggi/a44787561/finlandia-paese-piu-felice-mondo/?utm_source=pocket-newtab-it-it

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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 26, 2023, 02:24:45 pm »

Gmail   ggiannig <ggianni41@gmail.com>
Duello argentino/ Sudan e Haiti, l'orrore dimenticato/Gli austriaci alla corte dei talebani
Mondo Capovolto del Corriere della Sera <rcs@news.rcsmediagroup.it>   26 ottobre 2023 alle ore 11:50
Rispondi a: Mondo Capovolto del Corriere della Sera <no-reply@rcs.it>
A: ggianni41@gmail.com

Mondo Capovolto | la newsletter del Corriere della Sera   

26 ottobre 2023
editorialista   di SARA GANDOLFI
Bentrovati e scusate il ritardo dovuto a ragioni tecniche,

è un numero quasi monografico sull’Argentina, notizia del momento dopo la (prima) sfida elettorale per eleggere il presidente. Ho trovato per l’occasione due frasi, scritte da due grandi scrittori argentini, che mi pare si adattino bene a questa fase storica del Paese. La prima, di Jorge Luis Borges: "Devi stare attento quando scegli i tuoi nemici perché finisci per assomigliare a loro". È un avvertimento che in realtà funziona per qualsiasi campagna elettorale, in qualsiasi parte del mondo, allorché le strategie di marketing e la capacità di cavalcare gli umori della popolazione (soprattutto quando una nazione è in crisi)diventano più importanti delle idee e dei programmi. La seconda è di Adolfo Bioy Casares: "La vita è una partita a scacchi e non sai mai con certezza se stai vincendo o perdendo".

A seguire i conflitti dimenticati del Sudan e di Haiti, raccontati rispettivamente dal cooperante di COOPI Diego Ragosa e dalla direttrice dell’Unicef, Catherine Russell, il Taccuino di Guido Olimpio e altre notizie che non trovate spesso sui giornali. Mondo Capovolto per la prima volta va in vacanza e il prossimo giovedì non arriverà nella vostra casella mail. Arrivederci al 9 novembre.

E buona lettura.

Colombia e Cina ora sono «best friends»

Xi Jinping e Gustavo Petro (foto Epa)
La Cina strappa un alleato agli Stati Uniti sullo scacchiere geopolitico. Ieri ha «elevato» le relazioni diplomatiche con la Colombia al rango di «partenariato strategico», intensificando la spinta per espandere la propria influenza in America Latina. I due Paesi hanno rafforzato le loro relazioni, stabilite per la prima volta nel 1980, in occasione della visita del presidente colombiano Gustavo Petro all’omologo Xi Jinping, a Pechino, questa settimana, la prima da quando ha assunto l’incarico lo scorso anno.

La Cina ora ha legami strategici con 10 degli 11 Paesi sudamericani con cui intrattiene relazioni. La Guyana è l’unica nazione della regione con cui ha legami bilaterali ordinari. Negli ultimi anni Pechino ha infatti intensificato l’offensiva diplomatica in Sud America, America Centrale e Caraibi, che da sempre è una regione di importanza strategica per gli Stati Uniti e dove, però, si trovano anche alcuni Paesi che non hanno relazioni diplomatiche con Pechino perché riconoscono invece Taiwan come Stato sovrano cinese. Fra questi, il Paraguay è l’ultima nazione sudamericana.

Negli ultimi anni, rileva l’agenzia Reuters, sono aumentate notevolmente le esportazioni dalla Colombia verso la Cina, che è diventata il secondo partner commerciale della nazione sudamericana dopo gli Stati Uniti. Nel 2022, l’export ha raggiunto i 7 miliardi di dollari, in aumento di quasi il 20% rispetto a cinque anni prima. La Colombia deve ancora aderire alla Belt and Road Initiative (BRI) di Xi, a differenza di molti dei suoi vicini dell’America Latina e dei Caraibi. Si prevede, però, che la China Harbour Engineering Company completerà entro il 2026 due linee della tanto attesa metropolitana di Bogotà, un progetto da 4 miliardi di dollari finanziato al 30% da banche cinesi.

      
di RODRIGO OROPEZA
Fotografo dell’agenzia Afp
Il presidente del messicano, Andres Manuel Lopez Obrador, guarda fuori dal finestrino del veicolo rimasto bloccato nel fango durante una visita nell’area di Acapulco, nello stato di Guerrero, dopo il passaggio dell’uragano Otis, il 25 ottobre. Le autorità messicane si sono affrettate a inviare aiuti di emergenza, ripristinare le comunicazioni e valutare i danni nella famosa località balneare sul Pacifico. L’uragano Otis è, secondo le prime stime, il più violento che abbia mai colpito Acapulco.

      
C’è Lula dietro il successo a sorpresa di Sergio Massa

(s.g.) C’è lo zampino del presidente brasiliano dietro la vittoria a sorpresa del candidato progressista Sergio Massa (36,7%) al primo turno delle elezioni presidenziali in Argentina. È stato infatti merito di alcuni dei più stretti collaboratori di Luiz Inácio Lula da Silva se il peronista è riuscito a rimontare lo svantaggio sul candidato dell’estrema destra Javier Milei, (fermo al 30%), conquistando i voti di moderati e giovani, fino al sorpasso inatteso. Rispetto alle primarie di agosto, Massa ha recuperato 3,2 milioni di voti contro i 700 mila in più di Milei, molto lontano dall’exploit preannunciato, mentre la candidata conservatrice Patricia Bullrich ne ha persi 400.000.

Il leader brasiliano ha messo a disposizione dell’argentino una ventina di persone, guidate da quell’Edinho Silva - ex sindaco di Araraquara e poi coordinatore della campagna di comunicazione di Lula — che firmò la vittoria alle urne del leader del Partito dei lavoratori nel feroce duello dello scorso anno contro l’ex presidente Jair Bolsonaro.

La campagna elettorale di Massa è cambiata drasticamente dopo le primarie, grazie a loro. Coadiuvato da Sidonio Palmeira e Raul Rabelo, Edinho Silva ha rivoluzionato gli spot video e le apparizioni pubbliche: stop alla demonizzazione del rivale di estrema destra e alle associazioni con la dittatura militari, via libera a slogan e comparsate sui social per attrarre i giovani. Così, nelle ultime settimane, Massa è apparso spesso in spazi non convenzionali per la politica come Gelatina, un sito di streaming che ha migliaia di riproduzioni quotidiane (che i media tradizionali non raggiungono).

Da notare che, sul fronte opposto, Milei e il suo stratega Fernando Cerimedo si sono circondati fin dall’inizio della campagna dai consulenti di Bolsonaro e del trumpista Steve Bannon per conquistare i giovani. A conferma che il marketing ormai la fa da padrone nella corsa elettorale, quanto e probabilmente più di qualsiasi proposta politica. A dar manforte al candidato di La Libertad Avanza alla fine è arrivato, via social e in presenza, anche Edoardo Bolsonaro, figlio ed erede politico di Jair.

In questo scenario da “internazionalizzazione” della campagna elettorale argentina, è intervenuto senza mai fare nomi anche Papa Francesco, che ha messo in guardia contro i falsi messia. «Il Messia è uno solo che ci ha salvato tutti. Gli altri sono tutti pagliacci del messianismo», ha detto Bergoglio in una intervista all’agenzia Télam (qui il video).

      
Bullrich: «Mai con i peronisti», ma i conservatori si spaccano

Patricia Bullrich
Mani nei capelli per scelte difficili. Patricia Bullrich, candidata della coalizione di centro-destra Juntos por el Cambio, la stessa che nel 2015 portò alla presidenza Mauricio Macrí, ha subito una secca sconfitta al primo turno elettorale (con il 24%), staccata di molti punti percentuali dai primi due candidati, Sergio Massa (36%) e Javier Milei (30%). A distanza di tre giorni, ha rotto gli indugi e, come previsto, ha dato il suo sostegno pubblico al candidato di estrema destra, invitando i suoi elettori a spostare i loro voti al ballottaggio sulla scheda di Milei. «Non possiamo essere neutrali di fronte al pericolo del kirchnerismo, rappresentato da Sergio Massa», ha dichiarato Bullrich in una conferenza stampa, aggiungendo che «quando la patria è in pericolo, tutto è permesso».

La candidata di «Insieme per il Cambiamento» ha confermato di aver incontrato Milei negli ultimi giorni, spiegando che si sono «perdonati» a vicenda per le accuse reciproche in campagna elettorale.

Ex ministro della Sicurezza all’epoca del governo Macrì, Bullrich non sembra, però, in grado di garantire la compattezza della sua coalizione. L’Unione Civica Radicale (Ucr) e la Coalizione Civica si sono subito dissociati. Particolarmente duro il leader di Ucr, Gerardo Morales: «Il Partito Radicale non accompagnerà nessuno dei due candidati», ha affermato, parlando di una «grave irresponsabilità»: «La decisione di Bullrich non rispecchia quello che pensano milioni di votanti. Io l’ho votata e non mi rappresenta, l’ho ascoltata e ho provato vergogna, si è posta fuori dalla coalizione». All’interno del suo stesso partito, molti avrebbero però votato Massa già al primo turno (leggi intervista seguente a Ricardo Alfonsín, figlio dell’ex presidente Raúl), e per questo domenica notte, una volta diffusi i risultati del voto, Milei ha accusato i radicali di essere dei «traditori».

      
L’INTERVISTA Ricardo Alfonsín: «In Argentina la democrazia è a rischio, serve un governo di unità»

Cartelloni elettorali con l’immagine del candidato “oficialista” Sergio Massa (foto di Luis Robayo/Afp)
(Sara Gandolfi) Subito dopo il voto, il candidato di estrema destra Javier Milei, che il 19 novembre si sfiderà al ballottaggio con il peronista Sergio Massa, si è scagliato contro i «traditori» della Unión Cívica Radical che, rompendo la linea del loro stesso partito, avrebbero in parte votato Massa e non la candidata conservatrice Patricia Bullrich, arrivata solo terza e quindi estromessa dalla corsa per le presidenziali. Era lo scenario auspicato da Ricardo Alfonsín, 71 anni, ambasciatore argentino in Spagna e figlio dell’ex presidente Raúl Alfonsín, che 40 anni fa traghettò l’Argentina alla democrazia. Oggi, dice, «il pericolo è Milei».

La democrazia argentina è davvero in pericolo?
«Dal 1983, non ho mai ascoltato discorsi tanto incompatibili con le condizioni civiche ed etiche indispensabili ad una democrazia. Mai ho vissuto tanta violenza verbale. Milei chiama gli avversari politici “ratti”, “parassiti”, “montagna di escrementi”. Dice che il Papa “è governato dal demonio”. Giustifica la dittatura militare, la repressione, il genocidio e il terrorismo di Stato. Come posso non essere preoccupato da ciò che quest’uomo rappresenta e da come potrebbero tradursi le sue idee se vincesse le elezioni?».

Come spiega il suo successo?

«Accade in tutto il mondo. La società si sta de-ideologizzando, è infastidita dalla politica, perché ha la sensazione di un arretramento. Possiamo fermare questo processo solo se individuiamo le cause che permettono l’ascesa di questi personaggi. Se la società ha una tale disaffezione rispetto alla politica e alle istituzioni è perché la gente vive una sensazione di regresso».

Se vincesse Milei, l’Argentina corre davvero il rischio democratico o sarà solo un altro Bolsonaro?

«La democrazia si danneggia in molti modi. Se vincesse Milei, come minimo, c’è il serio rischio che la democrazia si degradi. Le nostre sono società con una grande conflittualità sociale e le politiche economiche che vuole implementare questo signore creerebbe un conflitto ancora maggiore. Come l’affronterebbe, politicamente, Milei? ».

Il peronista Massa può batterlo?

« Sì, perché vuole un governo d’unità nazionale. Pur nella differenza ideologica, è necessario creare consenso per superare questa situazione socio-economica così difficile. Servono accordi fra la politica, l’economia e il settore del lavoro. È l’approccio che noi radicali abbiamo sempre difeso».

Qual è l’eredità di suo padre Raul Alfonsin?

«Mio padre era un uomo di dialogo. Se non c’è dialogo, c’è violenza diceva. Non è una questione di buona educazione, ma di capacità politica perché la politica è lo strumento per affrontare problemi complessi. La sua qualità si misura anche con la capacità dei suoi dirigenti di comprendere quali sono le questioni che necessitano accordi e quali no. Mio padre poi credeva nella democrazia sociale — qualcuno dice che è un’invenzione della sinistra, ma non è così —. La democrazia sociale riconosce che ogni membro della società deve vedere riconosciuti non soltanto i suoi diritti fondamentali ma anche il diritto per esercitarli e vederli soddisfatti».

Perché lei sostiene la candidatura di Massa?

«In una corsa elettorale si decide chi governa, tra chi pensa che la cosa migliore per l’economia di una nazione sia che lo Stato ne resti fuori e che possa “risolvere” tutto il mercato, e chi invece pensa che la politica deve intervenire nell’economia, nell’ambito della Costituzione e della legge ovviamente, perché dall’economia dipendono le condizioni di vita dell’intera popolazione. Questo è il tema di queste elezioni e per questo credo che alla fine vincerà l’”oficialismo” (il peronismo al governo, ndr), ossia il candidato che reclama l’impegno della politica per far sì che l’economia funzioni in maniera solidale».

Però Massa è ministro dell’Economia (foto sopra) e l’economia ora non va per nulla bene in Argentina...

«La situazione che l’oficialismo ha ereditato nel 2019 era molto difficile, lo provano gli indicatori economici e sociali dell’epoca, non lo dico io. Oltretutto il governo precedente (guidato dal liberista Mauricio Macri, ndr) aveva contratto un debito letteralmente inestinguibile, con quei termini di pagamento. Non solo. Poi è venuta la pandemia, nel 2020 il Prodotto interno lordo è crollato quasi di 10 punti. Anche la guerra in Ucraina ha colpito pesantemente la nostra economia. E, nell’ultimo anno, abbiamo sofferto la siccità peggiore della nostra storia, che ha provocato un danno di 20 miliardi di dollari all’economia argentina. Tutto questo ha complicato la nostra capacità di controllare l’inflazione, però l’economia è in crescita, così come il tasso di occupazione e gli investimenti, rispetto ai livelli pre-pandemia, quando governava Macri. E c’è un impegno forte per controllare l’inflazione, oltre alla convinzione della necessità, come dice il candidato presidente di Unión por la Patria, Sergio Massa, di formare un governo di unità nazionale per affrontare queste difficoltà».

Però Massa non era il candidato ufficiale dell’Unión Cívica Radical, cui lei appartiene...
«In realtà, la Unión Cívica Radical solo nominalmente fa parte di Juntos por el Cambio. Se si guarda all’essenza di un partito, ossia l’insieme delle sue idee e dei suoi valori, che si traducono in un programma, non è parte di quella coalizione. Le idee del partito erano assenti in questa campagna elettorale. Conosco la storia del mio partito, conosco i settori che vuole rappresentare. Per questo ho detto ai radicali che, al di là delle differenze che possiamo avere con la proposta politica di Massa, il programma dell’”oficialismo” è molto più vicino a noi di quanto non sia quello di Juntos por el cambio. E chi ha diretto il partito negli ultimi tempi sa bene che le cose stanno così».

E perché la dirigenza di UCR invece ha preferito stare al fianco di Bullrich?
«Oggi non esistono più partiti che possano contare con una proporzione numerosa di elettori fedeli come accadeva in passato. I partiti politici hanno seguito l’onda della società, si sono de-ideologizzati. Anche i programmi sono diventati irrilevanti. L’unica cosa importante è vincere le elezioni. Così ha fatto l’UCR. Io continuo ad essere un radicale ma il mio partito non è un reggimento e sono libero di pensare in modo differente dai dirigenti».

Lei è disponibile per un incarico di governo?
«Io sarei felice se si formasse un governo che permettesse di migliorare le condizioni di vita dei settori popolari. Da tempo io sono un militante di idee, anche se i partiti si sono convertiti in macchine elettorali. E se non troverò un partito con le mie idee lavorerò per crearlo».

      
Perché la dollarizzazione di Milei non salverà l’Argentina

editorialista   
di LUCA ANGELINI
Redazione Digital
Delle bizzarrie biografiche e teoriche di Javier Milei, l’economista anarco-capitalista che vorrebbe riformare l’Argentina a colpi di motosega, si è detto e scritto molto (qui il ritratto). Del fatto che l’Argentina avrebbe un gran bisogno di cambiare registro, anche. Come ha sintetizzato l’Economist, «un secolo fa, l’Argentina era uno dei Paesi più ricchi del mondo; oggi è sinonimo di crisi. L’economia è stata mal gestita sia sotto le amministrazioni di sinistra che di centrodestra, con un’inflazione annua pari al 138%, la terza più alta al mondo.

La percentuale di persone che non possono permettersi né un sacchetto di generi alimentari di base né un servizio essenziale come i trasporti o l’assistenza sanitaria è aumentata dal 26% del 2017 al 40% di oggi. L’Argentina deve al Fondo monetario internazionale la strabiliante somma di 44 miliardi di dollari – quasi un terzo dell’intero portafoglio prestiti del Fondo – ma la banca centrale del Paese non ha riserve in dollari per ripagare il prestito. La corruzione è dilagante, la fiducia nelle istituzioni è bassa e gli elettori sono esausti».

Tutto ciò premesso, e ricordato che l’esito del primo turno delle Presidenziali ha mostrato che una vittoria di Milei al ballottaggio contro il peronista Sergio Massa è ancora possibile ma tutt’altro che scontata, una domanda sorge spontanea: la «dollarizzazione» proposta dal campione del libertarismo, ossia la completa sostituzione del dollaro Usa al peso argentino (che «essendo emesso dai politici argentini vale meno di un escremento», Milei dixit, con annessa proposta di abolire la Banca centrale) potrebbe funzionare? L’Economist non nasconde lo scetticismo: «Gli economisti temono che la sua sbandierata politica di dollarizzazione comporti molti rischi, anche perché le riserve nette della banca centrale argentina sono in rosso per 5 miliardi di dollari e il Paese non può facilmente prendere in prestito dollari. La dollarizzazione significherebbe lo scambio di tutti i pesos in circolazione più quelli detenuti nelle banche, cosa che secondo le stime del team di Milei richiederà tra i 40 e i 90 miliardi di dollari (il Pil è di 630 miliardi di dollari). La politica potrebbe rappresentare una soluzione rapida all’inflazione, ma potrebbe non risolvere il problema di fondo dell’elevata spesa pubblica».

Ancora più tranchant era stato, sul New York Times, Peter Coy. È vero che la dollarizzazione potrebbe, in teoria, cancellare l’inflazione dalla sera alla mattina, visto che lo Stato non avrebbe più la possibilità di stampare moneta. Ma le controindicazioni sono da brividi: «Dollarizzare l’economia è come mettersi le manette e poi buttare via la chiave. È un atto di disperazione quando nient’altro funziona. E come la maggior parte degli atti disperati, presenta grossi inconvenienti. Passando al dollaro, l’Argentina adotterebbe di fatto la politica monetaria degli Stati Uniti, perdendo così la capacità di alzare o abbassare i tassi di interesse per adattarsi alle condizioni locali. Perderebbe il profitto noto come signoraggio che deriva dallo stampare moneta. E la dollarizzazione non risolverebbe i problemi strutturali che hanno causato un’elevata inflazione, come la spesa eccessiva del governo».

Per leggere il seguito di questo articolo pubblicato sulla Rassegna del Corriere, ...

      
Sudan, il conflitto senza fine, e la voglia di un sorriso

Diego Ragosa in Sudan
di DIEGO RAGOSA
Coordinatore emergenze Ciad Orientale di COOPI

15 Aprile 2023. Questa è la data in cui è scoppiato l’attuale, ennesimo, conflitto sudanese, con conseguenze umanitarie non solo per le popolazioni del Sudan, ma anche per i Paesi limitrofi. Pochi giorni dopo sarei dovuto ripartire per il Darfur settentrionale per coordinare le iniziative di COOPI nell’area ma, a causa dell’impossibilità di raggiungere il Paese, sono stato inviato dall’organizzazione umanitaria in Ciad, nella regione del Sila, nei campi nati nella crisi del 2003 dove ora è in corso un ingente arrivo di rifugiati.

Il 2 giugno sono arrivato ad AdeMour e l’impatto è stato molto forte. Delle oltre 20.000 persone raccolte in rifugi di fortuna, fatti di frasche e qualche telo, il 92% erano donne e bambini esposti al sole e alle intemperie, in condizioni igieniche inquietanti e difficile accesso all’acqua. Le persone erano spossate dalla fame e nei loro occhi vitrei si leggevano gli orrori vissuti: le case incendiate e saccheggiate, mariti e figli adolescenti uccisi davanti ai loro occhi, violenze, stupri, la fuga nel deserto con poche cose, giorni e giorni di cammino per riuscire a passare il confine e scappare dal Sudan. Il Ciad, tuttavia, per quelle persone non è un posto sicuro, poiché AdeMour si trova a pochi metri dalla frontiera, in una zona sensibile al potenziale sconfinamento di gruppi armati, oltre che alle alluvioni stagionali. Per questa ragione, il governo ciadiano e UNHCR hanno identificato un immenso spazio vuoto racchiuso da un Wuadi (fiume sabbioso che si riempie d’acqua nella stagione delle piogge), a circa 35 km dalla frontiera, vicino al villaggio di Zaboud, una zona senza né un pozzo, né linea telefonica, né scuole o centri sanitari nel raggio di chilometri, per la costruzione di un campo profughi.


Oggi, 25 ottobre, a Zaboud vivono già oltre 42.000 persone, ricollocate dalle zone di frontiera. Un campo è sorto dal nulla, con rifugi in legno e lamiera, latrine d’emergenza, due pozzi collegati a vari punti di distribuzione, tre centri sanitari e varie scuole provvisorie. In questo contesto, ho potuto lanciare la risposta all’emergenza di COOPI – Cooperazione Internazionale, a partire da ciò che già facciamo in Ciad: occuparci di una categoria particolarmente vulnerabile, quella dei minori. In poco più di 2 mesi, abbiamo costruito nel campo di Zaboud sei spazi “Amici dell’Infanzia”, vedi foto sopra, dove abbiamo accolto più di 7.000 bambini con attività ludico-ricreative e di supporto psicologico. Abbiamo identificato 15 famiglie d’accoglienza temporanea per bambini separati o abbandonati e messo a disposizione 850 kit igienici e quasi 2.000 kit dignità per giovani donne e adolescenti.


Nonostante i notevoli sforzi di tutti gli attori nella risposta umanitaria, l’emergenza non è ancora finita. Gli scontri in Sudan si sono intensificati anche nella regione del Sud Darfur e in questo stesso momento migliaia di persone sono in arrivo nella località di Tissi, nel Sila del sud, tra Sudan, Ciad e Centrafrica, zona che ora sono praticamente inaccessibili a causa delle piogge. Si tratta di una nuova urgenza dentro l’emergenza. Noi siamo riusciti a distribuire zanzariere, sapone, taniche e secchi a 750 famiglie, ma i bisogni sono in aumento e richiedono lo sforzo di tutti.

      
IL TACCUINO Ombre & Spie

Gli austriaci in visita dai talebani a Kabul
editorialista   
di GUIDO OLIMPIO
Dinamiche. Una piccola delegazione del partito di estrema destra austriaco FPO si è recata in visita a Kabul dove è stata accolta con tutti gli onori. Un viaggio per migliorare i rapporti e intercedere – già che c’erano - per un connazionale arrestato qualche mese fa in Afghanistan con l’accusa di spionaggio. La missione, però, ha suscitato la condanna del leader Herbert Kickl che ha parlato di iniziativa stupida.
Golpe a ripetizione in Africa, minacce vere o presunte, instabilità. Per questo il capo dello Stato della Guinea Bissau, Umaro Sissoco Embalo, ha deciso di nominare due alti ufficiali che dovranno garantire una maggiore protezione. Il generale Tomas Djassi guiderà la sicurezza presidenziale e il suo parigrado Horta Inta dovrà dirigere uno staff sempre legato al presidente. Nel febbraio di un anno fa c’era stato un tentativo di colpo di Stato dalle circostanze nebulose. Le autorità, peraltro, devono affrontare non pochi guai: a metà di settembre la compagnia turca che fornisce l’elettricità aveva deciso di sospendere l’erogazione per una bolletta milionaria mai pagata dallo Stato.
Non solo mercenari. Mosca ha condotto nei paesi nel Sahel – in particolare Mali e Burkina Faso – una massiccia campagna di disinformazione online, attività in appoggio all’ampliamento della sua presenza militare. Un messaggio martellante per convincere la platea che i russi sono più bravi degli occidentali nell’affrontare le emergenze che attanagliano questi paesi. Una manovra favorita senza dubbio dal ripiegamento della Francia. Le notizie dal campo, però, raccontano di come la pressione di ribelli e jihadisti sia sempre forte.
Guerriglieri curdi del PKK (nemici della Turchia) hanno abbandonato una postazione nella località montuosa di Makhmour, nord dell’Iraq, e l’hanno consegnata all’esercito regolare. Ma sulla scena sono comparsi i peshmerga (curdi iracheni) ed è nato un conflitto a fuoco durato con i soldati. Almeno due le vittime. L’area è a circa 60 chilometri da Erbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan.
      
Unicef: «Ad Haiti metà della popolazione (e 3 milioni di bimbi) ha bisogno di aiuto

Migranti haitiani guadano il fiume Tuquesa dopo aver attraversato il Darien Gap a Panama (foto di Amulfo Franco/Ap)
Decine di voli charter che si ritiene trasportino migranti in fuga da Haiti, colpita dalla crisi economica e da una violenza brutale, sono atterrati nelle ultime settimane in Nicaragua, in un’ondata migratoria senza precedenti verso gli Stati Uniti. «La crisi ad Haiti si acuisce giorno dopo giorno. Metà della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria, compresi circa 3 milioni di bambini», ha avvertito Catherine Russell, direttrice generale dell’Unicef in una riunione con il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. «I servizi di base sono sull’orlo del collasso. Anni di disordini politici e condizioni economiche devastanti hanno portato alla proliferazione di gruppi armati. È stato stimato che 2 milioni di persone, compresi 1,6 milioni di donne e bambini, vivono in aree sotto il loro concreto controllo».

La ferocia di questi gruppi, che hanno allargato il loro raggio d’azione anche fuori della capitale Port-au-Prince, è sconvolgente: « I bambini vengono feriti o uccisi in scontri a fuoco, alcuni persino mentre vanno a scuola. Altri vengono reclutati forzatamente o si stanno unendo ai gruppi armati per pura disperazione. Le comunità sono terrorizzate e le donne e le ragazze vengono prese di mira con livelli estremi di violenza di genere e sessuale».

Decine di migliaia di persone sono ora sfollate interne a causa dell’estrema violenza e i rapimenti sono continui, non soltanto nei confronti di persone agiate. «I gruppi armati hanno anche bloccato le principali vie di trasporto da Port-au-Prince al resto del Paese – dove risiede la maggior parte della popolazione – distruggendo i mezzi di sussistenza e limitando l’accesso ai servizi essenziali», aggiunge la direttrice dell’Unicef. « Circa un quarto dei bambini di Haiti è cronicamente malnutrito, con conseguenze devastanti per lo sviluppo fisico e cognitivo. La crisi di malnutrizione coincide con un’epidemia di colera in corso, in cui quasi la metà dei casi sospetti sono bambini sotto i 14 anni. E i bambini gravemente malnutriti hanno una probabilità cinque volte maggiore di morire di colera senza una terapia immediata».

      
Venezuela, una Lady di ferro contro Maduro

Maria Corina Machado alla conferenza stampa tenuta a Caracas il 24 ottobre (foto di Miguel Gutierrez)
Maria Corina Machado ha vinto come previsto le primarie dell’opposizione venezuelana. L’ex deputata, cui il governo ha precluso la partecipazione alle presidenziali del prossimo anno, ha invitato «tutti i settori e gli attori del Paese a lavorare per la costruzione» del percorso presidenziale.

Ingegnere industriale, in politica da oltre un ventennio, Maria Corina Machado si è laureata nel programma dei leader mondiali in politiche pubbliche presso l’Università di Yale, negli Stati Uniti. Nel 2010 è stata eletta deputata all’Assemblea nazionale per lo stato di Miranda, risultando la parlamentare con il maggior numero di voti. Nel maggio 2012 ha fondato Vente Venezuela, partito politico di destra il cui programma sostiene il libero mercato e le teorie economiche liberiste, più volte si è espressa a favore della privatizzazione totale o parziale della PDVSA, la compagnia petrolifera statale venezuelana. Nello stesso anno è arrivata solo terza alle primarie presidenziali dell’opposizione, vinte dal candidato moderato di Primero Justicia, Henrique Capriles.

In alleanza con Leopoldo López, fondatore del partito Voluntad Popular e Antonio Ledezma, di Alianza al Bravo Pueblo, nel febbraio 2014 ha lanciato un’ondata di proteste conosciuta come “The Exit”. In quelle manifestazioni persero la vita 43 persone, 486 rimasero ferite e 1.854 furono arrestate, secondo i dati ufficiali. Accusata di tradimento e poi di piani di omicidio, Machado è stata quindi destituita dalla carica di deputato. Un tribunale gli ha proibito di lasciare il Paese e ormai da 8 anni soffre di tale misura cautelare. Ha anche denunciato pubblicamente di avere difficoltà a spostarsi all’interno del Paese perché alcune compagnie aeree le hanno comunicato che non possono trasportarla. Ciò non le ha impedito di continuare a fare politica, anche con il sostegno degli Stati Uniti.

Divorziata e madre di tre figli, ha 56 anni. È stata interdetta dai pubblici uffici in Venezuela per 15 anni a causa di «errori e omissioni nelle sue dichiarazioni giurate di patrimonio». Lei ha reagito sostenendo che «una squalifica del regime è una sciocchezza, vale zero».

      
Alle Bahamas la prima casa a «impatto sottozero»

Sarà costruita alle Bahamas la prima casa a emissioni di carbonio negative. Progettata dal gruppo Partanna, che l’ha ribattezzata «Casa per il mondo», sarà il primo di mille edifici frutto di un accordo sottoscritto dal governo dello Stato-arcipelago alla Conferenza Onu sul clima dello scorso anno (Cop27). La casa rimuoverà attivamente ed eviterà l’immissione in atmosfera di 182,6 t di CO2, equivalenti alla CO2 assorbita annualmente da 5.200 alberi maturi. Una notevole innovazione, in termini di sostenibilità, se si pensa che una casa standard in cemento genera 70,2 t di CO2.

All’inaugurazione, il premier delle Bahamas Philip Davis ha detto con orgoglio: «In prima linea nel cambiamento climatico, noi delle Bahamas siamo sempre stati legati alla resilienza e all’innovazione. La prima casa di cemento a zero emissioni di carbonio al mondo, proprio qui a Nassau, dimostra che le risposte alle nostre crisi globali spesso provengono dalle persone più colpite... Sono immensamente orgoglioso che sia un imprenditore delle Bahamas a guidare questa rivoluzione, mostrando al mondo che quando diciamo che il tempo sta per scadere, intendiamo anche che è tempo di costruire di nuovo».

Non solo. Mentre il cemento tradizionale si indebolisce se esposto all’acqua di mare, il materiale di Partanna si rafforza al contatto grazie all’uso della salamoia, un sottoprodotto della desalinizzazione, un processo cruciale per l’approvvigionamento di acqua dolce nelle aree colpite dai cambiamenti climatici. I piccoli stati insulari in via di sviluppo, come le Bahamas, sopportano infatti il peso maggiore dei rischi meteorologici, climatici e legati all’acqua.

      
Il contrabbando di vesciche (valgono più della coca)
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(g.o.) Un carico di vesciche natatorie di totoaba, pesce in via d’estinzione presente nel Golfo di California. Sono state spedite dal Messico verso gli Stati Uniti da una gang di trafficanti: valgono tantissimo – più della coca - perché molto richieste in Cina dove le considerano una prelibatezza con benefici anche sulla salute. Nel contrabbando sono coinvolti network criminali messicani, complici negli Usa e compratori cinesi

      
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