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Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 107807 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Marzo 15, 2014, 07:41:49 am »

Massimo Riva

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Strapagateli, ma mandateli a casa
Per le mancate riconferme dei vertici delle grandi aziende pubbliche si dovrebbero spendere molti milioni.
Ma forse vale la pena sborsarli. Per favorire un vero ricambio. E per spezzare le cordate di potere

   
In tempi di bilanci magri non si dovrebbero consigliare al governo nuovi e maggiori esborsi. Ma ci sono candele per le quali vale sicuramente il gioco di non badare alla spesa. Ed è questo il caso specifico dei sorprendenti oneri collegati al ricambio dei vertici delle principali aziende a partecipazione statale (come Eni, Enel e Terna e non solo). Nella sua bella inchiesta, Luca Piana ha scoperto che alcuni tra i boiardi delle imprese più importanti hanno avuto l’accortezza di inserire nei rispettivi contratti clausole non poco onerose nell’ipotesi di mancata riconferma nell’incarico. Attenzione: per i capi di Eni ed Enel non si tratta di quanto loro spettante come indennità di fine rapporto dirigenziale, ma di una sorta di paracadute d’oro supplementare sganciato dalla valutazione dei risultati gestionali. Di una cifra, insomma, il cui fine ultimo parrebbe solo quello di agire come deterrente al ricambio.

Il costo complessivo dell’eventuale ricambio supera i 17 milioni (molti di più considerando i vertici delle altre aziende in attesa di nomine) e ricadrebbe ovviamente sui loro bilanci: quindi l’onere per lo Stato (azionista parziale) non dovrebbe superare una piccola manciata di milioni. Nulla in confronto al beneficio che si potrebbe ricavare dall’attuazione di un generale rinnovamento degli incarichi nel vasto mondo delle aziende partecipate o controllate dallo Stato. Anzi, proprio da un governo guidato da Matteo Renzi è lecito attendersi che paghi pure senza remore questo increscioso scotto contrattuale considerandolo come il miglior investimento che si possa fare in materia.

Certo, il numero delle poltrone che stanno per arrivare a scadenza nei prossimi due-tre mesi è davvero enorme: c’è chi ne ha censite addirittura quattrocento. Ma è del tutto evidente che i casi di grande rilievo sono quelli che riguardano le imprese di maggiori dimensioni oltre che quotate in Borsa: come, appunto, l’Eni, l’Enel, la Terna insieme a Finmeccanica e a Poste Spa, ormai prossima allo sbarco in Piazza Affari. Senza nulla togliere all’importanza delle altre centinaia di incarichi, infatti, è soprattutto in questo quintetto di aziende che si materializza il senso della presenza pubblica in economia e il ruolo dello Stato sul mercato.

Da più parti giungono pressioni sul neopresidente del Consiglio affinché proceda senza indugi a un ricambio radicale in forza dell’argomento che questo sarebbe il primo e vero banco di prova della sua capacità di rinnovamento rispetto al malcostume clientelare della vecchia politica in tema di nomine pubbliche. Insomma, Renzi faccia pulizia delle resistenze boiardesche e la sua immagine ne trarrà grande giovamento. Condivido ma, riguardo alla necessità della nomina di nuovi amministratori, vorrei soggiungere considerazioni meno legate a vantaggi soggettivi.

Paolo Scaroni (Eni), Fulvio Conti (Enel), Flavio Cattaneo (Terna), per esempio, guidano le rispettive imprese da ben tre mandati triennali. In questi nove e lunghi anni è inevitabile che all’interno delle aziende si siano consolidate cordate manageriali al servizio del capo il cui apporto critico risulta inversamente proporzionale allo spirito di autoconservazione. Succede in tutto il mondo, private o pubbliche che siano le imprese, perché mai non dovrebbe essere accaduto nei casi di specie?

Non solo: in questo lungo lasso di tempo Eni ed Enel hanno sottoscritto grossi contratti di fornitura internazionali ovvero hanno acquisito rilevanti partecipazioni. Iniziative talora assai discutibili: tanto che Eni sta cercando di rinegoziare gli impegni più onerosi ed Enel sta ridisegnando il perimetro delle sue presenze estere. Ha poco senso che a gestire gli errori siano lasciati coloro che li hanno commessi. Renzi dia pure loro una lauta mancia, ma li tolga di mezzo. Il ricambio farà anche bene alla sua immagine politica, ma soprattutto conviene al Paese.

11 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2014/03/05/news/strapagateli-ma-mandateli-a-casa-1.155959
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« Risposta #211 inserito:: Aprile 11, 2014, 11:24:49 pm »

Massimo Riva

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Coraggio, Renzi ancora un passo
La scelta di tagliare le tasse ai redditi più bassi non sarà da sola sufficiente a far ripartire la crescita, ma almeno va nella direzione giusta. Mentre perfino il Fondo monetario ora scopre i danni provocati dall’austerità
   
Diventa sempre più evidente come la forte disuguaglianza dei redditi agisca a detrimento della stabilità macroeconomica e della crescita». L’ennesima intemerata del Nobel Paul Krugman contro i cantori dell’austerità e dell’arricchimento selvaggio degli “happy few”? No - incredibile ma vero - parole così perentorie e taglienti sono scritte in uno degli ultimi documenti del Fondo monetario internazionale. Già, proprio di quell’istituzione che finora è stata il presidio principale delle strategie economiche fondate sul rigido controllo dei redditi e dei consumi delle classi medie e povere nella totale noncuranza verso il fenomeno speculare della concentrazione delle ricchezze in un numero sempre più piccolo di persone o gruppi finanziari.

Presto per dedurne che simili giudizi siano il segno di una conversione a U del Fondo rispetto alle ottuse visioni contabili del passato. Ma un così forte accento sul tema della “disuguaglianza” indica comunque che nel dibattito economico mondiale qualcosa sta cambiando. Si sta forse riscoprendo quanto scritto da Keynes nel secolo scorso e dal reverendo Malthus duecento anni fa. Ovvero che la concentrazione della ricchezza tende a produrre soltanto rischiose avventure finanziarie mentre l’impoverimento dei redditi da lavoro spegne i consumi diffusi così togliendo l’ossigeno indispensabile per la crescita economica. Insomma, che la lotta contro le disuguaglianze non è solo un problema di giustizia sociale ma anche di utilità economica generale.

In un’ottica italiana il richiamo a queste novità dello scenario internazionale serve a meglio valutare il merito delle mosse annunciate dal governo Renzi. In particolare per quanto riguarda due degli impegni dichiarati: 1) la defiscalizzazione nell’ordine di dieci miliardi complessivi a favore dei redditi fino a 25mila euro annui; 2) il taglio dell’Irap nella misura del 10 per cento finanziato attraverso un aumento del prelievo sulle rendite finanziarie dal 20 al 26 per cento. Fino a un minuto prima dell’annuncio ufficiale si è a lungo dibattuto se fosse più conveniente per i suoi effetti sul rilancio dell’economia concentrare la spinta dei provvedimenti sui costi delle imprese (Irap) ovvero sui redditi dei lavoratori.

È evidente che la scelta di Renzi fa proprie le preoccupazioni espresse (finalmente!) dal Fondo monetario. Soprattutto per un aspetto particolarmente critico della realtà italiana: quello di una continua caduta dei consumi che rischia di materializzare il minaccioso fantasma della deflazione. Può essere che dieci miliardi in più nelle buste paga non abbiano la forza di produrre quello shock risolutivo alla domanda interna che sarebbe auspicabile. Ma un punto è certo: lo stesso denaro concentrato su un maggior taglio dell’Irap a beneficio dei costi aziendali avrebbe avuto ben minore impatto di rianimazione sul sistema economico. Ne fa fede, del resto, la reazione della stessa Confindustria che ha limitato le sue proteste a quel che si può definire il minimo sindacale.

Quanto alla simmetria fra taglio dell’Irap e aumento del prelievo su dividendi e “capital gain”, anche in questo caso si tratta di un’operazione che sposta i benefici fiscali da investimenti meramente finanziari a impieghi più connessi all’economia reale. Quindi, di una manovra che tende a riequilibrare un’altra delle tante disuguaglianze presenti nel sistema favorendo stavolta la fascia più direttamente produttiva (anche di occupazione) dell’apparato industriale.

Allo stato, perciò, i veri dubbi che rimane lecito sollevare sugli annunci del premier Renzi sono quelli relativi alla compatibilità di una manovra per ora soltanto promessa con i limiti oggettivi di un bilancio pubblico tuttora fragile e sempre esposto ai venti capricciosi della congiuntura mondiale. Sulla direzione degli interventi, però, nulla da eccepire. In un paese, che ha perso più di metà dello scorso anno a dilaniarsi sull’Imu ovvero sui favori alla rendita immobiliare, si tratta di una svolta comunque salutare.

25 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2014/03/19/news/coraggio-renzi-ancora-un-passo-1.157757
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« Risposta #212 inserito:: Aprile 25, 2014, 06:32:40 pm »

Massimo Riva
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Sanzioni tedesche contro l'Europa
La severità della signora Merkel contro i paesi che non hanno i conti in ordine, ricorda quella degli alleati verso la Germania sconfitta nella Grande Guerra. Allora fu un errore catastrofico, oggi è ancora possibile evitarlo

Grande è la confusione nei cieli d’Europa ma la situazione - al contrario di quello che diceva il presidente Mao - appare tutt’altro che eccellente. Ci si avvicina, infatti, al rinnovo del parlamento di Strasburgo in un clima che (ahimè) fa ragionevolmente temere l’elezione di focosi manipoli di deputati decisi a sfasciare anche quel poco di autentica Unione che si è riusciti a mettere in piedi negli ultimi cinquant’anni. Lo schieramento dei contestatori è indubbiamente variopinto ma accomunato da rivendicazioni che hanno un po’ dappertutto l’identico sapore di una regressione collettiva verso la rozza difesa di interessi nazionalistici. Con sfumature che ricordano fin troppo da vicino la trista equazione fra Patria e Fascismo. Una tendenza più esplicita in Ungheria ma evidente, ancorché malamente dissimulata, nella Francia lepenista e nell’Italia leghista mentre nella Grecia depauperata assume addirittura connotazioni naziste.

Non c'è al fondo di questa marea montante alcuna visione della costruzione europea, ma essenzialmente una volontà agorafobica di ritorno al passato alimentata da un’inconfessata nostalgia dell’autarchia curtense. Come dimostra il fatto che molti fautori di un abbandono della moneta unica indicano in questo passo la necessaria premessa al ripristino dei dazi commerciali. Dinanzi alla sfida dei grandi spazi aperti dalla globalizzazione economica ci si richiude su se stessi nel maldestro tentativo di nascondere un diffuso sentimento di paura che è il chiaro riflesso di un’incapacità a pensare il futuro in termini di darwiniana sopravvivenza. Prospettiva esiziale per la sorte dell’Unione europea e soprattutto delle centinaia di milioni di cittadini del vecchio continente.

E, tuttavia, ciò che più allarma in questo scenario non sono tanto i pericoli insiti in un possibile successo elettorale delle predicazioni antieuropeiste quanto l’imbelle paralisi di azione politica ed economica da parte di chi - nelle istituzioni comunitarie e nei governi dei maggiori paesi - si dice anche preoccupato da simili minacce ma, appunto, nulla fa per contrastarle. E sì che non ci vorrebbe un raffinato cultore di storia europea per scoprire inquietanti precedenti con quanto accaduto nel vecchio continente meno di un secolo fa. All’indomani della prima guerra mondiale l’esplosione di movimenti nazionalistici altro non fu se non la conseguenza dell’ottusa arroganza con la quale i governi delle allora maggiori democrazie imposero ai vinti (ed anche a parte dei vincitori) il dazio di una propria supremazia economica che rendeva intollerabile la convivenza sociale all’interno dei paesi più deboli. Né il fascismo di Mussolini né poi il nazismo di Hitler furono figli di un destino cinico e baro.

In particolare, a decretare il fallimento dell’esperienza di Weimar e la veloce corsa verso la dittatura nazista furono le insostenibili condizioni di vita economica che i “grandi” di Versailles imposero al popolo tedesco. E oggi sembra di dover assistere a una sorta di nuova Versailles ma alla rovescia, nella quale le derive nazionalistiche - dalla Francia all’Italia, dalla Grecia all’Ungheria - raccolgono crescenti consensi principalmente a causa della politica d’austerità che, con la sua egemonia sulle istituzioni europee, la Germania sta imponendo a molti paesi dell’Unione.

Che alcuni di questi abbiano i conti in disordine è un dato di fatto, com’era nel secolo scorso innegabile che la Germania sconfitta dovesse pagare il fio della propria tracotanza imperiale. Ma è sempre la storia europea più recente a insegnare che la strategia delle sanzioni ottiene i suoi frutti migliori se sapientemente graduata nei tempi e nei modi: come è avvenuto nel secondo dopoguerra proprio nei confronti della neonata repubblica federale tedesca. Scelta lungimirante su cui allora pesò non poco la minaccia del blocco sovietico sui confini orientali. Dobbiamo forse augurarci un’invasione russa dell’Ucraina per scoprire che il modello Merkel con le sue sanzioni rischia di disfare l’Europa?

14 aprile 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2014/04/09/news/sanzioni-tedesche-contro-l-europa-1.160515
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« Risposta #213 inserito:: Maggio 12, 2014, 10:52:38 am »

Massimo Riva
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Se il cuneo fiscale diventa un alibi
In Germania e Francia tasse e contributi pesano più che da noi. Eppure i lavoratori guadagnano di più.
Perché il vero problema sta negli imprenditori italiani, che da decenni investono e innovano troppo poco


È convinzione radicata che il cosiddetto cuneo fiscale rappresenti uno dei maggiori ostacoli al proficuo dispiegarsi delle potenzialità economiche del sistema Italia. E, in effetti, un prelievo fiscale e contributivo sulle buste paga nell'ordine dei 47,8 punti percentuali (ultimi dati Ocse) segnala una notevole e indubbia esosità da parte dello Stato. Già i salari lordi dei lavoratori italiani sono mediamente più bassi di quelli dei loro omologhi dei principali paesi industrializzati. Se poi l’Erario ne requisisce poco meno della metà, non è poi tanto difficile spiegarsi la continua caduta dei consumi con gli esiti recessivi che sono da tempo sotto gli occhi di tutti.

Nulla perciò da obiettare se l’attuale governo ha deciso di affrontare la questione con un primo taglio della pressione fiscale con il cosiddetto decreto degli 80 euro sulle retribuzioni più basse. Anche perché la manovra comporta un’iniezione di liquidità per circa dieci miliardi su base annua che dovrebbe rianimare la domanda interna con conseguenti effetti di sostegno alla crescita. Tuttavia, i raffronti internazionali mostrano che dietro lo schermo del cuneo fiscale si nascondono nodi un po’ più complessi che non si può immaginare di sciogliere semplicemente con ulteriori sforbiciate alla tanto contestata avidità della mano pubblica.

A ben guardare i numeri della citata indagine dell’Ocse, infatti, l’ingordigia dello Stato italiano appare non poco ridimensionarsi dato che il nostro paese si colloca al sesto posto in Europa quanto a prelievi sulle buste paga. Tanto che il suo 47,8 per cento risulta superato perfino dalle altre due grandi economie manifatturiere della zona euro. I lavoratori francesi subiscono un salasso del 48,9 per cento e quelli della pur fiorente Germania addirittura del 49,3. Differenze che - ahinoi - non si riflettono comunque sul netto dei salari per la risaputa ragione che in entrambi quei paesi le retribuzioni sono di norma superiori alle nostre. A tal punto che anche i tagli testé decisi dal governo Renzi (e ancora non registrati nelle statistiche Ocse) non potranno certo modificare in termini significativi tale conclamata disparità.

Fuori dall'orizzonte ristretto degli interventi congiunturali, viene quindi da chiedersi se le polemiche domestiche contro il cuneo fiscale non stiano oscurando aspetti ben più incresciosi della scarsa competitività della nostra economia. Com’è possibile che le imprese tedesche possano permettersi di versare maggiori oneri all’Erario e insieme di garantire, sia al lordo sia al netto, buste paga più elevate? E il tutto, come non bastasse, realizzando continui primati nelle esportazioni pur operando con la nostra stessa moneta? Dato che la risposta a questi interrogativi non può essere trovata sul versante del costo del lavoro, è lampante che essa vada cercata guardando ad altri fattori: non soltanto agli impieghi di capitale, nel senso della quantità e qualità degli investimenti, ma anche alla connessa capacità imprenditoriale di innovare tanto i prodotti quanto i processi produttivi. Esempio fin troppo facile in proposito il diverso tragitto compiuto in questi anni dagli azionisti della Volkswagen rispetto a quelli della Fiat.

Insomma, non ci si può illudere di raccogliere chissà quali frutti di crescita solo limando le pur rapaci unghie del cuneo fiscale. La lezione dei dati Ocse illumina un’altra e ben peggiore devianza italiana. Il problema cruciale è piuttosto quello di far rispuntare gli artigli imprenditoriali a un sistema produttivo che, debilitato per decenni dalla droga delle svalutazioni competitive, sembra aver perso quel gusto dell’innovazione e dell’investimento che è il sale del capitalismo industriale. Come, purtroppo, testimonia anche la crescente fascinazione del mondo delle piccole e medie imprese - la fatidica ossatura del sistema Italia - per i tanti imbonitori che, predicando la fuoriuscita dall’euro, spacciano per terapia salvifica il colpo di grazia finale alle speranze di ripresa.
08 maggio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2014/04/29/news/se-il-cuneo-fiscale-diventa-un-alibi-1.163193
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