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Autore Discussione: LUIGI LA SPINA -  (Letto 81466 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Marzo 15, 2014, 07:48:43 am »

Editoriali

12/03/2014
A Matteo serve un successo alle europee

Luigi La Spina

Tra mille agguati e mille affanni la cavalcata di Matteo Renzi si avvia a superare il primo ostacolo, l’approvazione alla Camera della legge elettorale. Ma il successo non dovrebbe illudere troppo il premier, sia perché il passaggio del testo al Senato si annuncia ancor più tempestoso, sia perché è sulla partita economica che si gioca l’azzardo più importante per le sorti del suo governo. 

È su questo terreno, infatti, che il neo-inquilino di Palazzo Chigi spera di stringere quella alleanza con la gran parte dei cittadini italiani che potrebbe consentirgli di abbattere le barricate che partiti, a cominciare dal suo, sindacati e Confindustria si apprestano a elevare per opporsi ai suoi progetti. Ecco perché l’appuntamento con le elezioni europee del 25 maggio è fondamentale per Renzi e a questo obiettivo sono subordinate tutte le scelte che, in questi mesi, si appresta a compiere.

Un significativo successo elettorale permetterebbe al premier di far dimenticare «il peccato originale» della sua presa del potere, la manovra di palazzo che ha estromesso Enrico Letta da Palazzo Chigi, ma anche di legittimare nella forma più indiscutibile, quella del consenso democratico, sia i suoi progetti, sia il metodo per attuarli.

Non desta alcuna sorpresa il fatto che Renzi sia riuscito, già nei primi giorni di lavoro del suo governo, a mettersi contro il maggior sindacato del nostro paese, la Cgil e, contemporaneamente, pure la Confindustria. Può essere un rischio mortale per il suo governo, ma è una strada obbligata, perché è la conseguenza logica di una domanda con risposta incorporata: si può lottare contro le corporazioni con l’aiuto delle corporazioni? Ma alla prima domanda, ne segue una seconda: come si fa a pensare di sconfiggere una coalizione di resistenze così formidabili? Anche a questo secondo quesito, c’è una risposta scontata, che risale addirittura ai nostri avi latini: dividendola.

Renzi ha cominciato subito a mettere in pratica questa antica strategia. Con la scelta di privilegiare il taglio dell’Irpef rispetto a quello dell’Irap vuole dividere gli interessi degli imprenditori tra coloro che prevalentemente esportano e coloro che soffrono, sul mercato interno, la debolezza dei consumi. Nello stesso tempo, cerca di separare la dirigenza Cgil della maggioranza dei suoi iscritti, perché alle lamentele di Camusso per la mancata consultazione dei sindacati si prepara a rispondere con una riduzione delle tasse proprio sui redditi più bassi.

 Il rifiuto del tradizionale modello concertativo da parte del premier non prevede, d’altra parte, uno scontro totale con le rappresentanze imprenditoriali e sindacali, perché Renzi nega a loro il diritto di veto sui provvedimenti governativi, ma cerca un negoziato, una specie di «do ut des», attraverso il quale esse rinuncino a vantaggi e garanzie ormai insostenibili di quelle categorie «protette», in cambio di concrete contropartite salariali e occupazionali. Anche in questo caso, una proposta con molti rischi da parte del presidente del Consiglio, perché tende ad agevolare le richieste delle aziende e degli iscritti per ridurre i poteri dei vertici confindustriali e sindacali.

Se si considera, poi, l’esigenza primaria di un successo al voto di fine maggio, è ovvia la scelta di subordinare gli interessi dei lavoratori autonomi, meno garantiti, a quelli dei dipendenti statali e delle grandi imprese, più garantiti. È vero che Renzi cerca di allargare il tradizionale perimetro dei consensi al Pd, ma neanche il suo frenetico e spregiudicato trasversalismo politico può fargli dimenticare la necessità di sostenere, innanzi tutto, le categorie sulle quali, da quasi 70 anni, si fonda il suffragio alla sinistra italiana.

Ha suscitato giustificati stupori l’invito che Massimo D’Alema ha rivolto a Renzi per presentare il suo ultimo libro. Se si pensa, però, che anche il primo presidente del Consiglio ex comunista arrivò a Palazzo Chigi con una manovra di palazzo, che anche lui cercò di fronteggiare il potere dell’allora capo Cgil, Sergio Cofferati, che anche lui chiese un voto che sanzionasse la sua legittimità a governare, forse, l’incontro potrebbe assumere un curioso significato. Vista la sconfitta, su tutti fronti, subita da D’Alema nella sua esperienza governativa, sia da Cofferati, sia dal verdetto elettorale, si potrebbe pensare o che l’ex capo della sinistra italiana voglia elargire, in quell’occasione, qualche paterno e beneaugurante consiglio all’ultimo suo successore o preannunciargli, più o meno malignamente, il destino che lo aspetta.

DA - http://lastampa.it/2014/03/12/cultura/opinioni/editoriali/a-matteo-serve-un-successo-alle-europee-rQDshUh4WWo9EsWo2Ki86J/pagina.html
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« Risposta #166 inserito:: Giugno 08, 2014, 06:52:04 am »

Editoriali
06/06/2014

Ma il muro del malaffare sta crollando

Luigi La Spina

Prima, lo sconcerto, per la ripetitività, quasi settimanale, con la quale esplodono in Italia clamorosi casi di corruzione politica. Poi, l’indignazione per il pervasivo dilagare di un malaffare da cui non sembra essere escluso nessun centro di potere, nazionale o locale, e che contagia l’intero arco dei partiti. Infine, la sfiducia per il dover constatare, ancora una volta, come proclami di assoluta severità, leggi che prescrivono rigorosi controlli, regolamenti amministrativi che impongono onerose e lunghe trafile burocratiche continuino a lasciare, ai ladri di soldi pubblici, mani sostanzialmente libere di delinquere. 

Sono questi i sentimenti con cui l’opinione pubblica segue la catena di scandali che le cronache giudiziarie, da ogni parte d’Italia, rivelano. La coincidenza temporale con cui la magistratura riesce a intervenire per far fronte al fenomeno della corruzione politica e para-politica nel nostro Paese, però, dovrebbe indurre a una riflessione, preoccupata sì, ma forse non del tutto priva di qualche speranza.

Sembra sgretolarsi, infatti, quel muro di complicità, di interessi, di protezioni, di omertà che ha permesso a un ceto di politici, alti burocrati, vertici finanziari e bancari, giudici di corti amministrative e contabili, membri di autorità indipendenti, con una manovalanza di collaudati procacciatori d’affari, di costituire «cupole» di potere delinquenziale, inossidabili rispetto a qualsiasi cambiamento governativo e inscalfibili da qualunque controllo di legalità. Da decenni, questi centri di malaffare hanno dominato e imposto la loro volontà su tutte le opere pubbliche avviate in molte città e in varie regioni del nostro territorio. 

Gli esempi sono illuminanti, basta partire dalla capitale, dalla rete della cosiddetta cricca «Balducci e Anemone», rivelata dalle indagini sullo scandalo della ricostruzione dopo il terremoto dell’Aquila. Si può proseguire dalla signoria esercitata dalla Carige e dal suo dominus assoluto, Giovanni Berneschi, sulla Liguria, con l’appoggio dei fratelli Scajola e da quella del Monte dei Paschi su Siena, sotto il ferreo controllo della sinistra storica, padrona in quella città. Si può continuare con l’ex governatore del Veneto, il forzista Giancarlo Galan, per ben tre volte a capo della Regione, dotato di una tale consapevolezza di sé, del suo potere e di una tale impudicizia politica da intitolare, senza alcuna autoironia, una sua autobiografia, uscita nel 2008, «Il Nordest sono io». Per arrivare alla rete affaristica che aveva costituito l’ex presidente della provincia di Milano, il Pd Filippo Penati, svelata dalle inchieste che l’hanno costretto all’abbandono della vita politica. Infine, come summa esemplificatoria del sistema corruttivo politico che ha dominato l’Italia negli ultimi decenni, si deve citare il caso dello scandalo Expo, dove la persistenza di personaggi come Greganti e Frigerio al centro del malaffare lombardo rappresenta, del tutto plasticamente, la granitica invulnerabilità di tali «cupole» del potere delinquenziale.

 È probabile, allora, che l’incalzante smantellamento di queste capitali della corruzione politica, nazionale e locale, a cui stiamo assistendo, da parte delle inchieste giudiziarie di queste settimane, sia frutto di una certa rottura dei patti di complicità che legavano i suoi reggitori. Delazioni, confessioni, ammissioni aprono improvvisi varchi in quel muro di impenetrabilità che finora aveva resistito all’intervento della magistratura, forse proprio perché è cominciato un rinnovamento di ceto politico, sia a sinistra, sia a destra che fa venir meno le garanzie di protezione da parte della tradizionale classe politica. Una classe politica, quella della cosiddetta «Seconda Repubblica», tanto, a parole, impegnata in una guerra permanente tra i due schieramenti, quanto, nei fatti, legata a complicità trasversali occulte, in un costume di malaffare dilagante che coinvolge anche la società civile in pesanti responsabilità.

Un giro d’orizzonte nell’Italia di questi vent’anni vede a Roma, a Milano, a Genova, a Siena, nel Veneto come in Campania o come in Sicilia, una casta di ceto politico sempre legata agli stessi personaggi che, magari, si alternano sulle principali poltrone di potere, ma che, anche dopo le periodiche sconfitte elettorali, non escono mai dalla scena pubblica e, soprattutto, mai dal sottogoverno affaristico e clientelare. Si direbbe una complicità politico-generazionale che si avvale di una esperta rete di collaborazioni, attive o soltanto omissive, nei ministeri, nella comunità bancaria e finanziaria, tra i vertici delle forze dell’ordine, nelle alte magistrature civili, penali, contabili e amministrative. È possibile che in tale rete di relazioni, fondate su una lunga consuetudine di amicizie interessate allo scambio di favori e di denaro e, quindi, tesa alla ostinata conservazione dei privilegi corporativi, si sia diffusa la consapevolezza di un cambio di stagione ormai inevitabile e imminente. E sia partito, come sempre succede, il disperato «si salvi chi può».

Da - http://lastampa.it/2014/06/06/cultura/opinioni/editoriali/ma-il-muro-del-malaffare-sta-crollando-aIPrKhmns8huj95ofbQN9J/pagina.html
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« Risposta #167 inserito:: Giugno 28, 2014, 12:09:43 pm »

Editoriali
28/06/2014

Giovani, emergenza di tutti

Luigi La Spina

C’è un’emergenza nazionale, urgente e grave, che determinerà il futuro dell’Italia: quella dei giovani. Se la classe politica e dirigente non avrà la consapevolezza di quanto sia drammatica la loro condizione e non provvederà a un drastico spostamento di risorse, pubbliche e private, per affrontare quello che è davvero il primo problema nazionale, la sorte dell’Italia è già segnata. 

E’ quella di un Paese nella serie B del mondo. Dove i giovani più fortunati, quelli nati in famiglie abbienti, saranno costretti a emigrare e, per gli altri, il destino è quello della sottoccupazione, sempre più precaria e meno qualificata.

Abbiamo già tradito una volta i nostri figli e i nostri nipoti, durante gli ultimi due o tre decenni dello scorso secolo, quando abbiamo riversato sulle loro spalle il più grande debito pubblico di uno Stato occidentale, un cappio al loro collo che li sta soffocando, perché ha ridotto in maniera intollerabile l’investimento sulla loro vita. Se non riconosciamo l’enorme responsabilità di questo primo tradimento nei loro confronti, se non cercheremo urgentemente di limitare i danni di questa gravissima colpa generazionale e di salvare in qualche modo il loro futuro, li tradiremo una seconda volta e, questa volta, in modo irrimediabile.

I numeri sono noiosi, ma in certi casi sono troppo eloquenti per non citarne almeno qualcuno. Perché non si tratta di discutere opinioni, ma di voler prendere atto di una realtà di fronte alla quale non bastano lamentazioni rituali, promesse elettorali, impegni di buone intenzioni. Occorre una ribellione della coscienza pubblica, in nome della nostra responsabilità più grande, quella di padri e di madri. Ecco alcuni dati, davvero sconvolgenti.

Il tasso di occupazione dei giovani diplomati e laureati italiani, con un titolo di studio conseguito da uno a tre anni prima, è arrivato al 48,3 per cento, inferiore di ben 27 punti rispetto alla media dei 28 Paesi Ue. La spesa pubblica per l’istruzione universitaria, rispetto al Pil, è in Italia 0,83. La media della zona euro è 1,27 e, tra tutti i 28 Paesi dell’Europa, siamo al penultimo posto, perché superiamo solo la Bulgaria. In ricerca e sviluppo il confronto è umiliante: la media dei 28 Stati Ue, sempre rispetto al Pil, è di 2,07; la nostra spesa è quasi la metà, 1,27. 

I giovani in Italia hanno una grave colpa: sono pochi e a nessuno interessa difenderli. La classe politica non li giudica un bacino di voti determinante, anche se il successo travolgente del movimento di Grillo tra di loro, documentato dalle analisi sui flussi elettorali, incomincia a suscitare qualche dubbio, almeno tra i politici più avvertiti. Il governo Renzi ha preferito privilegiare l’investimento nell’edilizia scolastica, per ragioni di occupazione in un settore in crisi e di visibilità mediatica, mentre sull’università l’ineffabile ministro Giannini è arrivata al punto di promettere, per basse ragioni elettorali, l’eliminazione del test d’ingresso a medicina. Un provvedimento irrealizzabile, tra l’altro, nelle condizioni dei nostri atenei, come qualunque persona che li conosca sa benissimo. È vero che l’avventata promessa non ha procurato voti al partito del ministro, ma quell’annuncio non fa ben sperare sulle sue intenzioni future.

I sindacati, poi, non hanno nessun interesse a sostenere le ragioni dei giovani, perché i loro iscritti sono pensionati e professori. Difendono quelle categorie con ostinazione conservatrice ma insuperabile e la loro potenza è tale da sfidare con successo qualsiasi intenzione innovativa e meritocratica venisse mai in mente a un ministro. Basti pensare alla sorte del povero Berlinguer, quando osò varare il famoso «concorsone». È vero che i sindacati, così, stanno mettendo a rischio il futuro delle loro organizzazioni, ma i dirigenti, come tutti i dirigenti, si occupano delle loro poltrone, non di quelle dei successori.

Anche gli imprenditori, a parole tanto preoccupati della formazione di quello che chiamano il «capitale umano», guardano solo alle esigenze contingenti e non a quelle che determineranno il futuro delle loro aziende. Cercano figure professionali che non trovano, tornitori e tecnici specializzati, ma non sono disponibili ad assumere diplomati e laureati, perché costano e, magari, pretendono di fare quello per cui hanno studiato. Senza pensare che, per sopravvivere sui mercati internazionali, il loro «capitale umano» deve raggiungere i livelli più alti di competenze scientifiche e tecnologiche.

Ecco perché senza una presa di coscienza dell’opinione pubblica nazionale che non si rassegni a vedere figli e nipoti emigranti senza ritorno o camerieri e guide turistiche per visitatori delle bellezze italiche, non ci sono speranze di interventi pubblici e privati capaci di invertire l’andamento di una condizione giovanile disperata, soprattutto al Sud del nostro Paese. Se le colpe della passata generazione non bastano a un atto doverosamente riparatorio verso la nuova, facciamo appello almeno all’egoismo, un vizio che, qualche volta, costringe persino a una costretta generosità. Qualcuno davvero può credere che i nostri pochi e precari giovani saranno in grado di pagare le pensioni ai tanti anziani, per di più e per fortuna, destinati a una lunga vecchiaia?

Da - http://lastampa.it/2014/06/28/cultura/opinioni/editoriali/giovani-emergenza-di-tutti-Aku4IeO9R62PGNSn4ZPE2I/pagina.html
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« Risposta #168 inserito:: Ottobre 26, 2014, 08:29:19 am »

Gli assist del Colle al governo

25/10/2014
Luigi La Spina

C’è chi si stupisce per il linguaggio esplicito e per i toni persino ruvidi, insoliti nel lessico felpato di un presidente della Repubblica. E c’è chi giudica, con compiacimento o con rammarico, i due interventi di Napolitano, un giorno dopo l’altro, come quelli che in gergo calcistico si definirebbero formidabili assist al governo.

Segnali inequivocabili che tra il capo dello Stato e Renzi, dopo un periodo di rispettosa diffidenza reciproca, sia stata siglata un’alleanza di ferro. 

Come al solito, nella politica italiana le cose sono un po’ più complesse di come possano apparire e le semplificazioni non aiutano a comprendere lo scenario che ci aspetta tra l’autunno e l’inizio del prossimo anno.

Sia la robusta intemerata contro «i vecchi assetti di potere», pronunciata nell’intervento di giovedì davanti ai cavalieri del lavoro, sia il «basta austerità» lanciato ieri ai vertici dell’Unione europea, in occasione dell’incontro con i giovani, marcano il doppio binario di impegno presidenziale, già annunciato nel discorso di Napolitano alle Camere, in occasione della sua seconda elezione al Quirinale. La sua permanenza nella più alta carica della Repubblica avrebbe avuto fine, disse allora il capo dello Stato, quando le indispensabili riforme sarebbero state talmente avviate in Parlamento da assicurare, all’Italia, l’uscita dall’emergenza finanziaria e, ai cittadini, istituzioni più funzionali.

Ecco perché i due messaggi presidenziali nascono dalla preoccupazione di Napolitano che non solo ci siano ritardi inaccettabili nel varo del piano di riforme promesso da Renzi, ma che l’UE non sia disposta a creare le condizioni perché il nostro Paese possa attendere con fiducia che i cambiamenti necessari abbiano il tempo di produrre i risultati sperati. Le resistenze «corporative e conservatrici», sul fronte interno, e le esitazioni sull’urgenza di una svolta espansiva nella politica economica europea potrebbero contribuire allo sbocco che il presidente della Repubblica considera più nefasto per il nostro Paese: una crisi di governo senza alternative alle elezioni anticipate.

L’ipotesi, al Quirinale, è valutata con seria costernazione per le assai prevedibili conseguenze: uno spread alle stelle, con un parallelo drammatico appesantimento del debito per il rialzo dei nostri interessi, gravi contraccolpi sulla Borsa e sulla già precaria situazione economica e, soprattutto, lo stop al cammino delle riforme, con la prospettiva di elezioni anticipate che, non mutando sostanzialmente la composizione del Parlamento, ribalterebbero sulla prossima legislatura gli stessi problemi che quella vigente non riesce a risolvere.


È probabile, se questo scenario si dovesse davvero avverare, che Napolitano si rifiuterebbe di firmare lo scioglimento delle Camere e considererebbe conclusa la sua seconda esperienza al Quirinale, vista la clamorosa smentita alle garanzie che i partiti gli avevano assicurato per convincerlo a restare alla presidenza della Repubblica.

Non si può considerare Renzi, nell’ottica di Napolitano, alla stregua dei suoi predecessori, Monti e Letta, i cui governi si potevano definire «governi del presidente» e non è scoppiato alcun improvviso amore del capo dello Stato nei confronti del giovane leader dei democratici. Le leggi della politica italiana non ammettono sfumature sentimentali, ma seguono le ferree regole della necessità. Napolitano, da una parte, ammonisce le forze sociali a non difendere posizioni ormai insostenibili e quelle politiche a non ostacolare pregiudizialmente le proposte renziane. Ma, dall’altra, sollecita il presidente del Consiglio a non trascurare l’ascolto degli interlocutori, condizione indispensabile per dividere il fronte degli avversari e consentire un più rapido varo delle riforme.

Sulla politica italiana aleggia un sospetto, che non dovrebbe essere assente anche nei corridoi quirinalizi. Quello della grande tentazione di Renzi: di fronte alle rigidità dell’Europa e agli ostacoli che gli arrivano anche dal suo partito, il presidente del Consiglio potrebbe rovesciare il tavolo e lanciare un appello al Paese, una specie di referendum sul suo nome. In caso di vittoria anche in una consultazione nazionale, non solo con l’avallo del famoso 41 per cento ottenuto alle europee, con un gruppo ds alle Camere più compatto dietro di lui, potrebbe spazzare via qualunque resistenza alla sua azione. Per Renzi, una scommessa rischiosa, certamente, ma un azzardo che potrebbe sedurlo. Ma, per Napolitano, forse una scommessa che il Paese non si può permettere.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/25/cultura/opinioni/editoriali/gli-assist-del-colle-al-governo-R0EAtEAUxkT6lrRDrNs5EO/pagina.html
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« Risposta #169 inserito:: Gennaio 15, 2015, 11:57:19 am »

L’identikit del nuovo Presidente

14/01/2015
Luigi La Spina

L’elezione del Presidente della Repubblica, come quella del Papa, è del tutto imprevedibile e, al contrario di un conclave, non è neanche assistita dallo Spirito Santo. È vero che, come una partita di calcio, ci sono i favoriti, ma se, come si diceva una volta, «la palla è rotonda», anche la sfera di cristallo della politica si diverte spesso a smentire i pronostici. Così, è meglio diffidare di chi, alla vigilia, azzarda due o tre nomi «sicuri», come di chi, ai nastri di partenza, suggerisce di puntare su cavalli «sicuramente» vincenti. E neanche una scrupolosa analisi del passato serve a molto, perché non esistono regole per fare un Presidente, nonostante qualcuno si affanni a cercarle e pretenda di averle trovate.

Nonostante l’assenza di ispirazioni divine, in verità, c’è forse una regola che sembra individuabile nella caotica partita che oggi scatta ufficialmente e, se vogliamo continuare nel paragone un po’ blasfemo, potremmo parlare di una provvidenza laica. Quella che, dall’urna presidenziale, fa spuntare un nome corrispondente alle esigenze della storia. Il profilo del Presidente prossimo venturo, perciò, cambia continuamente, di elezione in elezione, approfittando della benemerita vaghezza che la Costituzione disegna per il suo ruolo. 

Notai, politici di professione, padri della Patria, economisti con la laurea in lettere classiche e persino costituzionalisti col piccone in mano si sono alternati al Quirinale secondo quello «spirito dei tempi» di hegeliana memoria. 

Ecco perché, invece di tuffarsi nella riffa dei nomi, candidati, pseudocandidati, autocandidati, forse sarebbe meglio trovare la bussola presidenziale partendo dalle caratteristiche necessarie, oggi, per poter far fronte ai compiti che, nei prossimi sette anni, dovrà assolvere il nuovo Capo dello Stato.

In una fase di profonda riforma costituzionale come quella che si annuncia, non si può pensare, innanzi tutto, a un Presidente che non abbia una competenza e una esperienza delle regole e delle procedure che stabiliscono i rapporti tra le istituzioni della Repubblica. Un garante, insomma, che i previsti mutamenti di alcuni tra i più importanti organi dello Stato non intacchino i principi sui quali è fondata la nostra Carta fondamentale.

A questa prima necessità se ne collega naturalmente un’altra, quella di una conoscenza del nostro mondo della politica, così peculiare in Italia e tale che un estraneo ai suoi costumi e malcostumi, alle sue abitudini, ai suoi meccanismi, palesi e occulti, farebbe davvero fatica a capire la nostra vita pubblica e a farsi capire dalla nostra politica, cioè a poter incidere con efficacia in una realtà molto complessa.

Le altre qualità che il prossimo Presidente dovrebbe possedere sono più legate, invece, ai cambiamenti che sono avvenuti in questi anni in due sfere più distanti dai palazzi nostrani del potere. Quella dei rapporti internazionali e quella della comunicazione con i cittadini italiani.

È ormai necessario che il capo di una nazione come l’Italia abbia una certa esperienza delle relazioni che avvengono tra i leader del mondo, che sia una personalità conosciuta e apprezzata. Non per una mera questione di prestigio, ma per poter esercitare quella funzione di una rappresentanza istituzionale che, al vertice dello Stato per un lungo periodo, possa costituire garanzia di stabilità, assicurazione di rispetto degli impegni, punto di riferimento per tutti, capi di governo, entità sovrannazionali, politiche ed economiche, ma anche leader religiosi. Infine, che possa pure impersonare quella figura dotata di autorevolezza morale e politica che sostenga l’immagine dell’Italia nel mondo. Un ruolo che Napolitano ha praticato così bene e in tempi così difficili per il nostro Paese in questi anni.

Ultima dote che il prossimo inquilino del Quirinale dovrebbe avere è proprio quella resa necessaria dalla modernità del rapporto tra Capo di Stato e cittadini. Cioè la capacità di istituire con gli italiani un legame di simpatia, spontanea e immediata, la capacità di comunicare con loro in maniera talmente diretta da supplire a quella distanza tra il mondo della politica, delle istituzioni e la sensibilità comune che, come le ultime elezioni dimostrano, si va approfondendo in modo molto preoccupante. Ormai, tocca al Presidente della Repubblica una funzione particolare, che non era affatto richiesta ai Capi di Stato del secolo scorso, quella di rappresentare la nazione soprattutto raccogliendo i sentimenti dei suoi cittadini, le loro speranze, le loro paure, i loro disagi, i loro bisogni di rassicurazione sul futuro. Essere, insomma, il primo difensore civico dei nostri concittadini. Ecco perché non basterà che ispiri fiducia agli oltre mille elettori delle Camere riunite, occorre che sappia ispirare fiducia agli italiani. Di questi tempi, non sarà facile.

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/14/cultura/opinioni/editoriali/lidentikit-del-nuovo-presidente-h30EGHXshjSxubEakAGB0H/pagina.html
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« Risposta #170 inserito:: Giugno 17, 2015, 05:11:58 pm »

La scomparsa sul territorio del vecchio Pci

16/06/2015
Luigi La Spina

È inevitabile, è intrigante, ma è inutile partire da questa doppia tornata di amministrative per prevedere il risultato del prossimo voto politico. Le variabili, a partire da una scadenza temporale prevista per il 2018 ma che potrebbe anche essere anticipata, sono numerose per azzardare pronostici. È vero che il metodo dei ballottaggi, adottato per le comunali, può richiamare quello dell’Italicum, il sistema col quale si dovrà votare per la Camera, ma c’è una differenza importante. 

In sede nazionale, al duello finale va un partito, non una coalizione. Vista la tendenza storica, poi, le astensioni saranno sì in crescita, ma è difficile che, in elezioni politiche, raggiungano il picco straordinario a cui si è arrivati domenica scorsa. Infine, la variabile più importante. Quale sarà, al tempo del voto nazionale, la salute del governo in carica? E, soprattutto, quale sarà la salute della nostra economia e dei portafogli degli italiani? 

I meteorologi del voto, perciò, rischiano di essere come quelli che, in pieno inverno, annunciano una estate caldissima. Se ci azzeccano, passano per profeti; se sbagliano, saranno assolti, perché «a lungo termine, non si può essere sicuri di nulla». Meglio, allora, invece di guardare al futuro, guardare in profondità e cercare di capire i mutamenti strutturali del sistema politico che le ultime votazioni hanno indicato.

Le elezioni di domenica hanno confermato la perdita anche dell’ultima eredità della prima Repubblica: il radicamento territoriale dell’unico superstite di quel periodo, il grande partito della storica sinistra italiana. Il Pd, figlio un po’ degenere, ma legittimo, del Pci, ha completato la sua metamorfosi ed è divenuto un partito d’opinione, con tutte le caratteristiche, nel bene e nel male, di tutti gli altri partiti dell’Italia d’oggi.

Il disconoscimento di quella eredità ha travolto tutti i miti di una lunga e anche gloriosa tradizione. A partire dall’universale rispetto, sempre confermato dai risultati elettorali, per la capacità di ben amministrare gli enti locali, per cui il voto delle comunali e delle regionali avvantaggiava regolarmente quel partito rispetto a quello politico nazionale. Adesso, gli scandali nelle giunte di tutt’Italia, comprese quelle di sinistra simbolicamente rappresentate dal caso di Roma, «mafia capitale», hanno sepolto quell’«alterità morale», vera o presunta, di cui i dirigenti locali di quel partito si vantavano. Insomma, l’antica e forte presenza territoriale del più grande partito della sinistra o è in disfacimento o viene utilizzata da satrapi di tessere e di consensi che, in piena e incontrollata autonomia, usano il simbolo nazionale in «franchising», piegandolo nelle forme e nei contenuti più convenienti al loro personale successo.

L’erosione elettorale delle fortezze della sinistra nelle cosiddette «regioni rosse» del centro Italia, ormai traballanti in Emilia, in Umbria e, in parte, nella Toscana, come dimostra il caso di Arezzo, è certamente significativa di questo mutamento nella «natura» di quel partito. Ma ancor più indicativo di questa trasformazione è, al contrario, il recente successo del Pd nel Sud d’Italia. Territorio dove la sinistra, in generale, non poteva vantare grandi risultati e dove, ora, fa addirittura il «pieno» di giunte regionali, evidentemente nella stessa logica elettorale per cui il meridione votava prima Dc e poi Berlusconi: la speranza che l’adeguamento politico al potere nazionale aiutasse la generosità del governo per le esigenze di assistenza e di finanziamento locale.

Renzi, così, subisce l’andamento classico del consenso a un partito d’opinione ed è costretto a subire i condizionamenti tipici di un partito d’opinione. Innanzi tutto, la volatilità di un suffragio che dipende dagli umori dei cittadini più che da quelli dei militanti. Un voto che va riconquistato ogni volta e che non è più conservato in cassetto sicuro dal quale attingere nei momenti difficili. Poi, l’indisciplina cronica e irriducibile dei dirigenti del Pd, proprio perché, in un partito del genere, appunto, non può esistere una «linea» alla quale tutti debbano uniformarsi. Anche perché la «linea» del Pd renziano è, anch’essa, piuttosto volatile.

Un partito con caratteristiche simili, però, non accetta neanche di diventare «un partito personale», la forma che, nell’era berlusconiana, si pensava fosse il modello del futuro pure per le altre formazioni politiche. Renzi è riuscito a «rottamare» la vecchia dirigenza ex Pci ed ex sinistra Dc, ma ha «rottamato» pure la struttura che, sull’intero territorio italiano, riconosceva l’autorità del leader nazionale. Magari, per obbligo e non per convinzione. Ecco la necessità, per lui, non solo di convincere, giorno per giorno, gli italiani della bontà delle sue politiche, ma anche di assicurare che, con lui, il partito vince sempre Perché è stato lui a legittimare la leadership del Pd solo dal timbro del successo elettorale.

Tempi duri si annunciano per il premier e segretario del «nuovo» partito della sinistra italiana. Ma sarebbe davvero paradossale che un personaggio come Renzi, in questi giorni amari, cedesse alla tentazione della nostalgia.

Da - http://www.lastampa.it/2015/06/16/cultura/opinioni/editoriali/la-scomparsa-sul-territorio-del-vecchio-pci-p6oFw48VQ9rxD7SCPeEqHK/pagina.html
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« Risposta #171 inserito:: Ottobre 28, 2015, 05:59:12 pm »


Inizia da noi l’argine al malaffare

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25/10/2015
Luigi La Spina

Da una parte, sembra che il dilagare nella società italiana della corruzione, ma anche del malcostume, pubblico e privato, sia talmente pervasivo da essere inarrestabile. 

 Come se quel mare della disonestà potesse venir asciugato col cucchiaino delle inchieste giudiziarie. Dall’altra, siamo costretti ad assistere al solito, desolante rimpallo di accuse tra la magistratura e la politica, un copione che, da almeno vent’anni, viene recitato dalle due parti con immutata liturgia e, purtroppo, con immutato esito: quello di non procurare alcun vantaggio al cittadino comune. Sì, perché a quel cittadino comune non interessa il risultato, altalenante, della partita di potere tra i cosiddetti «servitori dello Stato», ma che dallo Stato, appunto, abbia la garanzia di un processo che si concluda in tempi ragionevoli, di sentenze che non dipendano dalle opinioni dei giudici, ma da una coerente interpretazione del diritto, di un mercato dell’economia dove possa vincere il più bravo e non il più «furbo». Anche dalle cronache di questi giorni, ma soprattutto dall’esperienza quotidiana degli italiani, emerge con angosciante evidenza non solo che decenni di scontri polemici tra giudici e politici non hanno fatto migliorare l’efficienza e la certezza della nostra giustizia, ma che hanno portato alla rassegnazione le persone perbene e convinto i mascalzoni di poter contare su una immunità quasi assicurata.

 I mali sono sotto gli occhi di tutti, le ricette sono quasi tutte condivisibili, dalla semplificazione delle procedure al disboscamento di un mostruoso fardello di leggi. Eppure, l’impressione è che non bastino le promesse, le piccole correzioni normative e legislative e, tanto meno, lo scaricabarile delle colpe tra corporazioni in squallida gara a chi, più in fretta e più gravemente, perde la fiducia degli italiani. Occorre un impegno, collettivo e individuale, di tutta la società italiana che eviti di guardare, sempre e per prima cosa, ai propri diritti e ai doveri del vicino e cerchi, invece, di contribuire, con la concretezza di una personale responsabilità civile, a porre un argine al malaffare. 

A questo proposito, il ricordo va ad anni terribili, quelli del terrorismo, quando ci fu una reazione comune di rigetto contro il rischio di una disgregazione della nostra democrazia. Politici, magistrati, poliziotti e carabinieri, funzionari dello Stato, sindacalisti e imprenditori, avvocati, studenti e professori, giornalisti, tra i quali non possiamo non ricordare un vicedirettore di questo giornale, Carlo Casalegno, pagarono un altissimo prezzo in quella lotta per ripristinare una convivenza serena nel nostro Paese. 

Oggi, per fortuna, le condizioni per una analoga battaglia civile non sono così drammatiche e i rischi personali non sono, forse, così gravi; ma il pericolo di un inesorabile declino morale, con le relative conseguenze economiche e sociali, non è meno preoccupante. In questo scatto di responsabilità dovrebbero distinguersi un po’ tutti, a cominciare dai magistrati, naturalmente. E’ giusto che sollecitino leggi più severe e norme meno complesse, ma sono sicuri che facciano, tutti e di tutto, perché l’Italia possa avere una giustizia migliore, non allungando i processi con rinvii di udienze a tempi immemorabili, eliminando esibizioni di presuntuosa vanità mediatica, evitando interpretazioni suggestive e personali del diritto, e magari, dedicando un maggior impegno a un compito, soprattutto in questo momento, così importante per il destino del nostro Paese?

L’esame di coscienza e l’appello alla mobilitazione di ciascuno dovrebbero riguardare proprio tutti. In questi giorni colpisce, ad esempio, il contrasto tra l’atteggiamento del sindacato, sempre ai tempi del terrorismo, e quello dimostrato, ora, dai maggiori dirigenti delle nostre confederazioni. Tanto importante, coraggiosa ed efficace fu la reazione di tutto il sindacato italiano contro la strategia brigatista, fino al prezzo della vita, come quella di Guido Rossa, tanto tiepida, rituale, quasi distratta e imbarazzata è l’attenzione per il fenomeno del diffuso costume di disonestà. Proprio perché non è un alibi la corruzione della classe dirigente italiana, il sindacato dovrebbe rappresentare con forza i diritti della grandissima maggioranza dei lavoratori onesti a non essere coinvolti in un discredito ingiusto e generalizzato. Se non è vero «che così fan tutti», cominciamo a volerlo dimostrare senza sconti per nessuno.

Da - http://www.lastampa.it/2015/10/25/cultura/opinioni/editoriali/inizia-da-noi-largine-al-malaffare-eKpbHih3me2dQFentb0hYI/pagina.html
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« Risposta #172 inserito:: Gennaio 02, 2017, 06:35:19 pm »

L’esasperazione che nutre il populismo

Pubblicato il 02/01/2017
Luigi La Spina

Quello che più ha colpito è stata la lontananza del discorso di Mattarella dai toni e dagli argomenti che, purtroppo, siamo avvezzi ad ascoltare da parte dell’attuale classe politica. Il messaggio del capo dello Stato agli italiani per il Capodanno 2017, infatti, ha soprattutto avuto il merito di cogliere e di denunciare il male più profondo del nostro Paese con parole serie, allarmate anche se non disperate, il rischio, cioè, di una crescente disgregazione della società italiana, generata da un’insopportabile disuguaglianza. 

Il tema di fondo dell’appello del presidente della Repubblica a partiti e leader che, accecati dalla nube quotidiana di polemiche autoreferenziali, non ne riescono a comprendere la gravità e l’urgenza, è stato illustrato, però, con una modernità di concezione che sfugge ai vecchi schemi classisti, fondati su analisi di società novecentesche. Ecco perché sarebbe profondamente sbagliato, o furbescamente strumentale, utilizzare il messaggio di Mattarella per un’indebita appropriazione di schieramento. L’accezione attuale di una disuguaglianza, che mina pure la coesione di gran parte delle società occidentali nel mondo, taglia i cittadini non solo nella tradizionale divisione tra ricchi e poveri, ma tra donne e uomini, tra le generazioni, tra le culture, tra i centri urbani più popolati e quelli più isolati, tra lavoratori, garantiti in modi ingiustamente difformi.

Il capo dello Stato, in questi quasi due anni di permanenza al Quirinale, ha evidentemente avuto modo di avvertire il vero motivo di quel clima avvelenato che si respira non solo nel dibattito politico, ma in tutte le manifestazioni del dialogo pubblico e privato, a cominciare dalla rete internet. Non si tratta, come superficialmente si dice, solo di un imbarbarimento del linguaggio, peraltro dal presidente puntualmente denunciato, ma del chiaro sintomo di una esasperazione sociale che nasce dal risentimento per quelle troppe disuguaglianze che, negli ultimi anni, si sono grandemente accresciute nel nostro Paese. Come anche l’inchiesta di Linda Laura Sabbadini, compiuta sul nostro giornale nei giorni scorsi, ha ampiamente illustrato.

L’effetto di questa tendenza preoccupa Mattarella perché le conseguenze, sia sulla vita pubblica, ma anche sul normale funzionamento delle nostre istituzioni, sono tali da alimentare quella demagogia antipolitica che, in nome del popolo, ne usurpa indebitamente la volontà. È questo il motivo per cui, in modi insoliti per la ritualità dell’occasione di fine anno, il presidente della Repubblica ha voluto spiegare agli italiani perché non ha voluto imboccare la strada, che pure ha definito «maestra» per una democrazia, delle elezioni. In realtà, senza un sistema elettorale coerente, rappresentativo delle varie opinioni dei cittadini, ma anche capace di rispondere ai loro desideri con l’efficacia di un governo basato su una solida maggioranza parlamentare, l’appello al responso delle urne avrebbe come risultato un vero tradimento di quella volontà popolare della quale, con ipocrisia, si invoca il rispetto.

È stato importante il riconoscimento, nel discorso di Mattarella, dei valori positivi di solidarietà, di generosità, di dedizione al bene pubblico che gli italiani, in molte occasioni, hanno dimostrato, perché è su queste risorse che possiamo contare per superare il momento difficile che il nostro Paese sta attraversando. La preoccupazione del capo dello Stato, infatti, si è associata alla convinta espressione di fiducia nei confronti della grande maggioranza dei nostri concittadini. Certo, se partiti o movimenti, esasperando il dibattito politico nel tentativo di cavalcare queste tensioni sociali, pensassero di lucrarne vantaggi elettorali, l’illusione sarà di breve durata, perché una generalizzata protesta e una rivolta con esiti imprevedibili li travolgerà tutti, senza eccezioni. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/02/cultura/opinioni/editoriali/lesasperazione-che-nutre-il-populismo-1Yj7cx5KNDYqf9NgQuqVIN/pagina.html
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« Risposta #173 inserito:: Giugno 03, 2017, 11:41:23 am »


Il difficile doppio fronte di Matteo

Pubblicato il 01/06/2017

Luigi La Spina

Un inizio d’estate rovente, dal punto di vista meteorologico, ma anche da quello politico. È la previsione che sembra profilarsi in un’Italia dove a un improvviso accordo tra i maggiori partiti su una nuova legge elettorale, prodromo di elezioni anticipate, si affiancano altrettante improvvise minacce al progettato percorso di accelerazione della crisi coltivato da Renzi. 

Ieri, infatti, sono arrivati due inciampi che potrebbero complicare quella corsa alla rivincita elettorale che, dopo la sconfitta sulla riforma costituzionale, il segretario Pd vuole imboccare con il voto d’inizio ottobre. Il primo riguarda le difficoltà per non confermare il mandato di Ignazio Visco alla Banca d’Italia. Il secondo è costituito dal violentissimo attacco di Pier Camillo Davigo contro un centrosinistra che avrebbe «messo in ginocchio» la magistratura. 

Le due «spine» di Renzi, chiamiamole così, sono di natura, di significato e d’importanza molto diverse. La prima riguarda una questione molto delicata, perché la sostituzione di Visco con una figura estranea all’ambiente della Banca d’Italia potrebbe infliggere un colpo molto grave alla credibilità di una delle poche istituzioni che, dal dopoguerra in poi, ha costituito un punto di riferimento autorevole nella vita pubblica italiana.

Una mossa che potrebbe essere intesa come un attentato all’indipendenza della Banca, come il segno della volontà renziana di sottometterla ai voleri del potere esecutivo e che potrebbe ricordare la levata di scudi che si alzò quando Tremonti pensò di candidare Bini Smaghi a governatore. Rimozione che, perciò, sembrava già ardua, ma che ieri, con l’inusuale presenza del capo della Bce, Mario Draghi, in prima fila ad ascoltare l’annuale relazione del governatore, pare ancor più difficile. La partecipazione del presidente della Banca centrale europea, autorevole ex governatore a palazzo Koch, infatti, è parsa non solo, e forse non tanto, un silenzioso, ma significativo appoggio alla riconferma di Visco, ma l’ammonimento alla nostra classe politica contro ipotesi di improvvide candidature esterne all’istituzione e il segno di una specie di superiore garanzia europea sulla Banca d’Italia e sui suoi uomini. 

La risposta che l’attuale governatore ha fornito, durante la lettura dell’annuale relazione sullo stato della nostra economia, alle critiche sulla presunta mancata vigilanza della nostra Banca sulle malefatte di alcuni istituti di credito, indubbiamente, ha messo altri ostacoli a chi volesse negargli la conferma. Visco, infatti, ha difeso, come era scontato, l’operato suo e dei suoi collaboratori, ma non ha condannato esplicitamente l’ipotesi di elezioni anticipate, deludendo forse alcune attese, anche in alto loco. In più, con abile eleganza, ha ammesso che «dalla crisi economica e finanziaria di questi anni abbiamo tutti imparato qualcosa, compresa la Banca d’Italia». Non, quindi, una prevedibile arringa autoassolutoria, ma la giustificazione che la mancanza di strumenti adeguati per una vigilanza più severa, ora finalmente forniti, e l’imprevedibile gravità delle conseguenze di quella crisi sull’economia italiana hanno contribuito a impedire un’azione più decisa e più efficace contro le imprudenti e, in alcuni casi, fraudolente gestioni di manager bancari. 

Il roboante show di Davigo, davanti alla platea osannante dei grillini, invece, annuncia a Renzi una campagna elettorale di fuoco contro di lui e contro il Pd, ben lontana dalle illusioni di chi pensava che l’accordo col Movimento 5 stelle sulla nuova legge elettorale di stampo proporzionale fosse un segnale di un atteggiamento più «istituzionale» da parte dei seguaci di Grillo. Uno scontro, quindi, ancor più pericoloso del previsto e disseminato di trappole, magari pure in arrivo da qualche procura, che potrebbe indebolire le speranze di quella rivincita che Renzi sogna dalla quella «ingrata», almeno per lui, sconfitta del 4 dicembre. Insomma, da una parte l’offensiva dell’establishment tradizionale italiano ed europeo, dall’altra la guerriglia incendiaria e populista. Forse, anche per Renzi, è troppo.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/06/01/cultura/opinioni/editoriali/il-difficile-doppio-fronte-di-matteo-MdL7xQ3vbvZBLhBVcPhmsO/pagina.html
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« Risposta #174 inserito:: Luglio 30, 2017, 06:14:59 pm »

Ora bisogna individuare i responsabili

Pubblicato il 22/07/2017 - Ultima modifica il 22/07/2017 alle ore 07:19

LUIGI LA SPINA

Errori, superficialità, sottovalutazioni, pigrizie.
La lettura delle testimonianze rese alla commissione consiliare del Comune di Torino che ha indagato sul disastro di piazza San Carlo lascia davvero stupefatti. Un evento che raccoglie più di 40 mila persone ammassate davanti a un solo maxischermo in una delle piazze storiche della città organizzato come neanche avviene per una piccola fiera di paese. Con conseguenze, lo ricordiamo, tragiche: una donna morta e oltre 1500 persone ferite. 

In attesa che l’autorità giudiziaria completi l’inchiesta sui fatti del 3 giugno, già la raccolta di queste carte chiarisce l’incredibile catena di irresponsabilità che grava sulla coscienza di amministratori locali, funzionari pubblici e dirigenti dello Stato.
 
Le relazioni che concludono le indagini di simili commissioni, con i faldoni che racchiudono le testimonianze di protagonisti e comprimari, in genere, segnano il punto finale di una vicenda.
In questo caso, si può parlare, invece, di un punto di partenza, dal quale si dovrà arrivare al vero traguardo finale, quello che tutta la città di Torino aspetta sia raggiunto, cioè l’individuazione delle specifiche responsabilità. 
L’impressione complessiva che emerge dalla lettura di queste carte, però, è quella di una tale confusione di competenze e di un tale incrocio di deleghe, maldestramente e superficialmente attribuite a chi non aveva esperienze e professionalità per esercitarle con autorevolezza ed efficienza, da rendere il lavoro dei magistrati molto difficile.
 
Ecco perché non bisogna cedere alla pur comprensibile impazienza di una opinione pubblica che vorrebbe subito conoscere i risultati delle indagini. La ricerca di uno o di più capri espiatori da offrire ai torinesi per rispondere alla loro indignazione non vuol dire fare giustizia, perché le responsabilità penali e civili sono sempre individuali e distribuire colpe e punizioni nel mucchio vorrebbe dire, paradossalmente, adeguarsi a quel metodo sommario, confuso e superficiale che è stato adottato per organizzare l’evento di piazza San Carlo.
 
In attesa delle conclusioni a cui arriverà la procura, in tempi comunque sperabilmente non lunghissimi, restano responsabilità politiche e amministrative sulle quali sindaca, giunta comunale, prefettura e questura dovrebbero valutare con senso di responsabilità istituzionale. Anche in questo caso, bisogna evitare che interessi di partito strumentalizzino una vicenda tragica sulla quale Torino rischia di pagare un’immagine negativa che non merita. Come non è tollerabile che il disastro di piazza San Carlo finisca nel solito polverone delle inchieste italiche, quello che arriva a una conclusione che conosciamo fin troppo bene: tutti colpevoli e, quindi, nessun colpevole.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/22/cultura/opinioni/editoriali/ora-bisogna-individuare-i-responsabili-5qEcW3EmhUdxT67o5PVwkL/pagina.html
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« Risposta #175 inserito:: Agosto 03, 2017, 05:24:16 pm »


Le regole per il premier che verrà

Pubblicato il 02/08/2017

Luigi La Spina

C’è un modo efficace per far credere all'opinione pubblica che una affermazione sia vera, anche se è del tutto falsa: quello di ripeterla ossessivamente e, per di più, con il tono di chi ribadisce un’ovvietà contro la quale nessuno potrebbe obiettare. Cultori assidui di tale trappola propagandistica sono, in questi giorni, soprattutto i leader di quei partiti che ambiscono al primo posto nella classifica delle prossime elezioni, Pd e Movimento 5 stelle. Costoro sostengono che spetti a chi guida la formazione politica che abbia raccolto più voti la poltrona di Palazzo Chigi. 

Peccato che questa tesi, irrefutabile in un sistema maggioritario, sia, in modo altrettanto irrefutabile, clamorosamente sbagliata in quello proporzionale. Nel primo, è affidato direttamente ai cittadini il compito di indicare il capo del futuro governo, nel secondo, sono i partiti che segnalano al presidente della Repubblica chi è in grado di raccogliere su di sé i consensi della maggioranza nei due rami del Parlamento.

La storia della nostra Repubblica, del resto, è troppo recente per essere dimenticata dai nostri fintamente smemorati leader. Nel sistema proporzionale, in vigore dal dopoguerra fino alla «rivoluzione maggioritaria», chiamiamola così, degli Anni Novanta, Craxi governò il Paese con circa l’undici per cento dei voti ottenuti dal Psi e, addirittura, Spadolini inaugurò le presidenze «laiche» del Consiglio con il tre per cento di consensi al suo partito, quello repubblicano.

Al contrario, Berlusconi e Prodi si alternarono a palazzo Chigi in virtù della maggioranza relativa ottenuta da uno dei due schieramenti di cui erano i leader.

Ecco perché con l’unico sistema di voto che la Corte Costituzionale ha reso praticabile e che i nostri partiti, nonostante i ripetuti appelli di Mattarella, non sono riusciti a modificare, quello spiccatamente proporzionale, la regola del «chi arriva primo, governa» ha il fascino della semplicità, ma il difetto di non avere i requisiti per raggiungere l’obbiettivo, cioè la maggioranza in Parlamento.

I leader dei partiti più grandi potrebbero sicuramente rendere valida tale regola con una intesa che riformasse in senso maggioritario il sistema elettorale risultante dalla sentenza della Corte. Tutti, esperti sondaggisti, acuti commentatori, saggi politici si proclamano allarmati dal rischio di una assoluta ingovernabilità dell’Italia, nella prossima legislatura, proprio a causa di un meccanismo di voto proporzionale applicato a un assetto sostanzialmente tripolare della nostra politica. Un futuro che, nell’ipotesi migliore, quella che potrebbe evitare un immediato ritorno dei cittadini al voto, vedrebbe un governo debolissimo, condannato all’immobilismo dai contrasti tra due schieramenti costretti a stare insieme per raggiungere più del 50 per cento dei voti in Parlamento, ma con visioni e programmi del tutto diversi.

Una prospettiva davvero funesta in questi tempi assai difficili per una Italia con una posizione molto scomoda: dal punto di vista geografico, perché ponte troppo affollato tra Africa ed Europa, da quello economico, perché fanalino di coda nella ripresa continentale, da quello politico, perché non più importante Paese di frontiera nella sfida tra Ovest ed Est del mondo, ma nazione che rischia l’irrilevanza strategica nei nuovi equilibri internazionali.

In queste condizioni, l’Italia ha bisogno di governi stabili, guidati da leader la cui autorevolezza nasca soprattutto da consensi elettorali ampi da parte dei cittadini. Se la nostra classe politica ritiene, com’è ragionevole, che questo risultato si possa ottenere con un sistema maggioritario, lo approvi. Se non è capace, o non vuole farlo, truccare le regole non vale.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/02/cultura/opinioni/editoriali/le-regole-per-il-premier-che-verr-d8ZNK75TAUXTZj7w7Z5tSO/pagina.html
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« Risposta #176 inserito:: Settembre 27, 2017, 12:37:59 pm »

Alle origini della nostra decadenza

Pubblicato il 26/09/2017

LUIGI LA SPINA
Poteva essere solo un ricercatore di sangue inglese, almeno per metà, a stupirsi, indignarsi e denunciare. Negli atenei italiani le intese di spartizione degli incarichi e delle cattedre agli allievi di quelli che una volta erano chiamati i «baroni» universitari è abitudine antica e collaudata. Un malcostume che per essere giustificato, con qualche sorriso di compatimento per coloro che non lo accettano, viene persino nobilitato definendolo «cooptazione» e giudicandolo come il solo criterio realistico di selezione.

Tale sistema è diffuso in tutte le discipline accademiche. Meno, naturalmente, in quelle in cui il legame con una parallela attività professionale non è così stretto e frequente, come lettere o matematica; di più, in quelle, come economia o giurisprudenza, in cui spesso la carriera universitaria è funzionale strumento di redditizie consulenze o lucrosi incarichi. 

La colpevole tolleranza e la complice omertà che consentono a questa «prassi» di essere riconosciuta come una regola occulta, ma ferrea, nella vita nei nostri atenei, tale che le inchieste giudiziarie come quelle di Firenze costituiscono le classiche eccezioni che la confermano, hanno però, nella società italiana d’oggi, conseguenze molto più dannose e più estese di quelle del passato. Colpiscono, infatti, uno, se non il più importante male del nostro Paese, l’intreccio perverso di corruzione dilagante, selezione antimeritocratica, immobilità sociale e mediocrità della classe dirigente.
 
Il principio liberista della concorrenza, infatti, quello che dovrebbe favorire l’affermazione del migliore e del merito nella competizione del mercato, viene sempre più aggirato da motivi di successo che sostituiscono alla capacità professionale, alla preparazione culturale, alla profondità dell’esperienza e, magari, all’onestà personale, la supina fedeltà al capo, un beota conformismo, la servile disponibilità ad essere complice di traffici illeciti, una mediocrità intellettuale rassicurante. Queste «doti», chiamiamole così, sono sempre più utili per vincere un concorso, appunto, ma anche per aggiudicarsi un appalto, per conquistare un posto in un consiglio d’amministrazione, per una brillante carriera dirigenziale e, in qualche caso, anche per trionfare nelle aule dei tribunali. Perché più si estende la corruzione, come possiamo constatare tutti i giorni in tutti campi, e più il vecchio motto «vinca il migliore» contraddice le reali esigenze della nostra vita civile.
 
Se il merito diviene un ostacolo e non un vantaggio, i risultati sono evidenti: la selezione si attua solo attraverso altri criteri e, quindi, la mobilità sociale si blocca, perché sarà molto difficile che si possano superare scale di denaro e di potere che impediscono ai figli delle classi meno avvantaggiate di ascenderle con successo. Ma questo male ha conseguenze che stanno minando gravemente le capacità professionali, culturali, tecnologiche, in generale, intellettuali, della nostra classe dirigente e politica. Una decadenza che rischia davvero di impedire al nostro Paese di competere con le classi dirigenti e politiche delle altre nazioni, europee e non europee.
 
La desolazione e l’amarezza di queste considerazioni potrebbero indurre il lettore a un nocivo pessimismo sul nostro futuro. Si impone, allora, un qualche immediato rimedio. A questo scopo, è forse opportuno concludere con una famosa barzelletta consolatoria diffusissima nei nostri atenei, quella intitolata al nome di un celebre matematico italiano, «Il teorema di Pincherle sui concorsi». Dice così: un importante barone universitario va in pensione e sceglie al suo posto un discepolo un po’ meno bravo di lui, perché la sua figura giganteggi in un confronto nostalgico. Così fanno tutti quelli che si succedono in quella cattedra, finché ne arriva uno così stupido che non si accorge di lasciare la poltrona a un allievo davvero bravo.

Forse, in Italia uno stupido così non è ancora arrivato al potere.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/09/26/cultura/opinioni/editoriali/alle-origini-della-nostra-decadenza-g8gcIcd3nrY4XgZVkHrsdI/pagina.html
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« Risposta #177 inserito:: Ottobre 09, 2017, 05:35:47 pm »

Il declino silenzioso di Torino, ora la città si sente tradita
Politica senza visione, società civile abbandonata.
Appendino al bivio

I sondaggi.
Chiara Appendino, eletta nel 2016 e accolta con indici di gradimento altissimi nei sondaggi di inizio mandato, sta scendendo nelle classifiche del consenso

Pubblicato il 06/10/2017

LUIGI LA SPINA
TORINO
Ma che cosa sta succedendo a Torino? Dove è finita quella retorica di una città che aveva saputo allargare la sua vocazione manifatturiera al turismo e alla cultura, scoperta da turisti sorpresi e affascinati dalla sua bellezza, lanciata verso un futuro da protagonista nella competizione tra le metropoli del nuovo secolo? 

Una narrazione, pubblica e privata, che, ripetuta ossessivamente dai leader di un centrosinistra che aveva governato 25 anni, aveva finito per suonare persino troppo propagandistica e rituale per soddisfare i suoi abitanti, ma che aveva indubbiamente cambiato l’immagine di Torino agli occhi degli italiani. Perché la sindaca dei «5 Stelle», Chiara Appendino, accolta con indici di gradimento altissimi nei sondaggi di inizio mandato, sta scendendo vertiginosamente nelle classifiche del consenso? 
 
Perché sulla città, delle cui sorti si discuteva appassionatamente, dentro e fuori dai suoi confini, sembra calata una cappa di silenzio e di indifferenza, rotta soltanto dalle cronache di fatti tragici e dolorosi come quelli della notte di piazza San Carlo o degli incidenti di chi contestava il G7? 
 
Per avanzare qualche risposta a questi interrogativi, basta partire da un elenco dei fatti avvenuti in questi mesi, a partire dal più recente, l’annuncio, da parte della sindaca, di un taglio di 80 milioni al bilancio comunale, accusando i suoi predecessori di aver detto il falso sulla realtà finanziaria dei conti pubblici e attribuendo a loro la colpa di dover operare sanguinosi risparmi di servizi ai cittadini.
 
Un annuncio che, ricevendo la sferzante replica di Chiamparino, il primo imputato di questa grave denuncia, sanziona la fine di quella intesa istituzionale tra Comune e Regione, bollata dai critici dell’uomo ancora più popolare della sinistra torinese, come «un governo Chiappendino» sulle sorti delle due più importanti poltrone del Piemonte, che potrebbe avere conseguenze imprevedibili sul futuro della politica cittadina. 
 
Ultimi mesi, poi, costellati dagli allarmi, ripetuti e insistenti, dei leader delle categorie più importanti del mondo produttivo, professionale, commerciale, culturale torinese, dai presidenti degli industriali a quello dei costruttori, dagli albergatori a chi, con finanziamenti ridotti al lumicino, deve mantenere le attività di importanti musei, gallerie, teatri. Tutti sostanzialmente lamentando la mancanza di una chiara visione sul futuro della città, dovuta a una irrisolvibile contraddizione tra le due «anime» della maggioranza di governo «5 stelle», quella «movimentista» che fa capo al vicesindaco Montanari e quella «governativa», rappresentata da Appendino. Un carosello di preoccupazioni e di critiche che domani, con la presentazione del rapporto Rota, annuale autorevole bollettino dello stato della città, dovrebbe aggiungere dati inquietanti sulle prospettive di una Torino che ha perso definitivamente la rincorsa a Milano, ma che, addirittura, è sconfitta dal confronto con Firenze e Bologna, fino a potersi paradossalmente definire, dal punto socioeconomico, come la capitale del Sud d’Italia.
 
In attesa, dopo 4 mesi, che i parenti della vittima, i tantissimi feriti, l’opinione pubblica conoscano i primi risultati dell’inchiesta sui fatti di piazza San Carlo, risultati che potrebbero creare pure qualche difficoltà alle principali cariche delle istituzioni torinesi, la politica della città pare preda di un languore propositivo imbarazzante. La sindaca, come detto, cerca di destreggiarsi tra consiglieri che sfilano accanto ai movimenti radicali di contestazione «al sistema» e propensioni personali e familiari molto più istituzionali, ben lontane dalle tentazioni della cosiddetta «decrescita felice», ma senza concepire, o riuscire a comunicare, visioni convincenti di come ritenga possa delinearsi il futuro di Torino. Il centrosinistra sembra non aver ancor «elaborato il lutto» di una sconfitta clamorosa e imprevista, più ripiegato in se stesso che capace di offrire alla città una proposta chiara e realistica, tale da rianimare un elettorato diviso, incerto e deluso da polemiche quotidiane con gli avversari, sterili e noiose, tali da perdersi nel disinteresse generale. La destra, ininfluente da decenni sulla vita pubblica della città e priva di personalità dotate del necessario carisma, si adegua al mediocre clima generale.
 
La società cittadina, infine, quel ceto di classe dirigente che, nella svolta impressa dal sindaco Castellani a cavallo del secolo, aveva contribuito grandemente, prima ad elaborare la strategia e, poi, a collaborare alla realizzazione di quella importante e inedita esperienza di sviluppo cittadino, si sente abbandonata da una politica che non sa più né individuare un traguardo, né avere la credibilità e l’autorevolezza per suscitare attenzione e attivare l’impegno civile.
 
Si salda così, in modo curioso e sconcertante, la sensazione di un «tradimento» collettivo che accomuna ceti molto diversi. La borghesia, che in parte aveva votato Appendino al ballottaggio con Fassino, pur di scacciare il dominio «comunista» sulla città, è irritata da iniziative che colpiscono i suoi interessi, a partire dalla quadruplicata tariffa delle strisce blu per i residenti, ma e, soprattutto, dallo spettro di una città in declino, che non offre più opportunità di lavoro nel settore dell’edilizia pubblica e privata, ad esempio. Gli abitanti delle periferie, speranzosi per gli impegni elettorali della sindaca, non avvertono neppure i primi passi della promessa riqualificazione dei loro quartieri. I commercianti, vera base elettorale di Appendino, continuano a soffrire l’arrivo di nuovi supermercati e vedono inascoltati i loro allarmi sui piccoli, ma magari storici negozi, costretti a chiudere.
 
In una situazione che ricorda il vuoto dei partiti che favorì, appunto, l’avvento di Castellani nel 1993, forse toccherebbe proprio a quella società civile che si mobilitò, guidata da Salza, per supplire alla mancanza di leadership politica, prendere l’iniziativa di coordinare le tante e valide forze, produttive, professionali, le tante risorse intellettuali, tecnologiche, lavorative presenti in città per superare un momento così delicato per il futuro dei figli e dei nipoti di Torino.
 
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« Risposta #178 inserito:: Novembre 04, 2017, 07:13:18 am »

Un passo verso la verità
Pubblicato il 03/11/2017

LUIGI LA SPINA

La città, ma soprattutto i parenti della vittima, poi, la donna che è ancora tetraplegica e spera nel miracolo di una difficile guarigione, infine, i moltissimi feriti, a cinque mesi dalla terribile notte di piazza San Carlo, attendono una risposta giudiziaria che chiarisca le responsabilità di quella tragedia. Ora, la procura di Torino si appresta a formulare ipotesi di reato che potrebbero coinvolgere gran parte dei vertici cittadini in un’accusa molto grave, quella di omicidio colposo. 
 
C’erano due strade che i magistrati avrebbero potuto imboccare. La prima, la più facile, era quella di rispondere all’inquietudine dell’opinione pubblica con un giustizialismo sommario e frettoloso, offrendo uno o più capri espiatori alla condanna, peraltro preventiva, dei cittadini. La seconda, la più comoda, era quella di far prevalere il timore delle conseguenze, politiche e amministrative, di una indagine così delicata, sull’esigenza di un accertamento rigoroso delle responsabilità. Bisogna dare atto alla procura torinese di aver evitato entrambe queste tentazioni, resistendo alle sollecitazioni di chi lamentava presunti ritardi e presunte prudenze insabbiatrici, come di chi suggeriva cautele speciali per speciali protagonisti della scena pubblica cittadina.
 
La democrazia liberale, come diceva Norberto Bobbio, esiste se c’è l’assoluta trasparenza delle decisioni e l’assoluta divisione dei poteri. Torino deve avere l’ambizione di dimostrarlo.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/11/03/cultura/opinioni/editoriali/un-passo-verso-la-verit-D6q3NmEuNcHOHyQg5bduNO/pagina.html
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« Risposta #179 inserito:: Novembre 04, 2017, 07:21:15 am »


La solitudine del Piemonte nell'emergenza

Pubblicato il 30/10/2017

Luigi La Spina
Non c’è bisogno di essere fisicamente sui monti che bruciano. Non c’è bisogno di dover scappare di casa perché le fiamme la lambiscono. Non c’è bisogno di abitare a Torino per scrutare con angoscia la nube rossastra e cupa che l’avvolge. Basta guardare le foto e i filmati agghiaccianti che compaiono sui giornali, in tv o sulla rete per comprendere la situazione drammatica in cui una Regione come il Piemonte si trova ormai da molti giorni e, purtroppo, senza che le previsioni meteorologiche, per altri giorni, offrano conforto.

Eppure, sembra che uno strano «silenziatore d’allarme» sia stato applicato a una emergenza così grave un po’ da tutte le autorità che dovrebbero intervenire con l’urgenza indispensabile, con tutti i mezzi disponibili, chiedendo l’aiuto e facendo ricorso a tutte le forze che un Paese come l’Italia dovrebbe mobilitare in un caso del genere. 

Hanno cominciato gli amministratori locali a non proporzionare le loro richieste di assistenza per i rischi che correvano i loro territori e i loro abitanti, forse un po’ per l’orgoglio di far da soli e un po’ per quella consueta ritrosia piemontese che rifugge il lamento.

Stessi atteggiamenti hanno mostrato autorità piemontesi e torinesi. Anche per costoro quel «silenziatore» può avere parecchie motivazioni. 

Da una parte, la presunzione, alimentata da scarsa consapevolezza della gravità dei pericoli e delle enormi difficoltà di far fronte alla vastità del territorio devastato dalle fiamme, di possedere forze sufficienti per il controllo e lo spegnimento degli incendi. Dall’altra, il timore, del tutto incomprensibile, di esagerare un allarme che, invece, aveva tutti i motivi per essere gridato con quella forza che la situazione richiedeva.

Così, davanti a questo «bon ton» piemontese e torinese, in questo caso tutt’altro che buono, il governo si è adeguato al generale tran-tran, sommesso e distratto. Né il presidente del Consiglio ha fatto sentire la sua voce e, soprattutto, ha assunto decisioni opportune in aiuto del Piemonte, né lo ha fatto il ministro dell’Interno, solitamente, bisogna ammetterlo, pronto ad adottare iniziative efficaci e tempestive. La ministra della Difesa, Pinotti, si è limitata ad accogliere la richiesta di 60 alpini per controllare che i piromani non proseguissero nelle loro folli imprese incendiarie. E ci mancava che dicesse di no. 

Da parte delle organizzazioni di volontariato, infine, che da Nord a Sud del nostro Paese si sono sempre mobilitate con grande entusiasmo, con grande senso di solidarietà, ma anche con grande capacità operativa, non sembra che, in questo caso, si sia avvertita la solita disponibilità a intervenire.

Ecco perché l’impressione è quella di una sostanziale solitudine della Regione di fronte a un’emergenza quale mai si è presentata in questo territorio, almeno in tempi recenti. Sarà colpa della proverbiale sobrietà sabauda. Sarà colpa dell’abitudine che il Piemonte ha dato all’Italia di non sollecitare un aiuto nazionale, neanche quando è indispensabile. Sarà colpa di una disattenzione generale che corrisponde, parliamoci chiaro, a un interesse particolare di molti italiani. Sarà colpa dello scarso timore delle autorità governative e dei partiti nazionali per reazioni di indignazione che gli abitanti di una Regione come il Piemonte non sono soliti manifestare. Ma è ora che tutti, in Italia, comprendano la gravità di quello che sta succedendo e che non continuino a volgere il capo da un’altra parte. 
   
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