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Autore Discussione: LUIGI LA SPINA -  (Letto 88851 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Giugno 02, 2012, 10:23:24 am »

1/6/2012

L'unica direzione possibile

LUIGI LA SPINA

Il caso e la necessità, proprio nel senso in cui l’intendeva Jacques Monod, potrebbero offrire all’Italia un ruolo da protagonista nell’impulso a una nuova tappa verso l’unità politica ed economica dell’Europa. La contemporanea presenza alla guida di importanti istituzioni continentali del presidente del Consiglio, Mario Monti, del capo della Banca centrale europea, Mario Draghi, e del governatore di quella italiana, Ignazio Visco, infatti, rappresenta un’opportunità per contribuire, proprio in un momento di crisi, a indicare l’unica direzione possibile per evitare la dissoluzione della moneta unica e la fine dell’integrazione dei mercati in Europa.

La giornata di ieri, con la coincidenza, del tutto casuale sul piano dei tempi, ma perfettamente coordinata sul piano dei contenuti, dei loro interventi pubblici, ha indicato con chiarezza come ci siano le condizioni per una forte spinta comune in questo senso dell’Italia, sia sul piano politico, sia su quello economico-finanziario.

Il compito di esplicitare questa volontà, però, è stato il tema di fondo delle considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia lette, per la prima volta, da Visco. Il neogovernatore, infatti, in linea con le sue peculiari vocazioni intellettuali che gli consentono maggiori libertà di pensiero, ha tenuto una relazione molto innovativa rispetto a quelle dei suoi predecessori. Da una parte, si è attenuto strettamente ai compiti che riguardano la Banca che presiede, con un approfondito esame della situazione monetaria e della condizione degli istituti di credito italiani. Dall’altra, ha inserito l’analisi sull’economia del nostro Paese soprattutto nel quadro di quella europea.

Il significato di questa scelta del governatore è apparso molto chiaro: i problemi dell’Italia derivano sì da comportamenti errati dei governi negli anni passati che certamente vanno corretti dall’attuale e da quelli che verranno, ma si potranno affrontare e risolvere solo con una coraggiosa sfida della politica continentale verso una vera federazione europea.

Questa sfida, lanciata ieri da Visco, sicuramente comporta un certo azzardo volontaristico e nasce da una antica fiducia nell’europeismo, non indebolita dalle rinascenti tentazioni nazionalistiche, anzi, rafforzata proprio dall’attuale crisi. A questo proposito, come ammonimento a coloro che rimpiangono le comode svalutazioni competitive della nostra storia repubblicana, ha ricordato i diversi modi con i quali gli Stati europei hanno reagito alla moneta unica: i virtuosi, beneficiando di una valuta forte ma non sopravvalutata e dell’apertura dei mercati, gli altri, tra cui c’è l’Italia, non sono riusciti ad approfittare della stabilità dei prezzi e dei tassi d’interesse bassi. E adesso ne pagano le conseguenze.

Le considerazioni lette da Visco sono apparse di sicuro sostegno all’opera di Draghi alla Bce. Perché, forse nel rispetto di un certo gioco delle parti, hanno appoggiato la funzione innovativa concepita dal presidente dell’Eurosistema nei confronti delle tesi tradizionalmente conservative dei tedeschi, con un chiaro avvertimento, però, ai governi. Si può convenire, ha osservato, sulla proposta di trasferire i debiti sovrani che eccedano una certa soglia a un fondo di garanzia europea, ma questo non deve autorizzare alcuni Stati a «perseverare nelle cattive politiche del passato». Insomma, le nazioni continentali, in cambio, devono rassegnarsi a una certa perdita di sovranità. Una condizione irrinunciabile, se davvero si vuole salvare l’euro.

Il segno europeista delle prime «considerazioni» del governatore non ha fatto trascurare, però, alcuni brevi ma non marginali suoi commenti sulla politica economica italiana. Visco ha riconosciuto al governo il merito di una efficace azione di risanamento dei conti pubblici, ma ha ricordato come il prezzo pagato, in termini di pressione fiscale, sia insostenibile. Ecco perché è essenziale una riduzione, in termini di quantità, ma anche di qualità, della spesa. Tali tagli, sempre a suo giudizio, dovrebbero consentire di dedicare maggiori risorse a favore di ricerca e istruzione. Una raccomandazione che, rivolta a un governo di tecnici e professori, si spera sia accolta non solo con i consueti consensi verbali, ma con concreti e immediati investimenti pubblici.

È arduo prevedere se l’azione concertata della troika italiana sulla scena continentale possa convincere i capi di governo europei a superare gli egoismi nazionalistici e i timori dei loro elettorati, comprensibilmente risorgenti in tempi così difficili. Il credito internazionale e le competenze professionali di Draghi, Visco e Monti, insieme all’assenza di autorevoli leadership politiche in questo momento in Europa, potrebbero sfociare in scenari imprevedibili fino a poco tempo fa. Il caso e la necessità, comunque, aiutano e non è detto che l’ottimismo sia proibito.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10171
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« Risposta #121 inserito:: Giugno 21, 2012, 06:44:19 pm »

21/6/2012

Un'occasione per battere le meschinità

LUIGI LA SPINA

Le circostanze favorevoli, ma anche la credibilità internazionale di Monti, offrono all’Italia l’occasione di esercitare un ruolo importante nei prossimi dieci giorni che, parafrasando John Reed, davvero possono «sconvolgere il mondo» e, soprattutto, il nostro continente. Come quasi sempre è avvenuto nella storia dell’Unione europea, la partita decisiva per salvare la moneta comune si giocherà tra Germania e Francia. La prima è favorevole ad ammorbidire il suo dogmatismo finanziario solo se gli Stati dell’eurozona saranno disposti a cedere gran parte della loro sovranità, nelle politiche economiche dei loro Paesi, al potere sovrannazionale dell’autorità comunitaria. La seconda, nel solco di una lunga tradizione di orgoglioso e geloso rifiuto di qualsiasi soggezione francese, pare tutt’altro che pronta ad acconsentire alle richieste della Merkel. Ecco perché al nostro presidente del Consiglio, erede della funzione esercitata dall’Italia fin dall’atto costitutivo del primo nucleo della Comunità europea, è affidato il compito di trovare una mediazione tra queste due, apparentemente inconciliabili, posizioni.

In attesa dell’esito di questa fondamentale scommessa negoziale, consapevoli dell’importanza per le sorti di tutta l’economia internazionale, i leader più importanti del mondo, a cominciare da Obama e dal cancelliere tedesco, cercano di rafforzare la posizione di Monti con elogi, persino un po’ esagerati, per i progressi compiuti dall’Italia sulla via del risanamento finanziario e delle riforme strutturali. In un pianeta in cui la comunicazione mediatica è così globalizzata, immediata e determinante per raccogliere l’indispensabile consenso dell’opinione pubblica agli sforzi di un leader, il tentativo di infondere fiducia e accrescere l’autorevolezza di Monti, in un momento così delicato, assume, evidentemente, il significato di una ben precisa azione di politica internazionale.

Se questo è il quadro nel quale il presidente del Consiglio italiano si dovrà muovere e se questo è il clima che circonda il suo fondamentale impegno, è impressionante e drammatico lo scenario che, invece, si palesa in questi giorni in Italia. Un contrasto che, davvero, prima stupisce e, poi, indigna.

Ricapitoliamo la nostra storia politica recente. Reduci da un clamoroso fallimento di credibilità internazionale e di efficienza riformista dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni, i partiti sono stati costretti ad ammettere il loro scacco e ad affidare le sorti del nostro paese a un esecutivo «tecnico». Ma la promessa di coloro che hanno deciso di sostenerlo, non solo con il voto parlamentare, ma soprattutto aiutandolo a rendere consapevoli i cittadini della necessità di sacrifici per evitare la bancarotta, è durata ben poco.

Il tentativo, peraltro inutile, di ridurre gli effetti elettorali della delusione generalizzata verso tutta l’attuale classe politica ha indotto non tanto l’esigua opposizione parlamentare a una sfrenata rincorsa demagogica di tutti i timori degli italiani, quanto la stessa maggioranza a minare, tutti i giorni, il sostegno dell’opinione pubblica all’operato del presidente del Consiglio e dei suoi ministri. Gli esempi sono talmente numerosi che basta sfogliare i giornali delle ultime settimane per compilarne un elenco assai affollato. Per limitarsi ai casi più recenti, citiamo l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, ancora ieri, proprio mentre Monti cerca di salvare l’euro, insiste sull’ipotesi di tornare alla lira. La richiesta del governo di approvare la riforma del lavoro, come segnale della coesione politica italiana in vista dei vertici europei decisivi di fine mese, inoltre, viene sottoposta a condizionamenti ricattatori che arrivano da entrambe le maggiori forze politiche della sua maggioranza parlamentare. In più, anche le rappresentanze sociali non dimostrano molto senso di responsabilità su un argomento così delicato: il neopresidente della Confindustria comincia infelicemente il suo mandato con una battuta, di fantozziana memoria, assai discutibile. I sindacati, da parte loro, almeno nelle parole dei loro leader nazionali e, per fortuna, meno negli atteggiamenti concreti nelle fabbriche, non solo accendono tutti i fuochi della protesta, ma usano un linguaggio, nei confronti del ministro del Lavoro Fornero, di una violenza inaccettabile e irresponsabile.

In questo quadro, già preoccupante, rischia di indebolirsi anche l’altro pilastro che, finora, ha retto, con Monti, il periclitante vascello della navigazione italiana nella tempesta finanziaria internazionale: il Quirinale. Dietro il «caso Mancino», sono evidenti il durissimo scontro di apparati dello Stato e, soprattutto, le faide nella nostra magistratura che colgono questo pretesto per proseguire una lotta sotterranea e inquietante che dura ormai da molti anni. Il rischio è che, in tale momento difficilissimo, il tentativo di coinvolgere il presidente della Repubblica in una polemica di cui, almeno finora, non si vedono i motivi, possa disorientare l’opinione pubblica nei confronti dell’unica autorità nazionale che gode il rispetto della quasi totalità degli italiani. Con l’aggravante di accentuare gli scricchiolii di un assetto istituzionale e politico che, al contrario, avrebbe l’esigenza di dimostrare la massima coesione di intenti e il massimo senso di responsabilità.

Il contrasto tra i primi, certo non sufficienti ma confortanti, segnali positivi che vengono dalla formazione del governo greco, dagli indici della Borsa e dagli spread e i segnali di scollamento della società italiana e delle sue rappresentanze politiche, sindacali, imprenditoriali e civili è ormai troppo clamoroso per non suscitare un allarme grave e urgente.

DA - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10251
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« Risposta #122 inserito:: Luglio 11, 2012, 09:58:08 am »

10/7/2012

La politica senza confini

LUIGI LA SPINA

L’ accusa, sostanzialmente con la stessa domanda, arriva sia da destra, sia da sinistra: perché non si può criticare Monti? Perché davanti a ogni giudizio negativo sull’operato del presidente del Consiglio e del suo governo si viene imputati non solo di «lesa maestà», ma addirittura di tradimento della patria?

Da mesi questa domanda accompagna le osservazioni polemiche di Alfano sulla riforma del lavoro, quelle di Bersani e di Vendola sui tagli alle spese e, dopo le bombastiche definizioni del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, a suon di «boiate» e «macelleria sociale», si è ripetuta con maggior insistenza e con indignato fastidio.

L’avvertimento di Monti sulle conseguenze per l’Italia, dall’andamento del famoso «spread» alle sorti del «salvaStati», delle critiche e dei distinguo che arrivano dal fronte interno, cioè dai partiti che lo sostengono in Parlamento e dalle rappresentanze sociali, non deriva, in realtà, dalla tipica insofferenza degli accademici nei confronti di chi osa mettere in dubbio le loro tesi. Nè dalle suscettibilità caratteriali di tecnici dalla pelle troppo tenera per sopportare le durezze della nostra vita pubblica. Ma dalla consapevolezza di un mutamento, profondo e importante, avvenuto negli ultimi tempi nel nostro continente: la politica europea è diventata una politica democratica. Una politica, cioè, in cui il consenso delle opinioni pubbliche è divenuto determinante. Ed è paradossale, ma significativo, che sia proprio un «tecnico», come il professor Monti, ad avvisare partiti, sindacati e imprenditori di questo fondamentale effetto della crisi finanziaria ed economica in Europa.

Fin dai primi vagiti delle istituzioni comunitarie, alla metà del secolo scorso, l’accusa nei loro confronti fu quella di un regime tecnocratico, governato da funzionari la cui legittimità non era legata al consenso popolare. Da qui, l’ostinata diffidenza per liturgie misteriche e per imperscrutabili decisioni di personaggi ciechi, sordi e muti, legati da solidarietà fondate su clan elitari e, magari, un poco inquietanti. La «burocrazia di Bruxelles» era la definizione di un potere sul quale, di volta in volta, si poteva ironizzare quando stabiliva le misure degli ortaggi, o di un potere che doveva essere a buon diritto truffato, quando pretendeva di imporre la quantità di latte che doveva essere munto dalle vacche nazionali.

Né l’elezione diretta del Parlamento europeo, a metà degli anni 70, né il progressivo allargamento, sia delle competenze comunitarie, sia dei confini della Ue, riuscirono a colmare, nell’opinione pubblica europea, quella diffidenza che si tramutava, nei casi migliori, in un diffuso disinteresse o, in quelli peggiori, in una profonda ostilità.

La vera svolta di questo atteggiamento popolare è avvenuta negli ultimi mesi. Da quando i cittadini europei si sono resi conto che le loro sorti non dipendevano più dai governanti dei loro Paesi, ma dai giudizi che prevalevano nelle opinioni pubbliche degli altri stati della Ue nei loro confronti. Perchè i leader eletti dai parlamenti nazionali non potevano, o non riuscivano, o non volevano disattenderne gli umori.

Questo mutamento ha sconvolto persino il tradizionale orientamento politico dei partiti europei. Significativo esempio di questo fenomeno è stato, nei giorni scorsi, quanto è avvenuto in Germania, dove la Merkel è stata accusata, dopo l’ultimo vertice di Bruxelles, di cedimento alle richieste di Spagna e Italia, appoggiate dal socialista francese Hollande, proprio dalla Spd, un partito socialdemocratico che, in teoria, dovrebbe essere meno severo sulla rigidità delle economie statali. Proprio perché è l’operaio tedesco, il signor Mueller citato da Monti
nell’intervista ai principali quotidiani europei, che non sopporta di pagare i debiti delle cicale mediterranee nel nostro Continente.

Ecco perché è importante, di più, è determinante, far capire agli abitanti della Germania, dell’Olanda, della Finlandia che, questa volta,
l’Italia i sacrifici li farà davvero, che le promesse di riduzione di spesa non verranno vanificate dalle proteste delle categorie, che gli italiani lavoreranno di più e più a lungo, che le prese di distanza dei partiti «di lotta e di governo», definizione quanto mai attuale per la strana maggioranza che dovrebbe sostenere Monti, non pregiudicheranno gli impegni annunciati a Bruxelles.

E’ vero che i mercati non hanno più confini e guardano sospettosi mosse e contromosse di quello che avviene nei singoli Stati, ma lo stesso sguardo sovrannazionale, ormai, è comune anche ai popoli dell’Europa. Poiché i leader politici di questo nostro continente all’inizio del nuovo secolo non sembrano possedere visioni lungimiranti, né l’autorevolezza per realizzarle, le opinioni pubbliche europee, con i loro giudizi fluttuanti, ma anche con i loro ostinati pregiudizi, diventano le padrone dei nostri destini.

Si voleva un’Europa finalmente democratica? Ora l’abbiamo. Curioso che chi l’invocava, ora, abbia qualche dubbio.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10316
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« Risposta #123 inserito:: Luglio 27, 2012, 04:30:21 pm »

26/7/2012 - LEGGE ELETTORALE

Riforme è l'ultima chiamata

LUIGI LA SPINA

Lo spread è sempre altissimo, si susseguono i vertici istituzionali e politici all’insegna dell’emergenza, anche il neopresidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, ammette che certe intemperanze polemiche (forse anche le sue) non sono più ammissibili, ma i partiti non riescono a varare l’unica cosa sensata che potrebbero fare: una nuova legge elettorale. L’ennesima «fumata nera» su un’intesa che sembrava imminente, con il solito, stucchevole rimpallo di accuse sulle responsabilità del mancato accordo, dimostra come il masochismo della classe politica sia arrivato a forme di perversione davvero incomprensibili.

E’ davvero cosi difficile cambiare la nostra legge elettorale? In effetti, riuscire a combinare un puzzle di norme che soddisfi un po’ tutti è complicato, perché le convenienze elettorali, tra piccoli e grandi partiti, ma anche tra le diverse coalizioni possibili e le diverse esigenze dei leader sono spesso opposte. L’occasione per trovare un’intesa, però, in questi giorni è troppo favorevole per sprecarla e sarebbe davvero un delitto non approfittarne. Nessuno, infatti, può ragionevolmente prevedere non solo chi vincerà, ma neanche chi si presenterà alla competizione. Ecco perché sono del tutto imprudenti e perfino un po’ ridicoli questi calcoli che si intrecciano tra i cosiddetti esperti elettorali dei partiti.

Un almanaccare confuso di previsioni del tutto inattendibili, per due fondamentali motivi. Il primo, già accennato, riguarda una offerta politica ancora misteriosa: Berlusconi davvero si ripresenterà e a capo di quale partito? Ci sarà una scissione nel Pdl? Ci saranno novità al centro dei vecchi schieramenti, con una lista patrocinata da Montezemolo? Il Pd ha rotto definitivamente con Di Pietro e sceglierà un’alleanza con Vendola o con Casini? Le incognite, come si vede, sia pure limitandoci alle principali, sono davvero tante. Se poi si aggiunge l’«effetto Grillo», forse l’incognita più misteriosa e imprevedibile, è facile capire come ai sondaggisti, in questo momento, sia consigliabile un atteggiamento oracolare, quello di chi parla così oscuro da essere interpretato in qualsiasi modo.

Al di là dei simboli che compariranno sulla futura scheda elettorale, tra quattro o otto mesi, chi può prevedere, poi, in quale situazione ci troveremo non tra quattro o otto mesi, ma alla fine del mese prossimo? Il secondo motivo per cui quei calcoli dei partiti sembrano così inutili è persino più forte del primo. E’ evidente che la sorte dell’euro, l’andamento dello spread, i provvedimenti d’emergenza finanziaria che potrebbero essere necessari nelle prossime settimane finirebbero per cambiare qualsiasi programma elettorale, qualsiasi progetto di alleanze, qualsiasi candidatura a palazzo Chigi.

Ecco perché, e può sembrare un paradosso, questo è proprio il tempo in cui si potrebbe varare una legge che meno possa risentire dei calcoli di convenienza partitica e più degli interessi collettivi per un sistema che assicuri una efficace e stabile governabilità del Paese. Un meccanismo elettorale che corregga i difetti più gravi emersi nelle leggi che sono state sperimentate nella cosiddetta seconda Repubblica e che aiuti anche al miglioramento qualitativo della nostra classe politica. A partire dall’errore più grave: quello di far eleggere i parlamentari non dai cittadini italiani, ma dalle segreterie dei partiti.

Se il deputato o il senatore fosse più preoccupato di rappresentare gli interessi di chi lo ha votato che di compiacere i voleri del leader che l’ha nominato, non solo aumenterebbe il tasso di libertà del Parlamento, ma la selezione per quelle cariche sarebbe evidentemente orientata a qualità professionali e caratteriali più consone alle necessità della politica e non a virtù, diciamo così, di altro genere. L’obbiettivo si può raggiungere o con le preferenze o con i collegi elettorali, ma la differenza non dovrebbe, nella condizione descritta, provocare uno stallo come quello che appare in questi giorni.

Il secondo punto di un accordo possibile dovrebbe riguardare un premio di maggioranza ragionevole, che assicuri la governabilità, ma che non stravolga la rappresentatività delle assemblee e distorca i voleri dei cittadini. Anche in questo caso, litigare sul premio alle coalizioni o al primo partito, è un esercizio vano di fantapolitica. Di fronte alla necessità di un veloce accordo sulla legge elettorale, trovare questa differenza come insuperabile ostacolo all’intesa vuol dire avanzare un pretesto assurdo e suicida.

Il terzo fondamentale punto del nuovo sistema di voto dovrebbe riguardare una seria soglia di ingresso in Parlamento che eviti, da una parte, la dispersione di voti e, dall’altra, non riduca troppo le voci delle minoranze d’opinione pubblica. Una percentuale del 5-7 per cento potrebbe costituire una griglia selettiva ragionevole.

Tutti, o quasi tutti, sono d’accordo su queste tre esigenze; tutti, o quasi tutti, capiscono quanto sia imprevedibile il futuro e quindi sia inutile, questa volta, calcolare le singole convenienze partitiche; tutti, o quasi tutti, sanno che, se non si raggiungerà l’accordo, l’indignazione dei cittadini, già a dura prova, porterà a conseguenze pericolose per la nostra democrazia. Che cosa deve succedere ancora perché i leader si chiudano in una stanza e non ne escano finché non abbiano firmato l’intesa?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10373
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« Risposta #124 inserito:: Agosto 03, 2012, 07:20:17 am »

2/8/2012

Il potere perduto dei partiti

LUIGI LA SPINA

I partiti italiani tentano di prefigurare gli scenari del nostro futuro, ma l’impressione è che il gioco del potere sia ormai sfuggito di mano alla classe politica. Bersani cerca di ricostruire un centrosinistra senza i difetti che fecero tramontare l’esperienza governativa di Prodi. Berlusconi, annunciando il suo sesto ritorno in campo, vuole impedire al leader democratico una vittoria con una grande maggioranza parlamentare. Casini spera di acquisire una posizione che possa condizionare entrambi gli schieramenti. Mosse e contromosse che, spostando lo sguardo verso un orizzonte lontano, vorrebbero mascherare la consapevolezza di quello vicino, quello che vede tutte le decisioni che conteranno nel futuro degli italiani fuori dall’arco delle Alpi. Verdetti che arriveranno da Francoforte e da Bruxelles, da Berlino e, magari, addirittura dalla Finlandia.

Decisioni che potranno essere condizionate persino dall’esito delle elezioni americane di novembre. Con un unico interlocutore italiano ammesso al tavolo di quelle decisioni, il premier Monti.

Durata poco più di una notte di mezz’estate l’ipotesi di elezioni anticipate, acclarata l’impossibilità di trovare un’intesa sulla nuova legge elettorale prima dell’autunno, i partiti italiani hanno cominciato una campagna elettorale del tutto «autistica». Una partita completamente isolata dalle attuali preoccupazioni degli italiani e che li vede guardare ai saliscendi dello spread, alle battaglie sulla sopravvivenza dell’euro, alle sfide dei mercati finanziari nei confronti delle potestà degli Stati come semplici spettatori. Consapevoli di un ruolo che consente il diritto di tifare, ma non quello di partecipare all’incontro.

L’esproprio di sovranità di cui si discute in Europa, tra le insistenze della Merkel e le resistenze di Hollande, in realtà, è già avvenuto in Italia. Con una differenza fondamentale: l’attiva e determinante complicità di una classe politica che non è stata estromessa dal ruolo, ma che ha abdicato volontariamente al ruolo che le competeva. Riconoscendo l’incapacità a sostenerlo, con quella autorevolezza e con quella credibilità necessarie durante la più grave crisi europea dopo la seconda guerra mondiale.

In attesa di sapere se Monti riuscirà a convincere i Paesi «virtuosi» dell’Eurozona sull’efficacia e, soprattutto, sull’irreversibilità della linea di rigore finanziario da lui impostata in Italia; in attesa di conoscere l’esito dello scontro tra Draghi e la banca tedesca; in attesa del contestato varo del fondo «salva-Stati»; in attesa di vedere se il nostro spread sopravviverà alle tempeste borsistiche di agosto, dove guardano, adesso, i partiti italiani?

La risposta è ovvia: alle elezioni della primavera 2013. Vero, ma anche ad altre elezioni, più vicine, di cui meno si parla, ma che costituiranno le prove generali della sfida per la prossima legislatura, quelle siciliane di ottobre. E’ lì che Berlusconi, nel ricordo di un successo storico, verificherà la forza del suo residuo fascino elettorale. Nell’isola si proverà quel matrimonio di necessità tra Bersani e Casini che l’accordo con Vendola, proclamato ieri, rende così arduo e, forse, improbabile. A quell’appuntamento sono appese le speranze di Di Pietro, stretto tra i rifiuti all’alleanza, sia di Grillo, da una parte, sia di Bersani e Vendola, dall’altra.

Alla luce del verdetto siciliano potrebbe anche sbloccarsi lo stallo sulla nuova legge elettorale che, al di là delle pseudo tecnicalità, si fonda su un contrasto esclusivamente politico. La paura del probabile candidato premier del centrosinistra, Pierluigi Bersani, di non ottenere una maggioranza sufficiente a governare e, quindi, la volontà di avere un premio elettorale che non sia assegnato al primo partito, ma alla coalizione vincente. Al contrario, il desiderio di Berlusconi e del Pdl di impedire il trionfo dello schieramento avversario e, perciò, di poter contare su un risultato così precario da non rendere l’opposizione di centrodestra ininfluente.

Possono essere comprensibili, allora, le preoccupazioni per le sorti di una democrazia italiana svuotata dal potere dei partiti, unici legittimati dalla Costituzione a rappresentare la volontà popolare. Possono essere opportune le accuse al cosiddetto «pensiero unico», quello che sostiene sempre e comunque le scelte del governo tecnico, perché senza la libertà e l’autonomia della critica pubblica alle decisioni che coinvolgono interessi rilevanti dei cittadini, la democrazia non è solo svuotata, ma addirittura compromessa. Ma ci si deve chiedere perché possa essere così forte il dubbio che, in questo momento, la perdita di quel potere da parte dei partiti sia più un bene che un male.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10398
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« Risposta #125 inserito:: Agosto 29, 2012, 04:51:27 pm »

29/8/2012

Pd, la tentazione autoritaria

LUIGI LA SPINA

C’è un partito che si candida alla guida del Paese in un momento molto difficile per l’Italia. È il più forte nello schieramento che si è opposto per molti anni ai governi di Berlusconi.

E tutti i sondaggi lo pongono in testa nelle preferenze degli elettori. Sostiene il governo Monti e, contestando le presunte ambiguità del Pdl nell’appoggio al presidente del Consiglio, accusa quel partito di praticare uno sleale e opportunistico «doppio binario», per non perdere consensi tra i suoi sostenitori. Eppure, questo partito, il Pd di Bersani, ha avuto «il buon gusto», davvero democratico, di vietare la partecipazione del ministro del Lavoro, la torinese Elsa Fornero, ai dibattiti che si svolgono nelle cosiddette feste del Pd, compresa quella che si tiene a Torino.

Tale esclusione è davvero ingiustificabile, sul piano politico e su quello personale, ma riveste un significato inquietante, più generale, perché alimenta dolorosi sospetti su come sia intesa ancora in quel partito la concezione del dialogo e, quindi, della sostanza della democrazia.

La risibile e, ripetiamo, purtroppo inquietante, motivazione di questa scelta è quella di valutare «non in sintonia» il ministro Fornero con le posizioni del Pd. Già è abbastanza grave la contraddizione evidente tra questo giudizio e il sostegno parlamentare a un governo di cui il responsabile delle politiche per il lavoro è parte fondamentale. Ma è ancora più grave che si pensi di dover dialogare solo con chi è «in sintonia» con le idee del partito.

Fa davvero dispiacere che il «social democratico» Bersani autorizzi una simile deriva solipsistica e autoritaria di un partito che, più o meno convintamente, aveva fatto credere la piena conversione all’idea liberale e democratica del dialogo. Quel dialogo che è tale se avviene, appunto, solo tra persone che non sono «in sintonia». È incomprensibile, poi, l’occasione rivelatrice di questo atteggiamento, un atteggiamento che speravamo fosse dimenticato nella storia più buia della vecchia tradizione comunista. Il ministro Fornero, infatti, può certamente aver assunto posizioni discutibili e, magari, anche sbagliate, ma è persona di cultura sicuramente democratica, con un impegno politico sempre nello schieramento di centrosinistra, basti ricordare la sua partecipazione alla giunta torinese di Castellani, il sindaco predecessore di Chiamparino.

È inoltre curioso, per usare un aggettivo benevolmente ironico, che il ministro Fornero sia stato invitato dal consiglio di fabbrica dell’Alenia di Caselle, a maggioranza Fiom, per spiegare le sue posizioni e quel dibattito sia stato esemplarmente duro, ma corretto e civile, mentre non possa fare altrettanto con i simpatizzanti del Pd. I quali, per un’altra decisione sciagurata di quel partito, non possano neanche ascoltare le ragioni di quel sindacato, anch’esso escluso dalle feste «democratiche». Una doppia esclusione che non elide l’errore commesso con Fornero, ma che non raddoppia, perché conferma una concezione profondamente errata del «dialogo».

Da una parte, fa impressione come Bersani, sulla scia dello sfortunato slogan berlingueriano, «partito di lotta e di governo», finisca per riuscire a non fare del Pd né un partito di lotta, né un partito di governo. Perché lascia larghi spazi alla protesta e al disincanto, mentre suscita molti dubbi tra gli elettori moderati, non convinti della sua capacità di affrontare scelte di rinnovamento e di apertura riformatrice, come l’Europa chiede al prossimo inquilino di Palazzo Chigi.

Dall’altra parte, stupisce la quiescenza e la mancata vigorosa protesta di quell’ala del Pd che si autodefinisce «liberal» o che non proviene dalle file del vecchio Pci. Sottovalutare certi atteggiamenti, trascurare questo costume di intolleranza, di dogmatismo che persiste in quel partito è, soprattutto per loro, un grave peccato di autolesionismo. Se, poi, la sera delle elezioni, quando prima o poi arriverà, se ne pentiranno, sarà troppo tardi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10469
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« Risposta #126 inserito:: Settembre 01, 2012, 11:15:09 am »

Economia

30/08/2012 - INTERVISTA

Passera: "Subito un grande patto per la produttività"

Appello del ministro a sindacati e aziende: drammatico il ritardo di competitività.

C’è un altro problema terribile: il gomitolo di norme che avvolge famiglie e imprese

LUIGI LA SPINA
Roma

Alla vigilia del consiglio dei ministri che di domani dovrebbe discutere la prima parte dei provvedimenti sulla crescita, il ministro per lo sviluppo economico Corrado Passera, in questa intervista alla “Stampa” lancia un appello alle parti sociali perchè si arrivi a «un grande patto per la produttività». Una intesa che, recuperando i quasi 10 punti di distacco che su questo aspetto abbiamo rispetto ai principali paesi europei, consenta alle aziende di tornare in condizioni di competitività sui mercati internazionali e ai lavoratori di aumentare le loro retribuzioni.

Ministro, è arrivata finalmente l’ora della “fase due” del governo Monti, quella della crescita...
«Altolà. Nessuna “fase due”. L’agenda per la crescita è nata insieme al “Salva Italia”. La messa in sicurezza dei conti e la creazione delle condizioni per la crescita, fin dal primo giorno dell’esistenza di questo governo, sono in parallelo. E’ vero che nel “Salva Italia” c’è la riforma delle pensioni e l’Imu, ma cui sono anche i 20 miliardi di garanzia per il credito alle piccole e medie aziende, ci sono i 14 miliardi per incentivare gli imprenditori a rafforzare i patrimoni aziendali (Ace) e ad assumere (Irap). Intanto sono arrivate le liberalizzazioni, le semplificazioni, il decreto sulla crescita, gli interventi sull’energia, sulle infrastrutture e l’edilizia, i project bond e il diritto fallimentare, solo per fare alcuni esempi».

Sì, ma l’impressione è che, in Italia, agli annunci dei governi, anche all’approvazione delle leggi da parte del Parlamento segua un’applicazione pratica molto lenta e difficile, per cui l’efficacia dei provvedimenti risulti molto scarsa. Non sarà così anche per l’agenda della crescita?
«E’ proprio per questo che abbiamo cambiato rispetto al passato: sui cantieri, per esempio, vogliamo che tutto sia controllabile dai cittadini attraverso il sito “cantieri Italia” che specifica per ciascun progetto i finanziamenti, l’andamento dei lavori e gli eventuali problemi. La stessa filosofia ha portato alla norma che impone a tutte le istituzioni pubbliche di indicare sul proprio sito, appena si erogano fondi, a chi sono destinati, quanto si è dato e per che cosa. Questo tipo di trasparenza, questo senso di responsabilità nel rendere conto di come si spendono i soldi pubblici può cambiare molto nel costume della gestione dei soldi dello Stato, cioè dei cittadini».

A questo proposito, quale dev’essere il ruolo dello Stato per lo sviluppo di un Paese, quello di regista o esclusivamente di regolatore del mercato?
«Se crediamo nell’ economia aperta e vogliamo crescere nel mercato globale, la visione dello Stato che dirige la crescita e che decida in quale settore devono investire le imprese, è assurda e inapplicabile: fa parte di un mondo che non c’è più e che, tra l’altro, ha dato pessimi risultati. Ma lo Stato può fare molto per agevolare la crescita sostenibile. Lo Stato deve creare le migliori condizioni di contesto: buone regole e controlli adeguati, infrastrutture moderne, giustizia veloce – oltre che giusta - , istruzione che crei le competenze richieste dalla società e dall’economia, una pubblica amministrazione efficiente. Lo Stato deve incoraggiare fiscalmente gli imprenditori che investono in innovazione, che vanno alla conquista di mercati esteri e crescono dimensionalmente. Di più, lo Stato deve intervenire su tutti gli “spread” negativi…».

Pensavamo di aver imparato che cosa è uno spread, adesso scopriamo che ce ne sono altri.
«Non solo paghiamo i nostri finanziamenti 4 o 5 punti percentuali più dei nostri concorrenti, ma – ad esempio – paghiamo l’energia più degli altri e abbiamo costi diretti e indiretti della burocrazia più alti. Tutto in Italia soprattutto per le imprese è più difficile, lungo, complicato nei rapporti con la Pubblica Amministrazione. E’ necessario semplificare e poi ancora semplificare. Per questa ragione due decreti sono stati già messi a punto – e uno già tramutato in legge - e ne stiamo elaborando altri in stretta collaborazione con il mondo delle imprese da una parte e con la Funzione Pubblica dall’altra».

La settimana scorsa al Meeting di Rimini lei ha fatto un quadro preoccupato dei nostri ultimi 15-20 anni in termini di investimenti, di crescita, di spesa corrente e, soprattutto, di produttività.
«In questi anni ci siamo mangiati il dividendo dell’euro - cioè minori interessi per quasi 500 miliardi - e circa 200 miliardi di privatizzazioni e dismissioni, abbiamo ridotto quasi a zero gli investimenti per il futuro a favore di una spesa corrente che è cresciuta più che in qualsiasi altro Paese europeo. Ora, ci troviamo al massimo del disagio occupazionale, con una fiscalità record mondiale, per chi le tasse le paga, ma con una enorme evasione: i 2000 miliardi del nostro debito pubblico possono anche essere visti come 100 miliardi di evasione all’anno per 20 anni. Nessuno in questo bilancio può dirsi innocente e senza responsabilità».

Un fardello pesante, ce la possiamo fare?
«Certamente abbiamo imboccato la strada giusta, ma non dovremo abbassare la guardia per parecchi anni. Oggi i conti pubblici sono sotto controllo e dal punto di vista del deficit l’Italia è tra i Paesi più virtuosi in Europa. La spending review è in corso, gli strumenti per combattere più efficacemente l’evasione fiscale sono stati messi a punto, la valorizzazione di parte del patrimonio pubblico potrà aiutarci a ridurre progressivamente il debito. Molti fattori che determinano la produttività di sistema – prima di tutto le infrastrutture – sono stati attivati e riceveranno nuovo impulso nei prossimi mesi. Rimane però da affrontare il più grave degli svantaggi competitivi: quello relativo alla produttività del lavoro. Più che nelle mani della politica, questo fondamentale fattore di competitività e di crescita è nelle mani delle parti sociali. Se guardiamo a questo dato, comunque lo si voglia calcolare, vediamo che, in 10-15 anni, abbiamo perso almeno 10 punti rispetto alla media europea, ancora di più rispetto alla Germania e alla Francia. E’ una situazione da affrontare tutti insieme con grande urgenza: il rischio di uscire dal mercato in moltissimi settori è molto elevato».

Su questo punto, però, il sindacato non sembra molto disponibile...
«Per mia esperienza, sia nell’industria che in banca che alle Poste, ho potuto constatare che quando al sindacato si presentano grandi progetti di ristrutturazione, ma anche di rilancio, quando i sacrifici si distribuiscono equamente così come i benefici, quando c’è un progetto condiviso, il sindacato c’è e ci sta. Naturalmente bisogna parlarsi chiaro e sulla produttività lo sappiamo tutti che lo spazio è significativo: la prospettiva è di mettere in tasca ai lavoratori più soldi, perchè parte di quell’aumento di produttività deve andare a loro, mentre l’altra parte deve mettere le aziende in grado di competere più efficacemente sul mercato».

Questa sarebbe “la sana concertazione” di cui parlava a Rimini?
«Certo. Vuol dire fare il possibile per trovare soluzioni condivise per problemi comuni, senza confusioni di ruoli, né diritti di veto. Fare della produttività un punto di forza del nostro paese necessita un forte patto e un impegno condiviso da imprese e sindacato. Lo Stato può accompagnare questo sforzo con normative ed incentivi adeguati, ma prima di tutto dobbiamo convincerci che anche il nostro Paese ha la volontà di realizzare in poco tempo un grande recupero del tipo di quello che dieci anni fa la Germania ebbe il coraggio di fare».

Quindi per riassumere: forte spinta alla competitività delle imprese e del Paese per ricominciare a crescere con piena responsabilizzazione delle parti sociali sul recupero di produttività.
«Sì, ma non basta perché la crescita sostenibile ha bisogno non solo di competitività, ma anche di coesione sociale. Il welfare è fondamentale: deve sapersi adattare ai mutamenti demografici come è stato necessario fare per la previdenza. E’ una conquista di civiltà da rafforzare in tutti i campi: dalla sanità all’assistenza, dalle politiche per la famiglia a quelle per rendere occupabile chi il lavoro non ce l’ha ancora o non ce l’ha più. Il Terzo Settore può giocare un ruolo crescente e sempre più qualificato. In questi anni il privato sociale ha creato più posti di lavoro di molti altri settori del privato profit e del pubblico e ha portato esempi di sussidiarietà che indicano un modello da seguire in molti campi».

Ministro, parliamo, infine, un po’ di politica. Si vagheggia di grandi centri, di rose bianche, dell’ipotesi di una rinascita del partito cattolico. Lei ritiene utile che i cattolici si ritrovino in un partito unico?
«No. Io condivido l’idea che i valori a cui si ispirano i cattolici possano arricchire molte formazioni politiche e che non sia necessario, nè opportuno creare un partito dei cattolici».

Allora, le faccio una domanda personale. Lei, dopo questa esperienza politica, pensa di tornare a fare il manager o le piacerebbe continuare questo lavoro?
«Lavorare oggi per il mio Paese è un onore e una grande responsabilità. Non mi tirerò certo indietro se ci sarà la possibilità di continuare il risanamento e il rilancio del nostro Paese che il Governo Monti ha impostato e che riceve il consenso di tutto il mondo, come è avvenuto anche oggi a Berlino. Ora però devo pensare a tutto ciò che posso attivare come Ministro per creare crescita sostenibile e occupazione».

Prossimi impegni in questo senso?
«Agenda digitale, start-up, attrazione degli investimenti esteri, semplificazioni, piano aeroporti, strategia energetica, legge sulle Pmi e poi la ricerca di soluzioni sostenibili per i 100 tavoli di crisi aziendale sui quali sono impegnato ogni giorno».

Che cosa ne pensa della decisione di escludere il ministro del Lavoro Fornero dalle Festa del Pd?
«Un errore grave e inspiegabile».

I rapporti con i partiti rischiano di essere più difficili man mano che si avvicinano le urne: cosa si augura per questi ultimi mesi?
«Di continuare a lavorare con il Parlamento fino all’ultimo giorno così come è avvenuto fino ad oggi: siamo riusciti – insieme – a completare in pochi mesi un lavoro che in altre situazioni avrebbe necessitato anni e in molti casi i provvedimenti sono stati ulteriormente migliorati nel corso dei lavori. Serve poi una legge elettorale che garantisca governabilità, evitando coalizioni troppo eterogenee e ricattabili e che riapra la partecipazione dei cittadini permettendo agli elettori e non solo alle segreterie dei partiti di scegliere i propri rappresentanti».

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/466844/
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« Risposta #127 inserito:: Settembre 08, 2012, 09:59:58 pm »

7/9/2012 - SANITÀ, LE POLEMICHE SUL DECRETO BALDUZZI

Gli italiani riformisti immaginari

LUIGI LA SPINA

La premessa è doverosa, anche se può sembrare scontata, perché è giusto ricordare certi meriti, soprattutto in un momento in cui il nostro Paese è troppo facilmente messo sotto processo: il welfare sanitario assicurato dallo Stato in Italia è una conquista di civiltà di cui andare assolutamente fieri. Tanto è vero che i cittadini di tutto il mondo invidiano le nostre garanzie di assistenza pubblica.

Garanzie che pur con grandi differenze regionali di qualità e con le inevitabile carenze episodiche, offrono cure adeguate e sostanzialmente gratuite a milioni di italiani.

Il problema, perciò, è quello non solo di preservare i vantaggi di questo sistema, ma di adattarlo ai tempi, correggerne i difetti, uniformare su tutto il territorio nazionale gli standard di efficienza per permetterne la sostenibilità finanziaria nei prossimi decenni. In momenti di crisi della spesa pubblica come quelli attuali, infatti, il livello del nostro welfare sanitario può sembrare un lusso che non ci possiamo più permettere. E’, invece, miope considerarlo solo un costo, perché toglie al cittadino quella paura del futuro che costituisce uno dei più grandi freni allo sviluppo di un Paese. La sicurezza di essere curati adeguatamente, anche nel caso della perdita del lavoro, di una improvvisa emergenza sanitaria che metta a rischio il bilancio familiare rappresenta un importante fattore di coesione sociale e di stimolo al coraggio di investire, di impiegare i propri risparmi nel ciclo produttivo. Ecco perché è proprio nei momenti di difficoltà economica di una nazione che un welfare sanitario efficiente è una importante risorsa, non solo un costo.

Se questo dev’essere l’obbiettivo del nostro Stato in questo settore, occorre riconoscere che il «decretone Balduzzi» individua, con correttezza, i tre principali problemi della sanità pubblica, come si è sviluppata in Italia negli ultimi decenni. Il primo, quello più evidente, è la crescita abnorme della spesa. I bilanci delle Regioni sono occupati, per più dell’ottanta per cento in molti casi, dal finanziamento agli ospedali e, in genere, alle strutture dell’assistenza sanitaria. Con un rapporto, peraltro, prevalentemente inverso tra la spesa e la qualità del servizio. Una osservazione da non trascurare per smentire i tanti luoghi comuni che molti amministratori invocano come alibi alle loro incapacità.

Il secondo importante difetto del nostro welfare sanitario è, tra l’altro, causa principale del primo, con l’aggravante che ricade direttamente sulle spalle degli utenti: la scarsa opera di filtro e di prevenzione costituita dal sistema dei medici di famiglia. Non per colpa loro, perché il loro impegno e la loro preparazione professionale sono, nella maggioranza dei casi, abbastanza adeguati, ma proprio perché gli orari ridotti, le lunghe file negli ambulatori, il sovraccarico della burocrazia finiscono per scaricare sui «pronti soccorso» degli ospedali una quantità di malati, o di presunti tali, da elevare insopportabilmente sia i costi dell’assistenza, sia le inefficienze del servizio. Il ricorso, poi, a indagini diagnostiche «a tappeto», con una moltiplicazione delle spese per lo Stato, viene indotto da quella medicina cosiddetta «difensiva» adottata ormai diffusamente, per paura di un contenzioso legale con i pazienti, logorante sul piano finanziario e umiliante su quello professionale e morale.

L’ultimo principale problema è quello dell’invadenza partitica nella sanità pubblica. Proprio l’elevato livello della spesa ha fatto diventare il sistema uno dei principali centri di potere, di corruzione, di clientelismo politico presenti sul territorio nazionale. Così, è notorio che l’appartenenza a un partito o a una corrente di partito, spesso, prevale sui meriti professionali nelle carriere dei medici. Con ricadute gravi sulla buona organizzazione dei reparti e, magari, sulla salute dei pazienti.

Il «decretone Balduzzi» cerca di affrontare questi mali con una terapia molto meno rivoluzionaria di quanto appaia, poiché, in parte, ricalca leggi e norme già approvate e, quasi mai, applicate. La disposizione che ha fatto più notizia, quella sull’apertura continua degli studi dei medici di famiglia, nei pochissimi casi in cui è già stata sperimentata, dimostra non solo la fattibilità operativa, ma che il solito lamento delle Regioni sulla necessità di maggiori finanziamenti è ingiustificato. Si tratta di un accorpamento delle guardie mediche con gli ambulatori che richiede uno sforzo di buona volontà e di razionalizzazione, sia delle risorse, sia del personale, certamente non impossibile.

La questione vera è un’altra e più generale: in Italia, ormai, qualsiasi riforma, buona o cattiva che sia, rischia l’inapplicabilità. Perché le resistenze degli interessi, effettivamente o presuntivamente colpiti, delle corporazioni, dei privilegi e, persino, delle abitudini e dei vizi sono talmente forti da bloccare, ritardare, vanificare ogni innovazione. Perché siamo un Paese non solo di rivoluzionari «marxisti immaginari», come scriveva, in anni sessantottini, Vittoria Ronchey, ma di riformisti altrettanto immaginari.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10498
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« Risposta #128 inserito:: Settembre 20, 2012, 04:57:12 pm »

20/9/2012

Cacciatori di poltrone e bella vita

LUIGI LA SPINA

C’è una lettura politica immediata: lo scandalo alla Regione Lazio non sta devastando solo la destra romana, ma rischia di essere il detonatore di quella spaccatura nel Pdl nazionale che, ormai da qualche mese, è sempre più evidente. Tra il gruppo degli ex An e quello degli ex Forza Italia, il collante di Berlusconi non basta più, perché non assicura più l’unica condizione che lo sigillava, la probabilità della vittoria. Ma le convulsioni della giunta Polverini, in una agonia che trascina la sua fine oltre la decenza, dopo i casi Lusi, Penati, Lombardo, Formigoni suggeriscono una riflessione più profonda e qualche domanda inquietante.

Gli interrogativi sono almeno due. Che razza di classe politica e amministrativa è stata allevata in Italia negli ultimi anni? Con quali metodi di formazione è stata coltivata e con quali criteri si è selezionata la carriera dirigente? E, poi, lo spettacolo di sfascio democratico, civile e morale, con punte di squallida farsa, come quelle testimoniate dalle foto durante le feste nel costume di una pseudo Roma antica, non segnala anche la fine di un’illusione?

Quella delle virtù del potere diffuso sul territorio, meno esposto alle tentazioni perché più prossimo e, quindi, più controllabile da parte del cittadino. Una illusione e pure una speranza, alla base di quei consensi popolari che, negli ultimi tempi, hanno fatto crescere l’idea federalista in Italia. Ma anche l’alibi dietro il quale un famelico assalto alla diligenza è dilagato tra pletorici Consigli regionali, provinciali, comunali, di quartiere, tra migliaia di poltrone dove all’ideale democratico della partecipazione si è sostituito il costume criminogeno della spartizione.

La risposta alla prima domanda è facile, basta guardare alla realtà dei partiti italiani, così come si è modificata negli ultimi decenni. Finita la forte motivazione ideologica che divideva gli animi, ma che accendeva la passione di un impegno che pensava di poter cambiare se non il mondo, almeno l’Italia, l’ingresso in un partito non è più una scelta di vita, ma l’opportunità di acchiappare un tenore di vita. La conferma dell’obiettivo viene data, poi, dalla selezione delle carriere, perché chi avesse altre intenzioni viene subito emarginato e, infine, costretto all’abbandono o a ricoprire ruoli marginali. Criteri di promozione che sono necessitati, peraltro, dalla mutata natura della lotta politica: dallo scontro tra correnti ideologiche alle rivalità tipiche dei «partiti personali». Un modello di organizzazione che, dall’alto, si è ormai propagato nelle realtà periferiche, anche le più piccole. Con la ovvia conseguenza che la fedeltà è più utile della capacità, l’obbedienza fa premio sull’indipendenza.

Come in tutte le società, anche in quella politica, il peggioramento della classe dirigente diviene, a un certo punto, talmente insopportabile e manifesto che il sistema non regge più e l’attuale situazione sembra potersi configurare sul crinale di questa drammatica svolta. Come fu all’epoca di «Mani pulite», quando il meccanismo della diffusa pratica di «dazione ambientale» si spezzò clamorosamente e tutto in una volta, così, adesso, la corruzione e il malcostume della classe politica locale pare annunciare una vera e propria crisi della democrazia italiana.

La necessità di un profondo rinnovamento della classe politica, nazionale e locale, non può che partire là dove il male si è annidato e ha prosperato: la vita dei partiti. Se la democrazia non si riesce a concepire senza i partiti, questi partiti non sono concepibili in una democrazia. Sono necessari statuti rigorosi, controlli di autorità esterne, regole di finanziamento trasparenti, ma, e soprattutto, una modifica profonda e radicale dei criteri di formazione e di selezione delle carriere.

Lo spettacolo che, dalla Sicilia alla Lombardia, passando per la capitale, sta squadernandosi sotto gli occhi degli italiani, però, dovrebbe limitare anche gli entusiasmi, come si è detto, per certi dogmatismi federalistici troppo sbandierati, in buona o cattiva fede. La moltiplicazione dei poteri e la loro diffusione sul territorio, di per sé, non è una garanzia democratica. Può diventare anche la moltiplicazione e la diffusione di ruberie, sprechi, alimento di corruzioni spicciole e grandi. Perché in politica, non ci sono buone ricette, se non sono preparate da un bravo cuoco.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10549
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« Risposta #129 inserito:: Settembre 26, 2012, 02:27:16 pm »

26/9/2012

Non sprechiamo i sacrifici degli italiani

LUIGI LA SPINA

I tre presidenti italiani di maggior prestigio internazionale, quello della Repubblica, Giorgio Napolitano, quello del Consiglio, Mario Monti e quello della Banca europea, Mario Draghi, condividono, in questi giorni, la stessa forte preoccupazione per il nostro Paese. Il timore che, dopo la cospicua riduzione del divario di interessi tra i bond italiani e quelli tedeschi e il varo deciso a Francoforte dello scudo antispread, in Italia, ci si possa illudere su un definitivo superamento della crisi finanziaria dello Stato. Una eventualità che non è totalmente scomparsa, invece, sull’orizzonte del nostro futuro. Così, tra l’altro, si spiegano i tre contemporanei allarmi che, da Roma, da New York e da Berlino, oggi, hanno lanciato i tre presidenti.

Napolitano ha espresso una condanna durissima per i vergognosi esempi di corruzione e di immoralità pubblica che alimentano, con la giustificata indignazione dei cittadini, la cosiddetta «antipolitica». Monti, sia pure con il suo tipico linguaggio sobrio e allusivo, ha sollecitato l’aiuto dell’opinione pubblica perché esiga una diversa «qualità» dei loro governanti.

Draghi ha ricordato che, senza l’impegno concreto e persistente al risanamento e alla riforme delle classi politiche nazionali, non sarà sufficiente l’opera della Bce per salvare sia l’unità dell’Europa, sia la sorte dell’euro.

Le diverse responsabilità istituzionali, certamente, hanno indotto i tre presidenti a manifestare la loro apprensione con forme differenti, ma il fondamento dei timori è identico: il rischio che l’Italia, dopo aver faticosamente risalito la china della credibilità internazionale, dopo aver recuperato la stessa dignità della sua immagine sul palcoscenico del mondo, dopo aver di nuovo riscosso la fiducia sulla serietà dei suoi impegni, possa ripiombare nel discredito e nel disprezzo dei suoi partner continentali e d’oltreoceano.

Si coglie con evidenza, in questi giorni, l’amarezza e, persino, un certo disorientamento di Monti e dei ministri del suo governo. Come se lo scandalo della Regione Lazio, con i terribili danni mediatici di quelle squallide foto di festini, col contorno di maschere umane e suine, avesse reso, di colpo, vani tutti gli sforzi che, da mesi, si stanno facendo, in tutte le sedi del potere internazionale, per convincere i nostri interlocutori che l’Italia ha compiuto una svolta definitiva, irreversibile e profonda nei suoi comportamenti pubblici. Come se tutti i dubbi sul «dopo Monti», l’interrogativo che all’estero pongono con trepidazione al presidente del Consiglio, avessero avuto una risposta improvvisa ed eloquente. Come se il futuro italiano si fosse svelato ai loro occhi, dietro quelle maschere ridanciane e spudorate, diffuse, con malizioso compiacimento, sui giornali, le tv e gli schermi di Internet in tutto il mondo.

A quasi un anno dall’inizio della durissima prova a cui è stato sottoposto il nostro Paese, si è ormai capito che l’immagine dell’Italia, la percezione che in Europa si ha del nostro paese e dei nostri governanti, condizioni pesantemente sia i mercati finanziari, sia le istituzioni europee. E’ quell’immagine che rende credibili gli impegni di risanamento dei nostri conti pubblici. Quell’immagine fa sperare che le riforme approvate o solo annunciate abbiano veramente effetti concreti sull’economia italiana. Quell’immagine garantisce che anche le parti sociali abbiano compreso l’esigenza di rinunciare alle difese corporative e accettino di cambiare passo, per salvare il futuro dei giovani, le vere vittime di anni di dissipazione pubblica e di egoismo privato.

Le preoccupazioni di Monti e del suo grande «lord protettore», Giorgio Napolitano, sono condivise anche dal presidente della Bce, il quale le inserisce pure in un quadro europeo che mostra sintomi di inquietante allentamento degli impegni promessi. Draghi nota le titubanze e gli affannosi negoziati del premier spagnolo, Mariano Rajoy, soprattutto con la Merkel, per evitare di chiedere quegli aiuti all’Europa che lo costringerebbero a imporre ai suoi connazionali una medicina ben più amara di quella che già stanno sorbendo. Ma ha accolto, con allarme, pure le sparate propagandistiche di Berlusconi sull’abolizione dell’Imu, in caso di una nuova vittoria elettorale del centrodestra italiano. Un segnale di come l’imminenza della campagna elettorale nel nostro paese possa spezzare il precario accordo della «strana maggioranza» che sostiene Monti sulla necessità di non abbandonare la strada del rigore finanziario.

I timori dei tre presidenti sono fondati sull’esperienza di chi sa come la fiducia si conquisti con molta fatica e la si perda con molta facilità. I sacrifici che in questi mesi stanno facendo gli italiani non meritano di essere sprecati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10570
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« Risposta #130 inserito:: Ottobre 31, 2012, 05:56:33 pm »

Editoriali
31/10/2012


Se la morale si salda alla politica

Luigi La Spina

I risultati delle elezioni siciliane, così sorprendenti e significativi, hanno suscitato reazioni ancor più spassose e stimolanti del solito. Per limitarci ai principali politici nazionali, Bersani, leader di un partito che ha visto calare i suoi consensi, si è accontentato della vittoria di Crocetta, pur senza una maggioranza, per evocare addirittura la storia. Alfano, di fronte al collasso del Pdl, ha sfidato l’insondabile parlando di un esito «straordinariamente positivo».

 

I politologi, poi, hanno giustamente cercato di proiettare il verdetto siciliano sul prossimo voto nazionale, con tutte le variabili del caso, a cominciare dalle legge elettorale. Sia i commenti un po’ grotteschi dei protagonisti della nostra scena pubblica, sia le considerazioni molto interessanti degli esperti, però, hanno trascurato un aspetto che si potrebbe definire «pre-politico». Un aspetto che, invece, è stato subito colto dal nostro presidente del Consiglio. 

 

Monti, infatti, con la consueta finta ingenuità del tecnico, ha osservato che il suo governo, pur «maledetto» per i sacrifici che ha imposto ai cittadini, è, comunque, «più gradito dei partiti».

 

Il premier, dimostrando una sensibilità politica ben più acuta dei professionisti della categoria, ha capito che gli italiani condizionano il loro voto, o il loro non voto, soprattutto alla disponibilità concreta, immediata e in proporzione rilevante, da parte della classe politica tradizionale, alla condivisione di quei tagli al tenore di vita che tutti i cittadini stanno compiendo in questi mesi. Un giudizio che antepone alla valutazione dei programmi, alle promesse dei leader, persino al profilo individuale dei candidati, la dimostrazione di aver compiuto atti rilevanti che manifestino, indubitabilmente, la volontà di non sottrarsi al comune destino dei sacrifici.

 

Se si va a cercare nel profondo legame comune che unisce le astensioni, i voti al movimento di Grillo, le deludenti percentuali attribuite a un po’ tutti partiti della cosiddetta seconda Repubblica, si troverà l’esigenza di sanare quella divisione tra morale e politica che è il fondamento della scienza della società pubblica, a partire da Machiavelli. In una accezione, però, in cui l’etica sfugge al tradizionale moralismo qualunquistico, magari un po’ ipocrita e bigotto, per esigere la testimonianza indispensabile di una legittimità davvero tutta politica: quella che permette all’eletto di avere la dignità di rappresentare il suo elettore. Perché ne condivide gli interessi più forti e i sentimenti primari.

 

Ecco il perché di quella apparente contraddizione che, con sottile perfidia intellettuale, Monti ha ieri rivelato. Gli italiani, pur protestando in piazza e mugugnando in famiglia e con gli amici, comprendono la necessità di rinunce, anche molto dolorose, alle abitudini di vita alle quali, da decenni, si erano concessi. Ma non sopportano il protervo rifiuto della cosiddetta «casta» politica a tagliare drasticamente stipendi, rimborsi, privilegi. Insomma, ad adeguarsi alla media delle condizioni di esistenza dei cittadini comuni.

 

Il successo del «Movimento cinque stelle» non sta, in maniera prevalente, nelle sparate demagogiche di Grillo, nell’auspicato e insensato ritorno alla lira, nello spregiudicato sfruttamento dei risentimenti anti-tedeschi e anti-europei. Ma nella speranza che «uomini nuovi» mettano in pratica, davvero, le intenzioni espresse, subito dopo il voto, da una giovane eletta al Consiglio regionale siciliano: «La prima cosa? Lo sanno tutti: ci ridurremo lo stipendio a 2 mila e 500 euro netti, contro i 16 mila e persino i 21 mila che si attribuiscono gli altri».

E’ troppo spudorato e inaccettabile, ormai, il divario tra le promesse della classe politica e la realtà dei fatti compiuti: il dimezzamento dei senatori e deputati non è mai stato varato, le riduzioni di stipendi e vitalizi, quando sono state approvate, sono state caricate sugli eletti delle prossime legislature, il livello delle retribuzioni per un servizio che si deve alla comunità mette i rappresentanti del popolo in una condizione di privilegio sociale che né le competenze professionali, né quelle culturali e intellettuali possono, nella media, giustificare.

 

Se non si ha la sensibilità, veramente tutta politica, di capire l’esigenza di questa precondizione morale alla rappresentanza dei cittadini, è abbastanza inutile discettare sul proporzionale o sul maggioritario, dividersi tra liberisti e solidaristi, escogitare alleanze elettorali effimere e improduttive e, persino, scegliere candidati più o meno seduttivi. Monti, trasformando il sarcasmo sulla sua sobrietà, sul suo eloquio vagamente soporifero, ma all’occasione urticante, sulla sua non mascherata punta di saccenza accademica in uno stile di governo, ha compreso, più di tanti politici, il sentimento prevalente degli italiani. Chissà che quello stile non gli serva ancora.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/31/cultura/opinioni/editoriali/se-la-morale-si-salda-alla-politica-OUCuZgBgbdFk27YyRnQVWI/pagina.html
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« Risposta #131 inserito:: Novembre 14, 2012, 05:29:51 pm »

Editoriali
14/11/2012 - la legge elettorale

La governabilità si conquista non è un diritto

Luigi La Spina


A proposito della legge elettorale, si potrebbe contraddire la fiduciosa previsione di Obama dopo la sua vittoria alle presidenziali Usa, perchè sembra proprio che «il peggio debba ancora venire». A furia di compromessi tra i partiti, fatti solo sulla base dei pronostici elettorali per l’imminente voto della prossima primavera, si potrebbe arrivare al varo di regole elettorali non solo senza alcuna coerenza politica e costituzionale, ma talmente cervellotiche da non rispondere nemmeno a una delle due fondamentali esigenze: il rispetto della volontà dei cittadini e la governabilità del Paese. 

 

Per capire come sia possibile temere persino che la nuova legge sia peggiorativa del famigerato «porcellum», forse è utile un breve riassunto delle puntate precedenti.

 

Cominciamo proprio dall’inizio della nostra storia repubblicana. 

 

I partiti nati nel dopoguerra, forti di una fresca legittimazione democratica, animati da ideologie, magari contrastanti, ma profondamente radicate negli animi dei loro adepti, pronti a rivendicare l’ampio consenso elettorale complessivamente a loro attribuito dal popolo italiano, decidono per un sistema perfettamente proporzionale. Soddisfano, perciò, la prima condizione, quella della assoluta rappresentatività del Parlamento rispetto agli umori popolari, poiché è inutile preoccuparsi della seconda. La governabilità è assicurata, infatti, non dal sistema elettorale, ma da quella divisione del mondo tra comunismo e democrazie che garantisce all’Italia, nei fatti, un sostanziale bipolarismo. 

 

La caduta del Muro di Berlino e la quasi contemporanea caduta dei partiti firmatari della nostra Costituzione impone, da questo punto di vista, un cambiamento radicale. Così, l’alternanza al governo, divenuta possibile, si fonda su due schieramenti cementati da un mascherato presidenzialismo. Gli italiani votano, nei fatti, per scegliere un premier, in contrasto sostanziale con la Costituzione. I cittadini, a cominciare dalla riforma battezzata «mattarellum», vengono, via via, espropriati delle preferenze e gli eletti al Parlamento sono scelti dai segretari dei due schieramenti. Il potere, una volta tutto concentrato nei partiti e nell’esito delle lotte tra correnti, si trasferisce sulle figure carismatiche dei leader. Un mutamento che diventa evidente quando sui simboli delle forze politiche prevalgono i nomi dei loro capi. Il fenomeno che viene efficacemente definito come il sistema dei «partiti personali». La legge elettorale elaborata da Calderoli, a questo punto, è la coerente e necessaria condizione perché si applichi questa metamorfosi della nostra Repubblica.

 

La terza tappa di questa storia arriva adesso. I partiti, a cominciare da quelli più caratterizzati dai loro leader, vengono travolti dalla disaffezione e, persino, dal disprezzo generalizzato della gran parte degli italiani. Ecco perché, invece di cercare una rilegittimazione del loro ruolo e di riacquistare la fiducia dei loro elettori, meglio ex elettori, cercano, con una nuova legge elettorale, di garantirsi o la vittoria o, almeno, di impedire la vittoria degli avversari. E, comunque, di evitare che il discredito degli italiani nei loro confronti favorisca quel populismo demagogico da loro, per anni, alimentato.

 

Il vergognoso ritardo con il quale ci si appresta a cambiare il «porcellum» fa sì che la nuova legge elettorale non nasca dalla preoccupazione di garantire un sistema coerente di regole che assicuri quella governabilità voluta dalla maggioranza degli italiani. L’ottica è solamente quella della convenienza partitica, fondata sui più recenti sondaggi per le prossime elezioni. Una volontà, bisogna darne atto, neanche coperta dalla minima ipocrisia, ma confessata spudoratamente da tutti.

 

In virtù di questa necessità si compiono le acrobazie dialettiche più incredibili. Il Pd è passato dalla «vocazione maggioritaria», di veltroniana memoria, alla «pretesa maggioritaria», rivendicata da Bersani, attraverso un consistente premio di parlamentari al prevedibile piccolo vincitore del voto di aprile. Il Pdl, dopo aver sprecato in questa legislatura quel robusto premio di maggioranza assicurato dal «porcellum», trova ora distorsivo della volontà popolare questo meccanismo di governabilità. Le preferenze, prima demonizzate dal referendum promosso da Segni come simbolo di ogni malaffare, vengono ora riscoperte, come trasparenti mezzi di espressione politica dei cittadini. Il migliore sistema elettorale possibile, inutilmente consigliato da quasi tutti i politologi, quello fondato sul doppio turno in collegi uninominali, non viene neanche preso in considerazione.

 

A questo punto, la disperazione suggerirebbe persino di auspicare che rimanga in vigore l’orrendo «porcellum», in modo da consentire che, nella prossima legislatura, non più sotto la necessità di guardare a convenienze immediate, prevalga un minimo di ragionevolezza politica e di rispetto per le istituzioni democratiche. Bisognerebbe, però, resistere a questa tentazione e ricordare ai partiti che la rappresentatività dei voleri popolari non si conquista con le regole elettorali quando, come è capitato in Sicilia, la maggioranza degli aventi diritto non va a votare. E che la governabilità non viene garantita dai premi di maggioranza, ma dalla capacità di offrire agli italiani un programma serio e credibile, avanzato da una classe politica rinnovata e altrettanto seria e credibile. Insomma, per governare non basta una legge, bisogna dimostrare di saperlo fare.

da - http://lastampa.it/2012/11/14/cultura/opinioni/editoriali/la-governabilita-si-conquista-non-e-un-diritto-QeSXAKFdF3ZdRBpTX6oQ5O/pagina.html
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« Risposta #132 inserito:: Novembre 27, 2012, 05:31:02 pm »

Editoriali
27/11/2012

Figuraccia parlamentare

Luigi La Spina

Quale male peggiore? E’ davvero imbarazzante e alquanto penoso dover stabilire se sia meglio l’affossamento di una pessima legge sulla diffamazione o la permanenza dell’attuale. 

 

che prevede, sia pure in casi estremi e rarissimamente applicati, il carcere per i giornalisti. Ma è, soprattutto, amaro dover constatare come questo Parlamento confermi la sua incapacità ad affrontare, con adeguata consapevolezza culturale e serietà politica, questioni certo delicate, ma sicuramente risolvibili, se ci fosse la volontà di trovare una soluzione equilibrata. Per di più, il voto al Senato di ieri mette la firma a un’autocertificazione beffarda per una legislatura costellata da leggi ad personam, poichè dimostra come sia arrivata al punto di non saper più neanche praticare con successo quella discutibile “specializzazione”. 

 

Sono tanti e tutti abbastanza meschini i motivi di questa nuova figuraccia parlamentare. Già il punto di partenza non era promettente: la fretta di risolvere il “caso Sallusti”, un viatico poco rassicurante per sperare non solo in una legge che sanasse una vicenda specifica ed eccezionale, ma tale da contemperare la tutela dell’onorabilità della persona e della verità dei fatti con il diritto, ma anche il dovere, dei giornalisti di informare, in piena libertà, l’opinione pubblica. Condizione essenziale non del privilegio corporativo di una categoria, ma dell’esistenza stessa di una democrazia. La quale si fonda, appunto, sulla possibilità che i cittadini siano messi in condizione di giudicare i propri rappresentanti al potere.

 

Il vizio iniziale dell’iter legislativo di questo provvedimento ne procurava altri, persino peggiori: il risentimento esplicitamente vendicativo della classe politica contro il mondo dell’informazione; l’arretratezza culturale di chi non capisce che, ormai, il pluralismo dei mezzi comunicativi e la loro specificità tecnologica richiederebbe un approccio al problema della diffamazione ben più consapevole della straordinaria e molto complessa evoluzione avvenuta in questi anni nel settore; infine, lo sbandamento parlamentare davvero impressionante del Pdl, tra odi politici e rivalità personali nei confronti di Sallusti, dei suoi amici e delle sue amiche, del capogruppo al Senato, Gasparri, e, persino, nei confronti di chi si appresta a partecipare all’ultima,(forse), metamorfosi partitica di Berlusconi.

 

La fine ingloriosa di questa riforma della legge sulla diffamazione potrebbe aiutare i nostri legislatori a una benefica pausa di riflessione, tale da stemperare le animosità e da far ripartire l’esame del problema su basi conoscitive più adeguate ai tempi. Ma un contributo a un clima migliore potrebbe venire anche dai giornalisti, dagli editori e dalle loro rappresentanze. Forse sarebbe ora di riconoscere che, da qualche parte del mondo dell’informazione, si sono praticate certe abitudini, giustificazioniste e corporative, non più tollerabili. A partire da coloro che, disinvoltamente, gridano al reato d’opinione, quando si tratta di diffamazione bella e buona o da coloro che si appellano al diritto di critica quando, per colpire chi milita nel campo avverso, si raccontano pure falsità e si arriva a manipolare le prove di una accusa. Ma bisogna evitare anche quella corrività supponente che ignora il diritto alla replica, quando sia doverosa, o abusa dell’opportuna controreplica del giornalista sui fatti contestati, per risposte evasive o, addirittura, sprezzanti e offensive.

 

Queste “abitudini”, chiamiamole così, hanno un effetto controproducente, perchè alimentano un’altra grave “abitudine”, quella di promuovere procedimenti civili e penali contro giornalisti ed editori del tutto senza fondamento, nella speranza di firmare, comunque, una transazione prima della sentenza che arrechi un qualche vantaggio economico al querelante. Cause tecnicamente definite “temerarie”, ma che hanno sempre un intento intimidatorio, tale da incidere nei comportamenti degli operatori dell’informazione. Perchè limitano la loro libertà di indagine e la loro libertà di critica, inducendoli a conformismo, acquiescenza nei confronti del potere, di qualunque specie, subordinazione agli interessi di chi, magari, è in grado, senza pagare pegno per richieste infondate, di minacciare risarcimenti milionari.

 

C’è materia, come è evidente, sia per non varare norme, sbagliate nel merito e vendicative nelle intenzioni, come quelle che fortunatamente sono cadute ieri al Senato; sia per non rassegnarsi a conservare l’attuale legge che si presta, come si è visto nel caso Sallusti, a sanzioni così assurde da costringere o all’inapplicabilità o a scappatoie penose e, persino, vagamente ridicole. Ma è ora che sul palcoscenico di questo Parlamento, esauriti i compiti d’obbligo, cali una provvidenziale tela.

da - http://lastampa.it/2012/11/27/cultura/opinioni/editoriali/figuraccia-parlamentare-nuCGzDzpby01bHrdzYMJlI/pagina.html
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« Risposta #133 inserito:: Dicembre 06, 2012, 04:43:32 pm »

Editoriali
06/12/2012

Il Paese della destra impossibile

Luigi La Spina


Dalla nascita della Repubblica italiana non l’abbiamo mai avuta. Prima, e per quasi 50 anni, la democrazia cristiana ha occupato il suo spazio, ma rifiutando, quasi con sdegno, il suo nome. Poi, quello spazio l’ha usurpato Berlusconi, ma rifiutando, anche lui, di interpretare quella politica. Ora, ci sarebbe la grande occasione per assistere, finalmente, alla nascita della destra italiana. Purtroppo, è molto probabile che, anche questa volta, il nostro Paese non riesca a diventare una normale democrazia moderna e occidentale. 

 

Eppure, le condizioni adesso sembrano molto favorevoli.

 

A sinistra, si è consolidato in Italia un partito democratico che pare aver superato l’anomalia tardo-novecentesca della sommatoria di due ex burocrazie, quella comunista e quella della sinistra dc. Una maturazione che smentisce le tante profezie sull’inarrestabile destino fallimentare della creatura patrocinata da Prodi e che si deve non solo all’audacia giovanilistica di Renzi, ma anche alla sorniona abilità tattica di Bersani.

 

Sull’altro versante dello schieramento politico, le convulsioni amletiche di Berlusconi potrebbero trasformare un partito personale di massa in una guardia personale di pseudo-amazzoni e di pseudo-dannunziani. Si susseguono, a Palazzo Grazioli i vertici come quello di ieri. Ma l’impressione è che anche se Berlusconi decidesse alla fine di candidarsi, il declino dell’uomo e del Pdl sarebbe inevitabile.

 

Il centro, tanto evocato e tanto evanescente, si dibatte tra rivalità incomprensibili e meschini calcoli di potere. Mescola a vuoto buone intenzioni con astratti disegni e consuma attese ormai insopportabili. La Chiesa italiana, infine, che ha sempre esercitato una sotterranea opera di interdizione per la nascita di una destra «normale» anche nel nostro Paese, sembra, col passaggio tra Ruini e Bagnasco, aver rinunciato a quella funzione di supplenza, che ha reso, in passato, quella parte del campo politico di ispirazione cattolica, gregaria, minoritaria e sostanzialmente inutile.

 

Perché, allora, sono così flebili le speranze che il grande vuoto che si è drammaticamente aperto di fronte al partito democratico possa essere riempito da una formazione politica che si modelli come la destra conservatrice britannica, quella post-gollista francese o quella popolare della Germania di Angela Merkel e della Spagna di Mariano Rajoy? Perché il liberismo economico fatica persino ad essere praticato dai tecnici del bocconiano Monti, le liberalizzazioni e le privatizzazioni devono essere rivendicate con orgoglio dal socialdemocratico Bersani, l’appello alla legge e all’ordine sia paradossalmente monopolio della sinistra giustizialista?

 

Il motivo è semplice: proprio perché la destra, negli oltre 60 anni della storia repubblicana, non ha mai avuto, né una presenza politica, né una presenza culturale e sociale di un certo rilievo. Ridotta a manipoli di reduci ex fascisti e velleitari evoliani, costretta a nascondersi tra i nostalgici e ultraminoritari circoli conservatori, assente in una cultura universitaria e letteraria egemonizzata dalla sinistra, poteva nascere dal collasso democristiano. Ma l’arrivo del partito-azienda berlusconiano l’ha, per altri vent’anni, costretta all’aborto.

 

L’illusione di uno sparuto gruppo di intellettuali vaganti, delusi dal comunismo, come Colletti, Melograni, Vertone, si scontrò quasi subito con l’amarezza di chi aveva voluto chiudere gli occhi, pur di coltivare il sogno di una destra europea. Altri intellettuali, di matrice liberale, come Urbani, Martino, Rebuffa tentarono, con maggior pazienza, di contaminare il partito di Berlusconi con le loro idee, ma, prima o poi, furono costretti a emarginarsi o essere emarginati.

 

Dopo due decenni, le circostanze sembrano, adesso, ancor più promettenti per assistere al parto di una destra il cui travaglio dura dagli albori della Repubblica. Ma il pessimismo nasce da una domanda: può nascere un vero partito di destra in Italia senza una cultura di destra, senza una borghesia liberale e legalitaria, senza una classe dirigente selezionata meritocraticamente e non cooptata per fedeltà e conformismo? Forse dovremo aspettare altri 60 anni.

da - http://lastampa.it/2012/12/06/cultura/opinioni/editoriali/il-paese-della-destra-impossibile-UMwzlEcANuaGeCYL9XN2tL/pagina.html
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« Risposta #134 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:36:08 pm »

Editoriali
12/12/2012

Quel salto dai poteri forti alla protesta

Luigi La Spina

C’è un uomo, in Italia, che segue, con assoluta coerenza, la fondamentale lezione di Carlo Marx. Questo uomo è Berlusconi. Da quando è entrato in politica, da quasi vent’anni, pensa che le ideologie, le sovrastrutture, siano solo strumenti dello scontro di interessi e che, per raccogliere voti, occorra individuare, con la massima rapidità e spregiudicatezza, i cambiamenti sociali che alimentano la protesta. 

 

Così, ha scelto, con perfetto tempismo, il momento più opportuno per lanciare la sesta discesa in campo nel nome della sua antica battaglia, quella del ‘94, contro l’establishment, la struttura dirigente nazionale ed europea. 

 

Non devono stupire, perciò, le sue tante contraddizioni: quella di aver stipulato lui, con l’Europa, appena l’anno scorso, un patto di repentino e azzardato rientro del debito; quella di aver fatto votare al suo partito tutte le misure proposte da Monti e, infine, per citare solo quella più clamorosa, la promessa di ritirarsi come «padre nobile» di un centrodestra rinnovato. Berlusconi ha capito di aver perso definitivamente la credibilità sull’immagine che aveva cercato di costruirsi nella legislatura che sta per concludersi, cioè quella dell’uomo di Stato, liberista in economia e moderato in politica, perfetto interprete italiano della linea sostenuta in Europa dal partito popolare europeo. Una linea, peraltro, nel nostro Paese, «usurpata», con ben maggiore autorevolezza internazionale, proprio da un leader tecnico e pragmatico come Mario Monti.

 

Sintomo di questa sottrazione di una parte importante del bacino elettorale del Cavaliere è lo sfaldarsi, proprio in contrapposizione con l’attuale premier, dell’appoggio di due pezzi tradizionali e fondamentali di quella che è stata la sua «costituente» in questi due decenni, la Chiesa e l’imprenditoria italiana. Le reazioni alla mossa di provocare la crisi di governo, insolitamente dure e senza troppe ipocrisie formali, di vescovi abituati alle più sottili prudenze episcopali come quella del loro capo, Angelo Bagnasco o di industriali ex simpatizzanti, come il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, sono state la conferma di un distacco definitivo che Berlusconi, da abile uomo di marketing, aveva compreso da tempo come fosse ormai irrecuperabile.

 

Ecco perché la sua strategia politica è cambiata, apparentemente all’improvviso. Perduto il sostegno dei moderati, del ceto medio borghese, del mondo dell’imprenditoria, della finanza e, persino, dell’alto clero, Berlusconi è stato costretto a rivolgersi, nel frattempo, là dove montava più forte il disagio e la protesta. Ossia nei ceti popolari, trasversalmente divisi tra l’astensionismo, la ribellione grillina e anche la rabbia di una certa sinistra insofferente a Monti e alla sue riforme rigoriste. Così è stato riscoperto il vecchio linguaggio dell’esordio politico berlusconiano, quello anti-sistema, contro i cosiddetti «poteri forti», aggiornato all’ultima vulgata popolar-demagogica, quella contro la Germania e l’Europa egemonizzata dalla Merkel. Con la conclusione (per ora) linguisticamente più efficace, lo slogan contro «lo spread», simbolo dell’incomprensibile spauracchio che incomberebbe sulla testa e nelle tasche degli italiani.

 

La linea che impronta la campagna elettorale di Berlusconi è perfettamente adeguata allo scopo che si prefigge il Cavaliere: non quello di vincere la battaglia per la futura presidenza del Consiglio, ma quella di ottenere un consistente gruppo di fedelissimi in Parlamento, scudo personale delle sue aziende e dei suoi problemi processuali. E’ chiaro, infatti, che una tale posizione antieuropeista e antitedesca sarebbe improponibile se dovesse avere come obiettivo la leadership di un governo italiano, pena catastrofiche conseguenze sulle nostre finanze e sulla nostra presenza internazionale. Le parole della Merkel, del ministro Westerwelle e, soprattutto, della dirigenza del partito popolare europeo sono, a questo proposito, inequivocabili. Fanno capire, tra l’altro, come neanche l’ipocrisia diplomatica riesca a celare la convinzione, tra i nostri partner europei, che nel 2013 non si troveranno davanti, a Bruxelles, di nuovo Berlusconi a capo della delegazione governativa italiana. 

 

Del tutto compatibile, invece, con un’opposizione senza particolari responsabilità, sarebbe la polemica contro l’Europa e, perfino, quella contro lo spread e contro l’euro, condita dal definitivo abbassamento della bandiera liberale, in favore di un protezionismo nazionalistico che resusciti, almeno nei sogni, la lira e quelle svalutazioni della moneta che erano tanto preziose per esportare i nostri prodotti.

 

Alla spregiudicata strategia filosofica «marxiana» si aggiunge, in Berlusconi, l’intuito tattico dell’uomo di comunicazione. Così, la sconfitta di Renzi alle primarie pd, l’alleanza in lista della coppia Bersani-Vendola, la necessità, da parte di Maroni, di un accordo col Pdl per sperare in una vittoria in Lombardia, l’opportunità di anticipare il travagliato parto del nuovo «centro» politico, e infine, ma non da ultimo, la scadenza del pagamento dell’Imu hanno dettato i tempi della sua sesta discesa in campo con cronometrica precisione. A questo punto, l’unica incognita che potrebbe alterare il piano berlusconiano potrebbe essere un secondo contropiede di Monti, dopo l’annuncio delle sue prossime dimissioni: quello di una sua disponibilità al sostegno di una lista. Per saperlo, bisognerà aspettare la vigilia di Natale. Per Berlusconi (e per Bersani) non sarebbe certo un bel regalo.

da - http://www.lastampa.it/2012/12/12/cultura/opinioni/editoriali/quel-salto-dai-poteri-forti-alla-protesta-CFnrVQPqQSH1MLmRgizE0J/pagina.html
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