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Autore Discussione: LUIGI LA SPINA -  (Letto 88825 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Giugno 01, 2013, 04:59:55 pm »

Editoriali
01/06/2013

Italia in ritardo, colpa di politici e imprese

Luigi La Spina

segue dalla prima pagina

C’era un malcelato orgoglio nell’elenco dei ringraziamenti che Ignazio Visco ha rivolto a coloro che, dalla Banca d’Italia, sono andati a ricoprire posti importanti nel governo, nell’amministrazione pubblica e, perfino, alla Rai. E c’era molta curiosità tra la platea che ascoltava le sue «considerazioni finali» per capire come il governatore avrebbe marcato la distanza con il suo ex direttore generale, Fabrizio Saccomanni. 

Quel Fabrizio Saccomanni da solo un mese a capo del ministero dell’Economia, il tradizionale interlocutore degli ammonimenti che, ogni anno, vengono lanciati da via Nazionale al governo. Il potenziale imbarazzo di Visco è stato schivato con abilità, ma senza reticenze, pur nell’ancor più rigoroso rispetto della funzione del governatore e dei limiti del ruolo. Così il messaggio alla politica, anche questa volta, è stato chiaro, ma si è esteso, con maggior forza del passato, a tutta la società italiana, in particolar modo alle imprese e all’alta dirigenza burocratica del nostro Paese. Nella consapevolezza di una vasta corresponsabilità per il drammatico ritardo competitivo che l’Italia ha accumulato negli ultimi 25 anni. 

La diagnosi dei nostri mali è, ormai, da tutti condivisa e le terapie per la cura, anche per i ridotti margini che l’Europa concede ai medici italiani, sono, quasi da tutti, pure condivise. Ma il guaio è nella loro applicazione, perché i politici, come ha detto eufemisticamente Visco, «stentano» a mediare tra interesse generale e interessi particolari, la burocrazia frena il processo di ammodernamento e le riforme «sono sempre chieste a chi è altro da noi». È questo il nodo che strozza l’economia italiana e che ha indotto il governatore a un giudizio abbastanza desolato e desolante sul nostro Paese «incapace di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici» avvenuti da oltre due decenni.

Ecco perché la politica deve fare la propria parte e, a questo proposito, Visco si è schierato decisamente fra coloro che difendono il rigore nelle politiche di bilancio, in sottintesa, ma trasparente polemica con chi è stato colto da improvvise conversioni sull’opportunità di un loro allentamento. Anzi, ha ricordato al governo che, almeno per quest’anno, non ci sono né tesori, né tesoretti da spendere e che le tasse, nel medio periodo, andranno sì abbassate, ma cominciando da quelle che gravano sul lavoro e sulle imprese. E i silenzi del governatore sulla invocata, da Berlusconi, abolizione dell’Imu e sul sollecitato, dalla sinistra, rinvio dell’aumento dell’Iva sono apparsi davvero eloquenti.

Non basta, però, a salvare l’Italia da un inesorabile declino nella gerarchia delle nazioni nel mondo l’opera dei politici e neanche il forte contrasto alle inerzie e alle inefficienze dell’amministrazione pubblica, pure nella speranza che il nuovo ragioniere dello Stato, proveniente proprio dalla Banca d’Italia, Daniele Franco, riesca là dove hanno fallito i suoi predecessori. La sferzata più bruciante, e forse la più inattesa, è stata riservata da Visco alle imprese. Non tutte, per la verità. Perché il governatore ha riconosciuto che alcune, fra le più grandi, hanno investito con risorse proprie, hanno accettato la sfida dell’innovazione spostandosi sui mercati più dinamici, hanno cambiato i modelli organizzativi. Altre, invece, continuano a chiedere soldi allo Stato, a non diversificare, rispetto ai finanziamenti bancari, le fonti delle loro risorse, a non modernizzare i processi produttivi. 

È vero che profondi cambiamenti nei rapporti di lavoro sono necessari, ha sostenuto Visco, così come nel mondo dell’istruzione, nella giustizia civile, nel quadro troppo ridondante di norme e di adempimenti amministrativi. Ma quella «distruzione creativa» di schumpeteriana memoria farà il suo inarrestabile corso nei prossimi anni in Italia e la previsione del governatore non è sembrata nascondere la drammaticità delle conseguenze che provocherà anche sulla coesione sociale nel nostro Paese.

La relazione del governatore è apparsa spietata nella diagnosi, completa nella individuazione delle responsabilità, ma forse priva, all’apparenza, di proposte innovative, soprattutto sul difficile problema del rapporto tra banche e imprese medio-piccole. È possibile che, nei prossimi mesi, la Banca d’Italia suggerisca, su questo tema, una serie di misure che possano aiutare quel tessuto aziendale intermedio che costituisce la forza dell’economia produttiva italiana. Una struttura gravemente indebolita nel numero di grande industrie presenti in settori fondamentali per i mercati internazionali e che conserva, invece, nicchie di eccellenza che, però, avrebbero bisogno di una crescita dimensionale ormai non più rinviabile. Ma siamo davvero sicuri che sia più urgente esercitare la fantasia, immaginando nuove norme, nuove leggi, nuove proposte e, invece, non sia meglio, e più concretamente efficace, far funzionare quelle che ci sono già o che sono state già decise e che le mille corporazioni italiane del privilegio stanno bloccando?


da - http://lastampa.it/2013/06/01/cultura/opinioni/editoriali/italia-in-ritardo-colpa-di-politici-e-imprese-DCPpaRKFVfyeKsAG4iCXJI/pagina.html
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« Risposta #151 inserito:: Giugno 06, 2013, 03:18:01 pm »

Editoriali
06/06/2013

Il paradosso che può aiutare il cambiamento

Luigi La Spina

Parte oggi, con la convocazione al Quirinale per l’insediamento della commissione dei 35 saggi, il nuovo tentativo di cambiare norme importanti della Costituzione italiana. Di una grande riforma del nostro assetto istituzionale, ormai, si parla da oltre 25 anni e da un quarto di secolo sono falliti tutti i tentativi per riuscirci. La domanda che gli italiani si stanno facendo in questi giorni, perciò, è ovvia e parte da un’osservazione di puro buon senso: visto che il Paese soffre la più grave crisi economica dalla nascita della Repubblica ed è attraversato da tensioni sociali molto forti è davvero questo il momento più opportuno per provarci ancora una volta? Non sarebbe meglio che il governo si concentrasse sull’emergenza più preoccupante per la vita quotidiana di tanta gente e rimandasse il grande progetto di riforma a tempi migliori? 

Il dubbio non solo è legittimo, perché il buon senso è una virtù, nonostante la sua cattiva fama presso intellettuali e politici nostrani, ma è anche opportuno, perché la comprensione dei cittadini, in una democrazia, dovrebbe costituire la spinta fondamentale per varare buone riforme, soprattutto in argomenti così delicati.

La risposta a questa domanda, però, potrebbe essere altrettanto semplice: l’attuale sistema istituzionale, politico e partitico ha dimostrato, ormai, la sua incapacità ad affrontare, con la radicalità e l’urgenza che proprio la crisi richiede, quei cambiamenti necessari per rimettere in moto un’economia e una società italiana che, come ha ricordato il governatore di Bankitalia qualche giorno fa, sono rimasti drammaticamente indietro rispetto all’evoluzione del mondo. 

È convinzione abbastanza comune che le corporazioni di interessi nel nostro Paese, divise tra di loro, ma unite nella volontà di difendere ad oltranza le nicchie di privilegi raggiunte, siano talmente consolidate, talmente arroganti da resistere a qualunque tentativo di cambiamento operato dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Coalizioni di centrodestra e coalizioni di centrosinistra, se analizziamo un po’ più in profondità i risultati concreti ottenuti in tale direzione, sono state costrette ugualmente a una ritirata ingloriosa. Lo schieramento di Berlusconi ha fallito nel tentativo di una rivoluzione liberale che, tanto proclamata a parole, si è conclusa, nei fatti, nel nulla. Quello capitanato da Prodi, sulla parola d’ordine del riformismo democratico, si è dovuto arrendere non solo davanti al solito massimalismo conservatore di una parte della sinistra italiana, ma perfino davanti al ribellismo dei taxisti romani. La speranza, perciò, è quella che solo un rafforzamento della politica, nella sua capacità di decisione e, soprattutto, nella forza di attuare le decisioni prese, potrebbe sconfiggere il «male oscuro» dell’Italia in questi anni a cavallo del secolo, l’immobilismo della società che colpisce soprattutto i nostri giovani e la stagnazione dell’economia che la sta portando a un irreversibile impoverimento.

da - http://lastampa.it/2013/06/06/cultura/opinioni/editoriali/il-paradosso-che-pu-aiutare-il-cambiamento-wyJ0zaE8AxokXwmf0oqF9K/pagina.html
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« Risposta #152 inserito:: Luglio 12, 2013, 07:43:14 pm »

Editoriali
11/07/2013

La necessità di separare due destini

Luigi La Spina

La ventennale parabola politica di Silvio Berlusconi rischia di chiudersi nel modo peggiore. Non tanto e non solo per lui, se a fine mese la Corte di Cassazione confermerà la sentenza di condanna a quattro anni e la sua interdizione perpetua dai pubblici uffici, ma quel verdetto potrebbe trascinare l’Italia in una grave crisi politica e istituzionale. 

 

Tutti i tentativi fatti, finora, per separare le vicende giudiziarie del Cavaliere dai destini del governo, dalle sorti della nostra economia e della nostra finanza, ma soprattutto dalle normali e corrette relazioni tra i fondamentali poteri dello Stato potrebbero dimostrarsi vani. La giornata di ieri, confusa e convulsa nelle aule del Parlamento e sulla piazza di Montecitorio, ma chiara, invece, nel suo preoccupante significato politico, ha annunciato, con la massima evidenza, l’accelerazione di un pericoloso smarrimento delle regole elementari sulle quali si basa una democrazia. Uno smarrimento che è cominciato da anni, che è proseguito con una colpevole assuefazione, sia da parte della classe politica, sia dall’opinione pubblica e che potrebbe portare a gravi conseguenze sul futuro del nostro Paese. 

 

La richiesta del Pdl di sospendere per tre giorni i lavori del Parlamento, in segno di protesta per la fissazione della data in cui la Corte dovrà decidere la sorte giudiziaria di Berlusconi, non ha una giustificazione tecnico-giuridica, rappresenta una pesante minaccia nei confronti della serenità con la quale i giudici dovranno valutare le carte del processo, ma stabilisce anche un inaccettabile collegamento tra i destini di una persona e quelli della più importante istituzione politica dello Stato, quella che rappresenta la sovranità popolare. La limitazione temporale al solo pomeriggio di ieri, consentita da un voto al quale si è unito pure il Pd, non può cambiare il giudizio, perchè così si colpisce un principio fondamentale sul quale si regge l’equilibrio dei rapporti tra istituzioni e che non può essere calcolato a ore o a giorni, nè condizionato da compromessi per salvare un governo.

 

È giusto che si chieda alla Cassazione di osservare quella legge che impone di impedire le prescrizioni, in tutti i processi, non solo quando l’imputato è il Cavaliere, ma è paradossale e sintomo di debolezza nelle convinzioni di innocenza che si punti non alla rapidità di un verdetto, ma a una soluzione che non chiarisca da quale parte sia la ragione. Comprensibile, pure, che Berlusconi e il suo partito diffidino dell’imparzialità del tribunale di Milano, ma un simile sospetto non può certo toccare quella Corte che ha già dimostrato, più volte, di esprimere valutazioni del tutto diverse dalle sentenze di quei magistrati. Se, poi, si coinvolgesse tutta la magistratura italiana in un fantomatico e improbabile complotto contro il principale leader della destra, non si capirebbe come il più volte capo del governo italiano abbia accettato di ricoprire una delle più alte cariche di uno Stato a cui sarebbe mancato un principio fondamentale per essere giudicato una democrazia.

 

Né le lotte interne tra «falchi» e «colombe» nel partito di Berlusconi, nè le dispute nel Pd tra l’attuale dirigenza e le scalpitanti truppe di Renzi, ma neanche le conseguenze sul precario accordo di larghe intese sul quale si regge il ministero Letta possono confondere al tal punto le idee sullo stravolgimento di alcune regole basilari della nostra Repubblica, il cui rispetto non costituisce un ipocrita formalismo, ma l’indispensabile condizione per cui la lotta politica non degeneri in uno scontro civile. Le dosi omeopatiche di cloroformio sulla sensibilità democratica immesse nella vita pubblica italiana in questi anni stanno arrivando a compromettere la coscienza della nazione in modo assai allarmante e la sentenza su Berlusconi del 30 luglio rischia di svelare, in un drammatico finale d’atto, i guasti che troppe compiacenze, troppi compromessi, troppe sottovalutazioni hanno prodotto nella società italiana.

 

Da vent’anni la giustizia di questo Paese, che dovrebbe essere profondamente riformata, sia per le lentezze delle sue procedure, sia per le incertezze di un diritto troppo esposto a eccessive discrezionalità da parte dei magistrati, viene condizionata, invece, dai verdetti su Berlusconi e le leggi che il Parlamento emana in questo campo vengono valutate solo per le conseguenze che possono avere sulle sue sorti giudiziarie. Ora, il rischio è di affidare alla Cassazione non la sentenza su un leader politico, ma la sorte di un governo che molto faticosamente sta cercando di far uscire l’Italia da una pesante crisi economica e occupazionale, l’andamento della finanza pubblica e, magari, le possibilità di un civile confronto politico. Un destino che non è compito di una Corte di giustizia determinare e che, forse, l’Italia e gli italiani non meritano.

da - http://lastampa.it/2013/07/11/cultura/opinioni/editoriali/la-necessit-di-separaredue-destini-oymTbbqoioqX1xg5uV3c7I/pagina.html
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« Risposta #153 inserito:: Luglio 16, 2013, 06:15:30 pm »

Editoriali
16/07/2013

Un governo isolato dai partiti

Luigi La Spina


Ha proprio ragione Letta quando osserva che nel mondo della politica avvengono «cose indecorose» e quando deplora la perdita del «senso delle istituzioni». Ma anche lui sa che non basteranno i suoi moniti saggi, né quelli di Napolitano, per limitare i danni che, ogni giorno, si provocano sull’immagine internazionale del nostro Paese e sulla credibilità della nostra classe politica nei confronti dei cittadini. 

Il contributo più utile, però, che il presidente del Consiglio può fornire, prima che si arrivi a uno scontro tanto permanente quanto improduttivo, è quello di riuscire a superare una condizione che del suo ministero fa un «unicum» assoluto nella storia della Repubblica. 

Non si è mai visto, infatti, un governo che, pur godendo, sulla carta, di una maggioranza parlamentare amplissima, appaia così isolato dai partiti che lo sostengono. Né si è mai visto un governo che, nonostante tutto, non abbia alcuna alternativa concreta e, quindi, appaia insostituibile. 

La situazione, se vogliamo uscire dalle ipocrisie, è riassumibile in poche parole: il Pd è squassato da una battaglia interna devastante e, nella sostanza, paradossale, perché è l’unico partito al mondo che, possedendo un leader sicuramente vincente alle elezioni, come Renzi, sta cercando in tutti modi di evitare di candidarlo. Nel frattempo, quel partito invoca le dimissioni, un giorno di Alfano, l’altro di Calderoli e spera che la Cassazione riesca a fare quello che in vent’anni non è stato capace di fare: eliminare dalla scena politica Berlusconi. Del governo se ne occupa, perciò, il meno possibile, anche perché, occupandosene, dovrebbe ricordare ai suoi furibondi e disperati elettori che, in quel governo, collabora con il nemico di sempre, l’odiato Cavaliere.

Il Pdl, l’altra gamba su cui si regge, si fa per dire, il ministero Letta, è perfettamente consapevole che, senza il suo fondatore e padrone assoluto, è un partito inesistente, sia nella politica nazionale, sia in quella locale, come dimostrato, prima dalla campagna elettorale per il Parlamento e, poi, dai risultati delle recenti elezioni amministrative. Ecco perché è terrorizzato dalla possibile condanna definitiva del suo leader e alterna minacce di conseguenze devastanti sulle istituzioni e sul governo, in caso di conferma della sentenza Mediaset, a improbabili rassicurazioni sul senso di responsabilità del partito, nella speranza di convincere i giudici della Cassazione a tener conto sia di quelle minacce, sia di quella promessa. In attesa dell’unica cosa che per il Pdl abbia importanza, quel verdetto di fine mese, ci si può dividere, senza troppi danni, tra amici e nemici di Alfano.

Il terzo partito che conta, o potrebbe contare, nella politica italiana, il Movimento di Grillo, si è autoesiliato in un sostanziale Aventino che, come tutti gli Aventini della storia, è destinato alla totale inutilità e, quindi, a un destino di sicuro fallimento. Il solo concreto risultato della posizione del M5S, se vogliamo, è di togliere l’unica teorica alternativa possibile al governo Letta, rafforzando così la sua insostituibilità, perché tutti sanno che, senza una diversa legge elettorale, i risultati di un nuovo voto sarebbero, più o meno, gli stessi.

A questo proposito, il governo Letta dovrebbe dimostrare di meritare la fortuna di non avere possibili successori e di non meritare l’isolamento dai partiti che lo sostengono. Nell’unico modo praticabile: smettendo di rinviare la soluzione dei problemi più gravi e urgenti, a partire dalla tassa sulla casa e dall’aumento dell’Iva e affrontando, con la radicalità che la situazione impone, la questione che più interessa gli italiani: la ripresa dell’economia. La crisi dell’occupazione, soprattutto giovanile, è tale da non consentire più soluzioni di compromesso, pannicelli caldi, misure che non sono in grado di cambiare sostanzialmente le cose nel mondo del lavoro. L’inesistenza di una seria alternativa a questo governo dovrebbe costituire la più formidabile leva di convinzione per non procedere più con la strategia dei rinvii e dei piccoli passi, quando urgono, invece, passi da giganti. È vero che il coraggio, come diceva don Abbondio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare, ma in certe occasioni ce ne vuole davvero poco per non approfittarne.

Finora Letta ha utilizzato, con giovanile sapienza, il credito internazionale per le sue salde convinzioni europeiste e quello nazionale per la serietà dei suoi comportamenti. Ma ora è scaduta la sua «luna di miele» con i cittadini del nostro Paese, ai quali deve dimostrare che le sue doti di abile mediatore dei conflitti non condanneranno l’Italia a un sostanziale immobilismo. Perché sono vent’anni, da quando è cominciata una seconda Repubblica dai risultati davvero fallimentari, che non si riesce a rompere il muro dei «no» ripetuto inesorabilmente dalle mille nostre corporazioni. Quelle corporazioni di ostinati interessi particolari che ci stanno condannando a un irreversibile declino. 

da - http://lastampa.it/2013/07/16/cultura/opinioni/editoriali/un-governo-isolato-dai-partiti-gQiqi3bS13A126ou2RCHUO/pagina.html
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« Risposta #154 inserito:: Agosto 10, 2013, 11:23:35 pm »

Editoriali
10/08/2013

L’insidia inaspettata per Letta

Luigi La Spina

Non si è mai visto un presidente del Consiglio pessimista sulla durata del suo governo, ma Enrico Letta, prima del breve periodo di vacanza, forse potrebbe aver ragione nel sostenere che l’esecutivo sia più solido di quanto appaia. 

I motivi della sua fiducia, oltre a quello d’obbligo per ragione d’ufficio, si basano sostanzialmente sulla mancanza di vere alternative. 

Mancanza di vere alternative che derivano dalla composizione dell’attuale Parlamento e dall’impossibilità di chiedere agli italiani di cambiarla, con un nuovo voto, senza l’approvazione di una diversa legge elettorale. 

Governo obbligato, dunque, governo fortunato? Mica tanto, vista la quotidiana sorte di dover sopportare le continue polemiche tra i due principali partiti della sua maggioranza, alleati per forza e avversari per vocazione. Con l’effetto concreto di essere costretto a rinviare le scelte fondamentali, quelle sui nodi dell’economia che più interessano agli italiani, come le tasse sulla casa o l’Iva, e di limitarsi al varo di provvedimenti sui quali difficilmente si potrebbe essere contrari. Ultimo esempio in ordine di tempo, l’inasprimento delle pene per le violenze sulle donne. 

All’apparenza, vengono dal Pdl le minacce più serie per il governo, come l’ultimatum di Berlusconi sull’abolizione totale dell’Imu per la prima casa, ripetuto ieri, sembra dimostrare. E’ evidente la scelta di ipotizzare l’apertura di una crisi e nuove elezioni, da parte di quel partito, su un tema così popolare e non sulla richiesta agli italiani di approvare, con il voto, un salvacondotto giudiziario per il suo leader. Ma è discutibile il vantaggio, per Berlusconi, della sostituzione di questo governo Letta con un qualsiasi altro, vista la notoria e assoluta contrarietà di Napolitano a elezioni anticipate e l’impraticabilità di indirle con una legge elettorale che la suprema Corte si appresta a dichiarare incostituzionale. 

Più insidioso per Letta, invece, è l’atteggiamento del suo partito. Il Pd pare, in questo momento, del tutto disinteressato alle sorti del governo e tutto concentrato sull’esito di un nuovo «duello infinito». Come quello che, per gli ultimi vent’anni, ha paralizzato il maggior partito della sinistra italiana, la competizione tra D’Alema e Veltroni, così, magari per i prossimi vent’anni, si annuncia la sfida tra gli eredi della nuova generazione, Letta e Renzi. I prodromi dello stesso infausto destino ci sono tutti e il surreale andamento dell’ultima direzione Pd, con il balletto di annunci e smentite sulla data delle primarie, conferma i peggiori pronostici. Da mesi, in quel partito, si parla solo di calendari e di regole, questioni certamente appassionanti per gli italiani oppressi dalla crisi e dalla disoccupazione. Da mesi, non appare una proposta chiara e concreta di politica economica che possa far interessare e, magari, far discutere i cittadini.

Da una parte, Berlusconi vellica i magri portafogli dei nostri connazionali, occupa sempre da protagonista il dibattito politico, costringendo gli altri a seguire la scia dei suoi temi, contestando le ricette economiche dell’Europa e del Fondo monetario e riscuotendone i relativi vantaggi demagogici. Dall’altra, si ode un balbettìo confuso e incerto tra omaggi rituali ai rigori monetari delle autorità politiche ed economiche internazionali e timide obiezioni sull’efficacia di quelle ricette. Così, l’unica cosa comprensibile è la condanna a un compromesso continuo, prima sull’alleanza con Berlusconi, poi sull’Imu, poi sul possibile aumento dell’Iva e, infine, persino sulle sorti del ministero retto dall’ex vicesegretario del partito. Un atteggiamento che ricorda quello della Dc, all’epoca della prima Repubblica, nei confronti dell’occasionale «governo amico».

Ecco perché, quasi insensibilmente, quasi inconsapevolmente, quasi involontariamente, l’autismo del Pd, una malattia dalla quale quel partito non riesce a guarire, potrebbe coinvolgere il presidente del Consiglio, dal momento che Letta è anche uno dei duellanti per la futura leadership, e le conseguenze dello scontro con Renzi potrebbero avere decisivi riflessi sulla sua poltrona a Palazzo Chigi.

Alla vigilia della settimana di ferragosto, ci si potrebbe chiedere se la durata del governo, nel prossimo autunno, sia augurabile o no. La risposta è difficile, perché dipende dalla soluzione delle scelte economiche finora rinviate. Quella timida ripresa internazionale che si annuncia non sarà agganciabile anche dall’Italia senza misure, da parte della politica, concrete e rilevanti sul piano dell’occupazione e degli investimenti. L’unica consolazione è che, a fine mese, avremo quella risposta, perché il tempo dei rinvii è scaduto.

da - http://www.lastampa.it/2013/08/10/cultura/opinioni/editoriali/linsidia-inaspettata-per-letta-bmiPwD1RYVQ4r6miq6fUkM/pagina.html
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« Risposta #155 inserito:: Settembre 26, 2013, 05:10:51 pm »

Editoriali
26/09/2013

Una scelta di irresponsabilità istituzionale

Luigi La Spina


La notizia ha dell’incredibile. Le dimissioni in massa di tutti i parlamentari del Partito della Libertà, se la Giunta del Senato dovesse votare per la decadenza del leader del centrodestra, Silvio Berlusconi, da palazzo Madama, in un momento così difficile per le sorti del Paese, annunciano una prova di irresponsabilità istituzionale, prima ancora che politica, davvero sconcertante. 

 

Il giorno dopo le assicurazioni di Alfano al presidente della Repubblica, proprio mentre il premier Letta parla all’Onu e alla comunità finanziaria internazionale per convincere gli interlocutori dell’Italia sulla nostra stabilità politica, quando i conti pubblici sono tornati a rischio e i casi Telecom e Alitalia manifestano la grave crisi del nostro sistema produttivo, il dramma personale del leader del centrodestra rischia di portare l’Italia in una situazione di vero caos parlamentare, politico e istituzionale, con conseguenze economiche e finanziarie del tutto imprevedibili.

 

L’impressione è che la tragedia di un uomo, passato dagli onori della ribalta internazionale e dalla percezione di un successo imprenditoriale e politico straordinario e destinato a non finire mai nel consenso della maggioranza degli italiani, alla prospettiva di un arresto e, magari, del carcere sotto un diluvio crescente di accuse, abbia tolto a Berlusconi quella lucidità che gli aveva consentito sempre di calcolare, con molta accortezza, le conseguenze di ogni sua mossa. In questo tunnel di disperazione spinto, per giunta, da un manipolo di ultrà che non vedono il loro futuro politico e anche personale se non asserragliati intorno a lui, in una furibonda e inutile guerriglia contro chiunque non lo aizzi a iniziative sempre più incontrollate e controproducenti. Nella sostanziale incapacità dei molti e più avveduti suoi parlamentari di avere il coraggio di sottrarsi a un rassegnato e vile accodamento alle assurde proposte avanzate da tali ultrà.

 

Eppure, l’annuncio delle dimissioni in massa apre uno scenario tanto evidente quanto preoccupante. Mira, infatti, a impedire o a rendere drammatico il voto dell’assemblea al Senato per la ratifica della decisione della Giunta e a superare anche il verdetto della Corte d’Appello di Milano sull’interdizione di Berlusconi dai pubblici uffici previsto per metà ottobre. Dal momento che si tratta di una nuova sentenza, infatti, i suoi legali potrebbero ancora fare ricorso in Cassazione e, così, rinviare di alcuni mesi l’espulsione del leader del Pdl da palazzo Madama. Lo scontro istituzionale, giudiziario e politico non potrebbe, naturalmente, non travolgere il governo, ma l’illusione di Berlusconi, alimentata da quella disperata corte di ultrà, di ottenere subito le elezioni anticipate sarebbe sicuramente frustrata da altre e ben più gravi dimissioni, quelle già annunciate di Napolitano. Con il risultato che il nuovo presidente della Repubblica sarebbe eletto non da un nuovo Parlamento, ma dall’attuale. Un futuro che non sembra davvero più rassicurante per Berlusconi e più promettente per il centrodestra italiano.

 

Al di là di una contabilità miserevole sulle convenienze personali e politiche, però, quello che davvero stupisce è la distanza tra la comprensione di una fase molto delicata del Paese e l’annuncio di una mossa così irresponsabile. L’Italia è al bivio tra un destino di decadenza produttiva ormai drammatica, con il rischio di una crisi finanziaria che porterebbe a nuovi, pesanti sacrifici per tutti i cittadini, e la speranza di agganciare una pur flebile ripresa internazionale. Una situazione che richiederebbe, davvero, comportamenti adeguati alla gravità del momento da parte di tutta la classe politica. Non è difficile prevedere quale sarebbe l’accoglienza della maggioranza degli italiani, compresi molti elettori moderati, nei confronti di una così sconsiderata iniziativa dei parlamentari Pdl. Basterebbe domandarlo, peraltro, a quelle 500 donne, in coda su una strada di Genova, per il sogno di acchiappare uno dei tre posti di commessa che un negozio ha messo in palio. 

da - http://www.lastampa.it/2013/09/26/cultura/opinioni/editoriali/una-scelta-di-irresponsabilit-istituzionale-Hqdu9LRHMPdee81AsEKQtK/pagina.html
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« Risposta #156 inserito:: Ottobre 17, 2013, 11:34:55 am »

Editoriali
17/10/2013

Un balletto grottesco

Luigi La Spina

Il lamento è ormai diventato un luogo comune: gli italiani non hanno senso dello Stato. Ma come si fa ad averlo, se neanche lo Stato ha senso dello Stato? 
Il grottesco balletto funebre della salma di Priebke nella provincia romana, tra omaggi neonazisti e aggressioni di discendenti delle sue vittime, lo dimostra, purtroppo, con una evidenza umiliante. Come facciamo a pretendere che i nostri concittadini rispettino le istituzioni, osservino le leggi, paghino le tasse a uno Stato che, di fronte a un caso del genere, offre all’opinione pubblica, anche internazionale, un tale squallido spettacolo? 
Era davvero imprevedibile che la morte del centenario criminale nazista non aspettasse decenni per porre il problema della sua sepoltura? È ammissibile che sul caso del responsabile di uno dei più sconvolgenti delitti della follia umana, o meglio disumana, lo Stato italiano riuscisse a squadernare tutti i peggiori e i più meschini difetti del nostro pubblico costume: l’improvvisazione, la piccola furbizia, il palleggio delle responsabilità, l’assoluta mancanza di autorevolezza e di credibilità dei suoi funzionari?
Ripercorrere le scene che, in questi giorni, si sono succedute all’annuncio della scomparsa di Priebke è come rivedere, in flashback, un film dell’orrore, l’orrore di uno Stato assente, incapace di prendere una seria decisione, una istituzione che abdica i suoi poteri a chi, di volta in volta, si arroga il diritto di esercitarli. Compare un avvocato dagli annunci irresponsabili, spunta una fantomatica congrega di nostalgici lefebvriani, s’infuria un sindaco alle prese con un problema certamente più grande di lui, si agita un prefetto che, prima autorizza i funerali e, poi, è costretto a vietarli, di fronte alle più che prevedibili conseguenze delle sue sconsiderate decisioni. Così, appaiono sui video di tutto il mondo spettacoli che abbiamo sempre pensato potessero arrivare solo da qualche Paese mediorientale alla caduta del dittatore di turno, con la bara di un uomo, sia pure un criminale, sballottata tra insulti, calci, sputi e cori di impudente omaggio nostalgico, costretta prima a sfuggire all’assedio con una manovra diversiva all’ombra delle tenebre e, poi, a riparare addirittura in un’aeroporto militare, senza che nessuno possa neanche immaginare la sua destinazione finale.
Neanche la notte porta consiglio, perché ieri la scena, questa volta spostata dal fuoco della piazza alle austere stanze della diplomazia, non cambia: si susseguono assicurazioni sull’intervento della Germania e secche smentite da parte dell’ambasciata tedesca che, in serata, precisa di non potersi occupare di una questione che riguarda la sola competenza dell’Italia. Confusione, imbarazzo e qualche piccola bugia fanno ancora da vergognosa colonna sonora a un film davvero da brivido, perché mostra uno Stato ormai svuotato, assente, incapace di far fronte alle responsabilità di una istituzione a cui, secondo il patto fondamentale stretto tra i cittadini, è affidata non solo la rappresentanza degli interessi degli italiani, ma la rappresentanza dell’onorabilità degli italiani di fronte al mondo. Quello Stato che, al di là delle diverse opinioni dei suoi abitanti, delle loro diversità ideologiche, delle diverse sensibilità, magari anche dei contrastanti umori e risentimenti, giustifica ancora la necessità, ma anche la voglia, di riconoscersi in una sola nazione. 

 

Se questa è la penosa rappresentazione di impotenza istituzionale offerta dal nostro Paese, non ci possiamo meravigliare che cerchino visibilità mediatica confusi epigoni nostrani del negazionismo storico come Odifreddi o che pseudo estremisti di sinistra come i grillini vadano in caccia di trasversali consensi tra i nostrani pseudo estremisti di destra, bloccando la rapida approvazione della legge che istituisce il reato di apologia del nazismo e dell’antisemitismo.
Eppure ci dev’essere un limite al disfacimento del nostro Stato nel silenzio un po’ complice dei suoi abitanti e, forse, lo squallido spettacolo di questi giorni servirà almeno a impedire che qualche italiano possa dire di non essersene accorto.
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« Risposta #157 inserito:: Novembre 01, 2013, 06:32:56 pm »

Editoriali
31/10/2013

Una forzatura che serve a fare chiarezza

Luigi La Spina

Mai, come in questo caso, la famosa battuta di Flaiano sull’Italia «patria del diritto e del rovescio» si può applicare alla perfezione e mai, come in questo caso, appaiono inutili, tanto sono strumentali, disquisizioni su leggi, regolamenti, procedure, prassi. Allora, è meglio evitare di inoltrarsi nel mare di ipocrisia che, in queste ore, cerca di giustificare o di condannare la decisione del voto palese sulla decadenza da senatore di Berlusconi con più o meno arzigogolate considerazioni giuridiche e affrontare la vera questione, quella dell’opportunità politica.

L’adozione del voto segreto, con il pretesto di salvaguardare la libertà di coscienza del parlamentare, tradisce un’ammissione di viltà da parte di coloro che rappresentano i cittadini alle Camere e oscura quella trasparenza della condotta pubblica che dovrebbe essere la regola prima di una democrazia. La libertà di coscienza non si può affermare senza la responsabilità dei propri atti, perché le due condizioni sono indissolubilmente connesse. Le procedure che prevedono voti segreti, in tutti i campi e non solo in quello politico, dovrebbero essere limitate a casi del tutto particolari, a meno che non si debba vivere in regimi dittatoriali.

Cambiare sistema, però, proprio adesso, proprio nei confronti di un Berlusconi accusato per due decenni di far approvare «leggi ad personam», solo per favorirlo, sia in campo giudiziario sia in quello economico, appare certamente una scelta che si presta alla facile accusa di persecuzione personale, una decisione, appunto, «contra personam». 

Si tratta, perciò, di una forzatura indubbiamente intempestiva e con molte controindicazioni polemiche, ma che, negli attuali momenti della discussione pubblica in Italia, si potrebbe giudicare come una forzatura di chiarezza. Perché mira a scacciare l’arrivo di un altro di quei fantasmi che, da anni, si aggirano sulla nostra politica, personaggi tenebrosi che non permettono mai che si sciolgano eterni sospetti sulle più importanti vicende del nostro Paese.

Tarli di complotti inesplicabili si insinuano sui giornali, in tv, nelle reti e nei corridoi parlamentari tra accuse senza prove e difese d’ufficio: chi, ad esempio, ha davvero deciso la caduta del governo Prodi e chi, nella folta compagnia di altri cento voti segreti, ha stroncato l’ascesa dello stesso Prodi al Quirinale? È troppo facile immaginare i fantasmi che avrebbero avvelenato la nostra Italia se, sotto quei catafalchi che proteggono da occhi indiscreti il verdetto dei senatori, fosse spuntato un risultato contrastante con le indicazioni ufficiali dei partiti. Si sarebbe gridato al «patto scellerato» che, pur di garantire la stabilità del governo, alcuni parlamentari del Pd avrebbero stipulato con il centrodestra, salvando Berlusconi dalla decadenza. Un’accusa che avrebbe fatto implodere un partito democratico già abbastanza fibrillante per conto suo. Oppure, un verdetto contro la sua permanenza in Senato più ampio del previsto avrebbe imputato ai «diversamente berlusconiani» l’onta del tradimento, pur di mantenere le poltrone ministeriali.
La stabilità del governo Letta può essere utile, sì, ma non può essere pagata al prezzo del sospetto, di un confuso intrigo di convenienze intrecciate, senza che i parlamentari abbiano il coraggio, meglio l’onestà intellettuale e morale, di prendere una posizione trasparente e responsabile di fronte all’opinione pubblica, sia sul caso Berlusconi, sia sulla permanenza dell’esecutivo. Sarebbe davvero auspicabile che quella libertà di coscienza che deputati e senatori invocano per ricorrere al voto segreto, la manifestassero, invece, nel voto palese, magari dissociandosi dalle indicazioni del loro partito. Così si ricorderebbero e ricorderebbero agli italiani quell’articolo 67 della nostra Carta costituzionale che li libera dal vincolo di mandato, poiché ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione.

I frutti delle «larghe intese» possono essere giudicati positivamente per contribuire all’uscita della Repubblica italiana dalla più grave crisi economica della sua storia, oppure possono essere valutati come insufficienti e iniqui, ma le conseguenze devono essere figlie dei fatti e non dei fantasmi. 

http://lastampa.it/2013/10/31/cultura/opinioni/editoriali/una-forzatura-che-serve-a-fare-chiarezza-oQ2XHr1Tteog3XbgEkayrJ/pagina.html
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« Risposta #158 inserito:: Novembre 28, 2013, 11:47:32 am »

Editoriali
27/11/2013

Così si spezza la doppia anima del Cavaliere

Luigi La Spina

Anche l’epilogo dell’esperienza, se non politica, almeno parlamentare di Berlusconi conferma che, in questi vent’anni, l’Italia ha visto sulla scena pubblica non uno, ma due Berlusconi. Da una parte, l’uomo di Stato che dialoga con i potenti del mondo come rappresentante e interprete del moderno conservatore europeo. Dall’altra, il rivoluzionario di centro, disinvolto contestatore dei riti e dei miti istituzionali, in nome di un rapporto empatico e diretto con i consensi non tanto dei suoi elettori, quanto dei suoi fan. Un doppio registro che, alternato con una sapiente regia mediatica, gli ha consentito, finora, di tenere insieme le due platee alle quali si è rivolto, quella tradizionale del moderatismo italiano orfano della dc e quella del ribellismo anarco-conservatore, insofferente alle regole di uno Stato considerato sempre come un avversario. Un nemico che non si può abbattere, ma a cui è legittimo sfuggire con ogni mezzo. 

Così, questi giorni di vigilia di quella decadenza parlamentare che, stasera, dovrebbe seguire alla sua definitiva condanna penale, hanno manifestato con estrema chiarezza quel modello binario della sua condotta tipico di tutta la sua presenza in politica.

Con una forte accelerazione però dei due atteggiamenti, alternati freneticamente come in un balletto chapliniano. Prima, il leader di Forza Italia ostenta un vittimistico ossequio per le libere prerogative presidenziali sulla concessione della grazia e, subito dopo, passa agli anatemi complottisti e minacciosi contro Napolitano, conditi da veementi attacchi e ingiurie contro il capo dello Stato da parte dei giornali che a lui fanno riferimento. Prima, chiede ai membri del Parlamento, con un appello commosso, il rispetto dovuto a un loro collega, rappresentante, secondo la Costituzione, di tutto il popolo italiano e, immediatamente dopo, si appella a un’imponente manifestazione di piazza come arma impropria di pressione sulle scelte dei senatori che devono deliberare la decadenza. Prima, ricorre a principi del foro come l’avvocato Coppi per seguire le vie maestre del diritto processuale, nella convinzione che, alla fine, la giustizia debba trionfare, riconoscendo la sua innocenza e, poi, dichiara impossibile che la magistratura italiana esprima nei suoi confronti una sentenza di verità. 

È probabile, però, che, adesso, questa «partita doppia» sulla quale Berlusconi ha condotto l’equilibristico bilancio della sua esperienza politica sia alla conclusione, proprio per l’impossibilità di tenere insieme quello che è sempre riuscito a tenere insieme. Come se, in epoca pre digitale, l’affrettato ritmo di quel film chapliniano potesse preludere alla rottura della pellicola. Per la prima volta, infatti, l’esasperazione del caso personale rispetto alle sorti di quel popolo di cui Berlusconi è sempre riuscito a rappresentare paure e speranze, desideri legittimi e aspirazioni inconfessabili, rischia di rompere il circuito magico che ha costantemente legato il destino del leader a quello della composita maggioranza degli italiani che in questi anni l’ha votato. 

 
Se questa ipotesi avesse il conforto degli avvenimenti nei prossimi mesi, la divisione tra «lealisti» e «diversamente berlusconiani» non rappresenterebbe, come pure è stato giustamente osservato, un aggiornamento partitico del suo tradizionale metodo, quello, appunto, del doppio registro, moderato e radicale, ma il segnale di una sua ormai insanabile rottura. L’estromissione di Berlusconi dal Parlamento potrebbe costituire, perciò, il simbolo dell’impossibilità di inserire e far valere nelle istituzioni dello Stato il ribellismo antipolitico e para-rivoluzionario che cova, nel profondo, una parte importante del suo elettorato. 

Si spiegherebbe, così, l’opposizione disperata del leader di questa nuova, ma molto diversa, «Forza Italia» alla sua decadenza da senatore, un’eventualità che non può essere paventata solo dal timore, senza lo scudo dell’immunità, di un improbabile arresto. Tra l’altro, proprio i leader che più recentemente si sono affacciati sulla scena pubblica, Grillo e Renzi, hanno dimostrato come si possa far politica, e farla efficacemente, fuori dagli scranni delle due Camere. Berlusconi, che certo non sfigura al confronto carismatico con i due probabili futuri suoi competitori, potrebbe avvantaggiarsi, anzi, da una posizione extraparlamentare che gli lascerebbe la massima spregiudicatezza propagandistica. Forse la sua accanita battaglia per conservare il più possibile il suo posto a palazzo Madama indica la consapevolezza, più istintiva che razionale, della necessità di prolungare il più possibile lo straordinario miracolo del ventennio berlusconiano, quello di non spaccare la doppia anima del moderatismo italiano a cavallo del secolo. E con quella, anche la sua.

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/27/cultura/opinioni/editoriali/cos-si-spezza-la-doppia-anima-del-cavaliere-kUOJmKfaWlqq8MWHPU3j7L/pagina.html
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« Risposta #159 inserito:: Dicembre 05, 2013, 11:56:14 pm »

Editoriali
05/12/2013

Un colpo all’ipocrisia della politica

Luigi La Spina

La pressione dell’opinione pubblica e una certa «vocazione» politica hanno prevalso sulle ragioni del diritto. Solo così si può comprendere una decisione della Consulta che ha dichiarato incostituzionale una legge che, da otto anni, ha fatto eleggere dai cittadini la massima istituzione della Repubblica italiana, il Parlamento. Una sentenza che, se non politicamente e giuridicamente, ma almeno dal punto di vista morale, delegittima quasi dieci anni di vita pubblica nel nostro Paese. 

Sono significative, del resto, le prime reazioni a questo verdetto della Corte Costituzionale: applausi unanimi e propagandistici delle forze politiche; sconcerto, in privato, e perplessità, in pubblico, della gran parte dei giuristi. 

È vero, però, che la decisione sarà accolta da un sospiro di sollievo e dall’entusiastico consenso di tutti gli italiani, giustamente indignati dal comportamento ipocrita e inaccettabile di una classe politica che, nonostante gli appelli del Capo dello Stato sostenuto da un’opinione pubblica insolitamente compatta, non è riuscita a trovare un accordo per cambiare l’obbrobrio del «porcellum». La sentenza, infatti, costituisce un durissimo monito a coloro che ci hanno governato negli ultimi anni, raccoglie lo sdegno degli italiani per l’esproprio della volontà popolare subito da parte delle segreterie dei partiti, ma apre, nello stesso tempo, scenari del tutto imprevedibili davanti a un futuro politico già molto complicato.

La Corte non solo lancia al Parlamento un ultimatum, un messaggio che sarebbe potuto arrivare anche se accompagnato da un più comprensibile rinvio della decisione, ma non lo aiuta a individuare un indirizzo di riforma urgente del «porcellum» finché, fra alcune settimane, non saranno note le motivazioni. A meno che siano attendibili le voci che, ieri sera, confidavano una opinione della Corte altrettanto sorprendente, quella di una sentenza già applicativa della legge elettorale, con due correzioni: il proporzionale puro e la preferenza unica. 

È molto difficile, in queste ore, valutare le conseguenze, sul piano strettamente politico, del clamoroso verdetto della Consulta, perché il solito uso della logica e della ragionevolezza potrebbe essere vanificato da un clima di tale confusione, persino tra le istituzioni, da non poter escludere nessuna ipotesi, anche la più inverosimile. A prima vista, però, la sentenza potrebbe garantire al governo Letta, per almeno un anno, un’affidabile assicurazione sulla vita. I paradossali consensi alla decisione della Corte da parte di quelle stesse forze politiche così duramente messe sotto accusa e delegittimate non preludono a un immediato accordo su una nuova legge elettorale, perché gli interessi di parte sono così frazionati da rendere molto arduo il raggiungimento di un’intesa ampia tra i partiti, quale sarebbe necessaria per una riforma così delicata, quella che deve stabilire le regole del gioco elettorale. I tempi, poi, si potrebbero allungare anche per l’opportunità di legare alla nuova legge sul metodo di voto almeno due riforme costituzionali, quella sulla riduzione del numero dei parlamentari e quella sul monocameralismo.

Tale percorso politico che in queste ore i principali esponenti del governo prevedono come il più probabile, e anche quello da loro evidentemente caldeggiato, si potrebbe scontrare con la forza dirompente della sentenza emessa ieri sera dalla Corte che, in un momento di acute tensioni sociali e di gravi preoccupazioni economiche, potrebbe travolgere le sempre fragili difese di un equilibrio politico molto delicato. È chiaro che le forze d’opposizione al governo Letta, a cominciare dal Movimento 5 Stelle, useranno il verdetto come il più autorevole avallo all’attacco di questo Parlamento e alla delegittimazione di quella maggioranza che sostiene l’esecutivo. Ma anche la risorta Forza Italia potrebbe trovare nella Consulta un formidabile alleato per giustificare l’urgenza di nuove elezioni e, così, strozzare nella culla il neonato concorrente costituito dal partito di Alfano. 

L’effetto sentenza, infine, potrebbe indirettamente indebolire anche le resistenze di Napolitano a interrompere la legislatura, perché, da una parte, rafforza gli appelli del Capo dello Stato per la riforma della legge, ma, dall’altra, dichiara sostanzialmente illegittima la composizione delle attuali Camere.

L’Italia, insomma, si appresta a vivere scenari del tutto inediti, nei quali si mischiano populismi di vario genere, un antieuropeismo a sfondo autarchico e una crisi di delegittimazione morale di una intera classe politica. In questo clima, le istituzioni fondamentali del nostro Paese rischiano, pure loro, di non credere più a se stesse, al ruolo che devono esercitare in una democrazia. Ecco perché è giusto che siano sensibili alle esigenze dei cittadini, ma nell’assoluto rispetto dei confini del loro potere. 

Da - http://lastampa.it/2013/12/05/cultura/opinioni/editoriali/un-colpo-allipocrisia-della-politica-SyAVfkIBrOcQapA8f9bxqJ/pagina.html
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« Risposta #160 inserito:: Dicembre 13, 2013, 06:34:36 pm »

Editoriali
12/12/2013

Se lo Stato rinuncia al suo ruolo

Luigi La Spina

Da tre giorni le principali città italiane, ma soprattutto Torino, sono ostaggio di una confusa rivolta. Confusa, perché raccoglie un effettivo forte disagio sociale, ma pure un trasversale ribellismo dai molti e anche ambigui colori. Confusa, perché gli obbiettivi o sono così vaghi o sono così irrealistici da apparire puri pretesti.

Pretesti per sfogare una protesta destinata a non avere risultati concreti. Confusa, perché invece di colpire i presunti «nemici del popolo», la classe politica, nazionale e locale, colpisce il popolo. Quello dei pendolari, costretti a raddoppiare la fatica di una già durissima giornata; quello dei commercianti, obbligati dalle minacce dei rivoltosi a rinunciare ai pur magri incassi prenatalizi; quello della gente comune, costretta a complicati e, in alcuni casi, perigliosi pellegrinaggi tra serrande sbarrate. Una rivolta, invece, chiarissima nel dimostrare una realtà ormai emersa in molti casi, ma mai in maniera cosi evidente: l’assenza dello Stato. 

Uno Stato capace di garantire sì la libertà di manifestazione, ma non di impedire plateali e gravi lesioni della legge, come quando si consentono l’occupazione di ferrovie, le interruzioni di pubblici servizi nel trasporto locale, le ripetute e pesanti intimidazioni contro la tutela di diritti irrinunciabili, quali la libertà di opinione e la libertà del lavoro. In questi tre giorni, la condotta del Viminale e quella delle questure e prefetture è stata sconcertante.

Gli italiani hanno assistito, allibiti, alla contraddizione palese tra le roboanti dichiarazioni di fermezza pronunciate in tv dal ministro Alfano e la realtà di un comportamento delle forze dell’ordine che ha lasciato le città italiane alla mercé di raid squadristici, peraltro operati da sparuti gruppi di ultrà, non da imponenti masse di manifestanti. Una strategia incomprensibile, perché invece di scoraggiare le violenze e di isolare coloro che non si limitavano a contenere la protesta nei limiti della legge, ha avuto l’effetto di allargare il contagio, vista la sostanziale impunità che faceva seguito a quei comportamenti. Ecco perché la polemica sui caschi sfilati dalle teste degli agenti si è incentrata su un falso dilemma, quello se fosse un gesto di solidarietà con i manifestanti o un intelligente atto per allentare la tensione. Ha avuto, invece, solo un effetto simbolico, quello di un abbandono del campo da parte dello Stato. Un’impressione certamente non contraddetta dai tardivi arresti di ieri sera.

Tale assenza dello Stato, in questi tristi giorni, sta suscitando i prevedibili e pericolosi effetti di reazione sociale: ieri, gruppi di cittadini esasperati hanno incominciato ad organizzare e a propagandare, anche via Internet, contro-manifestazioni per protestare contro i cosiddetti «forconi», in difesa del diritto al lavoro. Il rischio è quello di uno scontro civile dagli esiti incontrollabili e la responsabilità di questa situazione è proprio di chi ha lasciato che i cittadini si sentissero soli e abbandonati da coloro che dovrebbero difenderli. Quando il monopolio della forza, il fondamentale requisito per cui uno Stato viene riconosciuto come tale, viene così irriso da sparute e violente minoranze, è naturale che si lasci campo libero ad altrettante minoranze, magari meno sparute, che se lo contendono, in una sfida che mette i brividi.

È lo stesso abbandono del campo, da parte dello Stato, che avviene negli stadi tutte le settimane, quando si tollera il travestimento di teppisti da tifosi e si nascondono le ambiguità delle autorità calcistiche, più attente a tutelare gli interessi economici che quelli dello sport. La stessa assenza dello Stato, quando deve osservare i diritti del contribuente, frastornato e vessato da una frenesia incomprensibile di tasse, prima dovute, poi annullate, poi ripristinate, poi corrette mille volte, come l’assurda vicenda dell’imposta sulla casa dimostra. Quello Stato che lascia languire nelle carceri migliaia di detenuti in attesa di giudizio, magari molti innocenti e, nello stesso tempo, non riesce a ridurre in dimensioni accettabili la montagna di evasione fiscale che schiaccia i cittadini onesti del nostro Paese.

Come sarebbe bello se un questore o un prefetto, magari quello di Torino, per non dire un ministro di questo povero nostro Stato, per dimostrare un po’ di rispetto proprio per quello Stato che rappresentano, di fronte a una Waterloo come quella di queste ore, offrisse le sue dimissioni, anche se ritenesse di non essere il solo responsabile. Ma non allarmatevi, non lo farà. 

Da - http://www.lastampa.it/2013/12/12/cultura/opinioni/editoriali/se-lo-stato-rinunci-al-suo-ruolo-gmPz0DSyX5aXjzZorrN1tO/pagina.html
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« Risposta #161 inserito:: Gennaio 11, 2014, 11:00:47 am »

Editoriali
09/01/2014
Si chiacchiera mentre l’Italia declina

Luigi La Spina

Il cittadino comune che, in questi giorni, legge i giornali e guarda la tv sta passando momenti di grande sconcerto. Da una parte, vede la classe politica occuparsi sostanzialmente di tre argomenti: la discussione su una nuova legge elettorale tra modello spagnolo modificato, Mattarellum risuscitato e un sindaco nazionalizzato, l’ipotesi di un rimpasto di governo e la scommessa su quando Renzi riuscirà a prendere il posto di Letta.

Dall’altra, avendo la fortuna (?) di possedere una casa ha perso ogni speranza di capire se, quando e quanto dovrà pagare per misteriose sigle e aliquote di tasse sull’abitazione che, ogni giorno, si annunciano diverse. Il suo sconforto aumenta, poi, quando lo stesso commercialista di fiducia si dimostra confuso, giustificando il suo smarrimento per aver contato, negli ultimi mesi, ben 38 modifiche sulla legislazione per la casa e sapendo che, nelle prossime settimane, questo record sarà sicuramente battuto. Per l’aggiornamento sulle ultime notizie, infine, gli viene comunicato dall’Istat che, tra i disoccupati, i giovani in Italia sono il 41 per cento. Vuol dire che se il suddetto cittadino comune abita in Meridione può prevedere che per suo figlio quella percentuale si alzi al 70-80 per cento.

Il distacco tra gli interessi, i problemi, le preoccupazioni degli italiani e la cosiddetta agenda di governo e Parlamento sta diventando davvero enorme. Anche perché l’impressione è che la classe politica discuta, polemizzi, si divida su questioni che hanno ben poco rapporto con la concreta realtà. Prendiamo, ad esempio, l’argomento che più ha caratterizzato l’inizio d’anno: la riforma elettorale. Renzi, come vogliono del resto tutti gli italiani, vuole una legge per la quale si sappia, la sera stessa dello spoglio dei voti, chi sarà il nuovo presidente del Consiglio e quale sarà la maggioranza sulla quale potrà contare. Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che, con l’attuale bicameralismo, nessun sistema elettorale garantisce maggioranze omogenee nei due rami del Parlamento. Prima, perciò, bisognerebbe riformare la Costituzione su Camera e Senato e, quindi, anche se si trovasse un accordo tra i partiti, ci vorrebbe almeno un anno perché possa essere approvata una simile riforma. Non esiste la probabilità, perciò, che si possa andare a nuove elezioni nel corso del 2014 e tutte le elucubrazioni che in questi giorni si fanno a tale proposito sono assolutamente inutili.

Si era sostenuto che il passaggio dalle cosiddette «larghe intese» alle cosiddette «ridotte intese» avrebbe favorito la coesione della maggioranza e, quindi, una maggiore efficacia e rapidità delle decisioni governative. La farsesca vicenda sugli stipendi degli insegnanti dimostra che quelle speranze erano piuttosto illusorie, perché i contrasti, le incertezze, le retromarce si sono trasferiti, dai partiti, addirittura ai ministri. Al di là della figuraccia, quello che colpisce e amareggia è un metodo di governo che affastella annunci su annunci, molte volte contraddittori e che non rispetta le elementari regole nei confronti dei cittadini, i quali hanno diritto di conoscere, con la massima chiarezza e con sufficiente anticipo di tempi, le disposizioni in materia di leggi, soprattutto di quelle tributarie. Tutte le promesse sulle sbandierate semplificazioni si sono sempre scontrate con una realtà applicativa del tutto deludente. Nell’esperienza quotidiana degli italiani l’oppressione burocratica e le incertezze interpretative sono aumentate e non sono affatto diminuite negli ultimi mesi.

Se la classe politica parlasse meno di riforma elettorale, di rimpasto, dei duellanti Renzi e Letta, forse, potrebbe occuparsi con maggior profitto, ad esempio, del problema che annuncia il vero, prossimo declino dell’Italia nel mondo, legato non tanto al valore dello spread e neanche al nostro enorme debito pubblico, ma al dramma dell’emigrazione forzata dei migliori giovani del nostro Paese.

Ogni cittadino italiano paga, per la formazione scolastica e universitaria, una quota notevole delle tasse che versa allo Stato. Soldi ben spesi perché l’investimento ha una resa soddisfacente. Nonostante le scarse risorse, le note difficoltà, le modeste soddisfazioni professionali ed economiche dei professori, dalle nostre scuole e dai nostri atenei escono ragazzi con una preparazione molto apprezzata all’estero. Così, da anni ormai e con ritmi sempre più frequenti, i migliori giovani italiani, ricercatori, medici, professionisti, ma anche tecnici, l’ipotetica futura classe dirigente del nostro Paese, è costretta a cercare lavoro in terra straniera. Una selezione di cervelli migranti che avviene per merito, ma anche per classe, ingigantendo un’ingiustizia sociale che costituisce un vero tradimento ai principi di uguaglianza proclamati nella nostra Costituzione. Poiché alti stipendi e valorizzazione delle capacità premiano le carriere di questi nostri giovani all’estero, ben pochi pensano di ritornare a lavorare in Italia, anche perché le esperienze umilianti di coloro che, per varie ragioni, hanno avuto il coraggio di farlo, sconsigliano un così deludente rimpatrio.

Si può essere fiduciosi nel futuro dell’Italia se la parte migliore e più fortunata degli italiani è costretta ad abbandonarla? È quella che, a scuola, definivano una domanda retorica, perché la riposta, purtroppo, è una sola: no.

Da - http://lastampa.it/2014/01/09/cultura/opinioni/editoriali/si-chiacchiera-mentre-litalia-declina-7JydYWCSIIoSrjWZdDhhtN/pagina.html
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« Risposta #162 inserito:: Gennaio 11, 2014, 11:50:49 am »

Editoriali
11/01/2014

I tempi di un paese poco normale
Luigi La Spina

C’è un Paese, nel civile e democratico occidente, in cui l’organo dello Stato più importante, quello che rappresenta la volontà popolare, il Parlamento, è composto, da quasi un anno, da senatori e deputati eletti con una legge contraria alla Costituzione. Nello stesso Paese, una delle più grandi regioni del nord, il Piemonte, è governata, da quasi quattro anni, da un presidente e da una giunta eletti illegittimamente.

Questo Paese è l’Italia.

La decisione con la quale il tribunale amministrativo piemontese, ieri, ha dichiarato nulle le elezioni che, nella primavera 2010, avevano deciso, per poche migliaia di voti, la vittoria dello sfidante leghista, Roberto Cota, sull’ex presidente Mercedes Bresso, ricandidata dal centrosinistra, non è certo sorprendente nel merito della questione. Dopo l’accertamento della falsità di alcune firme su una lista d’appoggio al candidato di centrodestra, la sentenza era prevedibile. Ma il verdetto è sconvolgente perché arriva quasi alla fine di una legislatura regionale e, per di più, non è ancora definitivo, dal momento che il ricorso dei perdenti al Consiglio di Stato sicuramente allungherà ancora questi tempi infiniti, con il rischio pure di un annullamento del giudizio del Tar.

Si può ancora definire «normale» un Paese nel quale ci vogliono quattro anni per verificare la regolarità di una elezione importante, come quella per una Regione? Si può ammettere che per quasi un’intera legislatura il presidente del Piemonte e la sua giunta abbiano esercitato un potere illegittimo, abbiano emanato leggi illegittime, abbiano deciso nomine illegittime? L’Italia ha dimostrato di sopravvivere, con il sacrificio dei suoi cittadini, a una crisi economica devastante per molte famiglie. Come può sopravvivere l’immagine di questo Paese quando le sue istituzioni sono esposte al rischio peggiore, quello del ridicolo? Come si può pretendere di esigere il rispetto che l’Italia dovrebbe riscuotere all’estero, quando una disputa elettorale non viene decisa nel giro di un mese, come avviene in tutti i Paesi del mondo, ma si trascina fino a quando la soluzione diventa sostanzialmente inutile. Perché la politica, come la vita degli uomini, non si può «resettare» come si dice nei linguaggi informatici.

La gravità del caso Piemonte è proprio quella dell’assoluta osservanza di leggi e procedure. Non si possono imputare speciali pigrizie ai giudici amministrativi, né particolari atteggiamenti ostruzionistici agli avvocati delle parti. Tutti hanno compiuto, con scrupolo e competenza professionale, i doveri imposti dal loro ruolo. L’inaccettabile ritardo del verdetto (quasi) definitivo dimostra, in maniera simbolicamente molto efficace, la paralisi in cui l’Italia è sprofondata da almeno vent’anni. Vent’anni perduti in dispute inconcludenti, in cui alla vicende giudiziarie di Berlusconi sono state sacrificate riforme della giustizia indispensabili, quelle che interessano davvero i cittadini. Quelli che aspettano da decenni che si concluda una causa civile, quelli che sono costretti a rinviare o a cancellare investimenti che darebbero preziosa occupazione perché ad ogni passo s’imbattono in ricorsi ostativi dalle parti più disparate, con le pretese più improbabili. Quelli che, in attesa di giudizio e magari innocenti, affollano per anni le carceri, le cui condizioni vergognose ci espongono alle condanne delle corti internazionali.

Una classe politica del tutto inadeguata come quella che ci ha governato nella cosiddetta seconda Repubblica ha condannato il nostro Paese all’immobilismo più assoluto. Una nazione in cui le decisioni, anche le più importanti, vengono delegate ai ritmi lenti e tortuosi della giustizia italiana. Così, del tutto regolarmente per carità, la Corte Costituzionale scopre, solo dopo quasi dieci anni, che la legge con la quale si elegge il Parlamento ha portato alla Camera e al Senato illegittimi rappresentanti del cosiddetto popolo sovrano. Così, dopo quattro anni, (forse) si stabilirà che Cota e la sua giunta hanno esercitato in Piemonte un potere abusivo, occupando abusivamente poltrone che sarebbero spettate ad altri.

Non servono agli italiani facili e demagogiche proteste, né ricette miracolistiche e dall’applicazione impossibile, ma una riflessione seria e severa sulle responsabilità collettive in questi anni di sciagurata dilapidazione del patrimonio nazionale non solo economico, ma soprattutto morale e civile. La battaglia di tutti contro tutti, corporazione contro corporazione a colpi di veti reciproci, ha impedito nel nostro Paese il varo di tutte quelle riforme, radicali e urgenti, indispensabili perché l’Italia torni a essere una normale democrazia dell’Occidente. A cominciare da quella sui tempi della giustizia.

Da - http://lastampa.it/2014/01/11/cultura/opinioni/editoriali/i-tempi-di-un-paese-poco-normale-dLWldr51qRN85KZHKjltgN/pagina.html
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« Risposta #163 inserito:: Gennaio 24, 2014, 06:02:35 pm »

Editoriali
24/01/2014

Se la Corte fa da balia ai politici

Luigi La Spina

Era largamente prevedibile che il progetto di nuova legge elettorale presentato alla Camera dopo l’accordo tra Renzi e Berlusconi suscitasse polemiche e critiche. Come è giusto che il Parlamento rivendichi il diritto non solo di discuterlo senza imposizioni censorie, ma anche di approvare tutte quelle modifiche che possano migliorarne l’efficacia per garantire sia l’osservanza della Costituzione, sia il rispetto degli obiettivi. 

Quelli di governabilità del sistema e di rappresentanza della volontà popolare.

Era anche prevedibile, forse, che sul testo, peraltro ancora non del tutto definito, si scatenasse una curiosa fiera della vanità ferita, tra ostinate invidie accademiche di star della politologia e rivendicazioni di primogenitura politica che risalgono a convegni colpevolmente perduti nella memoria. Non era davvero prevedibile, invece, che la Corte Costituzionale, dopo quasi dieci anni di silenzio sull’esecrato porcellum, si sia così innamorata del ruolo politico assunto attraverso la sentenza con la quale lo ha finalmente condannato, da esercitarlo addirittura preventivamente. Così da lasciar filtrare, certo in forma anonima, ma con assolute garanzie di autenticità e di larga condivisione, giudizi critici su una legge non solo non promulgata, ma addirittura ai primissimi passi del suo iter legislativo.

A pensarci bene, lo stupore deriva solo dall’ingenuità di chi ancora si attardi su quelle distinzioni di funzioni e su quella indipendenza dei poteri, previste nei sacri testi delle democrazie liberali, ma ormai retaggi culturali e pruderie di antichi cerimoniali da cui rifuggire nella nostra confusa Repubblica d’oggi. Ed è naturale che quando si imbocchi una scorciatoia promettente, rispetto a una più faticosa e oscura, il fresco entusiasmo rischi di far correre verso il precipizio.

Se la Consulta si fosse limitata allo scrupoloso rispetto dei limiti delle sue funzioni, senza indulgere al desiderio di essere applaudita da tutti gli italiani per la condanna di una legge odiosa e alla volontà di aiutare le forze politiche a cambiarla, ora non sarebbe costretta ad affannose e non richieste precisazioni sul dispositivo della sentenza. Non ci sarebbe la necessità di chiarire che il riferimento al sistema elettorale spagnolo, notoriamente senza preferenze, non significa una patente di costituzionalità a una legge che, in Italia, non le preveda. Con la risibile giustificazione che il richiamo alla norma iberica, in un dispositivo così meditato da richiedere settimane per essere reso noto, era solamente dovuto alla volontà di dimostrare che, nel mondo, esistono leggi elettorali di diverso tenore. Non ci sarebbe l’opportunità di raccomandare, sempre informalmente è ovvio, soglie di premi di maggioranza più alte. Non ci sarebbe la volontà di far conoscere e di far pesare, con un certo gusto intimidatorio, la larga maggioranza che queste opinioni raccoglierebbero tra i giudici della Corte. Insomma, di invadere, per di più in anticipo, campi che sono di esclusiva competenza prima del Parlamento e, poi, di un Presidente della Repubblica che si è sempre dimostrato molto attento alla osservanza dei suoi compiti, tra cui, fondamentale, quello di far rispettare la Costituzione. In quel testo, sempre lodato con troppa ipocrisia e sempre trascurato quando fa comodo, non sono previste consulenze, ufficiali o ufficiose, da parte dei giudici a politici così maldestri da combinare, se lasciati soli, guai irreparabili. Le balie non vengono invocate neanche nelle latitanze più irriducibili di latte materno, figuriamoci tra senatori e deputati per cui è prevista la maggiore età.

Può essere, naturalmente, che le critiche alla mancanza di almeno una preferenza o ai limiti troppo bassi per ottenere il premio di maggioranza siano condivisibili. Può essere che i parlamentari modifichino, su questi punti, un testo che effettivamente corre rischi di costituzionalità. Può essere che il dibattito politico, quello tra gli accademici e tra i commentatori su giornali, sulle tv e nella rete illumini le menti dei legislatori. Ma come sarebbe bello se coloro che sono investiti di altissime responsabilità istituzionali osservassero un rigido silenzio sulle intenzioni altrui. A sbagliare bastano i politici. Non è il caso che lo facciano anche i supremi giudici. 

Da -http://lastampa.it/2014/01/24/cultura/opinioni/editoriali/se-la-corte-fa-da-balia-ai-politici-ZLUYU58B8Gpb5whjwKhGAL/pagina.html
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« Risposta #164 inserito:: Marzo 02, 2014, 11:22:51 am »

Editoriali
01/03/2014

Due stampelle per la sfida del premier
Luigi La Spina

L’insonne Renzi l’ha accolta subito con un commento adeguato al suo tipico linguaggio iperbolico: «Allucinante». La cifra raggiunta dalla disoccupazione in Italia, la più alta dal 1977, insieme con gli altri dati sui prezzi che certificano il drammatico prolungarsi della crisi economica italiana, lo aiuta, infatti, a giustificare quella emergenza sulla quale il neopresidente del Consiglio ha fondato il motivo fondamentale della sua sbrigativa presa del potere.

La conquista di Palazzo Chigi da parte del sindaco di Firenze ha suscitato, in questi giorni, un significativo contrasto di sentimenti, prima ancora che di opinioni, tra cittadini comuni e quella parte degli italiani che si potrebbe riconoscere nella definizione di classe dirigente. I primi, nella grande maggioranza e senza sostanziali differenze tra elettori di destra e di sinistra, l’hanno accolta con una fiducia persino inspiegabile, se non con la sensazione che Renzi costituisca l’ultima spiaggia prima di un naufragio annunciato. Sarcasmo al limite del disprezzo, ironie sulla programmazione mensile delle promesse, critiche sulla mancanza di bon ton istituzionale, accuse di incompetenza professionale e politica, sconcerto per la vaghezza del programma. 

Tutto ciò ha costituito il nucleo della sostanziale diffidenza con la quale, invece, la seconda ha pronosticato il fallimento di questo homo novus della politica italiana.

Così, il paragone con Berlusconi e con la sua analoga fulminante presa del potere di vent’anni fa, è stato troppo facile per non notare la simile abilità mediatica, la stessa propensione alla demagogia spicciola, l’identica volontà di rappresentare l’italiano medio in lotta contro la voracità di uno Stato burocratico e immobile, la pretesa di volere il potere per stravolgere il potere.

Peccato che l’ovvietà del paragone abbia concentrato l’attenzione dell’opinione pubblica solo sugli aspetti più superficiali, estetici e comportamentali, di un confronto che, invece, sarebbe stato maggiormente rivelatore se avesse approfondito una analogia social-politica molto interessante. Il crollo della prima Repubblica e l’avvento di Berlusconi, ricordiamolo, avvenne quando il sistema economico italiano non sopportò più quel costo della cosiddetta «dazione ambientale» che costituiva l’aggio finanziario da fornire ai partiti. Un prezzo che, negli Anni 80, era sopportabile, perché la generale crescita dell’Italia lo rendeva compreso in bilanci attivi, ma che, agli inizi del decennio successivo, era diventato troppo esoso, proprio perché quella «nave Italia» che Craxi aveva pronosticato in un trionfale cammino si era, invece, bruscamente arrestata. La rivolta delle «partite Iva», dei ceti del lavoro autonomo non difeso dalle garanzie sindacali degli occupati a tempo indeterminato costituì la base di quel blocco sociale di cui Berlusconi interpretò la voglia di una sbandierata «rivoluzione italiana». Una rivoluzione fallita, è vero, ma che riuscì a distruggere, in poco tempo, un sistema di partiti e di potere che, per quasi cinquant’anni, dominò l’Italia dopo la seconda guerra mondiale.

Ora, la crisi dell’economia nazionale sta determinando conseguenze di trasformazione sociale altrettanto profonde e sta suscitando sentimenti di rivolta insensibili ai tradizionali schieramenti politici. Ecco perché l’asse della divisione italiana non si situa più in quello orizzontale, fra destra e sinistra, ma in quello verticale, tra innovazione e conservazione. Renzi ha colto immediatamente la forza di questo cambiamento e l’ha cavalcato con un successo che appare incredibile, sia nei tempi, sia nei modi. Ma è inutile guardare al passato, così rapido che lo si giudica erroneamente con gli stessi occhi del presente, è inutile ironizzare sul profilo botticelliano della neoministra della semplificazione, Marianna Madia, contro quello, ben più arcigno, degli alti burocrati da sgominare, inutile parlare delle mani in tasca di Renzi al Senato. Ma è anche poco importante seguire le possibili transumanze dei grillini dissidenti verso le sponde di una sinistra radicale, in un cantiere tanto infinito quanto poco affollato. Non è nelle alchimie parlamentari che il premier gioca la partita decisiva, perché lo scontro che si annuncia è ben più profondo e il risultato scuoterà i futuri assetti del sistema politico e sociale italiano in maniera sconvolgente.

Meglio della nostra classe dirigente, che aspetta questo scontro con la solita pseudo furbizia del gattopardo italico, hanno capito l’importanza del suo esito la maggioranza dei cittadini comuni e, forse inaspettatamente, quel sistema delle istituzioni internazionali che ha tutto l’interesse a non vedere l’Italia sprofondata in una pericolosa stagnazione, fonte di contagio per l’Europa, ma anche di imprevedibili conseguenze sugli equilibri finanziari del mondo. Renzi, con evidenza, punta all’appoggio di queste due stampelle per sconfiggere le reazioni corporative, già annunciate, sia nel suo partito, sia nel sindacato, che tenteranno di bloccare le riforme. È possibile, e forse anche probabile, che lo squilibrio di forze, di esperienze e pure di competenze, il divario tra le promesse imprudentemente annunciate e le risorse effettivamente disponibili condannino Renzi e il suo governo a una obbligata constatazione di fallimento. Ma, di sicuro, il nuovo premier tirerà subito la carta di riserva: l’appello alle urne. Poteva farne a meno per arrivare al potere, ma non potrà fare a meno del consenso degli elettori per sperare di vincere.

DA - http://www.lastampa.it/2014/03/01/cultura/opinioni/editoriali/due-stampelle-per-la-sfida-del-premier-uxZBJ6w76WKij8oIm31f7M/pagina.html
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