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« Risposta #30 inserito:: Settembre 26, 2008, 06:40:11 pm » |
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Massimo Riva
A chi predica Tremonti
Il ministro dovrebbe evitare di lanciare invettive contro i bilanci falsi. Non va dimenticato che fu il governo Berlusconi a volere la riforma del reato in bilancio che depenalizzò diverse fattispecie in materia Giulio TremontiLa lingua di Giulio Tremonti attraversa una fase di intensa attività. Il ministro dell'Economia parla, parla, rilascia dichiarazioni, si fa intervistare, sentenzia sovente con infrangibile sicumera. Da ultimo poi, sulla grave crisi finanziaria internazionale, si è prodotto in una serie di giudizi per lo più sprezzanti dell'universo mondo. Con un perentorio 'silete' - a civettuola ostentazione dei suoi studi classici - ha invitato tutti gli economisti a starsene zitti per pagare il fio di non aver previsto il terremoto che ha scosso i mercati dagli Stati Uniti all'Europa passando per l'Asia. Così cercando di accreditarsi l'immagine di colui che sarebbe stato l'unico a capire per tempo la tempesta incombente.
La saccenteria, come si sa, non è mai una buona consigliera. Chi conservi un poco di buona memoria, infatti, rischia di restare francamente stupefatto nell'ascoltare alcune affermazioni proprio dalla bocca di Tremonti. Per esempio, a proposito degli sconquassi bancari, il ministro è partito da un'osservazione tanto condivisibile quanto ovvia: "Non è fallita soltanto una banca, è finito un mondo senza regole". Ma poi ha così soggiunto: "Occorre rifare - governi ed autorità - le regole, vietando alcuni contratti, i bilanci falsi e i paradisi fiscali".
Ora per quanto riguarda i paradisi fiscali si può magari pensare che l'intemerata di Tremonti sia frutto della sua lunga esperienza di consulente tributario, nella quale gli sarà probabilmente capitato di vedere da vicino a quali espedienti cercano di ricorrere i più smaliziati evasori delle tasse. Che egli voglia oggi mettere questo patrimonio di conoscenze al servizio dell'Erario può essere una buona notizia. Ma l'invettiva contro i bilanci falsi, questa è davvero uno sfregio all'intelligenza degli italiani. I quali non possono aver dimenticato che uno dei primi atti legislativi compiuti dal governo Berlusconi-Tremonti nei fatidici cento giorni dopo le elezioni del 2001 fu precisamente una riforma radicale del reato di falso in bilancio con conseguente depenalizzazione di numerose fattispecie in materia.
Iniziativa che si rivelò, fra l'altro, particolarmente incresciosa perché esposta allo sgradevole dubbio di essere viziata dal fine occulto di alleggerire alcune posizioni processuali del premier Berlusconi. E che risultò comunque intempestiva come messaggio politico ai mercati perché a ridosso della medesima esplosero in Italia gli scandali del malaffare finanziario in Cirio e Parmalat. Ma neppure la lezione di questi due sonori dissesti, nei quali fu coinvolta una gran massa di risparmiatori, convinse l'ottimo Tremonti a tornare sui suoi passi per rivedere una disciplina del falso in bilancio che non suonasse più come un 'fatevi i vostri comodi' agli attenti orecchi dei manipolatori contabili.
E adesso che i falsificatori di bilanci sono stati scoperti, ma in terre lontane, il ministro veste i panni del fustigatore del malcostume finanziario? Per giunta con la protervia di chi vorrebbe far intendere un supponente 've lo avevo detto io'? È meglio che l'invito al silenzio Giulio Tremonti lo rivolga a se stesso ogni mattina dinanzi allo specchio.
(26 settembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 04, 2008, 03:47:21 pm » |
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Massimo Riva.
Più Letta e meno Sacconi
La trattativa Alitalia ha segnato i due principali negoziatori. E il ministro del Welfare ne è uscito sconfitto Il ministro SacconiLa trattativa per la vicenda Alitalia ha segnato una sorte opposta per i due principali negoziatori governativi. Per unanime consenso, il sottosegretario Gianni Letta è stato l'autentico trionfatore della difficile prova. Viceversa, il ministro Maurizio Sacconi ne è uscito con le ossa rotte. Questi ha cominciato male ed ha finito peggio, ponendo una reiterata serie di ultimatum inutilmente perentori. Dapprima: si chiude stanotte o mai più. Poi: accordo entro domani o fallimento. Infine: o Cgil e piloti firmano oppure si fa senza di loro.
Si sa com'è andata: la fatidica notte è trascorsa invano, come pure sono passati il domani, il dopodomani e così via... Quanto al proposito di tirare diritto senza il via libera di piloti e Cgil, Sacconi ha dovuto sbattere il naso contro il muro delle concessioni migliorative strappate proprio da coloro che egli avrebbe voluto tenere fuori dalla porta. E a farglielo sbattere è stato il suo collega Letta, che lo ha estromesso di fatto dal negoziato nelle battute conclusive. Insomma, quel che è successo a Palazzo Chigi è palese: con Sacconi si sarebbe andati al naufragio, con Letta la nave è andata in porto.
Si trattasse soltanto di un insuccesso personale del ministro del Welfare, la questione non meriterebbe tanta attenzione. Ma il fatto è che, in questa partita sciagurata, l'avventuroso Sacconi ha trascinato con sé anche un blocco consistente del mondo sindacale: in particolare, Cisl, Uil e Ugl, indotte a firmare un testo di accordo che poi la renitente Cgil è riuscita a far modificare con aggiunte significative. In altre parole, chi si è fidato della linea intransigente ostentata dal ministro si è trovato alla fine scavalcato dalle concessioni ottenute dagli altri: un esito disastroso sul piano degli equilibri di potere e dei rapporti di forza fra organizzazioni sindacali.
Anche se lui lo nega, tutto fa pensare che Sacconi abbia perseguito scientemente la linea della rottura con la Cgil, sindacato al quale egli insiste nel rimproverare un pregiudizio politico ostile verso il governo Berlusconi. Ma proprio questo suo speculare pregiudizio politico contro la Cgil - frutto avvelenato di una malcelata nostalgia craxiana - ha finito per accecare per primo lo stesso Sacconi, inducendolo a lanciare una sfida che non è stato in grado di reggere, fino al punto di esporre le organizzazioni sue gregarie allo scorno di vedersi sopravanzare dalla concorrente Cgil.
Non è la prima volta che un governo Berlusconi gioca la carta della spaccatura del fronte sindacale tentando di isolare la confederazione maggioritaria dalle altre. Era già accaduto nel 2002 col cosiddetto Patto per l'Italia, firmato da Cisl e Uil senza Cgil. Un altro clamoroso infortunio, visto che il celebrato Patto si rivelò ben presto un buco nell'acqua con effetto boomerang per chi l'aveva sottoscritto. Perseverare su questa strada accidentata sarebbe davvero diabolico ora che sono alle viste passaggi sindacali impegnativi quali la riforma dei contratti collettivi e i rinnovi del pubblico impiego. La lezione Alitalia dice con chiarezza che ci vorrebbe un po' più di Letta e molto meno di Sacconi.
(03 ottobre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Ottobre 10, 2008, 06:52:27 pm » |
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Massimo Riva.
Riscrivere le regole
La trasparenza si impone oggi come l'unica via percorribile per chiunque intenda ristabilire la fiducia pubblica nelle attività finanziarie. Il caso Unicredit insegna Le banche domestiche isola felice nella tempesta globale? La favola bella - raccontata con monotona insistenza da ministri, governatori e banchieri medesimi - ha illuso gli italiani per poche settimane. Una certa mattina il titolo Unicredit ha cominciato a precipitare in Borsa e così si è scoperto che il maggior gruppo creditizio nazionale era anche lui nei guai, negati fino a poche ore prima. La repentinità di un tanto brusco cambiamento d'orizzonte ha azzerato di conseguenza proprio quello che era l'obiettivo principale delle autorevoli e reiterate rassicurazioni: consolidare la fiducia dei risparmiatori.
Al riguardo si può e si deve riconoscere che i vertici di Unicredit - Alessandro Profumo in testa - hanno dimostrato una tempestiva capacità di reazione chiamando i propri azionisti ad approvare un'ingente ricapitalizzazione della banca. Ma né questo pronto intervento né gli atti di contrizione dello stesso Profumo possono cancellare lo sconcerto e gli interrogativi che la vicenda lascia tuttora in campo. Non basta, infatti, dichiarare che l'azienda ha dovuto registrare 700 milioni di svalutazioni nel solo terzo trimestre di quest'anno. Una simile botta richiede qualche spiegazione aggiuntiva se si vuole recuperare credibilità sul mercato. Di quei 700 milioni sfumati, per esempio, ben 500 erano in titoli Abs, ovvero garantiti da attività. Chi, come, quando e perché ha valutato quelle 'attività' in garanzia? Una falla di queste proporzioni non può essere disinvoltamente attribuita al caso o alla mala sorte.
Del resto, anche al di là del caso Unicredit, proprio la trasparenza sugli errori compiuti si impone oggi come l'unica via percorribile per chiunque intenda ristabilire la fiducia pubblica nelle attività finanziarie. E ciò vale tanto per i banchieri quanto per tutti i poteri chiamati in causa da questa disfatta del sistema regolatorio del mercato. In proposito fa presto il nostro presidente del Consiglio a proclamare, turgido e impettito, che nessuno perderà neppure un euro. A parte il fatto che di euro numerosi risparmiatori ne hanno già persi parecchi, quello di Berlusconi è il metodo classico per cercare di fare bella figura senza pagare dazio.
Va bene, infatti, ricordare che i conti correnti italiani sono garantiti fino ad almeno 103 mila euro ciascuno, ma quel che si dovrebbe pretendere oggi dal potere politico è che, invece di fare decreti sui grembiulini scolastici, si occupi con almeno pari urgenza di riscrivere quelle regole mercantili che tuttora consentono di realizzare le più sfacciate (e tollerate) forme di circonvenzione dei risparmiatori. Grazie a Berlusconi, infatti, l'Italia è il paese nel quale il falso in bilancio è una sorta di banale reato contravvenzionale, mentre nella gestione del risparmio da parte delle banche come negli assetti azionari del mondo del credito (da Mediobanca in giù) il conflitto degli interessi è pratica corrente. In queste materie non c'è da cercare alcun concerto in Europa o nel G8, i rimedi sono tutti e soltanto di competenza domestica. Serie iniziative al riguardo ricostruirebbero fiducia nel mercato più di tante enfatiche assicurazioni sulla solvibilità dei depositi bancari.
(10 ottobre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 10, 2008, 11:26:58 pm » |
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ECONOMIA IL COMMENTO
Il premier promoter
di MASSIMO RIVA
Un presidente del Consiglio che invita i risparmiatori a non cedere al panico dinanzi ai precipizi dei listini di Borsa è un'autorità politica che fa il suo mestiere. Ma un presidente del Consiglio, che indossa i panni del promoter finanziario e insiste nell'indicare ai cittadini quali specifiche azioni devono comprare in Borsa, è uno spettacolo indecoroso e allarmante.
Già l'altro giorno a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi aveva fatto un brutto scivolone in materia vantando la solidità patrimoniale e reddituale di imprese quali l'Enel e l'Eni, oltre che la sua Mediaset. Invece di rimediare all'errore con il pudore del silenzio, oggi a Napoli è tornato sull'argomento, rilanciando l'esortazione a comprare i titoli dei due grandi gruppi che, fra l'altro, sono tuttora a prevalente controllo statale. Ci si può forse consolare col fatto che, almeno stavolta, egli abbia evitato di tirare in ballo anche l'impresa di famiglia, ma non è che questo minimo e tardivo soprassalto di decenza possa ridimensionare una sortita che degrada il capo dell'esecutivo al livello di un qualunque broker finanziario, per giunta in macroscopico conflitto d'interesse rispetto a tutti coloro che operano sul mercato azionario.
Chi guida il governo di una democrazia, che vive in regime di economia di mercato, non può e non deve manifestare preferenze fra i soggetti in libera competizione sui listini di Borsa. Altrimenti rischia di dare ragione proprio alle critiche più dure di quei suoi antagonisti politici che lo accusano di voler trascinare l'Italia su un piano inclinato il cui sbocco finale è un sistema di potere assai simile a quello della Russia di Putin, dove l'intreccio tra affari e politica si va sempre più consolidando a spese dello Stato di diritto e della normale dialettica democratica.
Né serve che Berlusconi cerchi di attenuare la gravità dei suoi sfondoni asserendo di voler così arginare il pericolo di una diffusione del panico finanziario fra i cittadini. Anzi, se vi sono comportamenti che possono spingere gli italiani a perdere il controllo dei propri nervi e a giudicare la situazione anche più grave di quanto lo sia veramente, questi consistono proprio nello spettacolo inquietante di un presidente del Consiglio che, lui per primo, si lascia vincere da un'incontinenza verbale tale da portarlo a dire cose che mai dovrebbero uscire dalla bocca di un premier.
Se è questi a perdere per primo il senso delle proporzioni, infatti, che cosa mai devono pensare gli italiani di quanto sta accadendo sui mercati? Par di capire che la loro risposta è stata più che eloquente: i titoli Enel ed Eni hanno chiuso con una perdita percentuale doppia rispetto alla caduta media del listino.
Sempre oggi, non pago di aver rotto gli argini con la sortita su Eni ed Enel, l'incontenibile Berlusconi ne ha fatta un'altra, per certi versi peggiore, facendo balenare la minaccia che una chiusura generalizzata dei mercati potrebbe essere fra le ipotesi su cui si deciderà nell'imminente nuovo vertice di Parigi. Certo, finita poi la conferenza stampa, il Cavaliere è corso ai ripari - probabilmente perché qualcuno gli deve aver spiegato la gravità di una simile sortita anche sul piano dei rapporti con gli altri paesi - smentendo se stesso, come gli capita sempre più sovente di fare. Ma, intanto, anche in questo caso la frittata è fatta e si può facilmente immaginare con quali facce i partner europei lo accoglieranno al summit parigino.
(10 ottobre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 18, 2008, 11:47:09 am » |
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Massimo Riva.
L'etica, le belle parole e i fatti
Un passaggio indispensabile verso la soluzione della drammatica crisi presente è costituito dal ritorno della fiducia pubblica nella correttezza dei gestori del potere economico Cesare Geronzi"L'etica e la responsabilità siano alla base del libero mercato". Bel proclama in tanto tempestosi frangenti finanziari, soprattutto dalla bocca del presidente del Consiglio. Un passaggio indispensabile verso la soluzione della drammatica crisi presente è costituito, infatti, dal ritorno della fiducia pubblica nella correttezza dei gestori del potere economico. Un esito possibile soltanto se tutti costoro sapranno ritrovare la credibilità perduta nei tanti, troppi malaffari nei quali sono andati in fumo montagne di risparmi della collettività. L'appello di Silvio Berlusconi in tal senso è senz'altro benvenuto.
Solo che le parole in materia contano assai poco, mentre decisivi risultano i comportamenti e le scelte concrete nell'esercizio quotidiano di ciascun singolo ruolo. Altrimenti si corre il rischio che i moniti verbali sull'etica possano essere intesi come un'ipocrita mascheratura di atti che vanno in direzione opposta. E purtroppo, anche in questo caso, il governo Berlusconi ha dato prova di voler parlare in un modo ma di razzolare in tutt'altro. Ancora vibrante nell'aria il richiamo morale del premier, infatti, al ministero dell'Economia si è tenuto un singolare consulto d'emergenza sulla crisi. Accanto ai rappresentanti di Banca d'Italia, Confindustria e Associazione bancaria - ovvero tutti esponenti di istituzioni o associazioni di pubblico rilievo - il ministro Tremonti ha fatto intervenire anche il presidente di Mediobanca, Cesare Geronzi.
Già la presenza di questa unica voce privata è apparsa una scelta stravagante e anche non poco stonata alla luce del fatto che, proprio da pochi giorni, la famiglia del presidente del Consiglio ha ottenuto un posto nel nuovo consiglio di amministrazione di quella che fu la grande banca di Enrico Cuccia. Ma questi scivoloni di discutibile opportunità appaiono ancora poco di fronte a un punto ben più dolente. Quel presidente di Mediobanca, cui Giulio Tremonti ha ritenuto di chiedere buoni consigli, vanta un curriculum giudiziario non proprio limpido: una condanna in primo grado per bancarotta (caso Bagaglino) e un rinvio a giudizio con la medesima imputazione nella vicenda Parmalat, nome quest'ultimo che alle orecchie di molti risparmiatori evoca tutto fuorché la presenza di etica negli affari. Difficile, davvero difficile pensare che con la presenza di Geronzi a quel summit il governo intendesse lanciare un credibile messaggio di fiducia ai mercati.
Come non bastasse negli stessi giorni si è scoperto che in Senato, con il parere favorevole del governo, era stato inserito nel decreto Alitalia un imbarazzante emendamento teso ad alleggerire la posizione penale degli imputati per reati finanziari e subito ribattezzato, forse non a caso, 'salva Geronzi'. Il presidente del Consiglio si è premurato di dire che lui non ne sapeva nulla, mentre il ministro Tremonti è stato drastico: o va via l'emendamento o vado via io. Meglio così, s'intende, che perseverare nell'errore. Il risultato di simili comportamenti, tuttavia, è quello di mostrare un governo Berlusconi che, in tema di etica e affari, si muove come su una sorta di ambiguo saliscendi: sale con le parole, scende con i fatti.
(17 ottobre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #35 inserito:: Ottobre 24, 2008, 10:21:08 pm » |
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Massimo Riva
Qui tira una brutta aria
L'insensibilità di Berlusconi nei confronti dell'ambiente sottolinea solo l'arretratezza complessiva del nostro apparato produttivo rispetto a quello degli altri paesi più industrializzati del continente La resistenza che il governo Berlusconi oppone al piano europeo per l'ambiente denuncia qualcosa di molto peggio di una disinvolta insensibilità verso i temi della salute dei propri cittadini e del surriscaldamento climatico. Dal fondo di questo atteggiamento riaffiora un vizio antico della politica domestica: l'incapacità a guardare al futuro per supina soggezione agli interessi consolidati nel presente.
Dietro la contesa delle cifre su quanto dovrebbe fare l'Italia per tenere il passo con gli obiettivi indicati da Bruxelles, infatti, c'è una questione ben più specifica e materiale che lo stesso presidente del Consiglio ha messo esplicitamente in piazza. Si tratta degli onerosi investimenti che il nostro sistema industriale dovrebbe affrontare per portare sia i propri impianti sia i beni prodotti dai medesimi a livelli meno tossici di quelli attuali. Non a caso sull'argomento la Confindustria si è schierata, anima e corpo, a fianco del governo contro l'Unione europea.
Evidentemente né Silvio Berlusconi né Emma Marcegaglia si rendono conto di ottenere, così facendo, solo il bel risultato di sottolineare in rosso l'arretratezza complessiva del nostro apparato produttivo rispetto a quello degli altri paesi più industrializzati del continente. Tanto che in questa specifica vicenda l'Italia rischia di vedere modificato perfino il suo ruolo e le sue alleanze tradizionali in Europa. Cioè, di passare dal rango d'élite dei sei paesi fondatori a quello di capofila dei nuovi arrivati: quegli Stati che erano un tempo al di là della 'cortina di ferro' e che, a causa del lungo dominio sovietico, hanno tuttora industrie con altissimi tassi di inquinamento. Un gemellaggio che non può portare nulla di buono, in termini sia politici che economici.
Schierarsi a tutela, per esempio, di acciaierie che spargono diossina nell'aria ovvero di automobili con scarichi eccessivi significa guardare più all'Italia di ieri che a quella di domani, rendendo così un duplice pessimo servizio al paese. Da un lato, perché si inducono le imprese a non rimodernare impianti vecchi e modelli obsoleti. Dall'altro lato, perché si disincentivano gli investimenti verso quelle innovazioni tecnologiche che stanno rapidamente trasformando la corsa all'aria e all'acqua pulite in un 'business' ad alto rendimento per il futuro. Vorrà pur dire qualcosa che il paese con la più forte industria d'Europa è oggi all'avanguardia, per esempio, nella diffusione di impianti fotovoltaici per la produzione di energia. La spiegazione è chiara: non solo la Germania riduce così la sua dipendenza dall'import di gas, ma le imprese tedesche si preparano ad essere anche le più pronte ad esportare il risultato dei loro investimenti sui mercati altrui. Perché non anche in Italia?
La volenterosa ministra Stefania Prestigiacomo, che si sta arrampicando sugli specchi per perorare un indifendibile ostruzionismo italiano contro il pacchetto europeo per il clima, per ora minaccia sfracelli più nelle conferenze stampa che nelle riunioni ufficiali. Forse c'è ancora spazio per sperare che quella ingaggiata da Berlusconi sia soltanto l'ennesima battaglia mediatica: tutta parole e niente sostanza.
(24 ottobre 2008)
espresso.repubblica.it
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 31, 2008, 03:51:31 pm » |
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Massimo Riva
Salvataggi pericolosi
La sede della Borsa a MilanoDa sempre le crisi economiche sono un significativo banco di prova della capacità e dell'intelligenza dei governi. Quella attuale lo è in modo particolare perché, con voce unanime dall'America all'Europa, sono proprio gli uomini della finanza e dell'industria a invocare soccorso dalle autorità della politica. L'elenco dei salvataggi effettuati con pubblico denaro si sta allungando di mese in mese in tutto l'Occidente capitalistico. Si è cominciato con le banche, ora si sta passando all'economia reale: negli Usa, per esempio, è in gestazione un piano di aiuti all'industria automobilistica per la rispettabile cifra di 25 miliardi di dollari.
Nella sua versione italiana, tuttavia, questa generale corsa al sostegno di imprese pericolanti sta rischiando di assumere forme e finalità dall'esito paradossale: non di fuoriuscita dalla crisi in avanti, ma di perverso consolidamento di alcuni fra i peggiori vizi del sistema domestico. Una prima minaccia al riguardo è il possibile intervento dello Stato nel capitale delle banche. C'è qualcosa di inquietante in questa ipotesi perché tutti i maggiori istituti di credito sostengono di non averne alcun bisogno, mentre il governo viceversa insiste nel dichiararsi pronto a farlo. E, addirittura, preme su Bankitalia perché modifichi le regole del gioco in modo da poterlo fare.
Ma non meno allarmante è la campagna mediatica orchestrata dal presidente del Consiglio in persona sulle scalate ostili che non meglio identificati corsari della finanza straniera starebbero progettando per comprarsi le aziende strategiche del nostro paese agli attuali vilissimi prezzi di Borsa. Tanto che ora il premier, di concerto col fido ministro Tremonti, ha anticipato l'intenzione di cambiare la normativa in materia in modo da rendere inattaccabili le imprese tricolori. Ciò che rende sospetta questa iniziativa è che Berlusconi agita questo pericolo soprattutto con riferimento a società che di fatto non appaiono per nulla scalabili, come Enel ed Eni. Siamo franchi: a parte il peso già oggi prevalente dello Stato nelle due aziende, chi mai si sognerebbe di tentarvi una scalata sapendo di avere contro il governo nazionale? Neppure un redivivo Saddam Hussein!
Di qui a pensare che Berlusconi indichi un obiettivo ma miri a un altro ci passa poco. Barriere più alte contro eventuali assalti esterni, infatti, servirebbero soltanto a preservare gli attuali gruppi di controllo sulla generalità delle imprese quotate in Borsa. Cosicché un mercato azionario - che è già il più ingessato del mondo a causa della tolleranza verso patti di sindacato, scatole cinesi e conflitti d'interessi - vedrebbe ulteriormente blindati nel loro potere di comando proprio quegli stessi personaggi che si reggono soprattutto in base a escogitazioni giuridiche e ad accordi di comparaggio dallo sgradevole sapore mafioso. Così frustrando, per giunta, anche le residue speranze di qualche buon guadagno da parte dell'ampia platea dei piccoli risparmiatori.
Ci possono essere tante vie d'uscita dalla crisi attuale: quella delineata dal duo Berlusconi-Tremonti si segnala come un ritorno a quel passato che è padre di molti dei guai presenti.
(31 ottobre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #37 inserito:: Novembre 07, 2008, 04:06:19 pm » |
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Massimo Riva
La politica dello struzzo
Ora, anche tecnicamente, l'Italia è in recessione e occorrerebbe che Silvio Berlusconi rimettesse i piedi per terra, ponendo fine alla sua, tenace quanto futile, battaglia mediatica per spargere un illusorio ottimismo sullo stato dell'economia nazionale. Anche al netto dei guai conseguenti alla crisi finanziaria mondiale, infatti, sono mesi che una brusca frenata si sta manifestando sia nei consumi sia nelle attività produttive. Tanto che ora, appunto, le stime aggiornate da parte dell'Unione europea - un poco più favorevoli, fra l'altro, di quelle del Fondo monetario - segnalano crescita zero per il Pil per l'anno in corso e per quello prossimo, con impliciti riflessi negativi sulla condizione dei conti pubblici: deficit di nuovo in pericoloso avvicinamento alla soglia fatidica del 3 per cento e debito non più in discesa ma stagnante attorno a quota 104 per cento del Pil.
Prendere atto di questa realtà è la cosa più logica che ci si dovrebbe aspettare da un governo di persone responsabili. Ma proprio questo sembra essere il problema più serio che incombe oggi sul paese. Il mondo è rapidamente cambiato, ma il Cavaliere non intende modificare di un grado la rotta delle sue decisioni, tanto meno riconoscere alcuni marchiani errori commessi in questi pochi mesi. Guai ad ammettere, per esempio, che è stato un atto dissennato l'abolizione dell'Ici per i ceti abbienti, bruciando così oltre due miliardi di entrate che oggi sarebbero tornati di grande utilità per manovre di sostegno al sistema produttivo.
Figuriamoci poi se Giulio Tremonti è disponibile a riconoscere che la sua 'Robin tax' è stata l'abbaglio tipico di chi non sa guardarsi intorno né capire in tempo che cosa sta succedendo. Come dimostra proprio il caso della sovrimposta sui profitti delle banche decisa pochi giorni prima che l'intero sistema del credito fosse investito da una delle crisi più serie della sua storia. Al punto che oggi somme di gran lunga più ingenti del gettito da 'Robin tax' rischiano di dover essere mobilitate per correre in soccorso delle banche medesime.
Adesso sarebbe almeno il momento di rimettere mano alla manovra finanziaria per inserirvi qualche acconcia misura di intervento a favore di consumi e produzione. Perfino dentro la maggioranza di governo si sono levate più voci in questo senso, ma Berlusconi e soprattutto Tremonti si stanno mostrando irremovibili: la Finanziaria è quella e tale resta. L'unico spiraglio che si potrebbe aprire è quello della proroga della parziale detassazione del lavoro straordinario: una pensata davvero geniale e risolutiva in una fase nella quale il ritmo dell'attività sta calando negli uffici e nelle fabbriche dell'Italia intera.
In Europa oggi tutte le economie versano in crescenti difficoltà. Ma Tremonti ha un bel dire che l'Italia è in linea con gli altri paesi. A Berlino o a Madrid, per esempio, si stanno mettendo in campo interventi commisurati ai problemi posti dalla nuova drammatica realtà. Soltanto a Roma il governo Berlusconi procede impavido per la sua strada nell'ottusa convinzione che debba essere la realtà ad adeguarsi ai suoi progetti e ai suoi desideri.
(07 novembre 2008) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #38 inserito:: Novembre 14, 2008, 10:32:00 pm » |
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Massimo Riva.
Il fantasma dell'Ici
È da cinque mesi pieni che la produzione industriale risulta in lento e costante declino. Così ha confermato anche l'ultima rilevazione ufficiale dell'Istat, relativa al settembre scorso. Dunque, il nostro sistema produttivo è entrato in una fase recessiva ben prima che esplodessero quelle crisi bancarie dell'ultima estate, che oggi rendono ancora più malcerte le prospettive generali. Naturalmente, come accade quasi sempre in simili frangenti, la frenata dell'attività economica si accompagna a un altrettanto continuo calo dei consumi e degli investimenti, in un rapporto triangolare dove ognuno dei fattori interagisce sull'altro rivelandosi insieme causa ed effetto della caduta complessiva.
Rompere questa spirale negativa non è un esercizio semplice, tanto più alla luce delle tempeste in atto sui mercati finanziari e delle oggettive ristrettezze del bilancio pubblico, soprattutto in Italia. Da parte confindustriale, ma non soltanto, si è aperto un aspro fronte di lotta contro la Banca centrale europea, accusata di non voler tagliare con sufficiente prontezza il costo del denaro in modo - si ritiene - che le imprese possano ricevere almeno una boccata d'ossigeno finanziaria. Si tratta, però, di una visione un po' troppo convenzionale dei guai presenti. Penso anch'io che la Bce dovrebbe ridurre più drasticamente il livello dei tassi ufficiali ma soltanto perché così il campo sarebbe liberato da una contesa sostanzialmente fuorviante. Nel senso che si avrebbe la prova provata che oggi è la scarsità di credito e non il suo costo a frenare produzione, consumi e investimenti. Se il cavallo non beve - diceva con arguzia il buon Cesare Merzagora - non serve certo fargli un clistere. Insomma, tutti sanno che quella dei tassi è una corda: ottima per stringere, inutile per spingere.
Ciò di cui si sente vitale necessità oggi è piuttosto un rilancio potente della domanda, sia pubblica sia privata: la prima in chiave prevalentemente europea, la seconda in chiave nazionale. Nei cassetti di Bruxelles giace ancora largamente inevaso il piano di rilancio delle grandi infrastrutture europee tracciato da Jacques Delors. Questo è il momento più opportuno per rimettere mano a quel progetto, anche ponendo la spesa correlata al riparo dai parametri di Maastricht: un'eccezione che appare oggi l'unica ragionevole e necessaria. Il futuro dell'euro può dipendere da questo atto di coraggio dei governi europei molto più che dalle decisioni della Bce sui tassi d'interesse.
Quanto al rilancio della domanda privata è chiaro che, soprattutto in Italia, tutto è legato a un andamento dei consumi frustrato dalla depauperazione dei salari e degli stipendi netti. E questo è un problema di leva fiscale, non certo monetaria. Ma dove trovare i soldi senza sfondare quei vincoli europei che per un bilancio pubblico così scassato è bene che mantengano intatta la loro severità? Nell'immediato il governo Berlusconi può fare una sola cosa seria: rimangiarsi la dissennata abrogazione dell'Ici per i più abbienti e ridistribuirne i 2-3 miliardi di minor gettito nelle buste paga. Ammettere l'errore darebbe più credito al governo che non perseverare nel medesimo.
(14 novembre 2008) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #39 inserito:: Novembre 21, 2008, 10:59:19 am » |
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Massimo Riva.
Occasione Bankitalia
Una scadenza istituzionale incombente si intreccia con il tema caldissimo del rafforzamento patrimoniale del sistema bancario. Una legge del 2005, infatti, stabilisce che entro il 31 dicembre prossimo le quote del capitale Bankitalia in mano agli istituti di credito privati vengano cedute allo Stato. Sulla correttezza ordinamentale di simile indirizzo non c'è granché da dire. Tra le sue funzioni residue più importanti Via Nazionale esercita quella di vigilanza sulle imprese del credito: che queste ultime siano anche azioniste della propria autorità di controllo configura un conflitto di interessi palesemente insostenibile. Il nodo va sciolto.
Tanto più che la crisi finanziaria in atto potrebbe essere una ragione di più per chiudere questa partita. Per esempio, i due maggiori gruppi creditizi del paese -Intesa Sanpaolo e Unicredit - posseggono rispettivamente il 44 e il 22 per cento del capitale di Bankitalia: liberandosi di tali quote essi potrebbero ottenere fondi utilissimi per consolidare quegli equilibri di bilancio che sono stati scossi dai noti guai presenti. Insomma, al fine di migliorare i ratio patrimoniali delle banche, questa si offre come un'eccellente alternativa alle varie formule in gestazione per sostegni diretti o indiretti da parte dello Stato.
Purtroppo, nei tre anni trascorsi dalla richiamata scelta legislativa, non è stato fatto alcun passo concreto per dipanare una questione che presenta risvolti delicati sia dal punto di vista tecnico specifico sia da quello politico generale. Nel primo caso l'ostacolo principale riguarda i criteri di valutazione delle quote di Bankitalia. In proposito, nel corso degli anni, le stesse banche azioniste si sono mosse in ordine sparso: alcune hanno tenuto in bilancio la partecipazione ai valori storici, altre l'hanno rivalutata, ciascuna secondo suoi propri criteri. Trovare un punto d'incontro fra posizioni così differenziate non sarà un facile esercizio, ma il tempo stringe e una soluzione va trovata entro il mese prossimo.
Ancora più arretrata forse è l'elaborazione degli aspetti politico-istituzionali conseguenti al passaggio del capitale di Via Nazionale allo Stato. Intanto - in base alle tristi esperienze domestiche - c'è da guardarsi dal rischio che il potere di vigilanza sulle banche possa passare per proprietà transitiva sotto il controllo del ministro pro tempore dell'Economia. Poi c'è da ricordare che Bankitalia dispone di rilevanti riserve auree, un tesoro che ha sempre suscitato appetiti malsani nei governi alle prese con congiunture economico-finanziarie difficili.
Oggi il ministro Tremonti assicura che gli interventi politici sul sistema bancario nuociono gravemente soprattutto a chi li fa. Ma un conto sono le buone intenzioni verbali, ben altro gli assetti istituzionali di garanzia oggettiva dagli abusi di potere. Ormai manca pochissimo al fatidico 31 dicembre e - ahinoi - non c'è alcun segnale di seria elaborazione al riguardo. Che pensare di tanto ritardo? O si sta preparando qualche increscioso colpo di mano o si dà per scontata una proroga del termine all'ultimo minuto. Esito pessimo il primo, miserevole il secondo.
(21 novembre 2008) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Novembre 28, 2008, 10:41:32 pm » |
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Massimo Riva.
Il consumatore inesistente
Alle prese con la peggiore crisi economica dell'ultimo secolo, Silvio Berlusconi ha deciso di tornare alle origini e di rivestire i panni del 'piazzista di Arcore', come lo chiamava Indro Montanelli. Comprate, spendete, consumate! Questa, infatti, è la semplicistica ricetta che il Cavaliere insiste a predicare da tempo nell'ottusa convinzione che i suoi consigli per gli acquisti possano essere la pozione miracolosa per evitare lo scivolamento del Paese da una congiuntura recessiva a una fase di dolorosa depressione.
Se egli oggi si occupasse soltanto di guidare l'impero televisivo di Mediaset, simili sortite sarebbero tutto sommato innocue e potrebbero essere giustificate in nome della deformazione professionale, oltre che del lampante interesse aziendale a sostenere il fatturato pubblicitario della propria impresa. Ma il fatto è che chi lancia simili messaggi al Paese riveste ora la carica di presidente del Consiglio dei ministri. Esercita, cioè, quel potere politico dal quale dipendono le decisioni principali di contrasto a una tempesta economica, di cui si avvertono al momento le prime avvisaglie mentre il peggio - per unanime opinione internazionale - arriverà nel corso del 2009.
Affermare, come fa Berlusconi, che "solo i cittadini (...) con lo stile dei loro consumi possono determinare la profondità della crisi" significa intanto ignorare il senso e la portata di quanto sta accadendo, ma soprattutto denunciare insensibilità e indifferenza per lo stato di difficoltà in cui versano milioni di bilanci familiari dal Nord al Sud del Paese. Spendere di più? Ma con quali soldi, per favore? Quelli della cosiddetta 'social card' forse? Per carità, va benissimo che a chi si trova con l'acqua alla gola arrivi qualche decina di euro in più al mese, ma non ci si venga a raccontare che con l'obolo per costoro si possono rilanciare sul serio i consumi e l'economia.
Se davvero il presidente del Consiglio è convinto di quel che dice, allora spetta a lui trovare i soldi che possano rimettere in moto la salvifica ripresa dei consumi. E qui scatta una legge ineludibile, di fisica prima ancora che di economia: il denaro va preso dove sta e spostato dove manca. Poiché il bilancio pubblico ha i guai che si sanno, il problema si può risolvere soltanto attraverso una redistribuzione dei pesi all'interno della società. Insomma, occorre che il piissimo e neosturziano Giulio Tremonti - una volta riscoperti Dio, Patria e Famiglia - la smetta di fare il Robin Hood per finta e indossi sul serio i panni di chi toglie ai ricchi per dare ai poveri.
Altro che estendere anche ai più abbienti l'esenzione dall'Ici o detassare straordinari inesistenti o distribuire elemosine natalizie. Occorre, piuttosto, abbandonare le promesse di Bengodi tributario diffuse a mani piene e cervello vuoto: smettendola di strizzare l'occhio agli evasori e rivedendo la curva del prelievo sui redditi, alzandola per i maggiori e abbassandola per i minori. Forse credendo di stare ancora a Mediaset, Silvio Berlusconi stavolta ha sbagliato indirizzo: da Palazzo Chigi l'invito a far ripartire i consumi non lo deve rivolgere ai cittadini ma a se stesso.
(28 novembre 2008) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #41 inserito:: Dicembre 05, 2008, 11:02:54 pm » |
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Massimo Riva.
Manovra tragicomica
Silvio BerlusconiUna sintesi di 'vis comica' e di 'vis tragica' come quella realizzata nella manovra economica del governo Berlusconi è uno spettacolo che non si vedeva da tempo. Forse bisogna risalire al primo shock petrolifero negli anni Settanta, quando un fervido spirito propose di inserire fra le norme per il risparmio energetico anche l'obbligo di usare gli ascensori soltanto in salita. Con la differenza che allora il ritrovato senso del ridicolo impedì di inserire la luminosa trovata nella redazione finale del decreto.
Stavolta, no. Nei dieci minuti impiegati dal Consiglio dei ministri per esaminare il compendioso provvedimento che dovrebbe arginare la crisi economica incombente, lo scatto di resipiscenza non c'è stato. Ne è uscito così un testo ricco di autentiche perle del più triste degli umorismi con venature di insospettata crudeltà. Il caso più calzante al riguardo è quello della cosiddetta social card. In sostanza, la macchinosa escogitazione si risolve in un obolo quotidiano di 1 euro e 30 centesimi. Buoni, ad esempio, per acquistare ogni giorno un tozzo di pane e un mezz'etto di mortadella. Ci vuole davvero un audace sprezzo del ridicolo per sbandierare simile decisione come frutto di acuta sensibilità politica per le condizioni di vita dei più indigenti.
Sempre sul piano dell'equità sociale spicca poi la discriminazione nel sostegno ai titolari di mutui in difficoltà. Per chi ne ha sottoscritti a tasso variabile ci sarà un congruo intervento dello Stato, mentre coloro che più saggiamente hanno scelto il tasso fisso dovranno arrangiarsi da soli e così verranno in sostanza puniti proprio per la loro prudenza e lungimiranza. Così come risulteranno inopinatamente beffati coloro che vedranno sfumare il bonus fiscale per opere di risparmio energetico realizzate con malriposta fiducia nella continuità dello Stato di diritto.
Un ulteriore passaggio tragicomico, questo invece sul piano ordinamentale, è l'ipotesi di affidare ai prefetti la vigilanza sull'esercizio del credito bancario nei confronti delle piccole e medie imprese. Qui siamo al sublime: l'idea che un'attività ispettiva così sofisticata possa essere demandata a un'autorità amministrativa le cui mansioni principali riguardano l'ordine pubblico magari avrebbe potuto avere una qualche efficacia (comica) in un film con Totò e Peppino De Filippo, ma nel contesto di un piano per rivitalizzare il sistema finanziario suona non come uno scivolone involontario, ma come la confessione di voler far finta di fare qualcosa che in realtà non si sa come fare.
Che dire, infine, del raddoppio dell'Iva per la tv di Sky? Già il fatto che Berlusconi approfitti del proprio ruolo politico per danneggiare il suo principale concorrente ripropone in termini drammatici il nodo irrisolto del conflitto d'interessi. Ma si scade nella buffonata insolente quando si giustifica il provvedimento con l'alibi che anche Mediaset ne sarà colpita. Siamo seri: per Murdoch il satellite è tutto, per Berlusconi una quisquilia. Ma quello alla serietà è certo il richiamo meno adatto per una manovra che rimane un campionario di miserevoli espedienti.
(05 dicembre 2008) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #42 inserito:: Dicembre 12, 2008, 03:33:53 pm » |
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Massimo Riva.
La legge dell'arbitrio
Con un comunicato grondante soddisfazione e compiacimento Palazzo Chigi ha annunciato che la Libia si accinge a diventare grande azionista dell'Eni: dapprima con una quota del 5 per cento, che potrà poi salire fino al 10. L'importanza dell'operazione è evidente perché essa potrà consolidare i rapporti con un partner energetico per noi fondamentale. Da quel paese l'Italia importa - fra petrolio e gas - circa il 20 per cento del suo fabbisogno: in attesa che fra una decina d'anni arrivino i primi chilowattora delle centrali nucleari per ora soltanto vagheggiate dal ministro Scajola, è un bene cercare intanto di stabilizzare i rifornimenti di prodotti tradizionali quali gli idrocarburi.
La Borsa, com'era prevedibile, ha accolto la notizia facendo schizzare al rialzo la quotazione del titolo Eni. Ciò fa sorgere, tuttavia, un primo dubbio su modalità e tempistica dell'affare. Possibile che i libici siano stati così sprovveduti da aver atteso il benvenuto di Palazzo Chigi per comprare azioni a prezzi che la pubblicità dell'operazione sta rendendo sempre più alti? Banali considerazioni di convenienza economica inducono a ritenere che l'annuncio del governo italiano sia arrivato a cose fatte, ovvero che il nulla osta sia stato dato già da settimane. Un chiarimento al riguardo non guasterebbe.
Quel che comunque Palazzo Chigi non spiega è come questa operazione si collochi rispetto sia alla linea sbandierata dal premier Berlusconi in materia, sia ad alcune recenti scelte legislative del governo in tema di scalate azionarie. Sul primo versante, infatti, sono mesi che il Cavaliere lancia allarmi sul pericolo che capitali esteri - soprattutto provenienti dai cosiddetti fondi sovrani (come quello libico in Eni) - approfittino del tracollo dei listini per fare man bassa di imprese nazionali. In conseguenza, sul secondo versante, nell'ultimo decreto il ministro Tremonti ha inserito norme che svuotano la competitività borsistica delle società quotate, mettendo a disposizione dei loro amministratori più robusti strumenti per neutralizzare eventuali offerte pubbliche d'acquisto dirette a scalzarli dalle loro poltrone.
Si tratta di una direzione di marcia seriamente nociva per la vitalità della Borsa perché - in un mercato che patti di sindacato e scatole cinesi rendono già fra i più ingessati del mondo - privilegia la difesa delle posizioni di potere dominanti a pesante scapito degli azionisti di minoranza e della generalità dei risparmiatori. Oltre tutto, in un momento nel quale la caduta delle quotazioni richiederebbe semmai di spalancare le porte all'arrivo di denaro fresco in grado di rianimare un listino boccheggiante.
Ed eccoci al punto cruciale. Aprire le braccia alla Libia e al tempo stesso alzare le barricate contro l'arrivo in Borsa di nuovi capitali, interni o esteri, è una contraddizione palese, la quale induce a ritenere che a Palazzo Chigi in un modo si predichi e in tutt'altro si razzoli. Ovvero a pensare che Silvio Berlusconi intenda procedere caso per caso, nascondendo dietro la foglia di fico del pragmatismo il vezzo più temibile da parte di chi governa: l'arbitrarietà, sciolta da ogni regola.
(12 dicembre 2008) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 19, 2008, 12:47:35 am » |
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Massimo Riva
Subito un socio per Cai
Aerei dell'Alitalia allo scalo di FiumicinoDal 12 dicembre, con la stipula dell'atto di cessione, quel poco di buono che restava nella vecchia Alitalia è passato dalla mano pubblica a quella privata della cordata di Roberto Colaninno e soci. Non è che con questo, però, lo Stato e il potere politico siano usciti dalla gestione dei molti e pesanti problemi che la tormentata vicenda lascia aperti. Intanto, l'Erario continuerà a farsi carico di tutte le passività e di tutti gli oneri finanziari e previdenziali che il governo Berlusconi ha deciso di addossare alla generalità dei contribuenti per spianare la strada al decollo dell'operazione Cai. Un fardello non lieve perché stimabile vicino ai tre miliardi di euro. Cifra che da sola grida vendetta al cielo al solo pensiero che, nell'aprile scorso, è stata fatta cadere l'offerta con la quale Air France si dichiarava disposta a prendersi tutte le passività di Alitalia e a versare, per giunta, un miliardo tondo tondo al Tesoro.
Già simile precedente rende offensivo per l'intelligenza degli italiani che il presidente del Consiglio abbia voluto organizzare un pranzo ufficiale per conferire agli azionisti della cordata Cai la benemerenza di salvatori della patria. Un'iniziativa davvero pessima anche per il suo intento manipolatorio della realtà dei fatti: se mai c'è qualcuno che merita in materia l'appellativo di patriota, questo sventurato altri non è che il solito Pantalone, dalle cui tasche usciranno i tre miliardi necessari per far stare in piedi il sacco confezionato da Silvio Berlusconi.
Ma ancora oggi, non pago di tanta dissipazione di pubblico denaro, il premier insiste nel voler fare il 'deus ex machina' anche per il futuro della nuova Alitalia. Si sa che quest'ultima ha in corso trattative per aprire le porte del proprio capitale o ad Air France o a Lufthansa. Scelta obbligata per reggere nella dura competizione internazionale dove la rapida caduta dei margini operativi sta provocando una tumultuosa rincorsa alle fusioni societarie al termine della quale si avrà una concentrazione del mercato sotto il controllo di pochi grandi vettori aerei. Ed ecco, in questo marasma, di nuovo Berlusconi rimettere mani e piedi nel piatto: a suo avviso, infatti, Colaninno dovrebbe limitarsi a stringere accordi commerciali con partner stranieri e non offrire loro i poteri connessi alla posizione di azionista.
Evidentemente il Cavaliere si rende conto che l'arrivo di un socio estero, si tratti di Air France (soluzione più probabile) o di Lufthansa, non può che preludere al progressivo passaggio della nuova Alitalia sotto la piena gestione di chi - a differenza di Colaninno e soci - è un po' meglio attrezzato nel business del trasporto aereo. E perciò rema contro anche questa scelta inevitabile perché essa metterebbe a nudo tutta la fragilità della soluzione 'patriottica' da lui voluta e promossa contro ogni logica economica e finanziaria. Incurante del fatto che, in tempi di grandi fusioni fra vettori aerei in tutto il mondo, una nuova Alitalia in solitario finirebbe presto per rimanere uno straccio di bandiera, ma non più una compagnia. Con ulteriori e pesanti conseguenze per il portafoglio dei contribuenti.
(18 dicembre 2008) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 25, 2008, 10:03:08 am » |
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Massimo Riva.
Brindano solo gli evasori
Il ministro dell'Economia Giulio TremontiAlle soglie di un 2009 che s'annuncia come uno dei peggiori anni dell'ultimo mezzo secolo, Silvio Berlusconi insiste nel suo ottimismo di facciata. "Presto", si è addirittura spinto ad annunciare, "splenderà il sole". Su che cosa riposi questa incrollabile fiducia del presidente del Consiglio è un mistero. Lo scenario internazionale resta dominato da un'incertezza plumbea: dagli Stati Uniti non giunge alcun segnale di rapida fuoriuscita da una crisi finanziaria che ora sta mettendo in ginocchio anche i giganti dell'industria, le grandi economie emergenti (Cina, India, Brasile.) stanno vistosamente rallentando il passo, mentre in Europa si rischia di scivolare pericolosamente verso una strategia del ciascuno per sé e nessuno per tutti. Quanto all'orizzonte domestico, consumi, investimenti e occupazione sono in netta caduta tanto che la più prudente delle stime (Confindustria) prevede la perdita di circa 600 mila posti di lavoro nel prossimo anno.
Ma da che parte immagina che possa spuntare presto un sole splendente? Berlusconi questo non lo dice, né lo fa capire. Dagli atti del suo governo si può arguire, però, che la sua reticenza non nasconda un vuoto di strategia, ma qualcosa di inconfessabile: una spudorata scommessa sulla ripresa dell'economia sommersa. Un primo indizio al riguardo risale a una delle scelte subito compiute dal ministro Tremonti con la cancellazione delle norme, introdotte dal governo Prodi, per scoraggiare i pagamenti in nero con drastiche limitazioni sugli assegni trasferibili e sui movimenti in denaro liquido. Con la revoca di tali vincoli si è lanciato un preciso messaggio al mondo dell'evasione fiscale: niente paura, si torna a fare il proprio comodo.
Un secondo indizio è venuto poi con il decreto che ha fissato margini più stringenti per le agevolazioni fiscali sulle opere di risparmio energetico. È vero che con questa misura l'Erario rinunciava a prelievi importanti, ma è altrettanto vero che la grande massa di attività messe in moto dagli sgravi d'imposta ha costretto una non piccola parte del popolo delle partite Iva (idraulici, elettricisti, piccoli e medi artigiani dell'edilizia) a far venire alla luce imponibili fiscali che in passato finivano regolarmente imboscati con tanti saluti all'Erario. Una vecchia via di fuga verso il sommerso è stata così riaperta.
Infine, l'unica mossa cui il governo si sta rassegnando per arginare la valanga di disoccupazione incombente è il rifinanziamento della cassa integrazione. La decisione, s'intende, risulta quanto mai necessaria e opportuna alla luce delle previsioni correnti sulla perdita temporanea o permanente di posti di lavoro. Ma è un fatto che, tra i suoi effetti collaterali, essa avrà anche quello di aiutare la formazione di un esercito di manodopera particolarmente disponibile a svolgere lavoro in nero.
Cosicché, se un po' di sole tornerà a scaldare l'economia, il fenomeno riguarderà soltanto quella parte di società che già in passato ha prosperato con l'evasione fiscale, trovando sempre il suo difensore più sfrontato proprio in Silvio Berlusconi. Per il quale, par di capire, il 2009 non sarà un anno nero, ma l'anno del nero.
(24 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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