LA-U dell'OLIVO
Giugno 24, 2024, 03:16:05 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 5 6 [7] 8 9 ... 15
  Stampa  
Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 103625 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #90 inserito:: Aprile 01, 2010, 09:43:25 am »

I silenzi di Draghi

di Massimo Riva
 
E così il tormentone Geronzi-Generali si è concluso: il settantacinquenne banchiere è riuscito a manovrare con successo per coronare la sua antica ambizione di andare a sedersi in cima al più ricco gruppo finanziario del Paese. Ora si tratta di capire a quali prezzi l'operazione sia andata a buon fine, in particolare per quanto riguarda il costo dei sostegni politici che l'hanno favorita e neanche troppo sotterraneamente. Problema che dovrebbe interessare e - temo - angustiare non poco la vasta platea degli azionisti minori delle Generali.

Che il governo Berlusconi abbia lavorato per spianare la strada a Geronzi è un dato di fatto, anche al netto delle voci sugli appoggi offerti sia dal premier sia dal ministro Tremonti. A rendere plateale il favore politico ha provveduto il ministro Claudio Scajola con dichiarazioni e atti inequivocabili. Come mostra una singolare concatenazione di eventi. Cesare Geronzi ha tuttora in corso procedimenti giudiziari - niente meno che per bancarotta - il cui esito avrebbe potuto privarlo dei requisiti necessari a fare il banchiere, quindi a tenere la sua poltrona in Mediobanca. Tanto che da tempo le sue mire sulle Generali venivano spiegate anche con la ben minore severità delle regole stabilite per gli amministratori delle compagnie d'assicurazioni. Ma proprio di recente questa assurda disparità di trattamenti fra operatori finanziari è stata in parte rivista nel testo di un decreto cui manca solo la firma da parte del ministro Scajola.

Un siluro per Geronzi? Tutt'altro. Il bello di quel testo è che le sue nuove regole sull'onorabilità dei manager assicurativi potranno applicarsi non agli amministratori già in carica, ma soltanto a quelli che saranno nominati dopo l'entrata in vigore del decreto.
Una differenziazione quanto meno bislacca, ma che per il caso Geronzi si è rivelata un abito su misura dopo che il ministro Scajola ha dichiarato di rinviare la firma del decreto al termine ultimo del 30 giugno con la penosa e tartufesca giustificazione di non voler "condizionare le assemblee degli azionisti". Cosicché, grazie a Scajola, Geronzi potrà restare indisturbato presidente delle Generali, anche se qualche sentenza futura dovesse revocare in dubbio la sua onorabilità professionale. Un simile favore personale, calando su Geronzi i panni dell'ultimo boiardo, non può non avere un contrappasso.

Occorrerà che i tanti risparmiatori usi a considerare il titolo Generali una garanzia di prudente gestione stiano in guardia.
Il colosso di Trieste brilla per disponibilità di capitali agli occhi di un governo senza soldi e con parecchie gatte da pelare. C'è il caso Alitalia, dove Berlusconi rischia di perdere la faccia se la compagnia finisce presto nelle mani di Air France. C'è poi la Telecom, dove sempre il premier - a causa dell'intreccio fra cavi telefonici e televisione - teme che tutto possa finire nelle mani degli spagnoli di Telefonica. Ombre minacciose, insomma, si allungano sulle pingui casse di Generali. In proposito sarebbe interessante conoscere anche l'opinione di un particolare azionista di peso, la Banca d'Italia, che è stata finora silente. Chi tace acconsente oppure no?

(31 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #91 inserito:: Aprile 16, 2010, 04:07:55 pm »

Generali sotto accusa

di Massimo Riva
 

Volano gli stracci sulla vicenda Generali e si spezza quel muro di omertoso silenzio che, almeno nelle intenzioni dei protagonisti, avrebbe dovuto circondare la marcia trionfale di Cesare Geronzi verso il vertice del gigante delle assicurazioni. Ed il bello è che a scoperchiare le pentole stavolta è una voce interna al sistema di potere dominante nel circuito Mediobanca-Generali: quella del presidente giubilato di queste ultime, Antoine Bernheim. Che i modi, insieme brutali e sotterranei, con i quali è stato messo alla porta abbiano alimentato un forte risentimento nell'animo di Bernheim va tenuto in debito conto. E però non è certo la prima volta che a Mediobanca si organizzano e si portano a compimento operazioni del genere, mentre è la prima volta che la vittima di una di queste trame rompe con pubbliche e polemiche dichiarazioni il tradizionale costume delle riservate rese dei conti al riparo delle porte imbottite dei cosiddetti salotti buoni.

In ogni caso il punto cruciale è che, al di là di un comprensibile sfogo di amarezza personale, Bernheim mette in campo argomenti pesanti per lanciare un allarme sul futuro della grande compagnia assicurativa. Due i passaggi salienti della sua bellicosa intervista al 'Figaro'. Nel primo attacca la candidatura alla presidenza di Geronzi con parole sprezzanti: "Sono allibito. Non è un assicuratore e ha sempre detto che non voleva quel posto e poi non sappiamo ancora come saranno divisi i poteri tra il presidente e gli amministratori delegati". Nel secondo Bernheim mette in guardia sul rischio che l'operazione sottintenda finalità clandestine e non confessabili: "Sono stato messo da parte perché difendo una gestione ortodossa delle Generali, esclusivamente al servizio degli azionisti e della compagnia, non di interessi particolari. Per questo mi preoccupa molto il futuro di Generali. Dal suo punto di vista Mediobanca non può dare a Generali i margini di manovra di cui ha bisogno". Il riferimento di queste ultime parole di Bernheim è all'utilità di un aumento di capitale per sostenere i progetti espansivi della società.

I timori che lo sbarco di Geronzi a Trieste possa rientrare in una strategia mirata a mettere le mani sulla ricca cassa di Generali per utilizzarla a fini non propriamente di mercato assicurativo, espressi da più parti e anche su queste pagine (vedere 'L'espresso' dell'8 aprile scorso), trovano così una più che autorevole conferma nell'imprevista sortita di Bernheim.

Tanto il vertice di Mediobanca quanto quello della compagnia finora hanno fatto finta di nulla dinanzi alle accuse del presidente uscente, limitandosi a negare l'utilità di un aumento di capitale. Ma il prossimo 24 aprile è in programma l'annuale assemblea dei soci, sede naturale nella quale dare chiare risposte ai tanti, troppi e incresciosi interrogativi che gravano sulla vicenda. In primo luogo, c'è da aspettarsi che lo stesso Bernheim sappia essere all'altezza delle proprie denunce. In particolare, che non si accontenti di ottenere uno strapuntino da consigliere, come traspare un po' obliquamente dalla sua intervista al 'Figaro'. Per la platea dei piccoli azionisti, da lui evocata, sarebbe la beffa più perfida.

(15 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #92 inserito:: Aprile 25, 2010, 11:30:46 pm »

Da Chiamparino a Bossi

di Massimo Riva
 

La guerra dei campanili bancari che si è accesa sulle nomine ai vertici di Intesa-Sanpaolo rischia di danneggiare non poco l'immagine del grande gruppo creditizio, ma forse ha già compromesso seriamente la reputazione di qualcuno dei suoi maggiori protagonisti. In particolare, del sindaco di Torino, Sergio Chiamparino.

Considerato finora una delle migliori figure cui i Ds potrebbero affidarsi in un futuro prossimo per risalire la china degli ultimi insuccessi elettorali, il primo cittadino del capoluogo piemontese ha messo mani e piedi nel piatto della contesa bancaria con uno scivolone davvero inatteso e inopportuno. Al punto che chi ne temeva l'ascesa dentro il suo partito - Enrico Letta, per esempio - si è affrettato a cogliere la palla al balzo per bacchettarlo senza risparmio, ma non anche senza ragione.

Il punto è che Chiamparino si è dato un po' troppo da fare per far sì che possa essere il torinese Domenico Siniscalco il nuovo presidente del Consiglio di gestione di Intesa-Sanpaolo al posto di Enrico Salza, anche lui torinese ma sospettato di intelligenza con la controparte milanese della grande fusione bancaria. Una mossa che il signor sindaco ha giustificato in nome della difesa del peso della "torinesità" nell'azienda creditizia e che lo ha portato a spingersi fino a chiedere l'abbandono dell'attuale sistema di governance duale del gruppo per arrivare a un Consiglio d'amministrazione unico con il presidente torinese e l'amministratore delegato milanese.

Già una simile concezione etnica del credito lascia esterrefatti. Si trattasse di una piccola cassa rurale, pazienza per le risse paesane. Ma Intesa-Sanpaolo è uno dei due colossi del credito in Italia ed è regolarmente quotato in Borsa avendo robuste proiezioni internazionali in termini sia di azionariato sia di mercato. Dunque, torinesità o milanesità sono nozioni di cui è arduo afferrare il senso in rapporto a una simile realtà aziendale. Va bene, poi, che il Comune di Torino sia uno dei soci della Fondazione d'origine bancaria che è anche l'azionista maggiore (10 per cento) di Intesa-Sanpaolo, ma che sia il sindaco della città a chiedere una riforma della governance dell'istituto al puro fine di riequilibrare il gioco delle poltrone fra Milano e Torino, questo suona estraneo ad ogni logica di elementare separazione dei ruoli fra politica ed esercizio del credito.

Un fuor d'opera, dunque, che cade pure nel momento politico più sbagliato perché a ridosso della sortita con la quale Umberto Bossi ha minacciato ("La gente ci dice: prendetevi le banche. E noi lo faremo") l'avvio di una campagna di infeudamento del credito attraverso le Fondazioni controllate dagli enti locali conquistati dalla Lega con il recente successo elettorale.

Chiamparino come Bossi? Non è un bel vedere. Eppure c'è chi legge l'iniziativa del sindaco torinese proprio alla luce della vittoria del leghista Cota nel voto per la regione Piemonte: Chiamparino si darebbe tanto da fare per non trovarsi scavalcato dai bossiani nella difesa della torinesità della banca. Una vecchia storia: la moneta cattiva scaccia sempre quella buona.

(23 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #93 inserito:: Maggio 07, 2010, 12:00:44 am »

Lo spot di Tremonti

di Massimo Riva

Si vivono giornate molto nervose sui mercati azionari e monetari per la forte incertezza sugli sbocchi della crisi greca e per i timori delle resistenze tedesche. Rassicurare gli italiani è compito del governo. Ma minimizzare, come ha fatto Tremonti, è un'altra cosa

Si vivono giornate molto nervose sui mercati azionari e monetari. Da un lato, gioca la forte incertezza sui possibili sbocchi della crisi che si è aperta in Grecia. Dall'altro, sono diffusi i timori che le caparbie resistenze tedesche sugli aiuti ad Atene possano diventare motivo di attacchi speculativi anche contro altri paesi con i bilanci in disordine. Rassicurare gli italiani sul fatto che la situazione del nostro Paese è ben diversa da quella greca rientra fra i compiti istituzionali del patrio governo. Ma un conto è rassicurare, tutt'altro è minimizzare i rischi incombenti spingendosi - come ha fatto Giulio Tremonti - ad affacciare addirittura una similitudine fra lo stato dei conti italiani e quello dei tedeschi. Lo spunto per questo scriteriato spot pubblicitario è stato offerto dalla pubblicazione di due dati. Il primo riguarda la correzione strutturale ovvero permanente che il Fondo monetario internazionale reputa necessaria fra il 2010 e il 2020 nei vari paesi: per l'Italia è stimata al 4 per cento del Pil, per la Germania poco sotto la stessa percentuale. Il secondo dato, che è stato letto a Roma con compiaciuta sorpresa, si riferisce a una novità verificatasi nella classifica mondiale dei debiti pubblici: l'Italia, da anni terza dopo Stati Uniti e Giappone, è stata scavalcata dalla Germania, il cui stock, a fine 2009, ha raggiunto i 1.762 miliardi, contro i 1.760 del nostro Paese. Dunque, Italia e Germania allineate davanti alle malcerte sfide del futuro? La distorsione implicita in una simile lettura della realtà risulta particolarmente evidente se si pensa che il debito è oggi il fronte più esposto di ogni bilancio pubblico.

Per anni, del resto, lo stesso Tremonti ha sempre detto che il cuore dei guai italiani stava nel fatto di avere il terzo debito del mondo, ma senza essere la terza economia del mondo. Quel che conta, insomma, non è il valore nominale dello stock accumulato ma il suo rapporto in percentuale del Pil. E qui il confronto con la Germania non sta letteralmente più in piedi. I 1.762 miliardi del debito tedesco rappresentano il 73,2 per cento del Pil di quel Paese. I 1.760 miliardi italiani, invece, arrivano al 115,8 per cento del prodotto domestico. Rispetto al fatidico limite del 60 per cento fissato in materia nel
trattato di Maastricht, Berlino sfora di 13 punti percentuali, noi di quasi 56. Altro che due Paesi alla pari! Se poi si guarda all'andamento tendenziale dei rispettivi debiti, le cose stanno anche peggio. Dal 2008 al 2009 quello tedesco è cresciuto di 7,2 punti percentuali, mentre quello italiano di 9,7 punti. E non basta, perché l'ultimo dato ufficiale disponibile dice che alla fine dello scorso febbraio il nostro debito era già schizzato da 1.760 a 1.795 miliardi: altri 35 in più in soli due mesi.

Ciò significa che, in realtà, il mantello del rigore nel quale il ministro Tremonti ama rinserrarsi ha subito strappi e lacerazioni in robusta quantità e ancora ne sta subendo. L'ennesima mascherata dello stare alla pari con la Germania serve, quindi, a ingannare gli italiani e non a rincuorarli.

(29 aprile 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lo-spot-di-tremonti/2126071/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #94 inserito:: Maggio 08, 2010, 02:56:19 pm »

Il boomerang di Bersani

di Massimo Riva
 

Uno dei temi da sempre più sfruttati dalla propaganda berlusconiana è quello del Fisco. Nella rappresentazione che il Cavaliere ama dare della questione ci sono, da un lato, gli uomini della sinistra qualificati come partito delle tasse e, dal lato opposto, il Pdl che non mette le mani nelle tasche dei cittadini e, anzi, pensa soltanto a come ridurre le imposte. È un teatrino del tutto falso. Come dimostrano, tanto per restare alla logica implacabile dei numeri, i recenti dati della Banca d'Italia sulla pressione fiscale nel 2009: Silvio Berlusconi regnante, essa è salita a un picco del 43,2 per cento del Pil dal 42,9 dell'anno precedente.

Lascia perciò ancora più stupefatti che a cercare di dare una parvenza di fondamento agli spot berlusconiani siano ora proprio gli esponenti di quel Pd che il Cavaliere ama raffigurare come i Dracula del Fisco. Eppure va registrato che, seppure all'ottimo buon fine sociale di garantire copertura finanziaria a una proroga della Cassa integrazione, dal pensatoio di Pier Luigi Bersani non è uscito di meglio se non la proposta di alzare dal 43 al 45 per cento per il biennio 2010-2011 l'aliquota del prelievo sui redditi superiori ai 200 mila euro. Ipotesi, per giunta, avanzata dietro l'ipocrita schermo nominale di 'contributo di solidarietà', mentre è del tutto evidente che si tratti di una sovrimposta, seppure a tempo determinato.

Anche prima di Robin Hood l'idea di togliere ai ricchi per dare ai poveri ha costituito e ancora costituisce il sostanziale fondamento di qualunque regime tributario improntato ai più elementari principi di equità sociale. Ma in una fase nella quale la pressione fiscale ha già raggiunto i valori che s'è detto, la sortita del Pd appare - se si vogliono usare le stesse parole con le quali Massimo D'Alema ha bollato le iniziative di riforma del governo - davvero 'impressionante per il grado di improvvisazione'. Tanto sul piano economico, quanto su quello politico.

Nel primo caso perché, anziché introdurre qualche primo elemento di riforma di un regime fiscale già inquinato da storture vessatorie verso i redditi da attività lavorative, la proposta Pd si colloca all'interno della vigente logica aberrante aggravandone le distorsioni. Va bene togliere ai ricchi, ma la ricchezza si misura soltanto sui redditi annuali? O forse bisognerebbe allungare lo sguardo anche sui patrimoni e sul tenore dei consumi?

In termini politici, poi, lo sfondone del Pd suona ancora più incomprensibile. Perché, trattandosi di una proposta affacciata in un Parlamento nel quale non esisteva e non esiste la minima possibilità di accoglimento della medesima, la brillante iniziativa assomma il duplice contrappasso di far apparire il Pd come il famigerato partito delle tasse senza neppure che queste poi possano aumentare davvero e almeno fornire i soldi sperati per la proroga della Cassa integrazione. Il classico colpo a salve che danneggia soltanto chi lo ha sparato. Si legge che nel Pd c'è un 'gruppo di lavoro' all'opera per definire presto una serie di proposte organiche di riforma fiscale. Con simili precedenti, non si sa se temere o sperare.

(06 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-boomerang-di-bersani/2126504/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #95 inserito:: Maggio 14, 2010, 11:08:29 pm »

La catena del debito

di Massimo Riva
 
Tutto è cominciato quando i governi si sono mossi al soccorso di banche e assicurazioni per scongiurare il cataclisma di fallimenti finanziari a catena. Dapprima sono stati quelli di Londra e Washington, poi sulla stessa strada si sono incamminati anche quelli di Berlino, Parigi e così via. Forse non si poteva fare altrimenti. Ma così, in sostanza, debiti privati sono stati trasformati dai rispettivi Stati in maggiore debito pubblico, aggravandone la crescita già in atto per la flessione delle entrate fiscali indotta dalla caduta delle attività economiche.
Salvate dagli interventi politici, le banche sono tornate liquide e hanno subito ripreso a fare il loro mestiere come strumenti a disposizione di chi intenda movimentare i mercati con manovre speculative. Bersaglio principale è così diventata proprio quella che, in prima battuta, era sembrata la soluzione del problema ovvero la corsa a gonfiare i debiti sovrani. Logicamente gli attacchi sono partiti contro gli anelli più deboli del sistema: come la Grecia, che alle difficoltà congiunturali sommava il pesantissimo impatto della manipolazione dei propri conti.
Le prolungate resistenze europee - in particolare della Germania di Angela Merkel - ad allestire una pronta rete di sicurezza per i guai di Atene hanno solleticato l'appetito degli speculatori. Dal fronte greco lo scontro si è allargato ad altri paesi del Mediterraneo (Portogallo, Spagna e sullo sfondo Italia) puntando a minacciare la costruzione stessa della moneta unica. Con tardiva resipiscenza ora l'Europa si è mobilitata in difesa dei debiti sovrani allestendo uno scudo fino a 750 miliardi di euro e stabilendo che la Banca centrale europea potrà intervenire sul mercato per acquistare titoli emessi dai paesi in difficoltà.
Poiché l'unico modo di arginare e punire gli assalti speculativi è quello di immettere liquidità sul mercato, anche questa scelta appare in qualche modo obbligata, come lo era la precedente di trasformare in pubblici i debiti privati. Fatto sta, in ogni caso, che anche questa decisione europea - come quelle analoghe già assunte in casa propria da Londra e Washington - avrà l'effetto di far crescere ulteriormente i
debiti sovrani e dunque la massa di carta sui mercati.
A Bruxelles si ritiene che i rischi connessi a questa situazione potranno essere contenuti attraverso politiche di rigore finanziario nei bilanci statali, in particolare da parte dei paesi più esposti. In assenza di una robusta crescita economica, che non è alle viste e che i tagli alla spesa pubblica non favoriranno, una simile ipotesi appare appesa a se stessa: la sproporzione fra il crescente peso dei debiti sovrani e i possibili risparmi sui bilanci nazionali è grande. Troppo grande per riassorbire senza scosse la valanga di carta che si sta accumulando sui mercati. La storia insegna che esiste una sola via certa per rendere sostenibili debiti altrimenti insostenibili: quella di farli bruciare in un bel falò inflazionistico. Che non si accenderà certo a breve ma che, nella prospettiva più lunga, appare un passaggio difficilmente evitabile. Appena ieri si temeva la deflazione, oggi lo scenario si sta rovesciando.

(13 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-catena-del-debito/2127030/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #96 inserito:: Maggio 28, 2010, 08:32:05 am »

Trincea finanza

Massimo Riva
 

Quest'anno le aspettative che accompagnano le prossime considerazioni finali di Mario Draghi riguardano francamente un po' meno quello che questi vorrà dire come governatore della Banca d'Italia. Anche perché è probabile che egli non possa offrire analisi sulla situazione del Paese granché diverse dalle raccomandazioni fatte un anno fa quanto a contenimento della spesa pubblica. Si può soltanto sperare che stavolta non trascuri il tema dell'evasione fiscale e magari dia una mano autorevole a sciogliere il grande mistero dei costi del federalismo fiscale su cui finora grava un'allarmante incertezza.
Ciò che più interessa è quel che Draghi vorrà dire sulle turbolenze in atto sui mercati internazionali nella sua veste di presidente del Financial Stability Board, l'organismo incaricato di predisporre nuove regole per la struttura del sistema bancario e per le transazioni finanziarie nell'era dell'economia globale.

Fino ad oggi non si può dire che il Fsb abbia raggiunto risultati di rilievo, tanto da essere stato scavalcato da alcuni governi (non di secondo piano) che hanno deciso di procedere sulla materia in via unilaterale. A Washington, per esempio, Casa Bianca e Congresso hanno da poco approvato una riforma che - a parziale imitazione del celebre Glass-Steagall Act degli anni Trenta - alza un primo muro tagliafuoco fra esercizio del credito ordinario e attività più temerariamente speculative. A Berlino poi la cancelliera Angela Merkel - senza nemmeno avvertire i partner europei - ha calato la scure del divieto sulla pratica delle vendite allo scoperto.
La richiamata unilateralità di simili iniziative ne segnala un forte limite implicito. Se a Londra si può allegramente fare ciò che è vietato a Francoforte, quello della Merkel rischia di essere un mezzo buco nell'acqua.

Altrettanto può dirsi della riforma americana: va bene tagliare le unghie a certi banchieri negli Usa, ma se nel resto del mondo non cambia nulla? Non è facile, tuttavia, liquidare Barack Obama e Angela Merkel come due sprovveduti Don Chisciotte. Se si sono mossi come s'è detto, a dispetto dei limiti evidenti della loro azione, forse è anche perché si devono essere stancati di attendere quelle più incisive riforme concertate all'interno dello Stability Board che continuano a latitare.
La reazione punitiva dei mercati alle novità americane e tedesche andrebbe meglio indagata. Si tratta di un giudizio negativo sull'efficacia delle misure oppure di una vendetta contro quelle autorità politiche che hanno scelto di non lasciar più correre a briglia sciolta i cavalli della speculazione finanziaria? Che quest'ultima sia il motore naturale del mercato è fuori discussione. Ma che proprio i giochi arditi della finanza libera abbiano provocato gli sconquassi che il mondo intero sta subendo è non meno certo.
Come lo è pure che il salvataggio di troppi avventurieri è avvenuto a spese di incolpevoli contribuenti. Fino a quando l'autorevole Financial Stability Board vorrà assistere senza colpo ferire alla guerra dichiarata dal mercato contro gli interventi regolatori delle autorità politiche? Una parola in materia da parte di Mario Draghi non guasterebbe.

(27 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/trincea-finanza/2127827/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #97 inserito:: Maggio 28, 2010, 08:34:10 am »

Authority solo a parole

Massimo Riva

Con le ultime settimane di primavera si apre la stagione dei rendiconti da parte delle numerose Autorità di sorveglianza dei mercati: creditizio, azionario, energetico, delle comunicazioni. Non c'è purtroppo da attendersi sostanziose novità dalle relazioni che i presidenti degli organismi stanno preparando
 
Con le ultime settimane di primavera si apre la stagione dei rendiconti da parte delle numerose Autorità di sorveglianza dei mercati: creditizio, azionario, energetico, delle comunicazioni, nonché di vigilanza antimonopolistica un po' su tutti i fronti. A parte forse l'appuntamento del 31 maggio con l'assemblea della Banca d'Italia, che meriterà un discorso a parte, non c'è purtroppo da attendersi sostanziose novità dalle relazioni che i singoli presidenti degli organismi stanno probabilmente già preparando.
Non soltanto le serie difficoltà del momento economico ma anche le pressioni di un governo - che resta tetragono ad accettarne il principio dell'indipendenza - hanno spesso inficiato il peso e il ruolo delle varie Autorità. A dispetto di questa cornice sfavorevole, qualcuno ha anche lavorato abbastanza bene. Per esempio, Alessandro Ortis nel controllo del settore energetico. Benché la sua squadra sia stata azzoppata da un vuoto di commissari che si trascina da anni per difetto di intese politiche sulle nomine e nonostante la malevolenza di qualche ministro nei suoi confronti, il presidente dell'Autorità per l'energia ha fatto la propria parte, riuscendo a modulare con discreta tempestività l'andamento delle tariffe elettriche e del gas a vantaggio dei consumatori.
Anche Antonio Catricalà (Antitrust) ha avuto qualche apprezzabile iniziativa, come quando, per esempio, ha denunciato quella grave patologia del sistema domestico per cui un circoscritto gruppo di persone occupa poltrone in una miriade di consigli d'amministrazione e perfino di aziende fra loro in palese conflitto d'interessi sul mercato. Ma nulla è cambiato. Un po' perché per superare questa scandalosa ubiquità di presenze sarebbero necessarie nuove regole legislative che governo e parlamento si guardano bene dal fare. Un altro po' perché sarebbe indispensabile la collaborazione dell'Autorità vigilante sulla Borsa, che però appare del tutto refrattaria a muovere anche il più piccolo passo in materia.

E qui siamo al punto più dolente. Sotto la guida di Lamberto Cardia, la Consob dapprima ha promosso muri regolamentari in difesa dei gruppi di controllo delle principali aziende e poi ha sciolto - a suo dire - il nodo del capitalismo relazionale domestico con norme che lasciano sostanzialmente intatti i poteri delle cricche azionarie che prosperano sui conflitti d'interessi. Il tutto con il pieno appoggio del potere berlusconiano che ora, per riconoscenza, vorrebbe di nuovo prorogare il mandato del prediletto Cardia per consentirgli di continuare la sua nefasta azione di ingessatore del mercato azionario.
Né c'è granché da aspettarsi dal rendiconto dell'Autorità per le comunicazioni, dove - anche al netto delle clamorose interferenze del presidente del Consiglio - il buon Corrado Calabrò non sa far di meglio che barcamenarsi di giorno in giorno, di grana in grana, senza mai alzare un sopracciglio. Da ultimo nemmeno di fronte all'incredibile scelta di Silvio Berlusconi di assumere l'interim di un ministero (lo Sviluppo economico) cui fa capo il mercato dove operano le sue stesse aziende.
Autorità indipendenti dice la legge. Già, ma indipendenti da chi?

(20 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio//2127413
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #98 inserito:: Giugno 04, 2010, 06:48:30 pm »

Il finto rigore di Tremonti

Massimo Riva
 

La tragicommedia del risanamento dei conti pubblici sta ormai assumendo i toni della più spudorata delle farse politiche. A imprimere questa svolta nel grottesco è la mascherata di Giulio Tremonti che, sfruttando l'ottusità di alcuni suoi colleghi ministri e la renitenza del premier a fare qualcosa di meglio, vorrebbe ora travestirsi da novello Quintino Sella. Se la situazione finanziaria non fosse davvero pesante, si potrebbe anche sorridere di questa sceneggiata. Ma i rischi che il Paese sta correndo sono tali da imporre di non cadere nella trappola mediatica astutamente allestita dal ministro dell'Economia.
Il personaggio che oggi ama rappresentarsi come inflessibile custode del rigore è la stessa persona che - tra condoni, finanza creativa, cartolarizzazioni, scudi fiscali e via manipolando stime e previsioni - ha creato le premesse dei guai attuali, scientemente ingannando gli italiani con la favoletta dei conti messi in sicurezza. Come mostra inequivocabilmente il consuntivo del suo ultimo esercizio annuale. I dati di fine 2009 dicono, infatti, che il deficit ha superato il 5 per cento del Pil, che il debito pubblico è di nuovo in corsa verso la drammatica quota del 120 per cento, infine che il saldo primario - quella differenza fra entrate e uscite ordinarie che rappresenta il termometro più importante per lo stato di salute del bilancio - è tornato in negativo come nei peggiori momenti della storia nazionale.

Se Tremonti avesse dovuto mobilitare le casse dello Stato per salvare dal fallimento grandi istituti bancari e assicurativi - come è accaduto ai suoi colleghi di Usa, Gran Bretagna, Germania e Francia - questa pessima performance potrebbe trovare plausibili giustificazioni. Ma in Italia così non è stato. Quindi, la rinnovata crescita del debito pubblico può e deve essere attribuita soltanto alla personale incapacità del ministro nel tener dietro al calo delle entrate con tempestivi tagli alla spesa. O ancora alla sua negligenza nell'usare il maggiore deficit almeno per operare provvedimenti di sostegno alla crescita economica. Insomma, né Friedman né Keynes.

L'attuale sedicente rigorista si è limitato a galleggiare sulla situazione declinante senza fare qualche pur minimo sforzo serio per frenarne la corsa verso il basso. Né, ora che dapprima i mercati e poi l'Europa hanno suonato la campana d'allarme, mostra di volersi minimamente discostare da questa linea di sostanziale indolenza politica. Impianto e contenuti della manovra, frettolosamente allestita sotto le pressioni esterne, lo dimostrano: qualche taglio a pioggia e qualche altro a casaccio nel totale disprezzo dell'equità sociale, nulla per spingere davvero la crescita, niente riforme strutturali. Meno di tutte poi quella del Fisco, a dispetto della straordinaria opportunità offerta proprio dall'emergenza battente. Se oggi Tremonti riesce a farsi passare per alfiere del rigorismo può solo ringraziare la gaia irresponsabilità del presidente del Consiglio, ancora più di lui recalcitrante a fare qualcosa di serio. Ma non è che gli italiani e con loro i mercati possano sentirsi rinfrancati da questo numero da fratelli De Rege.

(03 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-finto-rigore-di-tremonti/2128373/18
 
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #99 inserito:: Giugno 11, 2010, 12:13:07 pm »

Dietro la crisi dell'euro

Massimo Riva
 

Nell'ottobre di dieci anni fa erano sufficienti 82 centesimi di dollaro per acquistare un euro, ben il 30 per cento in meno dalla quotazione di esordio nel gennaio 1999. Un livello così basso da spingere allora molti a profetizzare che l'esperimento della moneta unica europea si sarebbe schiantato già nella fase di decollo. Soltanto una minoranza si muoveva controcorrente segnalando che la forte ascesa del dollaro non poteva essere che effimera perché non sostenuta da alcun indicatore fondamentale sullo stato di salute dell'economia americana. I successivi andamenti del cambio, pur fra tante oscillazioni, hanno dato ragione ai secondi e torto ai primi.
In realtà, quella quota di 0,82 dollari segnò semplicemente il punto culminante di un attacco concentrico contro l'euro mosso con il preciso intento di strangolare in culla la neonata moneta per riaprire le immense praterie degli attacchi ai cambi fra le un tempo numerose monete europee sui quali la speculazione valutaria aveva potuto abbondantemente esercitarsi fino ad allora. Talvolta con eccellenti profitti, come nell'estate 1992 a spese della lira.

Una storia analoga sembra oggi ripetersi, anche se il cambio euro/dollaro oscilla attorno a quota 1,20 a un livello del 50 per cento superiore al citato minimo storico. Nel frattempo, tuttavia, alcuni elementi sono mutati, altri no. Per esempio, oggi come allora suona stravagante la fiducia che tanti speculatori mostrano nel futuro prossimo del dollaro. Gli Stati Uniti stanno facendo la parte del leone nella collocazione dei titoli di Stato sui mercati internazionali a causa dell'esplosione del loro debito pubblico, già oltre il picco dei 13mila miliardi di dollari. È arduo leggere questa sete di capitali come un'indicazione per il rafforzamento della valuta americana nel medio periodo. Chi gioca su questa aspettativa potrebbe rimetterci le penne come dieci anni fa.

È un fatto, però, che l'euro appare oggi per altri versi più vulnerabile di quanto forse sembrasse allora. Il caso Grecia ha messo a nudo una serie di errori compiuti nella gestione del sistema. Il primo è stato quello di aver allargato, con eccesso di leggerezza, l'area della moneta unica a paesi meno affidabili. Il secondo è di aver mostrato incapacità di concordare decisioni adeguate e tempestive al sorgere delle difficoltà. Il terzo, tuttora in corso, è di aver traccheggiato nei confronti degli assalti speculativi così accettando una disfida sul modello Orazi contro Curiazi, per giunta lanciando segnali di resa condizionata ai mercati con inopinate sortite in favore di uno sdoppiamento dell'euro tra Nord e Sud Europa. Il classico drappo rosso agitato davanti ai tori della speculazione.

Ora i governi nazionali stanno correndo ai ripari con misure che, deprimendo i consumi interni, potrebbero togliere il sostegno della domanda domestica al pieno sfruttamento della componente positiva della svalutazione dell'euro: la maggior competitività sui mercati esterni. Diceva Napoleone dell'Austria: "Toujours en retard, d'une année, d'une armée, d'une idée". Anche stavolta, forse, solo la non credibile forza del dollaro potrà salvarci nel prosieguo da guai peggiori.

(10 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/dietro-la-crisi-delleuro/2128686/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #100 inserito:: Giugno 19, 2010, 09:18:00 am »

Il bluff sulle province
Massimo Riva

(18 giugno 2010)

Roberto Calderoli Roberto CalderoliDell'abolizione delle province si discute - sempre invano - da circa quarant'anni. Da quando, cioè, furono istituite le Regioni e il mai abbastanza rimpianto Ugo La Malfa argomentò la contemporanea e parallela esigenza di eliminare una struttura amministrativa intermedia dalle scarse competenze e dall'ancor minore utilità nel quadro del nuovo assetto delle autonomie locali. L'unanimità del mondo politico gli rispose assentendo sulla bontà della proposta ma rinviando ogni decisione al momento in cui il neonato esperimento regionale fosse giunto a consolidata maturità.
Nei decenni successivi le Regioni hanno non solo consolidato ma ampiamente esteso le proprie competenze senza che il destino dell'istituzione provinciale venisse rimesso in discussione. Anzi, con scelte parlamentari assunte sovente con voto bi-partisan, il numero delle province è cresciuto di qualche decina con totale sprezzo dei costi che simili decisioni caricavano inesorabilmente su un bilancio già sempre più in rosso.

Da ultimo, in queste settimane, lo stato di seria emergenza dei conti pubblici ha fatto sperare che - finalmente! - si volesse cominciare a sciogliere il nodo. E ciò perché, in una prima versione della manovra Tremonti in corso d'esame al Parlamento, faceva capolino l'ipotesi di abolire le province con meno di 220mila abitanti. Poca cosa, s'intende, perché sì e no ne sarebbero state tagliate una mezza dozzina. Ma almeno si poteva ritenere che la classe politica avesse deciso di rompere un tabù. Le speranze sono morte sul nascere.
Dapprima si è detto che, per buona sintassi istituzionale, tale scelta dovesse uscire dal decreto sull'emergenza per trovare posto nella legge sulle autonomie locali. Scrupolo formale ineccepibile, che però è servito solo ad affossare ogni buon proposito. Nella diversa sede legislativa si è cominciato già male abbassando la soglia di sopravvivenza a quota 200mila abitanti, ma poi governo e maggioranza hanno deciso di lasciar cadere il tutto, con il pieno accordo del principale partito d'opposizione: il Pd, i cui esponenti si sono addirittura nascosti dietro un risibile rilievo di costituzionalità.

Ora che la cancellazione della Provincia in quanto istituzione debba avvenire con riforma costituzionale è un fatto, dato che essa è prevista nella Carta. Ma le singole province sono state create con legge ordinaria: dunque - se si vuole - se ne possono eliminare subito a dozzine anche solo abrogando le leggi istitutive delle medesime. E qui si arriva al nocciolo della questione. La stragrande maggioranza delle forze politiche, di governo come di opposizione, non vuole rinunciare a questa fabbrica di poltrone per consiglieri, assessori e sottopancia di varia inutilità. Non lo vuole il partito di Berlusconi, che ha solo fatto finta di mettere il tema nel suo programma. Non lo vuole la Lega, che per bocca del ministro Calderoli fa finta di battersi per tagliare i costi della politica. E così via via fino al Pd, che sul tema fa finta di ergersi a vestale della Costituzione. Il grottesco di questa situazione è che poi c'è pure qualcuno che si chiede come mai nel paese stia montando l'onda dell'antipolitica.

© Riproduzione riservata
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-bluff-sulle-province/2129195/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #101 inserito:: Luglio 18, 2010, 10:48:34 am »

Lo squallido suk dell'Expo

di Massimo Riva

(15 luglio 2010)

Rendering Expo Milano Rendering Expo MilanoC'era una volta la Milan della bella Madunina sotto la quale- cantava con successo Alberto Rabagliati "se sta mai coi man in man". Ma adesso che è il berlusconiano "partito del fare" ad aver allungato le sue di mani sulla città le strofe della celebre canzonetta sembrano parlare di un passato lontano anni-luce. A gettare alle ortiche quello che era un riconosciuto primato di efficienza gestionale e di dinamismo economico hanno provveduto, infatti, gli amministratori del centro-destra al Comune e in Regione, con una conduzione del dossier Expo 2015 indegna del più squallido suk levantino.
Al principio tutto si presentava al meglio: Milano aveva vinto il duello con Smirne non solo perché l'allora governo Prodi aveva fatto un eccellente lavoro diplomatico per raccogliere il consenso internazionale, ma anche perché il progetto presentato si illustrava per grandezza e attrattiva dei contenuti. Quanto al fronte interno, ai cittadini ambrosiani si erano fatte balenare contropartite mirabolanti per il disagio della trasformazione della città in un cantiere per qualche anno: nuove linee di metropolitana, collegamenti via acqua con l'area fieristica, miglioramento generale della viabilità con lunghi tunnel sotterranei, aeroporti avveniristici, e via faraoneggiando.

Presto è venuto alla luce il primo inghippo: ipotesi tante, denari pochi o nessuno. Ma come, si dirà, nella patria della razza del soldo si era progettato senza fare di conto? Già, proprio così. Solo che a questo primo strappo con l'oculata tradizione meneghina altri ne sono seguiti a cascata. Un anno di lavoro è stato letteralmente gettato al vento perché il sindaco, Letizia Moratti, si era incaponita a voler nominare un sovrintendente all'Expo che non piaceva agli altri partner dell'operazione. Un secondo anno è andato perduto perché il finalmente nominato gestore dell'impresa - il deputato berlusconiano Lucio Stanca - si è trastullato fra ricerca di un ufficio degno della sua opera e renitenza a scegliere l'impegno per l'Expo in alternativa al mandato parlamentare: due stipendi, si sa, sono meglio di uno. Poi, qualche settimana fa, l'onorevole Stanca si è stancato del nulla che aveva fatto e si è fatto da parte.

Ora la palla è passata a un nuovo amministratore che continua, beato lui, a promettere mirabilie. Ma nel frattempo, il quadro è peggiorato. Il ministro Giulio Tremonti non vuole aprire i cordoni della borsa statale per l'Expo, mentre i ricchi privati - quelli della "Milan col coeur in man" - si tengono stretti i loro portafogli: perfino i più direttamente interessati come i costruttori, perché anche il principale fra loro, Salvatore Ligresti, non sta attraversando un periodo floridissimo. Già si parla perciò di un drastico ridimensionamento dei progetti coi quali le Moratti e i Roberto Formigoni si sono fatti belli dinanzi al mondo e ai loro amministrati. Prima che questa lenta agonia mortifichi definitivamente l'eredità del glorioso passato milanese, non sarebbe più serio limitare i danni e chiudere la partita? Un'ammissione di inettitudine oggi costerebbe molto meno di un fiasco clamoroso domani.

   
© Riproduzione riservata
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lo-squallido-suk-dellexpo/2130885/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #102 inserito:: Luglio 21, 2010, 11:13:04 pm »

Expo: il Vietnam della Moratti?

di Massimo Riva

Tra scelte sbagliate, atti di forza e ambizioni personali, due anni sono andati già persi. Adesso si parla di "ridimensionare" i progetti, ma il governo non molla più un euro. E la Lombardia rischia una figuraccia mondiale

(15 luglio 2010)

C'era una volta la Milan della bella Madunina sotto la quale - cantava con successo Alberto Rabagliati "se sta mai coi man in man".
Ma adesso che è il berlusconiano "partito del fare" ad aver allungato le sue di mani sulla città le strofe della celebre canzonetta sembrano parlare di un passato lontano anni-luce.

A gettare alle ortiche quello che era un riconosciuto primato di efficienza gestionale e di dinamismo economico hanno provveduto, infatti, gli amministratori del centro-destra al Comune e in Regione, con una conduzione del dossier Expo 2015 indegna del più squallido suk levantino.

Al principio tutto si presentava al meglio: Milano aveva vinto il duello con Smirne non solo perché l'allora governo Prodi aveva fatto un eccellente lavoro diplomatico per raccogliere il consenso internazionale, ma anche perché il progetto presentato si illustrava per grandezza e attrattiva dei contenuti. Quanto al fronte interno, ai cittadini ambrosiani si erano fatte balenare contropartite mirabolanti per il disagio della trasformazione della città in un cantiere per qualche anno: nuove linee di metropolitana, collegamenti via acqua con l'area fieristica, miglioramento generale della viabilità con lunghi tunnel sotterranei, aeroporti avveniristici, e via faraoneggiando.

Presto è venuto alla luce il primo inghippo: ipotesi tante, denari pochi o nessuno. Ma come, si dirà, nella patria della razza del soldo si era progettato senza fare di conto? Già, proprio così. Solo che a questo primo strappo con l'oculata tradizione meneghina altri ne sono seguiti a cascata. Un anno di lavoro è stato letteralmente gettato al vento perché il sindaco, Letizia Moratti, si era incaponita a voler nominare un sovrintendente all'Expo che non piaceva agli altri partner dell'operazione.

Un secondo anno è andato perduto perché il finalmente nominato gestore dell'impresa - il deputato berlusconiano Lucio Stanca - si è trastullato fra ricerca di un ufficio degno della sua opera e renitenza a scegliere l'impegno per l'Expo in alternativa al mandato parlamentare: due stipendi, si sa, sono meglio di uno. Poi, qualche settimana fa, l'onorevole Stanca si è stancato del nulla che aveva fatto e si è fatto da parte.

Ora la palla è passata a un nuovo amministratore che continua, beato lui, a promettere mirabilie. Ma nel frattempo, il quadro è peggiorato. Il ministro Giulio Tremonti non vuole aprire i cordoni della borsa statale per l'Expo, mentre i ricchi privati - quelli della "Milan col coeur in man" - si tengono stretti i loro portafogli: perfino i più direttamente interessati come i costruttori, perché anche il principale fra loro, Salvatore Ligresti, non sta attraversando un periodo floridissimo.

Già si parla perciò di un drastico ridimensionamento dei progetti coi quali le Moratti e i Roberto Formigoni si sono fatti belli dinanzi al mondo e ai loro amministrati.
Prima che questa lenta agonia mortifichi definitivamente l'eredità del glorioso passato milanese, non sarebbe più serio limitare i danni e chiudere la partita? Un'ammissione di inettitudine oggi costerebbe molto meno di un fiasco clamoroso domani.

   
© Riproduzione riservata
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/expo:-il-vietnam-della-moratti/2130885/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #103 inserito:: Luglio 26, 2010, 10:29:29 am »

Lo sceicco di casa nostra

di Massimo Riva

(23 luglio 2010)

Due sono le principali tare che rendono storicamente vulnerabile il nostro paese. La prima, finanziaria, è il debito pubblico. La seconda, economica, è la dipendenza energetica. Il miracolo prodotto da Sant'Azeglio Ciampi con l'aggancio all'euro ha reso in questi anni meno acuto e avvertito l'allarme su entrambi i fronti. Nel primo caso perché si è verificata una forte caduta dei tassi d'interesse e dunque del costo del debito. Nel secondo perché gli acquisti di gas e petrolio dall'estero hanno beneficiato del più solido tasso di cambio della moneta europea.
Per contrappasso questa tregua vantaggiosa ha prodotto effetti paradossali: poco o nulla si è fatto per alleggerire il debito - che, anzi, è tornato a crescere sotto la gestione del sedicente rigorista Tremonti - ma forse ancora meno si è realizzato per quanto riguarda il mercato dell'energia, dove all'ineluttabile tassa degli sceicchi continua a sovrapporsi quella del califfato domestico impersonato dall'Eni.

La denuncia fatta in proposito dal presidente dell'Autorità per l'energia, Alessandro Ortis, è di quelle che dovrebbero far fare un salto sulla sedia a tutti gli italiani con la testa sulle spalle. Nella sua ultima relazione questi ha calcolato che la posizione di dominio che l'Eni esercita in materia di gas fa pagare al paese almeno il 10 per cento in più del dovuto per le forniture all'ingrosso. Con pesanti conseguenze a cascata anche sui costi dell'energia elettrica dato che in Italia la gran parte delle centrali funziona a metano. Lo sceicco più esoso, insomma, lo abbiamo in casa.

Per tagliare le unghie a questa rendita di posizione Ortis ha riproposto la separazione dall'Eni delle grandi reti di trasporto del gas ovvero Snam Rete Gas. Un'operazione già prevista da una legge del 2003, ma rimasta lettera morta per le resistenze opposte dall'Eni con il sostegno dell'intera classe politica, tanto di destra come di sinistra. La tesi che sta dietro questa posizione è che sia più importante garantire la "massa critica" del monopolio anziché guardare ai benefici che prezzi più bassi del metano potrebbero diffondere non solo sui bilanci familiari, ma anche e soprattutto su un sistema produttivo alla disperata ricerca di recuperi di competitività.

Sul piano politico la sollecitazione di Ortis dovrebbe essere accolta per competenza dal ministero per lo Sviluppo, che in questo momento è ancora tenuto ad interim dal presidente del Consiglio. Cioè, proprio da quello stesso Silvio Berlusconi che tanto s'è dato e si dà da fare con le sue oblique frequentazioni di personaggi quali Vladimir Putin e il colonnello Gheddafi per aiutare l'Eni e qualche suo amico personale ad assicurarsi favori metaniferi particolari. Con tali premesse, quindi, sperare che un simile campione dell'ambiguità politica possa dar seguito all'invito ad aprire a una sana concorrenza il mercato del gas rientra, purtroppo, nel campo delle pie illusioni.

E l'interesse vitale di cittadini ed imprese a godere di un'offerta di metano a prezzi nettamente più convenienti? A quanto si capisce, dal governo all'Eni la risposta è il classico e italianissimo: chi se ne frega!

© Riproduzione riservata
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lo-sceicco-di-casa-nostra/2131280/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #104 inserito:: Luglio 31, 2010, 05:04:13 pm »

Quanti errori a Mirafiori

di Massimo Riva

(30 luglio 2010)

La vicenda Fiat sta diventando un modello esemplare di come non si dovrebbe affrontare il tema della competizione industriale al tempo del mercato planetario. Fin dalle prime avvisaglie di svolta radicale nella divisione internazionale del lavoro, con l'emersione da protagonisti di paesi come Brasile, Cina e India ormai da considerarsi emersi a pieno titolo, era apparso di una chiarezza cristallina il fatto che le economie già industrializzate non avrebbero potuto reggere a lungo la concorrenza nelle produzioni meno sofisticate, dove maggiore è l'incidenza dei costi della manodopera. Gli imprenditori meno intraprendenti hanno cercato di risolvere il problema delocalizzando ovvero trasferendo le loro attività tradizionali in paesi nei quali era possibile scontare salari più bassi. I più coraggiosi, invece, hanno forzato il passo dell'innovazione e degli investimenti tecnologici puntando su produzioni a maggior valore aggiunto, mettendo così al riparo sia le proprie aziende sia i livelli retributivi dei dipendenti. È questo il caso di numerose piccole e medie imprese che hanno conquistato invidiabili quote o solide nicchie di mercato a livello internazionale.

La più grande industria del paese - il gruppo Fiat - ha seguito più l'esempio dei primi che dei secondi. Sarà pure che oggi la fabbricazione di automobili impone un'articolazione multinazionale delle produzioni: sarebbe insensato, per esempio, produrre in Italia vetture che si vogliano vendere in Brasile. Ma il punto cruciale è che la Fiat non ha saputo o voluto sfruttare i benefici delle sue delocalizzazioni per dedicarsi in Italia alla ricerca di produzioni a più elevato valore aggiunto. Anzi, siamo ora al paradosso per cui si vuole trasferire dalla Polonia a Pomigliano la fabbricazione della Panda, che è il modello più economico ed elementare della gamma Fiat. Scelta in forza della quale si avanza la pretesa di ottenere anche in Italia condizioni produttive e salariali almeno pari se non più competitive di quelle praticate altrove. Spingendosi fino all'estremo di puntare alla creazione di una nuova azienda nella quale non applicare neppure le garanzie minime previste per i lavoratori nei contratti collettivi sottoscritti dalla Confindustria.

In altre parole, guidati per mano da Sergio Marchionne, gli eredi del mitico Gianni Agnelli dicono in sostanza ai lavoratori italiani che il loro unico futuro possibile è quello di subire un arretramento delle proprie condizioni di vita ai livelli dei loro colleghi di paesi economicamente più arretrati. Questa - si pontifica - è la legge del mercato globalizzato. Nulla, viceversa, si dice sul fatto che, soprattutto nei paesi di più vecchia industrializzazione, la competitività di una produzione dipende oggi in misura crescente dalla capacità innovativa dell'imprenditore e dalla dimensione dei suoi investimenti. Ma quale legge del mercato? I lavoratori italiani dell'auto sono chiamati a pagare il conto del cinico egoismo con cui gli Agnelli hanno osteggiato aumenti di capitale che mettessero in crisi il loro controllo sull'azienda. Che poi - beffa finale - potrebbe magari essere ceduta in un futuro nemmeno troppo lontano.

© Riproduzione riservata

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quanti-errori-a-mirafiori/2131641/18
Registrato
Pagine: 1 ... 5 6 [7] 8 9 ... 15
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!