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Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 107891 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Dicembre 27, 2011, 07:04:33 pm »

L'incredibile regalo alle banche

di Massimo Riva

Duemila miliardi di prestiti. A un tasso dell'1 per cento. Una decisione senza precedenti per volume di denaro e per condizioni di favore. Servirebbe per rilanciare l'economia. Ma non è accompagnata da nessuna misura per imporre agli istituti regole che impediscano nuovi tentativi di speculazione come quelli che hanno causato la crisi

(21 dicembre 2011)

La crisi del mercato creditizio deve essere molto grave. Non si spiegherebbe altrimenti la qualità e la quantità dei provvedimenti messi in campo in tutta fretta dai governi nazionali oltre che dalle autorità europee. In Italia, col decreto d'emergenza, si è deciso di concedere la garanzia dello Stato sulle obbligazioni che gli istituti emetteranno nei prossimi mesi per rimpinguare le loro casse. Una scelta pesante perché lo Stato non potrà non registrare l'onere di simili fideiussioni sul grande libro del debito pubblico.

In Europa si è fatto ancora di più. La banca centrale di Francoforte, infatti, offre fino a 2 mila miliardi di prestiti agli istituti dell'eurozona al tasso ufficiale vigente dell'uno per cento per una durata che può arrivare a 36 mesi. Il tutto accettando in garanzia vuoi titoli dei debiti sovrani (anche quelli più a rischio) vuoi obbligazioni emesse dalle banche medesime vuoi crediti adeguatamente cartolarizzati. Una decisione senza precedenti per volume di denaro e per condizioni di favore. Perciò l'unica spiegazione è che Mario Draghi e i suoi colleghi considerino la situazione davvero molto critica.

La storia, del resto, insegna che le banche - quando siano in seria difficoltà - dispongono di un oggettivo ed enorme potere di ricatto sull'intera filiera delle istituzioni politiche ed economiche. Il fallimento di un istituto di credito non secondario, infatti, ha conseguenze sistemiche pesantissime. Lo si è visto nel corso della depressione degli Anni Trenta del Novecento. Lo si è appena rivisto con il "default" di Lehman Brothers. Correre ai ripari per scongiurare il ripetersi di simili tragedie è, dunque, un imperativo categorico sia per le banche centrali sia per le autorità politiche.

Ciò non toglie che soprattutto la decisione di Francoforte costituisca un regalo davvero straordinario per i banchieri. Il conto è presto fatto: si prendono soldi all'1 per cento per tre anni dalla Bce e si comprano titoli di Stato italiani al 6 con pari scadenza da offrire in garanzia del prestito. Morale: si guadagna il 5 per cento senza correre rischio alcuno. A queste condizioni tutti saprebbero fare il banchiere, anche lo zio di Bonanni.

Si dice, però, che regalando alle banche questi profitti sicuri non si vuole soltanto evitare fallimenti a catena ma anche rimettere in moto il circuito virtuoso dei prestiti per nuovi investimenti produttivi. Questo scrupolo a favore del mondo delle imprese suona pregevole in una fase nella quale il rilancio della crescita è diventato anch'esso un imperativo categorico. Ma chi e come è in grado di asseverare che i maggiori profitti assicurati alle banche si tradurranno in finanziamenti all'economia reale?

Il recente "tsunami" finanziario è stato in larga misura provocato dalla spregiudicatezza con la quale molti banchieri hanno impiegato le loro risorse in spericolati azzardi su titoli tossici di varia natura. Autorità politiche e monetarie avevano promesso riforme epocali del sistema creditizio di cui però non s'è saputo più nulla. Il rischio che la storia delle speculazioni avventurose si ripeta rimane perciò intatto. Va ricordato che anche negli Anni Trenta governi e banche centrali corsero al soccorso degli istituti in crisi, ma ridisegnando l'architettura del mercato con nuove e più stringenti regole. Perché oggi no? La parola a Mario Draghi.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lincredibile-regalo-alle-banche/2169072/18
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« Risposta #166 inserito:: Gennaio 06, 2012, 10:00:17 am »

Opinione

Lo stile Passera alla prova

di Massimo Riva

(28 dicembre 2011)

Corrado Passera Corrado PasseraIl ministro Corrado Passera ha deciso di gestire in prima persona il complesso contenzioso che divide italiani e francesi sulla sorte della Edison, il secondo gruppo energetico nazionale. Non è la prima volta, del resto, che il potere politico interviene con tutto il suo peso in una vicenda che si trascina da anni in un'insostenibile situazione di conflitti permanenti tra le parti. Se i francesi del gigante pubblico Edf hanno usato e abusato con prepotenza dell'appoggio del proprio governo, non è che gli italiani per parte loro abbiano scherzato.

Non si può dimenticare, infatti, che in un frangente critico Roma ha fatto perfino ricorso a un decreto di sterilizzazione dei diritti di voto dei francesi nell'assemblea di Edison. Una mossa in patente contrasto con i principi fondamentali del diritto comunitario. Stavolta, però, nell'iniziativa di Passera ci sono delle novità.

Raggiunto dapprima il non facile traguardo di unire il fronte degli azionisti italiani attorno a un'unica proposta da offrire ai francesi, il ministro ha deciso di essere lui stesso il primo negoziatore di un possibile accordo, trattando direttamente con gli uomini di vertice dell'Edf. A questo punto, quindi, il risultato della partita sarà un successo o un insuccesso di Passera. C'è un salto di qualità in questa scelta che denota anche un certo coraggio personale nell'affrontare le sfide più difficili, ma soprattutto fa emergere un'idea di gestione del potere politico decisamente più pragmatica e interventista. Più da banchiere che da ministro nel senso tradizionale. Probabilmente è proprio a questo fine che Mario Monti, sorprendendo un po' tutti compreso il presidente della Repubblica, ha voluto chiamare un banchiere alla guida del ministero dello Sviluppo economico concentrando nelle sue mani anche la guida dei dicasteri di Infrastrutture e Trasporti. Ora, tuttavia, si tratta di vedere come verrà declinato quello che si potrebbe chiamare "stile Passera" nell'ampia gamma di dossier che sono sul tappeto, al di là della specifica vicenda Edison. Sempre coi francesi, per esempio, è in sospeso un'altra questione di non poco peso come quella del loro ruolo nel futuro di Alitalia, dove Air France è presente con una partecipazione di minoranza e però cospicua.

Che la nostra compagnia di bandiera possa sopravvivere in solitaria autonomia è un miraggio a cui nessuno crede. Tanto più perché la crisi generale sta accrescendo le difficoltà del trasporto aereo un po' dappertutto e, per giunta, Alitalia sta per perdere quella riserva d'ossigeno privilegiata che le era stata impropriamente regalata con il monopolio del traffico sulla lucrosa rotta Milano-Roma. A suo tempo, proprio Passera è stato da banchiere il principale protagonista dell'operazione di salvataggio della compagnia attraverso la variopinta compagnia azionaria dei Colaninno & C. A breve il dossier finirà per tornare sulla sua scrivania, ma di ministro anziché di banchiere, in una sovrapposizione di ruoli, presente e passato, non propriamente limpida. Sarà questo il banco di prova decisivo sul quale misurare non solo l'efficacia ma anche la legittimità dello stile Passera.

     
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« Risposta #167 inserito:: Gennaio 07, 2012, 10:20:28 pm »

La polemica

Conflitti di interessi, che paura

di Massimo Riva

Quello italiano è un capitalismo chiuso, feudale, protetto da incroci di potere che niente hanno a che fare con la concorrenza. Ma finora il governo si è mostrato molto timido nell'affrontare la questione

(15 dicembre 2011)

Alla guida del governo c'è oggi un uomo come Mario Monti che ha saputo ingaggiare (e vincere) memorabili battaglie antimonopolistiche nella sua qualità di commissario europeo alla concorrenza. Al suo fianco, come sottosegretario alla presidenza, il nuovo premier ha voluto chiamare Antonio Catricalà, che si è trasferito a Palazzo Chigi dal vertice dell'Autorità Antitrust: una scelta che è subito apparsa come un chiaro messaggio di specifico impegno sul fronte della lotta contro i troppi abusi di posizione che caratterizzano la struttura del potere economico domestico. E, infatti, il primo frutto del lavoro di questa singolare accoppiata è subito maturato nell'articolo 36 del decreto cosiddetto Salva- Italia.

Dice testualmente la nuova norma: "E' vietato ai titolari di cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti".

A prima vista, la soddisfazione è davvero grande. Finalmente qualcuno che prende per le corna uno dei vizi più odiosi del capitalismo italiano: quello dei ben calibrati incroci di poltrone che consentono di aggirare i sani principi della concorrenza riducendo l'economia di mercato al vuoto simulacro di se stessa.

Non si fa fatica a riconoscere nella stesura di questo testo di legge anche la mano di Catricalà. Giusto un paio d'anni fa, un'indagine condotta dall'Antitrust sotto la sua presidenza aveva messo in luce in materia una realtà sconvolgente: spulciando i nomi dei membri dei consigli d'amministrazione delle società quotate in Borsa era emerso che in quasi il 90 per cento dei casi vi erano cumuli di incarichi in imprese fra loro concorrenti.

Mettere la parola fine a questo malcostume è opera meritoria. Quel che si capisce francamente meno è perché il divieto sia limitato ai mercati di credito, assicurazioni e finanza. Forse che l'intreccio delle poltrone è meno pericoloso per il dispiegarsi della concorrenza nel settore industriale? Si dura fatica a crederlo.

Un'altra e ben più seria questione riguarda, però, quella particolare struttura tardo-feudale del capitalismo italiano che sta a monte degli scambi di poltrone e ne costituisce spesso il fonte battesimale.

Secondo la già citata indagine dell'Antitrust sotto la gestione Catricalà, ben il 60 per cento delle società quotate in Borsa ha nel proprio capitale azionisti che sono al tempo stesso concorrenti. Va bene, anzi benissimo cominciare con il divieto dei cumuli di incarichi. Ma poiché quest'ultimo potrebbe anche essere aggirato con il ricorso a professionisti prezzolati alla bisogna, occorre fare un altro passo avanti per spezzare il cerchio di un potere economico che - come ha certificato, appunto, Catricalà - si fonda su una diffusione tenace e pervasiva del conflitto d'interessi. Ovvero sul più micidiale ostacolo alla realizzazione di un'economia di mercato aperta alla leale e libera concorrenza.

Certo, opera non facile né spedita quella di imporre per legge lo scioglimento degli abusi in materia di incroci azionari fra concorrenti. Ma questo è il prossimo passo che è lecito attendersi dall'uomo che da Bruxelles ha saputo sfidare in materia i titani dell'economia americana e perfino la Casa Bianca.


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« Risposta #168 inserito:: Gennaio 13, 2012, 05:05:27 pm »

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Opinioni

Fondazioni col fiato corto

di Massimo Riva

(04 gennaio 2012)

E' stata una fine d'anno amara per i cassettisti di Piazza degli Affari. Chi possedeva azioni all'inizio del 2011 registra mediamente una perdita di valore del 25 per cento. Ben peggio è andata per chi aveva e ha in portafoglio titoli delle banche: il settore del credito è quello che ha registrato le cadute più pronunciate, toccando in qualche caso minimi storici assoluti. Una situazione pesante che sta creando seri problemi a una particolare categoria di azionisti del credito: le Fondazioni di origine bancaria, per le quali anche il 2012 non si apre sotto i migliori auspici.
Alle viste, infatti, ci sono prospettive e scadenze davvero stringenti. Da un lato, c'è poco da sperare che, con gli attuali chiari di luna, le banche possano distribuire i lauti dividendi del passato. Dall'altro lato, è sul tappeto per molti e importanti istituti di credito la necessità di mandare in porto congrui aumenti di capitale per adeguarsi alle regole stabilite a livello europeo.

Sul piano formale gli amministratori delle fondazioni possono far finta di non registrare nei rispettivi bilanci le disfatte patrimoniali subite in Borsa. Un decreto reiterato nel luglio scorso consente loro di non svalutare le partecipazioni azionarie detenute qualora ritengano transitoria la perdita di valore intervenuta. E' sul piano sostanziale che la questione non appare aggirabile e pone questi enti dinanzi a un non facile dilemma.
In pratica: o le fondazioni sottoscrivono gli aumenti di capitale delle banche partecipate oppure decidono di diluire la loro presenza nel capitale delle medesime, lasciando spazio (e potere) ad altri azionisti. Nel recente passato la scelta prevalente è stata la prima. Talora con qualche decisione azzardata come quella, per esempio, della fondazione di Siena che, pur di non rinunciare al pieno controllo del Monti dei Paschi, ha raccolto a debito il denaro necessario per ricapitalizzare pro quota la banca. Un genere di soluzione che nell'attuale condizione dei mercati finanziari non appare ripetibile, anzi.

Dai movimenti in corso si arguisce che almeno le fondazioni azioniste di alcuni fra i maggiori istituti (Unicredit, Intesa Sanpaolo, Monte Paschi) sarebbero sì orientate a sottoscrivere le loro quote di nuovo capitale ma operando qualche più o meno significativa limatura delle rispettive partecipazioni. Una scelta di compromesso che viene incontro alle autorevoli sollecitazioni della stessa Banca d'Italia dietro le quali traspare un preciso timore coltivato in Via Nazionale. Quello che una ritirata azionaria delle fondazioni possa rendere inevitabile l'ingresso nelle maggiori banche del paese di altri capitali: oggi realisticamente più esteri che italiani, con il conseguente rischio di vedere trasmigrare oltre i confini il controllo di alcuni istituti primari.

Non si tratta di una preoccupazione fuori luogo: le banche costituiscono il sistema arterioso del corpo economico nazionale e, in effetti, l'ipotesi che il flusso del sangue creditizio possa essere manipolato dall'esterno risulta strategicamente temibile. Resta da chiedersi quanto possa mostrarsi solida nel tempo la strategia di caricare una così impegnativa funzione "patriottica" sulle spalle di enti dall'avvenire economico incerto, dalla struttura a metà autoreferenziale e, per l'altra metà, esposta a infiltrazioni di bassa cucina politica locale.

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« Risposta #169 inserito:: Gennaio 19, 2012, 05:02:38 pm »

Opinione

L'euro è come un calabrone

di Massimo Riva

(12 gennaio 2012)

Negli anni l'euro ha registrato verso il dollaro oscillazioni molto vistose: da un minimo storico a livello 0,82 a un picco massimo attorno a quota 1,50. Nell'un caso come nell'altro i profeti di sventura sul destino della moneta europea hanno sfoderato una quantità di argomenti, talora anche contraddittori, per giungere comunque a un'univoca conclusione: l'euro non può avere lunga vita.

Nelle fasi di caduta della moneta europea si spiegava che un valore così basso nei confronti della valuta americana poteva anche avvantaggiare le esportazioni dei paesi del vecchio continente, ma mai e poi mai avrebbe consentito all'euro di imporsi come mezzo di pagamento negli scambi internazionali. Nei momenti di rivalutazione i termini del ragionamento venivano prontamente aggiornati ma sempre a sostegno della tesi liquidatoria: un euro troppo forte avrebbe schiantato le esportazioni dei beni "made in Europe" e le economie sottostanti rendendo perciò insostenibile il progetto di una moneta unica per l'area commercialmente più ricca del mondo.

Ma come il calabrone a dispetto delle leggi dell'aerodinamica, così anche l'euro ha continuato a volare all'insù e all'ingiù facendo pi? bene che male ai retrostanti sistemi economici. In particolare, ha offerto ai suoi sottoscrittori il beneficio di una stabilit? monetaria intraeuropea facendo uscire buona parte del vecchio continente da quella pratica delle svalutazioni competitive che alla lunga avrebbe finito per minare alle radici ogni progetto di reale integrazione europea.

Altro importante vantaggio offerto dall'euro è stato quello di garantire bassi tassi d'interesse a tutti i soci, anche ai paesi meno meritevoli di affidabilit? finanziaria. Ed ? su questo terreno che è scattata la trappola micidiale: anzich? cogliere simile opportunit? per rimettere ordine nei rispettivi bilanci, alcuni governi nazionali - quelli berlusconiani in Italia, per esempio - hanno lasciato crescere il proprio debito pubblico senza freni fidando appunto nel suo minore costo di finanziamento. Una cuccagna che non poteva durare e che ora mette a nudo i veri punti deboli della moneta unica, di natura più politica che economica.

Essi riguardano, infatti, non l'architettura della moneta unica - che rappresenta tuttora un presidio irrinunciabile per gli interessi economici dei paesi associati - ma l'incompiutezza della costruzione politico-istituzionale di sostegno. Su due fronti, in particolare. Primo, quello di una banca centrale privata del regolare potere principesco di stampare moneta. Secondo, quello di un'autorità politica comunitaria in grado di amalgamare e far convergere le strategie fiscali dei singoli stati.

Sotto questo profilo quanto sta accadendo sembra poter dare ragione oggi ai più intransigenti scettici sulla sorte dell'euro: quelli secondo cui l'errore capitale consisterebbe nell'aver perseguito l'unione europea partendo dalla moneta anziché dall'integrazione politica dei poteri statali. Tesi seducente, se non fosse che i contrasti fra governi deflagrati con la crisi in atto indicano che oggi quella di una maggiore cooperazione politica più che la via d'uscita è il vero problema. Alla cui soluzione, paradossalmente, può dare lo sprone decisivo proprio l'esistenza dell'euro-calabrone a causa dei costi enormi che la sua caduta comporterebbe per tutti.

 
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« Risposta #170 inserito:: Gennaio 28, 2012, 12:05:08 am »

Ma in Borsa i potenti ridono

di Massimo Riva

Speculazioni sui titoli bancari. Salvataggi a spese altrui delle famiglie di notabili.

Mentre Marchionne se ne infischia della Consob.

Altro che trasparenza dei mercati: viene da pensare che invece ci sia connivenza con i grandi manovratori

(19 gennaio 2012)

Ma la Consob da che parte sta? Quella da cui dovrebbe stare è perfino ovvio: dalla parte del mercato ovvero di quell'articolata schiera di soggetti che lo compongono offrendo loro pronta e occhiuta difesa dai tanti manigoldi o anche soltanto prevaricatori che animano le cronache di Borsa. Purtroppo, la nostra autorità di vigilanza sui commerci azionari non vanta in materia ottime credenziali. Il tacito ossequio alle manovre dei potenti di turno è stata la prevalente regola di comportamento, il più delle volte a spese di quella moltitudine di azionisti minori la cui presenza è però essenziale per definire mercato quello che si svolge a Piazza degli Affari.

La gestione Consob di Giuseppe Vegas ha avuto di recente qualche lampo che ha fatto sperare in un mutamento di rotta rispetto a un simile passato. Per esempio, quando ha fatto partire per Torino una secca richiesta di chiarimenti su quel fantomatico piano "Fabbrica Italia" di cui Sergio Marchionne parlava e straparlava in continuazione ma sempre ben guardandosi dal precisarne tempi e contenuti. Vista la disordinata altalena del titolo Fiat in Borsa, anche in conseguenza degli annunci declamati dal suo amministratore delegato, l'iniziativa della Consob risultava non solo pertinente ma anche opportunamente orientata a rendere meno opaca la sollecitazione al pubblico risparmio implicita nella quotazione dei titoli della casa torinese.

La mossa non ha avuto esito felice perché ha raccolto una risposta sprezzante e infastidita da parte di Marchionne con un implicito invito alla Consob a non impicciarsi di simili questioni. Anziché insistere, come avrebbero dovuto, Vegas e colleghi si sono ritirati in buon ordine. E da quel momento sono caduti in una sorta di afasia almeno in pubblico. E sì che da allora in Borsa se ne sono viste davvero di tutti i colori. I titoli del comparto bancario, per esempio, sono stati e sono tuttora al centro di massicce compravendite che in alcuni casi - segnatamente quello di Unicredit - hanno sollevato fieri dubbi su manovre pilotate in forme del tutto prive di minima trasparenza.

E non basta: a tutt'oggi la nebbia più fitta grava sulla sorte riservata alla massa degli azionisti minori da quei protagonisti bancari e assicurativi che si stanno disputando le spoglie di quello che un tempo era chiamato l'impero Ligresti. Di chiaro c'è soltanto che la famiglia dell'imprenditore siciliano riuscirà comunque a salvarsi con una ricca buonuscita, mentre nulla si sa su quel che potranno ricavare tutti gli altri e più deboli soggetti coinvolti.

Certo, è del tutto improbabile che alla Consob si stia assistendo a queste ed altre vicende a braccia conserte. Anzi si può star certi che Vegas e i suoi uomini seguono gli sviluppi di questi affari monitorando le mosse dei protagonisti e sollecitando da loro opportune informazioni. Ma è proprio da questo che nasce l'interrogativo su da che parte stia la Consob. Il principio essenziale della trasparenza del mercato non può esaurirsi all'interno di un rapporto riservato fra attori degli affari e autorità di vigilanza. Tocca a quest'ultima renderlo effettivo rendendo tempestivamente partecipe il mercato dei risultati delle sue iniziative di controllo. Altrimenti i suoi silenzi non potranno che legittimare l'antico dubbio di un'inconfessabile connivenza con i grandi manovratori.

 
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« Risposta #171 inserito:: Gennaio 31, 2012, 11:36:16 pm »

Economia

Sì, in banca serve una legge

di Massimo Riva

Non si tratta di 'far piangere' i finanzieri.

Ma di impedire che agli sportelli raccolgano gli spiccioli dei risparmiatori e al trentesimo piano li dirottino in speculazioni e titoli tossici.

Che poi sono quelli che hanno innescato la crisi

(31 gennaio 2012)

Ha lasciato l'amaro in bocca a molti il trattamento riservato alle banche nel decreto sulle liberalizzazioni. Sì, qualcosa c'è come, per esempio, il limite ai costi del bancomat ovvero l'obbligo a prevedere conti correnti con spese all'osso. Ma si voleva molto di più. Soprattutto dalla sinistra dello schieramento politico oltre che dal versante leghista sono partite bordate contro il governo Monti accusato di essere succube strumento del potere bancario. Che esista un diffuso malumore in materia è comprensibile alla luce dei guasti che si sono verificati nel mondo bancario e dei loro pesanti riflessi sull'intera economia: senza lo tsunami finanziario innescato dalle allegre speculazioni di molti banchieri strapagati probabilmente non sarebbe esplosa neppure la grande crisi dei debiti sovrani.

Ma lascia parecchio sconcertati l'idea che il decreto sulle liberalizzazioni dovesse essere l'occasione per procedere a chissà quali sanzioni (pecuniarie?) nei confronti dello strapotere bancario. Una simile impostazione del problema rivela l'incredibile miseria di visione concettuale da parte di quei politici che tuonano contro le banche e però non sanno andare aldilà di richieste dall'imbelle sapore punitivo. Già è stato penoso, i mesi scorsi, assistere a una destra che pensava di rianimare il mercato del credito con la mobilitazione dei prefetti, ora non lo è di meno lo spettacolo di una sinistra che contesta con rivendicazioni riassumibili nello slogan: anche i banchieri piangano.

Innanzi tutto va chiarito che i problemi posti dalla crisi finanziaria in atto riguardano solo in parte esigenze di liberalizzazione nel senso di promuovere una maggiore ed effettiva concorrenza nel sistema bancario: compito che l'Antitrust potrebbe già svolgere oggi senza novità legislative. Il nodo cruciale è piuttosto quello di modificare dalle radici l'ordinamento del sistema e non tanto con più regole quanto attraverso una disciplina della funzione creditizia nuova o, per meglio dire, ispirata ai vecchi criteri che nel Novecento hanno consentito un po' dappertutto di far svolgere alle banche il loro compito senza strappi né tragedie.

Si tratta - ecco il punto cui dovrebbero guardare forze politiche degne di questo nome - di ripensare a quanto accaduto durante la grave crisi degli Anni Trenta, quando dall'America di Roosevelt all'Italia di Mussolini si trovò il coraggio di riformare il mercato bancario stabilendo una ferrea distinzione fra esercizio del credito ordinario e speciale. Occorre, insomma, destrutturare quegli enormi falansteri che si nascondono dietro la soave definizione di banca universale, dove al pianterreno si raccolgono gli spiccioli dei depositanti e al trentesimo piano li si dirotta in speculazioni su derivati e titoli tossici di vario azzardo.

In buona sostanza si tratta di cancellare gli effetti di quella deregolamentazione che dagli anni Ottanta in poi ha fatto cadere il sistema di quei muri antincendio - sia fra banche e assicurazioni sia fra le diverse qualità di credito - che per mezzo secolo hanno scongiurato crisi ingovernabili. Vere e profonde riforme, dunque, e non comodi slogan di piazza: ecco il terreno sul quale si vorrebbe vedere all'opera soprattutto una sinistra che ama, appunto, chiamarsi riformista. Ecco qualcosa di serio da reclamare dal governo Monti.


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« Risposta #172 inserito:: Febbraio 17, 2012, 05:05:20 pm »

Opinione

Monti succube di Confindustria

di Massimo Riva

Per provare a uscire dalla recessione c'erano due strade. Una era quella aumentare il potere d'acquisto dei lavoratori per rilanciare i consumi. L'altra, quella di attirare gli investimenti riducendo le tutele ai dipendenti. Il governo ha scelto la seconda. Mostrando di essere più liberista che liberale

(14 febbraio 2012)

Un grande maestro della dottrina economica, Adam Smith, diceva che quando l'offerta di lavoro è alta altrettanto forte è il potere delle organizzazioni sindacali. Il rovescio della medaglia è che se aumenta l'esercito di riserva della manodopera diventano più deboli peso e ruolo delle rappresentanze dei lavoratori. Non si può capire fino in fondo il senso dello scontro in atto oggi sul fatidico articolo 18 (licenziamenti immotivati o discriminatori) se non lo si legge anche come effetto del mutato rapporto di forze tra offerta e domanda di lavoro.

Anche qualche anno fa Confindustria era all'attacco su questa norma con il compiaciuto sostegno del governo Berlusconi. Ma i 3 milioni di manifestanti raccolti in piazza da Sergio Cofferati e una congiuntura economica meno pesante dell'attuale avevano consigliato una rapida ritirata. Ora il clima economico e sociale è molto cambiato (l'emorragia di posti di lavoro si somma alla precarietà di molti impieghi) e la richiesta di manomettere le garanzie previste dall'articolo 18 è tornata di prepotente attualità. I datori di lavoro intendono sfruttare la serrata degli investimenti per trasformarla in un loro punto di forza in un braccio di ferro che non riguardo solo la quantità dei salari ma anche i diritti dei lavoratori.

Quella lotta di classe - che molti (chissà poi perché?) consideravano morta e sepolta dopo la caduta del muro di Berlino - torna così ad affacciarsi in campo aperto. In termini anche piuttosto acuti in un paese che, negli ultimi anni, ha visto crescere al suo interno le disuguaglianze economiche al punto da far diventare l'impoverimento del potere d'acquisto dei lavoratori forse la principale causa interna della caduta dei consumi e perciò degli investimenti con effetti recessivi sulla crescita del prodotto interno lordo.

In simile frangente ci si poteva aspettare che un governo composto da rinomati studiosi di cose economiche intervenisse nello squilibrato rapporto fra domanda e offerta di lavoro in senso anticiclico. Ovvero non favorendo ulteriormente il prepotere della seconda contro la prima. Così, però, non sta accadendo perché il governo Monti subendo di fatto l'offensiva confindustriale contro l'articolo 18 si mostra orientato a compiere una scelta di campo senz'altro più liberista che liberale. Non va dimenticato, infatti, che la norma in discussione dispone garanzie giurisdizionali per il cittadino che venga allontanato dal lavoro senza giustificato motivo o, peggio ancora, per discriminazione magari politica o sindacale. Trattasi, dunque, di tutela di un diritto che fa tutt'uno con l'impianto di una classica democrazia liberale.

Quando il presidente del Consiglio spiega che l'attuale articolo 18 ostacola la crescita fa un'affermazione grave di incompatibilità fra economia e diritti. Perché è come se dicesse che o si concedono alle imprese mani libere sui licenziamenti oppure non ci saranno né investimenti né nuove assunzioni: giudizio davvero pesante sulla natura da padroni delle ferriere dei sedicenti moderni imprenditori italiani. Che il modello Marchionne abbia dilagato da Pomigliano a Mirafiori negli stabilimenti Fiat è ormai un dato di fatto dal quale, per altro, non sono scaturiti chissà quali investimenti. Suscita perciò non pochi interrogativi che esso possa diventare una bussola anche per Palazzo Chigi.

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« Risposta #173 inserito:: Febbraio 21, 2012, 12:22:54 pm »

La denuncia

L'Alitalia è ancora una farsa

di Massimo Riva

Tre anni e mezzo dopo il 'salvataggio' (costato tre miliardi ai contribuenti) la compagnia è sempre in rosso, il suo amministratore delegato se la dà a gambe levate, la concorrenza sul Milano-Roma resta impedita per legge e Passera fa orecchie da mercante

(16 febbraio 2012)

Dopo aver trascorso tre anni e mezzo di vana rincorsa all'utile, Rocco Sabelli lascia la guida di Alitalia senza aver raggiunto nemmeno il pareggio di bilancio. Ovvero quello che era stato promesso come obiettivo minimo dalla variopinta compagnia di "salvatori della Patria" arruolata da Roberto Colaninno per compiacere l'ingannevole patriottismo aeronautico di Silvio Berlusconi. Come considerare questa uscita di Sabelli? Si tratta di una fuga dai guai oppure di un atto conseguente all'insuccesso della sua gestione? Purtroppo, tutto fa propendere per la prima ipotesi. Il salvataggio berlusconiano di Alitalia è nato come una trovata propagandistica priva di qualunque seria prospettiva economica e il tempo galantuomo ne sta già dimostrando la misera consistenza di cartapesta.

E' grottesco perciò che Sabelli voglia dipingersi un'aureola attorno al capo definendo "massacranti" i lunghi mesi da lui trascorsi al vertice di Alitalia. Eh no! In questa storia di autentici massacrati ci sono soltanto i contribuenti che, per consentire al duo Berlusconi-Colaninno insieme alla banca Intesa Sanpaolo allora di Corrado Passera di fare questo scombinato esperimento, si sono dovuti caricare sulle spalle un fardello di circa 3 miliardi di oneri vari. Un bidone davvero inconcepibile dato che, ancora a primavera 2008, Air France era pronta a caricarsi tutti i pesi di Alitalia e perfino a versare un bel miliardo tondo al Tesoro.

Ma un altro, non meno grave, massacro è quello che i sedicenti patrioti di Alitalia hanno compiuto in tema di regole. Per facilitare il decollo della nuova impresa tricolore, infatti, il governo Berlusconi con legge specifica ha legato per tre anni le mani all'Antitrust al fine di garantire alla nuova compagnia il monopolio dei voli sulla rotta Fiumicino-Linate, che è la più remunerativa dell'intera rete. Pessimo ma inutile espediente perché neppure questa posizione di rendita (a tutto scapito dei viaggiatori) è stata evidentemente in grado di portare in utile il bilancio. Figuriamoci, quindi, che cosa potrà accadere d'ora in poi dato che i termini temporali del privilegio sono scaduti.

In un paese normale, oggi per giunta guidato da un governo liberalizzatore, ci si dovrebbe aspettare che il monopolio aereo Milano-Roma sia dichiarato morto e sepolto senza indugi. Ma così non pare che si voglia fare. L'Antitrust ha preso tempo accampando la ridicola scusa di dover fare un'indagine per verificare se sulla lucrosa rotta ci sia effettivamente un monopolio di Alitalia.

Mentre il ministro Passera - già mentore bancario del funesto progetto patriottico - ha cominciato con l'obiettare che la concorrenza sulla fatidica tratta sarebbe oggi garantita dalla presenza dei treni ad alta velocità. Una sortita grottesca - la vera concorrenza, signor ministro, si misura sulle pari opportunità del medesimo servizio di trasporto sugli stessi terminali - che fa temere un accanimento terapeutico su Alitalia il cui scopo altro non potrebbe essere se non quello di rinviare la resa dei conti con l'errore commesso fin dal principio.

A un presidente del Consiglio, che ha giustamente meritato fama e onori in Europa per le sue indomite battaglie antimonopolistiche perfino contro i colossi d'oltre Atlantico, è lecito chiedere che ponga subito fine a una farsa che contribuenti e viaggiatori sono stufi di finanziare.

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« Risposta #174 inserito:: Marzo 07, 2012, 05:11:26 pm »

Quanti errori, mr Marchionne

di Massimo Riva

Prima della crisi, Volkswagen e Fiat stavano più o meno nelle stesse condizioni.

Poi hanno scelto strade diverse: i tedeschi investendo su nuovi modelli, il Lingotto tagliando i costi e scappando in America.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti

(05 marzo 2012)

C'erano una volta in Europa due grandi aziende automobilistiche che facevano la parte del leone soprattutto sul mercato delle vetture più popolari. La prima, tedesca, a prevalente controllo pubblico. La seconda, italiana, privata - anzi, privatissima perché sotto la guida azionaria di una singola famiglia - ma che non disdegnava aiuti pubblici sotto ogni forma, diretta o indiretta. La crisi economica più recente, esplosa nel 2008, ha messo entrambe in serie difficoltà per la robusta caduta della domanda di automobili.

I dirigenti dell'una e dell'altra sono stati costretti a darsi parecchio da fare per evitare grossi guai e però seguendo percorsi assai diversi. I tedeschi hanno scelto di accrescere i loro investimenti, puntando tutto sul versante dell'offerta sul mercato di modelli nuovi o comunque rinnovati. Gli italiani hanno preso la strada opposta, tagliando sia gli investimenti sia l'offerta. E quando l'incubo di un fallimento pareva fin troppo vicino hanno fatto la brillante trovata di uscire dai confini dell'Europa per andare negli Usa a salvare - con il sostanzioso contributo del governo di Washington - la Chrysler e insieme a essa quel che restava del capitale della famiglia Agnelli.

La mossa americana si è rivelata anche rapidamente vincente ma ha comportato il danno collaterale di un semiabbandono dei mercati europei e di quello italiano in particolare. Scelta giustificata col fatto che, mentre negli Usa la domanda di automobili apriva buone prospettive di vendite, nel vecchio continente il calo degli acquirenti rendeva inutile l'impegno a offrire nuovi prodotti sul mercato. Cosicché, senza volerlo, la ritirata del gruppo italiano ha creato condizioni ancora più favorevoli al successo della strategia dei tedeschi che hanno prepotentemente allargato le loro quote di mercato tanto in Europa che altrove nel mondo.

Il risultato di questi percorsi divergenti è oggi sotto gli occhi di tutti. La tedesca Volkswagen ha annunciato un preconsuntivo 2011 con un utile di 16 miliardi pari a circa il 10 per cento del fatturato: un record straordinario. Mentre la Fiat, pur potendosi gloriare del successo americano, è costretta a definire essa stessa un peso morto la sua presenza produttiva soprattutto in Italia. Tanto che il suo boss, Sergio Marchionne, si è spinto a dichiarare che o si riusciranno a vendere negli Usa molte vetture prodotte in Italia oppure egli si vedrà costretto a chiudere almeno due dei cinque impianti ancora semiaperti nel paese. Annuncio sorprendente perché riporta al nodo cruciale dei modelli di auto. L'unica e reale novità Fiat che esce ora dagli stabilimenti italiani è la Panda allestita a Pomigliano. Davvero Marchionne immagina di invadere il mercato Usa con la Panda? Avrebbe fatto più presto a dire che la Fiat intende ritirarsi dall'Italia per concentrarsi negli Usa, come in fondo sognava già di fare l'avvocato Agnelli.

Ma poiché Fiat e produzione d'auto sono in Italia la stessa cosa ciò significa che il paese rischia di perdere presto un'industria manifatturiera di peso, non solo occupazionale, assai rilevante. La morale della favola è che forse il premier Monti farebbe bene a correre in Germania per chiedere a Herr Piech, il lungimirante capo di Vw, che cosa gli serve per aprire qualche stabilimento a casa nostra. Le paghe tedesche, oltre tutto, sono il doppio di quelle italiane.

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« Risposta #175 inserito:: Marzo 15, 2012, 12:19:40 pm »


Opinioni

Riti e misteri confindustriali

di Massimo Riva

(08 marzo 2012)

La guerra di successione al vertice di Confindustria è alle battute finali. Il 22 marzo i cosiddetti saggi, incaricati di esplorare gli umori della base, riferiranno il risultato dei loro sondaggi alla giunta dell'associazione che sceglierà il nuovo presidente. In gara sono rimasti ormai soltanto Alberto Bombassei della Brembo e Giorgio Squinzi della Mapei, due padri-padroni di aziende che hanno saputo gestire con successo anche in questa fase economica critica.

Inutile attardarsi in previsioni sullo scarto numerico fra le due candidature perché, allo stato, i sostenitori dell'uno e dell'altro sono convinti - o fanno finta di crederlo - che il proprio beniamino abbia già la vittoria in tasca. Forse è più interessante cercare di capire quali siano le differenze più significative fra i programmi che i due aspiranti hanno illustrato ai loro colleghi-elettori. Anche perché è proprio su questo terreno che emergono un paio di sorprese davvero singolari.

A parte qualche criptica diversità d'accento sulla riforma organizzativa di Confindustria, infatti, il tema cruciale sul quale Bombassei e Squinzi si muovono in senso opposto è niente meno che la spinosissima questione dell'articolo 18 sui licenziamenti. In continuità con la posizione tenuta finora dalla presidente uscente, Emma Marcegaglia, l'uomo della Brembo ha sposato la linea dura: intesa coi sindacati o no, quella norma va tolta di mezzo. L'uomo della Mapei, in sintonia con un vasto mondo di piccoli e medi imprenditori, ritiene viceversa che quello del fatidico articolo 18 sia l'ultimo dei problemi sui quali valga la pena di impegnare Confindustria in battaglia. Così portando in piena luce un'eresia negazionista che rischia di aprire nel fronte imprenditoriale una rottura di non facile gestione su uno dei temi più caldi del momento.

Ma rende ancora più imperscrutabile la situazione in Confindustria una seconda sorpresa: quella che nasce dall'analisi delle preferenze pubblicamente espresse da alcuni autorevoli elettori. Se si usa proprio il nodo dell'art. 18 come una sorta di cartina di tornasole, infatti, emergono stravaganti contraddizioni. Si assiste, per esempio, alla mossa di Silvio Berlusconi che si fa ricevere dal premier Monti per sollecitare a gran voce la cancellazione della norma in questione. E ciò mentre il suo fedelissimo Confalonieri fa aperta campagna elettorale in Confindustria a sostegno dell'eretico Giorgio Squinzi. A favore del quale è schierata anche la stessa Marcegaglia tuttora paladina della cancellazione della tanto controversa norma. Sull'altro versante accade invece che abbia espresso una preferenza per Bombassei, per esempio, anche l'editore di questo giornale, Carlo De Benedetti, che pure ha definito un'autentica sciocchezza tutto il dibattito imbastito sull'art. 18.

Come leggere questo nebuloso incrocio di posizioni? Una prima risposta possibile a questo interrogativo indica che evidentemente le scelte del corpo elettorale confindustriale obbediscono a logiche diverse da quelle che vengono portate alla pubblica ribalta e forse anche a rapporti personali o d'interessi più forti del dissenso d'opinione su una singola questione. Si rimprovera il mondo politico per la scarsa trasparenza delle sue lotte intestine: non è che Confindustria possa dare lezioni.

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« Risposta #176 inserito:: Marzo 28, 2012, 03:28:28 pm »

Polemica

Così ci si avvita: verso il baratro

di Massimo Riva

Continuare a togliere i soldi dalle tasche dei cittadini vuol dire minori consumi, quindi minori investimenti, quindi minore occupazione.

E così via, in una spirale perversa

(27 marzo 2012)

Il governo Monti si accinge a riscrivere le regole del sistema tributario con lo strumento di una legge di delega da parte del Parlamento. Si annunciano così novità importanti come una diversa e specifica imposta sui redditi d'impresa, mentre per gli immobili si avrà un adeguamento dei valori catastali ai prezzi di mercato pur in un quadro di invarianza del prelievo già fortemente aumentato con l'introduzione dell'Imu. Altre innovazioni riguarderanno il regime dei controlli e delle sanzioni per rendere più efficace la lotta contro evasione ed elusione fiscali. Durante il percorso parlamentare della delega si avrà modo di valutare meglio particolari e disegno complessivo del provvedimento.

Non si vorrebbe, però, che con questa iniziativa il governo intendesse dare per scontate e immodificabili le misure tributarie decise nei mesi scorsi sotto la pressione cogente degli attacchi speculativi sui titoli del Tesoro. Anche se la minaccia di un collasso finanziario dello Stato risulta arginata ma non ancora del tutto scongiurata, sembra arrivato il momento opportuno per ragionare a mente fredda sui contraccolpi negativi insiti nella manovra d'emergenza. In particolare, per quanto riguarda il serio pericolo che il prezzo del salvataggio della finanza pubblica possa essere la desertificazione dell'economia reale a causa di un'ulteriore caduta della domanda interna.

Non c'è bisogno di rifarsi ai recenti allarmi della Corte dei conti per sapere che, togliendo ancora più soldi dalle tasche dei contribuenti, si deprime la crescita precipitando in una spirale perversa. I minori consumi, infatti, scoraggiano gli investimenti e perciò frenano l'occupazione innescando un'ulteriore caduta della domanda con un avvitamento sempre più veloce verso il basso. Una manutenzione un poco più attenta del peso e della distribuzione dei carichi fiscali introdotti di recente sarebbe un atto doveroso da parte di un governo che dice di voler porre l'elevata sapienza tecnica dei suoi ministri al servizio della collettività.

Un primo esempio: la giusta volontà di perseguire fiscalmente la rendita fondiaria è stata declinata in modo così distorto da tartassare i beni strumentali dell'attività agricola al punto da condurre sotto la soglia di sopravvivenza gran parte delle piccole e numerose grandi imprese del settore. Ovvero un pezzo di economia nazionale che, già in seria difficoltà, offre comunque un rilevante contributo in termini sia di Pil sia di esportazioni. Forse i contadini meriterebbero un ascolto almeno pari a quello dato ai ben più rumorosi (e meno essenziali) tassisti.

Un secondo esempio: la mano pesante sulle accise dei carburanti ha sicuramente garantito risultati di pronta cassa per un Tesoro allo stremo, ma al costo non trascurabile di aver prodotto maggiore inflazione con conseguente e reiterata frenata dei consumi. Cosicché l'ulteriore aumento dell'aliquota principale dell'Iva prospettato per l'autunno rischia di sommare a quelli provocati dalle misure d'emergenza nuovi e maggiori effetti depressivi. Sarà anche una buona idea quella di spostare l'attenzione del fisco dalle persone alle cose, ma l'opera al momento risulta incompiuta: la pressione è salita sulle cose senza diminuire - anzi - sulle persone. A questo punto, salvata l'Italia, è bene che Mario Monti si occupi di salvare anche gli italiani.

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« Risposta #177 inserito:: Aprile 09, 2012, 05:21:55 pm »

Opinione

Ligresti vigilato poco speciale

di Massimo Riva

(29 marzo 2012)

Fino a pochi giorni fa i guai della famiglia Ligresti sembravano essere soprattutto finanziari. E l'attenzione generale era concentrata su chi l'avrebbe spuntata fra Unipol e i fondi Sator e Palladio nel duello per impossessarsi delle rovine dell'ex-impero assicurativo e immobiliare. Ora la vicenda sta prendendo un'altra piega, non meno complicata, sotto il profilo giudiziario con l'entrata in proscenio della Procura di Milano.

Già da tempo i magistrati contestano a Salvatore Ligresti il reato di ostacolo all'attività degli organi di vigilanza. Adesso però l'indagine si sta allargando a una serie di specifiche decisioni sulle quali pende il sospetto assai increscioso di una distrazione di fondi che avrebbe provocato ulteriori e seri danni alla situazione patrimoniale di Fonsai.

Sotto la lente della Procura ci sono circa una dozzina di operazioni realizzate fra aziende interne alla galassia societaria dei Ligresti con le quali perdite ingenti sarebbero state scaricate sulla suddetta Fonsai. Altro filone dell'inchiesta riguarda poi un singolare contratto di consulenza per 40 milioni a favore di Salvatore Ligresti, nonché alcuni bonus milionari una tantum pagati a famigliari e famigli dello stesso boss del gruppo.

Per capirne di più occorrerà naturalmente attendere le conclusioni del lavoro in corso da parte della magistratura.
Va, tuttavia, annotato che l'intervento di quest'ultima è stato sollecitato dall'esposto di un socio di minoranza, il fondo speculativo Amber, mentre non risulta che analoghe iniziative siano state promosse da altri soggetti. Non dalle autorità cui spetta di vigilare sugli affari delle società quotate in Borsa, ma nemmeno dall'articolato kombinat di banche che pure ha finanziato per tanti anni l'espansione del gruppo Ligresti e ora non sa più da che parte sbattere la testa pur di arginare almeno in parte le perdite conseguenti al suo tracollo.

Sembra così ripetersi anche nei dintorni di piazza degli Affari l'identico schema dell'annosa commedia in atto da vent'anni fra potere politico e potere giudiziario con l'accusa del primo al secondo di invasione di campo a causa delle inchieste sulla corruzione delle attività pubbliche.

Come il mondo politico mal tollera che i magistrati si occupino dei suoi affari sporchi senza per altro provvedere a ripulire le sentine dei propri vizi, così accade che anche nel mondo economico perduri una sorta di sostanziale omertà nel chiudere gli occhi dinanzi a operazioni che proprio perché realizzate fra parti correlate ovvero in conflitto d'interessi meriterebbero semmai il doppio d'attenzione.
Che le banche finanziatrici dei Ligresti non abbiano colto segnali d'allarme dal moltiplicarsi di manovre quanto meno problematiche fra società del gruppo è poco credibile.

Il nodo cruciale è che questo loro "benign neglect" altro non è se non il logico riflesso dell'impianto strutturale di quel capitalismo relazionale che è il morbo caratteristico della nostra sedicente economia di mercato. Un morbo talmente diffuso e pervasivo da aver neutralizzato ogni meccanismo di difesa dagli abusi al punto che, pur di non incrinare il gioco dei reciproci comparaggi, si può arrivare perfino ad accettare robuste perdite nei bilanci.
Tanto, alla fine, c'è pur sempre il gregge dei piccoli azionisti sui quali scaricare i costi delle relazioni pericolose.

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« Risposta #178 inserito:: Aprile 18, 2012, 04:14:22 pm »

Siete sicuri che l'Italia sia salva?

di Massimo Riva

Il governo è molto orgoglioso di aver tagliato tutto, ma l'impoverimento collettivo in cui sono stati abbandonati gli italiani non porta a nessuna ripresa.

E l'incubo del default potrebbe riavvicinarsi

(16 aprile 2012)

Si fa presto a dire "spending review", ma fare pulizia e mettere ordine in una spesa pubblica come quella italiana è opera di lunga e particolarmente complessa lena. Per decenni nei suoi capitoli si sono sedimentati appetiti settoriali, quando non clientelari, in larga misura aiutati da una gestione politica indifferente ai più elementari criteri anche solo di semplice e buona ragioneria. Ma proprio per questo, tanto più risulta indispensabile e urgente che in una fase così critica dei conti pubblici il governo Monti sappia realizzare su questo fronte, per usare un'espressione cara all'attuale premier, una svolta storica.

Piero Giarda, il ministro incaricato dell'arduo compito, ha fatto magari bene in una recente intervista a ridimensionare le attese miracolose di chi si aspetta che la sua forbice sulle uscite possa presto produrre risparmi tali da consentire una significativa riduzione anche delle entrate ovvero un taglio della pressione fiscale. In effetti, lo stato dei conti pubblici che resta comunque precario e l'aria che tira sui mercati finanziari internazionali sono due fattori che impongono tuttora la massima cautela nella movimentazione del bilancio.

Non si vorrebbe, però, che la giusta prudenza dell'ottimo Giarda finisse per alimentare anche uno spirito rinunciatario di fronte alla vastità del compito. Che si parta da questioni minute va benissimo: accentrando gli acquisti di matite, siringhe o consimili per spuntare i prezzi minimi sul mercato si possono realizzare risparmi importanti, anche nell'ordine di qualche miliardo. Ma non è che basti affinare un po' la tecnica dei tagli lineari applicata dall'ex-ministro Tremonti. Il principale difetto di questa strategia è quello di lasciare sostanzialmente inalterata la struttura di un bilancio che ha come suo vizio profondo quello di aver lasciato correre la spesa corrente deprimendo, anno dopo anno, la spesa per investimenti.

Vizio che, in una fase recessiva come l'attuale, sta rivelando tutta la sua negatività facendo venir meno quelle risorse che sarebbero vitali per contrastare il cattivo andamento della congiuntura. Nessuno è così pazzo da chiedere a Giarda di rovesciare in un anno l'impianto del bilancio. Ma, visto che si dichiara già soddisfatto perché il totale della spesa pubblica al netto degli interessi si sta mostrando costante dal 2009, non sarebbe fuori luogo che il ministro assumesse almeno un chiaro impegno su un punto decisivo. I risparmi che ci si ripromette di ottenere con la fatidica "spending review" dovranno avere come scelta preferenziale la destinazione di maggiori risorse alla spesa per investimenti.

L'austerità fiscale che sta aggravando la crisi combinata di consumi e investimenti era probabilmente un passo obbligato per scongiurare il fallimento finanziario del paese. Ciò implica che anche la pressione tributaria non possa essere alleggerita in tempi brevi per evitare di azzerare gli effetti delle manovre attuate. Fin qui d'accordo. Ma non è che si possa lasciare l'Italia abbandonata alla deriva di un impoverimento collettivo: la minaccia di default si ripresenterebbe sotto la nuova veste di bassa o nulla crescita. Primo ed essenziale fine della pulizia del bilancio dovrà essere quello di recuperare risorse affinché gli investimenti pubblici diano la prima spinta per riaccendere le attività economiche.

   
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« Risposta #179 inserito:: Aprile 28, 2012, 05:15:32 pm »

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Economia

Per la Fiat l'Italia è un gioco

di Massimo Riva

E' curioso: mentre abbandonano sempre di più il business dell'auto nel nostro Paese, gli eredi Agnelli rinforzano invece la loro presenza nella Rizzoli e nella Juventus. Cioè investono solo nella 'comunicazione d'immagine'

(23 aprile 2012)

Chi teme che i signori della Fiat intendano abbandonare l'Italia ha potuto leggere negli ultimi giorni un paio di notizie che, almeno a prima vista, possono suonare rassicuranti. Anche perché si tratta di fatti, non di parole. Come quelle disinvoltamente contraddittorie sull'argomento che Sergio Marchionne, il più che lautamente retribuito castaldo di casa Agnelli, pronuncia da tempo senza mai dissipare il dubbio che ormai gli eredi dell'Avvocato abbiano già deciso in cuor loro di farsi americani a tutti gli effetti.

Il primo fatto teso a testimoniare un ritrovato impegno del gruppo torinese sul mercato nazionale è stato compiuto niente meno che dal presidente della Fiat, John Elkann, con la scelta di occuparsi in prima persona di uno dei "dossier" più spinosi nella galassia di partecipazioni azionarie della famiglia.

Quello della Rcs (Rizzoli-Corriere della Sera) il cui bilancio soffre di perdite piuttosto ingenti che richiederebbero una cura sostanziosa e fors'anche un congruo aumento di capitale: ipotesi entrambe rese finora poco praticabili dai dissidi interni al variopinto sindacato azionario di controllo della società.

Con l'aria che tira in Fiat, anche dopo i primi successi americani con la Chrysler, si poteva magari immaginare che Torino decidesse di lasciare ad altri il compito ingrato e potenzialmente oneroso di fare ordine nei bilanci Rcs. Invece no. Il giovane Elkann con piglio battagliero ha scelto di affiancare Mediobanca, altro importante socio dell'impresa editoriale, nel duro scontro con alcuni azionisti di peso per imprimere una svolta anche statutaria alla conduzione dell'azienda. Altro che l'immagine degli eredi Agnelli ormai lontani dagli affari italiani: per quanto riguarda il delicato settore della stampa, più che mai presenti.

A suo modo rientra nel campo delle comunicazioni d'immagine anche il secondo impegno domestico assunto di recente sempre dallo stesso Elkann. Quello di far sponsorizzare la Juventus, squadra di casa, da parte del marchio Jeep da poco acquisito nell'ambito dell'operazione Chrysler. E stavolta trattasi di un impegno non proprio finanziariamente esiguo: 35 milioni in tre anni. Un nuovo e costoso stadio per la compagine bianconera inaugurato con successo e ora anche un sostegno multimilionario con soldi che vengono dall'America. Che ne possano gioire i tifosi juventini è scontato. Ma con loro anche tutti gli italiani preoccupati da un futuro del paese segnato dal disimpegno degli azionisti della maggiore impresa manifatturiera?

Con tutto il rispetto per il "Corriere della Sera" e per la Juventus, infatti, né l'editoria né il gioco del calcio - pur rientrando nel campo degli interessi consolidati e ormai tradizionali del gruppo torinese - hanno granché da spartire con il core business industriale della Fiat del quale sono sempre stati finora abbellimenti accessori e funzionali alla strategia d'immagine dell'azienda e dei suoi proprietari. O, per dirla in termini più crudi, sono stati i "circenses" coi quali rendere talora meno indigeste la quantità e la qualità del "panem" distribuito nelle fabbriche italiane. Punto quest'ultimo che resta l'unico, vero banco di prova sulle effettive intenzioni degli eredi Agnelli oltre che sulle capacità imprenditoriali del loro "factotum".

Nel pur declinante mercato europeo la Volkswagen vola, perché la Fiat no?

   
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