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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 01, 2009, 10:36:28 am » |
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Massimo Riva
Oroscopo Tremonti
Si deve sperare che il 2009 possa portare quelle riforme nella vita dei mercati che la drammatica crisi del 2008 ha dimostrato indispensabili, ma senza che finora se ne siano visti neppure i primi passi. Il nodo cruciale è e rimane quello di mettere in campo nuove regole che possano scongiurare il ripetersi dei guasti provocati da un'allegra finanza lasciata correre a briglia sciolta tanto dalle autorità di vigilanza quanto dai poteri politici, sovente indifferenti ma talvolta pure conniventi.
Occorre, però, annotare che oggi in Italia si dura davvero fatica a nutrire fiducia in una svolta normativa rassicurante per i risparmiatori. Non aiutano a sperare bene alcune scelte politiche assunte in chiusura d'anno e, ancora meno, l'incresciosa polemica sollevata dal ministro dell'Economia contro il governatore della Banca d'Italia. Già in termini di elementare galateo istituzionale è imbarazzante che Giulio Tremonti si lasci andare a una raffica di battute goliardiche contro Mario Draghi, per giunta sul palcoscenico internazionale di un vertice Eurofin. Ma, quanto al merito, peggio ancora: perché le incaute parole del ministro offrono il fianco alla sgradevole impressione che Tremonti alzi questo polverone per scaricare altrove il barile delle sue responsabilità.
Infatti, se per Tremonti sarà 'demenziale stare ad ascoltare le lezioni di chi non ha capito nulla', come ha detto riferendosi al lavoro del Financial Stability Forum, presieduto da Draghi, quel che risulta ancor più demenziale per tutti è prestare ascolto alle parole di un ministro dell'Economia che vanta in materia precedenti assai poco encomiabili. Un caso lontano: Giulio Tremonti è il ministro che, alla vigilia di due rovinosi crac come Cirio e Parmalat, non si è opposto alla riduzione a bagatella penale di un reato economico fra i più insidiosi come il falso in bilancio. Un caso vicino: lo stesso Tremonti è il ministro che, con la tempesta bancaria di quest'estate all'orizzonte, è partito lancia in resta a soprattassare i profitti di quegli stessi istituti a soccorso dei quali si trova ora costretto a mettere a disposizioni cifre enormemente maggiori di quelle incassate con le maggiori imposte.
Sempre Tremonti poi è il ministro che ha dettato nuove regole sulle offerte pubbliche d'acquisto, il cui fine è ingessare il potere dei gruppi di comando delle società a scapito di tutti gli altri azionisti. E ancora Tremonti è colui che ha appena deciso di far slittare di altri sei mesi l'introduzione di un forte strumento di difesa dei piccoli risparmiatori, quale la 'class action'. Per spiegare le sue sortite polemiche il ministro dell'Economia ha detto che la crisi attuale 'è il riflesso del fallimento dei regolatori' e quindi che 'le regole non possono essere rifatte dai regolatori: spetta ai politici'. La tesi sarebbe anche impeccabile, se non fosse che poi i politici cui 'spetta' agiscono come Giulio Tremonti. Né serve che quest'ultimo si vanti di essere stato fra i pochi a prevedere il disastro incombente nei libri che ha scritto. Quand'anche così fosse, da come si muove nel ruolo di ministro può solo far sorgere il dubbio di non averli letti.
(31 dicembre 2008) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 09, 2009, 04:49:01 pm » |
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Massimo Riva.
Scontro in via Nazionale
Nell'inerzia delle parti in causa è silenziosamente trascorso il termine del 31 dicembre 2008, entro il quale la proprietà della Banca d'Italia avrebbe dovuto passare allo Stato ovvero a enti pubblici dal medesimo controllati. Così stabilisce una legge datata 28 dicembre 2005. Non è la prima volta che qualche scadenza importante viene ignorata: le vicende politiche del paese sono fitte di impegni disattesi, soprattutto quando tali comportamenti non implichino alcuna forma di sanzione. Del resto l'Italia - fertile culla di azzeccagarbugli - è forse l'unico Stato al mondo nel quale si è escogitato che un termine di legge non debba essere per definizione perentorio, ma possa essere considerato meramente ordinatorio o indicativo: vale a dire, evanescente.
Rischia così di trascinarsi ancora per chissà quanto tempo una questione di tenore istituzionale non trascurabile, tanto più alla luce delle pesanti disavventure che hanno scosso di recente il sistema bancario domestico sull'onda della grave crisi finanziaria internazionale. Proprio tali eventi hanno reso - per unanime giudizio - indispensabile un rafforzamento del ruolo di vigilanza che l'istituto centrale esercita sulla stabilità del mercato del credito e, in particolare, sulla gestione dei singoli istituti. Compito diventato ormai il più rilevante fra quelli rimasti a Via Nazionale dopo il passaggio alla Banca europea di Francoforte del potere di determinare il costo del denaro.
Il punto cruciale è che proprio un esercizio rigoroso e penetrante dei controlli di Banca d'Italia sugli istituti di credito rende ancora più ineludibile il nodo del conflitto d'interessi in cui opera Via Nazionale, essendo il suo capitale posseduto da una nutrita schiera di quelle stesse banche che sono oggetto della vigilanza. Ciò configura una non sostenibile commistione di ruoli fra controllore e controllati. Si obietta che, in realtà, questo intreccio pone un problema più teorico che pratico perché la Banca d'Italia gode di un'autorevolezza non condizionabile dagli istituti vigilati, siano o non siano essi suoi azionisti. L'infelice esperienza del governatorato di Antonio Fazio insegna che così non è o non è sempre stato.
In ogni caso, l'esistenza di un conflitto d'interessi di tal fatta non può essere esorcizzata solo fidando nelle qualità soggettive del governatore e della sua squadra. Ecco perché, molto opportunamente, la legge del dicembre 2005 aveva imposto che il nodo fosse tagliato una volta per tutte, entro tre anni. Termine più che congruo per venire a capo del problema più intricato in materia: quello della valutazione del patrimonio di Via Nazionale, che le banche azioniste hanno registrato nei loro bilanci con stime fortemente divaricate. Ma i tre anni sono trascorsi invano e ora la questione si sta confusamente sovrapponendo a quella dell'emergenza finanziaria in cui versa il mondo bancario. Intanto il ministro Tremonti, invece di chiudere questa partita, si diletta a lanciare frecciate goliardiche contro il governatore Draghi. Evidentemente, in età berlusconiana, occuparsi di conflitti d'interessi è parlare di corda in casa dell'impiccato.
(09 gennaio 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #47 inserito:: Gennaio 16, 2009, 11:40:32 pm » |
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Massimo Riva.
Capitalismo medievale
Il sistema finanziario italiano si regge su una struttura di tipo medievale al vertice della quale un ristretto gruppo di grandi feudatari esercita il proprio dominio attraverso una lottizzazione delle poltrone e delle partecipazioni azionarie così ben congegnata da svuotare di ogni significato la parola 'mercato'. Basti dire che il 60 per cento delle società quotate ha nel proprio capitale azionisti che sono al tempo stesso diretti concorrenti. Mentre, se si considerano i componenti dei consigli di amministrazione, in quasi il 90 per cento dei casi si verificano cumuli di incarichi in società concorrenti. Queste le cifre riassuntive dell'indagine appena realizzata in proposito dall'Autorità Antitrust.
Purtroppo, a ben vedere, l'organismo presieduto da Antonio Catricalà ha fatto un po' la classica scoperta dell'acqua calda. Sarà anche meritoria e utile l'opera di accurata rilevazione statistica sugli intrecci azionari e personali del mondo finanziario domestico, ma in fondo essa non fa che confermare ciò che anche la semplice lettura dei giornali quotidiani certifica ormai da decenni. Ovvero che quello italiano è una sorta di capitalismo tribale, fondato sulla diffusione pervasiva di quel conflitto d'interessi che rappresenta il più insidioso ostacolo alla realizzazione di un'economia di mercato effettivamente aperta alla libera concorrenza. E ciò senza che la suddetta Autorità Antitrust e meno che mai il potere politico abbiano fatto qualcosa di buono e di utile per il superamento di questa situazione paleocapitalistica.
Anche stavolta, del resto, lo stesso Catricalà non sembra intenzionato a suscitare grandi speranze di novità. A suo avviso, infatti, la strada maestra per uscire da questi eccessi di concentrazione di legami personali e azionari dovrebbe essere quella di un'autoregolamentazione da parte degli stessi soggetti implicati. Insomma, ci si dovrebbe affidare a una sorta di ravvedimento operoso compiuto proprio da coloro che hanno fatto del conflitto d'interessi la propria ragione di vita o comunque l'asse portante dei loro business.A che scopo Catricalà snocciola le scandalose cifre di cui s'è detto se poi egli stesso si affida alla buona volontà di chi finora si è manifestamente infischiato di rientrare in decenti regole mercantili? È un po' come se un ministro dell'Interno sostenesse che la lotta a Cosa Nostra deve essere affidata al rinsavimento dei boss che ne compongono la cupola. Si obietterà che i poteri dell'Antitrust sono limitati dalla legge e che una vera riforma in materia può venire solo da scelte legislative di Parlamento e governo. Scelte oggi poco probabili alla luce del fatto che proprio l'attuale presidente del Consiglio è la personificazione di un gigantesco e irrisolto conflitto d'interessi.
Tutto vero, ma allora il rischio è che le denunce dell'Antitrust assomiglino al 'latinorum' di Don Abbondio per ripararsi dal Don Rodrigo di turno. Come forse è già accaduto con l'appoggio offerto alle misure governative mirate a rendere ancora più blindate le cupole di potere dominanti chiudendo anche gli ultimi spazi di contendibilità delle imprese. Dire una cosa e farne un'altra non sta bene.
(16 gennaio 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #48 inserito:: Gennaio 24, 2009, 04:27:42 pm » |
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Massimo Riva
La politica dello struzzo
Secondo la Banca d'Italia la recessione sarà severa quest'anno con un calo del Pil nell'ordine del due per cento. Manifestamente infastidito dall'annuncio, che contraddice i puerili sforzi del governo per minimizzare la portata della crisi in atto, Giulio Tremonti non ha saputo nascondere il suo imbarazzo, liquidando la previsione con il termine irridente di 'congetture'. Ed ha sovraccaricato il suo sarcasmo soggiungendo che anche una discesa del Pil ai livelli del 2005 non sarebbe comunque 'un ritorno al Medioevo'. Per disdetta del ministro dell'Economia, nel volgere di pochi giorni, la medesima allarmante valutazione di via Nazionale è stata fatta propria anche dalla Commissione europea, che ha reso pubblico il quadro delle sue stime aggiornate sull'andamento congiunturale delle economie continentali: il Pil europeo scenderà nel 2009 dell'1,8 per cento, mentre quello italiano calerà - appunto - del 2 tondo tondo.
Per carità, in materia di previsioni economiche, tanto più in tempi turbolenti come gli attuali, l'errore è sempre in agguato. Basti ricordare che, soltanto nello scorso novembre, proprio a Bruxelles si stimava che il Pil italiano di quest'anno si sarebbe limitato a segnare una crescita zero. E però se il commissario Joaquin Almunia, ad appena un paio di mesi di distanza, ritiene di dover correggere in termini così sensibilmente negativi le sue cifre, ciò significa che da allora ad oggi la situazione generale ha dato chiare indicazioni di peggioramento. Il fatto che Tremonti non intenda prenderne atto lascia sconcertati ed aggiunge un motivo di allarme in più in un orizzonte già scuro di suo.
L'impressione, infatti, è che il governo si rifiuti di riconoscere la dura realtà incombente non tanto perché non condivida le previsioni negative di Bankitalia e della Ue, ma perché non sa come misurarsi con le conseguenze implicite in un calo del Pil di due punti percentuali. Conseguenze che il rapporto di Almunia, viceversa, snocciola una dopo l'altra senza reticenze. La principale è che si avrà un balzo del tasso di disoccupazione dal 6,7 per cento del 2008 all'8,2 di quest'anno. Certo, anche in questo caso non sarà un ritorno al Medioevo e alla servitù della gleba, ma quel punto e mezzo in più basta a far considerare ottimistica perfino la perdita di 600mila posti di lavoro in corso d'anno stimata da Confindustria.
Un'altra seria conseguenza della caduta del Pil si avrà poi sul versante dei conti dello Stato. In particolare per quanto riguarda il deficit, in corsa verso il 4 per cento e il debito pubblico, che a Bruxelles vedono in forte impennata fino a sfiorare di nuovo quota 110 per cento, così annullando gli sforzi di contenimento compiuti negli ultimi anni e le promesse di costante discesa fin sotto il fatidico livello del cento per cento fatte insieme da Silvio Berlusconi e da Tremonti. Che costoro resistano ad ammettere una realtà che ne smentisce l'ottimismo di facciata non ha più senso. Il giorno in cui i due autorevoli struzzi si decideranno a tirare fuori la testa dalla sabbia, infatti, potrebbe essere troppo tardi per evitare al paese una gelata ben peggiore delle più nere previsioni.
(23 gennaio 2009) da epresso.repubblica.it
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« Risposta #49 inserito:: Febbraio 06, 2009, 12:48:34 pm » |
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Massimo Riva
Fiat: un film già visto?
Dice il ministro Calderoli che nuovi aiuti pubblici alla Fiat provocherebbero una rivolta popolare. Il linguaggio leghista è spesso iperbolico, ma talvolta sa raccogliere o eccitare sentimenti diffusi. È probabile, in effetti, che numerosi contribuenti siano piuttosto stufi del fatto che, ogni due-tre lustri, il grande gruppo industriale torni a battere cassa per ottenere dallo Stato sostegni, diretti o indiretti, alle sue difficoltà economiche. È accaduto troppe volte perché questo non lasci un segno negativo nella memoria collettiva.
C'è da chiedersi, tuttavia, se anche questa specifica volta si tratti di una replica di un abusato copione. A ben vedere così non è. Oggi, infatti, non ci si trova di fronte a una crisi solitaria della Fiat. In realtà, ad essere nei guai è l'industria automobilistica dell'intero pianeta: dagli Stati Uniti al Giappone, passando per l'Europa. Guai che nascono dal sovrapporsi di due fattori entrambi pesanti: l'uno causato dalla precipitosa caduta degli acquisti dovuta alla tempesta economica generale, l'altro derivante dalla necessità di una svolta tecnologica profonda in direzione di vetture a basso tenore sia di consumi sia di emissioni inquinanti.
In altre parole, la posta in gioco oggi non è tanto la sopravvivenza di una singola impresa, ma il futuro dell'industria automobilistica in quanto tale. Quelle aziende che, con gli aiuti dei rispettivi governi, riusciranno a superare la dura sfida del momento metteranno i loro paesi nella condizione di potere ancora contare su un settore industriale importante in termini di occupazione e di saldo della bilancia con l'estero.
Certo, quando si parla di industria automobilistica, in Italia si intende Fiat e soltanto Fiat per ben note ragioni. Ma questa coincidenza fra una singola azienda e un intero settore non sposta granché i termini del problema. Quel che anche i nostri governanti sono chiamati a decidere è se vogliono oppure no che l'economia italiana del futuro possa continuare ad avere il contributo (oggi attorno al 12 per cento del Pil) di un comparto produttivo che finora è stato uno dei principali volani dell'intero sistema. È del tutto lecito, naturalmente, che si voglia abbandonare questa partita per puntare su altri obiettivi di sviluppo industriale. Ma deve essere chiaro che questo è ora il nocciolo della questione e quindi che non si tratta di fare regali agli eredi Agnelli o al signor Marchionne, il cui ruolo potrebbe essere passeggero.
Ben consci della portata del problema, altri paesi europei (la Germania per 2,5 miliardi di euro, la Francia addirittura per nove) hanno già deciso robuste misure di sostegno, che vanno dagli incentivi al rinnovo del parco auto nazionale a finanziamenti per la ricerca. Negli Stati Uniti è stato predisposto un piano di aiuti di oltre 25 miliardi di dollari per i tre colossi di Detroit. In Italia, viceversa, si continua a polemizzare attorno a un intervento che resta comunque cifrato nell'ordine di qualche centinaio di milioni. La classica mezza misura per aggirare il problema senza assumersi le responsabilità di una scelta netta. La lezione della vecchia Alitalia non ha proprio insegnato nulla.
(06 febbraio 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #50 inserito:: Febbraio 22, 2009, 03:26:38 pm » |
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Massimo Riva
Il G7 della doppiezza
Da mesi le autorità politiche e monetarie dei Sette si dimostrano impotenti di fronte alla crisi dei mercati finanziari. Altro che rivincita dei poteri pubblici sugli eccessi del capitalismo Tremonti e Draghi al vertice G7/G8 di RomaBisognava essere ottimisti a oltranza per attendersi qualcosa di risolutivo dal conclave romano dei ministri economici dei grandi paesi industrializzati. Ormai sono parecchi mesi che autorità politiche e monetarie dei Sette offrono al mondo un penoso spettacolo di impotenza e subalternità di fronte alla crisi che sta scuotendo i mercati finanziari. Altro che rivincita dei poteri pubblici su un capitalismo prostrato dagli eccessi di una deregulation selvaggia. Quel che si vede, mese dopo mese, è soltanto una vana e affannosa rincorsa dei governi a tamponare le enormi falle aperte da speculatori irresponsabili, ma senza che si possa scorgere neppure l'avvisaglia di più stringenti regole per riportare un po' di ordine e di pulizia negli scambi internazionali.
Quando si arriva al punto cruciale del, chiamiamolo così, 'nuovo codice finanziario globale', ministri e governatori delle banche centrali non sanno fare altro che balbettare ipocrite rassicurazioni e ipotesi astratte. Com'è puntualmente accaduto anche a Roma dove, come ha detto con irritante giubilo il ministro Tremonti, si è raggiunto il formidabile risultato di dichiararsi tutti d'accordo sul fatto che occorre fare qualcosa al più presto, ma che cosa si vedrà. Anzi, peggio ancora, perché l'unico impegno che è stato reso pubblico con sconcertante solennità è quello contro ogni ricorso a pratiche protezionistiche. Precisamente l'opposto di quanto alcuni di quegli stessi ministri - basti pensare ai casi clamorosi di Francia e Stati Uniti - avevano fatto fino al giorno prima di incontrarsi a Roma e continuano a fare ora una volta rientrati in patria.
In questo scenario di arrogante doppiezza davvero si stenta a comprendere dove il nostro ministro dell'Economia trovi motivi per fare la ruota del tacchino a celebrazione del grande successo della sua guida del G7. Ma come si può? Il governo di Parigi ha varato un maxi-piano di aiuti all'industria automobilistica strettamente condizionato al mantenimento dell'occupazione entro i confini nazionali. Nel frattempo il Congresso di Washington ha votato un progetto plurimiliardario di interventi fondato sulla priorità del 'buy american'. E un ilare Tremonti, rappresentante di un paese che è il classico vaso di coccio accanto a quelli di ferro, ci viene a raccontare che tutto sta andando per il meglio. Lo sberleffo dopo il danno è davvero troppo.
Adesso l'ultima favola è che a una svolta decisiva si arriverà nelle prossime settimane con il vertice di Londra del G20, dove accanto ai tradizionali Sette siederanno anche i rappresentanti di paesi venuti di recente e con prepotenza in primo piano, quali Cina, India, Russia, Brasile e così via. Magari, fosse vero s'intende. Il dramma è che, da qualunque parte si volga lo sguardo, non si riesce a cogliere il minimo sintomo di una reale volontà politica di mettere le briglie al cavallo imbizzarrito del capitalismo finanziario e ancor meno di temperare le spinte al protezionismo nell'economia reale. Certo, un giorno da questa crisi si uscirà: ma di questo passo - Tremonti dovrebbe saperlo - con i paesi forti resi più forti e i deboli ancora più deboli.
(20 febbraio 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #51 inserito:: Marzo 07, 2009, 12:26:05 am » |
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Massimo Riva
Europa a tre velocità
La spaccatura fra Est e Ovest, che si è verificata al vertice dell'Unione europea, offre una lezione importante per il futuro della comunità continentale. Fin dalle origini, il dibattito sul processo di unificazione ha visto la continua dialettica fra due visioni contrapposte. Da un lato, coloro secondo i quali andava preferito il sentiero dell'unità politica attraverso successive rinunce dei poteri statali a favore di un'autorità sovranazionale con espliciti fini federativi. Dall'altro, i più pragmatici secondo i quali soltanto l'integrazione degli interessi economici avrebbe potuto creare le premesse necessarie per il salto in avanti verso la creazione di un'unione politica a tutti gli effetti.
Nei fatti è questa seconda opzione che ha prevalso: dapprima con la Comunità del carbone e dell'acciaio, poi con il mercato comune, infine con la più recente nascita dell'euro. Ma con un'eccezione significativa: la decisione, assunta pochi anni fa, di aprire le porte ai paesi dell'ex-blocco sovietico e ad altri minori portando a ben 27 i membri dell'Unione. Questa forzatura del passo politico ha subito fatto venire alla luce seri inconvenienti di governabilità del sistema, compromettendo finora anche il cammino verso il superiore obiettivo di un Trattato costituzionale che valga da pietra angolare degli agognati Stati Uniti d'Europa.
Avevano ed hanno, quindi, ragione i fautori della 'économie d'abord'? Sì. E proprio l'ultimo vertice a 27 di Bruxelles ne ha dato la riprova: non ci può essere una volontà politica unitaria quando gli interessi economici sono troppo divergenti. In altre parole, è vano immaginare di poter assumere decisioni comuni facendo finta di non vedere che quella a 27 non è un'Unione fra pari, ma un'Europa dentro la quale si ritrovano e s'intrecciano almeno tre differenti categorie di paesi.
Quelli senz'altro di serie A come Francia e Germania, che si tirano dietro il Benelux e forse (i guai di Londra oggi sono seri) il Regno Unito. Quelli di serie B che sono principalmente Italia e Spagna con a rischio retrocessione Austria e Portogallo. Infine c'è un'affollata serie C, che comprende ora non solo i paesi dell'Est (a eccezione della Slovenia) ma anche Stati pur appartenenti alla moneta unica, quali Irlanda e Grecia. La crisi finanziaria presente ha un po' rimescolato questa classifica, ma non poi troppo perché le differenze di capacità e di peso economici preesistevano agli scossoni della tempesta in atto. Tanto per fare un esempio, è ridicolo che a Roma si punti il dito contro l'aumento del debito in corso a Parigi o a Berlino perché in ogni caso Francia e Germania resteranno comunque lontanissime da quel rapporto 100 per cento con il Pil da cui l'Italia si sta di nuovo allontanando al rialzo.
In simile scenario la richiesta di un piano globale di salvataggio per i paesi dell'ex-blocco comunista era e rimane fuori dalla realtà economica e, quindi, anche politica.
La scelta di fare, viceversa, interventi caso per caso, paese per paese, non va intesa perciò come abbandono degli ideali unitari, ma va letta come rivalsa di quella realtà dei rapporti di forza economici che è da europeisti stolti ignorare.
(06 marzo 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #52 inserito:: Marzo 13, 2009, 03:55:21 pm » |
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Massimo Riva
Il prefetto non fa credito
Alcuni provvedimenti presi dal governo stanno offrendo spunti di straordinaria amenità da rendere meno amara la vita dei tanti italiani alle prese con la crisi peggiore dell’ultimo secolo Forse non ha tutti i torti Silvio Berlusconi nel dire che la situazione in Italia è grave, ma non è poi così tragica. Alcuni provvedimenti presi dal suo governo, infatti, stanno offrendo tali spunti di straordinaria amenità da rendere, se non più dolce, almeno un poco meno amara la vita dei tanti italiani alle prese con la crisi peggiore dell?ultimo secolo. Per la sua irresistibile comicità spicca su tutti la brillante trovata di affidare alle prefetture la vigilanza sull?esercizio del credito a favore delle imprese minori.
Altrove, penso agli Stati Uniti, si sta fieramente dibattendo sull?u tilità ovvero sull?inopportunità di nazionalizzare le banche in difficoltà. I fautori dell?economia di mercato sono così contrari a una tale ipotesi da preferire il collasso del sistema creditizio. Prospettiva catastrofica che aiuta i sostenitori dell?intervento statale a tirare diritti sulla loro strada, infischiandosene di chi li accusa di cedimento occulto al bolscevismo. In Italia, viceversa, la pragmaticità del Cavaliere - che da sempre ama definirsi ?uomo del fare? - ha saltato a piè pari questa controversia ideologica da perdigiorno e ha già trovato la soluzione del problema: lo Stato non diventerà azionista, ma sorveglierà l?attività quotidiana delle banche attraverso i prefetti. Magnifico! Un?idea del genere non sarebbe venuta in mente neppure al dirigista Benito Mussolini e al suo fido Achille Starace.
Magari quest?ultimo avrebbe obbligato i banchieri a mettersi in camicia nera e a fare qualche salto nel cerchio di fuoco, ma neppure un ministro della Repubblica di Salò sarebbe stato sfiorato dal proposito di far convocare, per esempio, Alessandro Profumo o Corrado Passera da un prefetto per contestare loro le scelte di finanziamento delle rispettive banche. Tanto per divertirci proviamo a immaginare come potrebbe funzionare il meccanismo inventato dal duo Berlusconi-Tremonti, facendo il caso di un signor Caio, piccolo imprenditore o artigiano, che si veda respinta dalla banca la richiesta di un credito per la propria azienda. Indispettito l?ottimo Caio fa un esposto alla prefettura di competenza. La quale convoca il direttore della filiale incriminata per chiedergli conto del suo rifiuto.
Con ogni probabilità il malcapitato funzionario farà presente che il fido non è stato accordato perché il richiedente non offre sufficienti garanzie vuoi economiche vuoi di affidabilità dell?i nvestimento. A questo punto il prefetto che cosa può fare? Prima ipotesi: può segnalare il caso al suo diretto superiore, il ministro Maroni che gira il dossier al collega Tremonti, il quale si rivolge alla Banca d?Italia perché istruisca una pratica sulla vicenda. Tempi della bizzarra trafila? Biblici. E poi? Seconda ipotesi: il prefetto o il ministro fanno sì che la banca conceda il finanziamento. Tutto bene, se il debitore fa fronte ai suoi impegni. Ma se non lo fa? Chi risarcisce la banca? Il prefetto? Il ministero degli Interni? Ovvero il dicastero dell?Economia? Gira e rigira, chi rischia di rimetterci sarebbe, come al solito, il povero e incolpevole contribuente. Sarà, come dice Berlusconi, che la situazione non è tragica. Di sicuro non è seria.
(13 marzo 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #53 inserito:: Marzo 21, 2009, 11:54:33 am » |
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Massimo Riva
Disoccupato e disfattista
L'incubo della disoccupazione inizia a far paura. Secondo recenti dati diffusi dall'Istat circa 370 mila lavoratori hanno perso il posto nei primi due mesi del 2009 I costi sociali della crisi cominciano a diventare vistosamente pesanti. Già il boom dei ricorsi alla cassa integrazione, cresciuti in poche settimane di oltre il 500 per cento, ha dato un forte segnale di allarme.
Ma un record negativo ancora più preoccupante si è registrato sul fronte della disoccupazione vera e propria: secondo i dati Inps, nel solo bimestre gennaio-febbraio, più di 370 mila lavoratori hanno perso il posto. Le cifre di marzo non sono ancora disponibili, ma si sa che le code agli sportelli dell'istituto di previdenza non si stanno accorciando. Di questo passo rischia di risultare ottimistica perfino la stima di Confindustria, secondo la quale, nel corso dell'anno, oltre 600 mila italiani dovrebbero essere licenziati dalle rispettive aziende.
Ciò significa che il Paese si trova dinanzi a un'emergenza economico-sociale di straordinaria gravità: altro che far fatica a superare l'ultima settimana del mese, per milioni di italiani i problemi cominciano dalla prima. Nessuno pensa, naturalmente, che una simile ecatombe di posti di lavoro possa essere imputata al governo in carica: a tutti sono evidenti le origini, più esterne che interne, di una crisi di dimensioni planetarie. Quel che lascia, però, sbigottiti è che tanto il presidente del Consiglio quanto i suoi ministri non mostrano di avere la consapevolezza necessaria ad affrontare una situazione così drammatica.
L'unica linea seguita dal governo Berlusconi sembra essere quella di negare o comunque nascondere la realtà. A chi gli chiedeva un'opinione sui 370 mila disoccupati in più di gennaio-febbraio, il ministro Tremonti ha risposto: "Lei fa domande di carattere ansiogeno, le faccia a casa sua, non con me". Mentre il suo collega Sacconi ha così commentato: "La dimensione della crisi può essere accentuata dal disfattismo di coloro che esasperano le previsioni e così incoraggiano la propensione al rattrappimento dei consumi, della produzione e dell'occupazione".
Insomma, l'Italia potrà uscire dalla crisi, come Berlusconi non si stanca di predicare ogni giorno, soltanto quando giornali e televisioni smetteranno di parlarne ovvero di rendere pubblici dati 'ansiogeni' o 'disfattisti'. Aggettivo quest'ultimo che rievoca, fra l'altro, una stagione politica fra le meno felici della storia patria.
Il bello è che il premier e i suoi ministri si dicono pure convinti che questo rifiuto a guardare in faccia la realtà sia la strada migliore per spronare gli italiani a ritrovare la fiducia perduta, senza rendersi conto che il loro ottimismo stereotipato suona come un insulto crudele per milioni di famiglie in serie difficoltà. Nella tragedia sociale incombente si inserisce così un aspetto tristemente comico che - come si è appena visto nel caso della vigilanza prefettizia sulle banche - sta diventando ormai la chiave prevalente nei provvedimenti del governo.
Aspettiamoci, a questo punto, che fra i prossimi decreti-legge ne salti fuori anche uno che obblighi ad appendere in ogni fabbrica od ufficio un cartello con la scritta: "Qui non si parla di economia, qui si lavora". Firmato: Berlusconi. Chi non avrà perso il posto, potrà farsi almeno un'amara risata.
(20 marzo 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #54 inserito:: Aprile 08, 2009, 10:00:59 am » |
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Massimo Riva.
Capitalismo mafioso
Da anni si discute sulla necessità di rendere Piazza Affari un vero mercato azionario.
Oggi, purtroppo, a causa della crisi si rischia di andare in una direzione completamente opposta.
A questo punto, si abbia almeno il pudore di non parlare più di 'capitalismo relazionale'. Basta, insomma, con quel dolce (e ipocrita) eufemismo con il quale si è soliti definire quella particolare architettura del potere economico che - ben riparata dietro patti di sindacato, scatole cinesi, incroci azionari e comparaggi di poltrone - consente a un ristretto numero di gruppi e di persone di fare il bello e il cattivo tempo sui mercati, infischiandosene tanto dei sani principi della libera concorrenza quanto del proliferare di macroscopici conflitti d'interessi.
A giudicare, infatti, da alcune novità che il Parlamento si accinge a introdurre appare ormai inarrestabile lo scivolamento dei maggiori gruppi di comando azionario verso la trasformazione in blindate cupole di potere, ai cui membri dovrebbe spettare il titolo più confacente di autentici boss di un capitalismo non altrimenti qualificabile se non con l'aggettivo di 'mafioso'.
Sono decenni che in Italia si blatera sulla necessità di rendere Piazza Affari un vero mercato azionario, ripulendolo da tutti quei marchingegni che i potenti del listino si sono inventati a protezione dei loro particolari interessi. Ma ecco che, con la farisaica giustificazione della dura crisi in atto, ci si sta incamminando sulla strada opposta. Non paga di avere già modificato le regole sulle offerte d'acquisto per rendere meno scalabili le aziende, ora la maggioranza berlusconiana si accinge a offrire altre armi di difesa ai gruppi di comando dominanti. Una prima proposta intende portare dal 10 al 20 per cento il limite di azioni proprie acquistabili da ogni società quotata.
Una seconda punta a far salire dal 3 al 5 per cento del capitale il pacco di azioni che si possono acquistare ogni anno per passare dal controllo di fatto a quello di diritto della singola impresa. Una terza mira ad abbassare dal due all'uno per cento la soglia dell'obbligo di segnalazione alla Consob da parte di chi rastrelli azioni.
Le tre novità hanno il senso di un'operazione politica inequivocabile: impedire che i bassi corsi correnti del listino consentano, a chi ne abbia il denaro e la voglia necessari, di dare la scalata a qualche azienda, mettendo a repentaglio gli equilibri di potere fra le cupole dominanti. Le Opa ostili, che sono il sale del mercato, vengono così bandite dall'Italia. Il tragico è che questa iniziativa parlamentare raccoglie nella sostanza suggerimenti avanzati niente meno che dal presidente della Consob, Lamberto Cardia.
Siamo, dunque, all'insolente paradosso per cui la tutela dell'attuale capitalismo antimercantile viene assunta dalla pubblica autorità che avrebbe come compito di vigilare contro ogni azione diretta a colpire la libera e leale concorrenza, in particolare promuovendo proprio la contendibilità delle aziende.
Ma perché stupirsi di tanto palesi contraddizioni? Non una delle tante voci sedicenti liberali, così pronte a lanciare anatemi contro le invasioni di campo dello Stato negli affari privati, ha speso finora una parola per censurare questo autentico sfregio al libero mercato. Un silenzio omertoso che fa coerente rima con capitalismo mafioso.
(26 marzo 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #55 inserito:: Aprile 08, 2009, 10:04:47 am » |
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Massimo Riva
Golden share da ridere
La condanna dei giudici comunitari ha messo a nudo la genericità con cui la legge permette al governo di esercitare un diritto di veto contro l'ingresso di azionisti non graditi L'amministratore delegato dell'Eni Paolo ScaroniPrevedibile e prevista la condanna della golden share all'italiana da parte della Corte di giustizia europea è arrivata magari in ritardo e però inesorabile. La sentenza dei giudici comunitari va dritta al punto cruciale: l'imprecisione e la genericità con cui la legge indica i criteri in forza dei quali il governo di Roma si riserva di esercitare un diritto di veto contro l'ingresso di azionisti politicamente non graditi in alcune grandi aziende. Ovvero le semiprivatizzate Enel, Eni e Finmeccanica, nonché - e qui siamo all'abuso dell'assurdo - la Telecom, nel cui azionariato non vi è più alcun soggetto pubblico.
Viene così in piena luce l'aspetto deteriore della furbata legislativa tentata con il decreto del 2004, che puntava a lasciare mani libere al potere politico per decidere il destino azionario delle aziende a sua capricciosa discrezione. Ciò che l'Unione europea manda a dire con questa sentenza non è che l'Italia debba rinunciare a difendersi da qualunque assalto a imprese di importanza strategica per l'economia nazionale (come quelle del settore energetico o militare), ma che l'esercizio di questa tutela deve essere fondato su regole ben definite, trasparenti, al riparo da ogni tentazione di arbitrarietà occasionale.
In parole più semplici, abbiamo fatto in Europa l'ennesima figura da magliari. E abbiamo proprio voluto farla a tutti i costi perché, nel corso del giudizio davanti alla Corte, pur di difendere la piena licenza di decisione del patrio governo ci si è nascosti dietro argomentazioni paradossali quali il pericolo che Eni o Enel potessero essere scalate da azionisti legati a organizzazioni terroristiche. Ma i giudici europei non si sono lasciati prendere per scemi e così hanno imposto che l'Italia si liberi di questa golden share 'de noantri'.
Sarà ora da vedere come si muoverà il governo Berlusconi che, in tema di libertà di mercato azionario, appare impegnato in opposta direzione al dichiarato scopo di fornire alle cupole dominanti del potere economico tutti i sostegni (legislativi e non) utili a impedire ogni scalata dall'esterno. In particolare, un test interessante sarà quello della golden share in Telecom, dove lo Stato azionista non c'è più. Intanto c'è da sperare che si abbia almeno il pudore di non rispolverare l'alibi patriottico della tutela degli italiani dallo spionaggio di terzi malintenzionati. Dopo il caso Tavaroli un simile argomento suonerebbe come una grottesca presa per il naso.
Poi c'è da seguire come si atteggerà ora il governo verso gli spagnoli di Telefonica, i quali mal sopportano la convivenza con soci italiani più gelosi del proprio potere artificiale che disposti a difenderlo con denaro sonante. Alla botta della Corte europea il ministro Scajola ha replicato dicendo che Roma verificherà se in materia nell'Unione c'è parità di trattamento per tutti. Uscita improvvida soprattutto quanto ai rapporti fra Italia e Spagna. Enel, infatti, si è appena preso il controllo del gigante iberico Endesa senza che il governo di Madrid alzasse barricate. Per i magliari di Roma sarà dura tenere Telefonica alla larga da Telecom usando espedienti al posto dei soldi.
(03 aprile 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #56 inserito:: Aprile 10, 2009, 10:51:02 am » |
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Massimo Riva
Paradiso fiscale Italia
Il G20 ha deciso di mettere al bando i cosiddetti paradisi fiscali. Una scelta applaudita anche da Silvio Berlusconi e dal ministro Giulio Tremonti, entrambi esperti in materia Giulio Tremonti a CernobbioI vertici internazionali hanno un curioso effetto di droga euforizzante sui partecipanti italiani. Fra Londra e Strasburgo Silvio Berlusconi ne ha offerto prove ripetute e tutte molto imbarazzanti per l'immagine del nostro paese nel mondo. Ma, seppure con il suo stile più compassato, anche il ministro Giulio Tremonti ha recitato una parte ricca di spunti grotteschi. In particolare, quando ha celebrato con toni compiaciuti (quasi fosse un suo merito personale) la decisione del G20 di mettere al bando i cosiddetti paradisi fiscali.
Che questa sia una scelta giusta e opportuna non v'è il minimo dubbio. Ce ne vorrà di tempo per sbrogliare la matassa degli intrighi finanziari, sovente anche criminali, che si nascondono dietro i paraventi bancari di troppi paesi compiacenti, ma è certo importante che si sia concordato di fare finalmente pulizia fiscale in materia. Non solo: è anche interessante che a questa svolta abbiano dato il loro assenso proprio personaggi come Berlusconi e Tremonti, che in tema di paradisi fiscali vantano - il primo per trascorsi imprenditoriali, il secondo professionali - un'esperienza sicuramente utile al comune lavoro di bonifica.
Ora, però, che i due sono rientrati in Italia forse è il caso di chiedere loro che cosa intendano fare per quanto riguarda quello specifico e non trascurabile paradiso tributario domestico che si sostanzia in una scandalosa evasione fiscale di massa. Va bene mettere alle strette governi e banche della Svizzera o delle Bermuda, ma questa pur necessaria campagna rischia di suonare ipocrita e fuorviante se poi all'interno del paese si chiudono entrambi gli occhi dinanzi a un fenomeno che, per qualità e quantità, mette a repentaglio lo stesso contratto sociale su cui si fonda la Repubblica.
Al riguardo, gli ultimi dati resi pubblici (dichiarazioni 2007 sui redditi 2006) offrono un quadro che è un insulto alla realtà del tenore di vita di molti italiani. Il 35 per cento dei contribuenti vivrebbe con meno di 10mila euro l'anno, mentre meno dell'uno per cento denuncia introiti sopra i centomila. L'una e l'altra di queste percentuali estreme suonano semplicemente incredibili e danno ragione a chi stima che con l'evasione siano sottratti all'Erario non meno di 200 miliardi l'anno: una cifra cha da sola pone l'Italia ai primi posti nella classifica dei paradisi fiscali del mondo intero.
Ebbene che intende fare in proposito il pirotecnico (sui palcoscenici internazionali) duo Berlusconi-Tremonti? Finora i segnali dati sul teatro interno non fanno ben sperare: infatti, una delle prime mosse del governo del Cavaliere è stata la cancellazione del provvedimento che sanciva la tracciabilità dei pagamenti e poneva limiti severi ai versamenti in denaro contante. Così facendo precisamente l'opposto di quanto servirebbe per prevenire e smascherare l'evasione tributaria. E ora i nostri due De Rege della commedia fiscale vorrebbero far dimenticare i loro regali agli evasori, facendo la faccia feroce con la Svizzera o il principato di Monaco? A un premier che ama rivolgersi direttamente al popolo va ricordato che chi evade le tasse froda lo Stato, ma soprattutto imbroglia il popolo italiano.
(09 aprile 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #57 inserito:: Aprile 25, 2009, 10:11:44 am » |
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Massimo Riva.
Il sindacato dei paradossi
C'è un serio problema di democrazia al fondo dello scontro che si è aperto tra le confederazioni sindacali sulla riforma del modello contrattuale. Cisl, Uil e Ugl hanno sottoscritto l'accordo con Confindustria dichiarandosi convinti di aver così tutelato al meglio gli interessi dei propri associati. La Cgil, viceversa, non ha firmato perché ritiene che quell'intesa contenga le premesse per una depauperazione di salari e stipendi.
Nessuno dei due fronti, però, è in grado di dire che cosa pensino al riguardo i più diretti interessati, cioè i lavoratori. La Cgil ha chiesto che si organizzasse un referendum generale sui termini del patto raggiunto con Confindustria dichiarandosi pronta a sottoscriverlo in caso di sconfitta, le altre confederazioni hanno rifiutato seccamente questa proposta. A questo punto sempre la Cgil ha tenuto una consultazione al proprio interno che ha dato un sostegno massiccio alla posizione negativa assunta dal segretario Guglielmo Epifani. Dal lato opposto si è replicato sbandierando il risultato di un referendum, svolto negli stabilimenti Piaggio di Pontedera su un accordo aziendale, dove la posizione più rigida di Cgil è uscita perdente nel voto.
A parte la sproporzione evidente fra i due casi, le polemiche che ne sono seguite non hanno fatto altro che sottolineare il punto cruciale: l'assenza di un'intesa fra i sindacati per sottoporre le scelte dei vertici alla verifica del consenso/dissenso della base. Il tema della democrazia sindacale si trascina insoluto ormai da decenni per una principale ragione che proprio questi ultimi sviluppi hanno reso del tutto evidente: a dispetto della tanta retorica sparsa sull'unità sindacale, le confederazioni concorrenti della Cgil temono che la loro voce risulti ridimensionata dal voto dei lavoratori, accrescendo di conseguenza il peso e il ruolo di quello che da tempo è comunque considerato il sindacato maggioritario.
Questo fronte del rifiuto ai referendum fra i lavoratori, guidato principalmente dai vertici della Cisl, ha un chiaro obiettivo: isolare la Cgil e cercare così di logorarne il primato sulla distanza. Una strategia che oggi trova una sponda importante sul terreno politico perché si incontra con un analogo disegno perseguito da tempo dal governo Berlusconi per indebolire il sindacato maggiore che il premier taccia di 'comunista'. Del resto Raffaele Bonanni non fa che replicare lo stesso tentativo compiuto dalla Cisl di Savino Pezzotta durante la precedente esperienza ministeriale del Cavaliere, quando si arrivò, sempre senza Cgil, alla firma del cosiddetto 'Patto per l'Italia': accordo che si rivelò un boomerang per i suoi sottoscrittori perché si risolse in un clamoroso buco nell'acqua.
Non è la prima volta, insomma, che il verde della Cisl - a contatto con Berlusconi - tende a ingiallire nella speranza di poter poi rifiorire a spese del rosso Cgil. Che vi sia lotta politica per la supremazia anche fra sigle sindacali non stupisce di certo. Ma continua a lasciare interdetti che tutto ciò avvenga rifiutandosi di chiamare i lavoratori a dire la loro opinione. Non è così che i sindacati possono ergersi, come vorrebbero, ad alfieri della democrazia.
(24 aprile 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #58 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:49:18 pm » |
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Massimo Riva.
Un'altra beffa dal G7
La finanza internazionale stenta a definire regole nuove e rigorose che evitino il ripetersi dei nefasti crack accaduti di recente. Con la connivenza dei politici e delle autorità di vigilanza Mario DraghiNon è che questa storia dei nuovi 'legal standard' per la finanza internazionale si risolverà in una colossale buffonata? Più passano i mesi, più si infittiscono le riunioni di ministri, autorità ed esperti e più l'increscioso dubbio prende corpo. Al vertice G7 di Roma in febbraio si è raggiunto il formidabile risultato - celebrato con giubilo dal nostro ministro dell'Economia - di dichiarare che sì, è proprio necessario definire regole nuove e naturalmente più rigorose. Qualche settimana dopo a Londra si è tenuto il summit allargato del G20 e l'unica cosa che ne è uscita è una lista di paesi fiscalmente canaglia, contro i quali si minaccia un boicottaggio del quale non sono stati definiti né tempi, né modi, né mezzi.
Ora i membri del G7 sono tornati a rivedersi a Washington per concordare che 'entro l'anno' (la prudenza non è mai troppa) si dovrà trovare un linguaggio contabile comune per valutare le perdite provocate dai banchieri d'avventura, oltre a cercare 'approcci coerenti' per la supervisione sui fondi più speculativi. Infine, è stato compiuto un altrettanto sostanziale passo in avanti: la struttura tecnocratica di supporto alle decisioni dei governanti - presieduta dal governatore italiano Mario Draghi - si chiamerà Financial Stability Board e non più banalmente Forum. Una rivoluzione lessicale dalle conseguenze, immagino, incalcolabili.
Nel frattempo sui mercati gli affari - per fortuna, ovviamente - continuano, ma come se poco o nulla del tutto fosse cambiato. Si assiste così a eventi che hanno il sapore di beffe grottesche. Le famigerate (e un tempo reputate) agenzie di rating - quelle stesse che, per esempio, davano il massimo di affidabilità a banche come Lehman Brothers fino al giorno prima del patatrac - hanno ripreso a sfornare le loro valutazioni con l'identica sicumera d'un tempo. L'unica novità è che ai vertici dell'una o dell'altra Mr. Caio ha preso il posto di Mr. Tizio, ma tutto prosegue sempre come se la tempesta finanziaria non avesse pesantemente intaccato la loro credibilità. Di sciogliere il clamoroso conflitto d'interessi in cui versano queste agenzie, essendo pagate dagli stessi soggetti di cui esaminano i conti, neppure si parla.
Ci sono poi alcune grandi banche che hanno ricominciato tranquillamente a diffondere i loro report sulle aziende quotate nelle varie Borse con relativi consigli di acquisto o di vendita di questo o quel titolo. Per esempio, tanto per non far nomi, la svizzera Ubs o l'americana Citi, cioè due fra gli istituti che hanno subito autentici tracolli di bilancio per gli investimenti fatti nel periodo della finanza allegra. Anche qui, tranne qualche giro di valzer nelle poltrone di vertice, nulla è accaduto che possa dare davvero il segno di una fiducia riconquistata.
La sensazione complessiva è che le volpi stiano così tornando a guardia dei pollai. Con l'implicita connivenza dei poteri politici e delle autorità di vigilanza la cui defatigante lentezza nel maturare le regole di un nuovo codice finanziario internazionale rischia alla fine di risolversi in una manovra gattopardesca: far finta di cambiare tutto per non cambiare nulla.
(30 aprile 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #59 inserito:: Maggio 08, 2009, 04:51:41 pm » |
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Massimo Riva
La tassa sul futuro
Nelle previsioni aggiornate i conti del 2009-2010 saranno drammatici. La crescita del Pil cadrà di almeno il 4,2 per cento quest'anno e il rapporto deficit-Pil salirà al 4,6 per cento Giulio TremontiC'era una volta la favola bella di una Finanziaria 2009, predisposta e votata in tutta fretta nell'estate 2008, al fine sbandierato di 'mettere in sicurezza i conti pubblici' prima che la tempesta finanziaria globale sconvolgesse il mondo.
Noi sì, è stato fino a ieri il ritornello del duo Berlusconi-Tremonti, che abbiamo capito in anticipo il diluvio incombente e perciò abbiamo provveduto ad alzare gli argini meglio e prima di tutti gli altri. Peccato, però, che quegli argini non stiano reggendo all'inondazione e ora i due fratelli Grimm della finanza pubblica siano costretti a cancellare il lieto fine della storiella raccontata agli italiani.
Infatti, nelle previsioni aggiornate - testé rese note dallo stesso governo - si ammette che i conti del 2009-2010 saranno drammatici. La crescita del Pil cadrà di almeno il 4,2 per cento quest'anno, con forse un rimbalzo dello 0,3 nel prossimo. Il rapporto deficit-Pil salirà ben oltre la fatidica quota 3 per collocarsi al 4,6 per cento, mentre il debito pubblico avrà un'impennata spettacolare: dal 105,8 del 2008 si passerà al 114,3 nel 2009 per arrivare al 117 nel 2010 e superare il 118 nel 2011.
Per completezza bisognerebbe aggiungere che altri organismi autorevoli - come il Fondo monetario internazionale - hanno diffuso stime sull'Italia ben peggiori di quelle dichiarate dal governo. Ma già quest'ultime sembrano più che sufficienti per certificare la totale inconsistenza delle promesse di sicurezza contabile profuse a piene mani in questi mesi da Palazzo Chigi e dal ministero dell'Economia.
Il punto sorprendente è che, non paghi di uno smacco così cubitale, sia Berlusconi sia Tremonti insistono nel diffondere ottimismo sulle prospettive di rilancio dell'economia. L'uno proclama che l'Italia uscirà dal tunnel prima e meglio degli altri paesi, l'altro assicura che il peggio è ormai alle spalle.
Parole spericolate alla luce della lezione di questi mesi, dietro le quali si tenta di nascondere il poco o nulla che è stato fatto in realtà per moderare l'impatto della crisi. Al riguardo va ricordato che, secondo Bankitalia, le decine e decine di miliardi di interventi fatti balenare da Berlusconi nei suoi proclami si riducono per ora a una manovra aggiuntiva intorno al mezzo punto di Pil: 7,5 miliardi.
Ancora meno credibili e più insolenti sono poi i tentativi di far finta di nulla dinanzi alla più pesante delle previsioni: quella che indica il ritorno del debito pubblico verso livelli da bancarotta. Sarà che l'inflazione viene considerata l'imposta più odiosa perché occulta e socialmente crudele, ma che dire allora delle conseguenze del debito? A ben vedere, quest'ultimo rappresenta una forma di tassazione ancora più subdola e malvagia perché si configura come una requisizione del reddito delle future generazioni che offre il vantaggio politico-elettorale di sfiorare soltanto gli interessi immediati dei contribuenti attuali.
Insomma, par di capire che Silvio Berlusconi, come direbbe Umberto Bossi, abbia trovato la quadra per tener fede al solenne impegno di non mettere le mani nelle tasche degli italiani: allungarle con impunita prepotenza in quelle dei contribuenti futuri.
(07 maggio 2009) da espresso.repubblica.it
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