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Autore Discussione: LUIGI LA SPINA -  (Letto 88856 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Novembre 20, 2011, 11:28:58 am »

20/11/2011

Spagna, il bivio del socialismo

LUIGI LA SPINA

La rituale «giornata di riflessione» che anche in Spagna ha preceduto il voto di oggi, così inutile e ipocrita, è un altro piccolo, ma significativo sintomo di come ormai la nostra politica abbia perso i contatti con i ritmi febbrili delle società contemporanee e, soprattutto, con l’immediatezza dei flussi finanziari che la dominano. Eppure, può essere stata utile ai dirigenti dei due partiti sui quali si fonda il sistema bipolare iberico. I popolari del prossimo governo, guidato dal loro leader, Mariano Rajoy, devono pensare a come poter utilizzare il grande successo che si apprestano a cogliere per evitare alla Spagna il collasso finanziario e sociale. I socialisti devono meditare sui motivi per cui l’accattivante «modello Zapatero» sia finito nel generale discredito.

In Spagna, per la verità, la sinistra ha cominciato a riflettere da un pezzo. Non è un caso che il nuovo movimento di contestazione giovanile mondiale sia nato qui e che, dappertutto, si usi il termine «indignados» per indicare i suoi adepti. Ma la consapevolezza che la crisi finanziaria ed economica internazionale abbia colpito soprattutto la socialdemocrazia ha avuto, proprio qui a Madrid, la sua più evidente manifestazione. Poche settimane fa, infatti, i più bei nomi del progressismo mondiale, da Clinton a Gore, da Miliband a Lula, assenti i nostri Bersani e D’Alema, sono stati convocati dalla fondazione «Ideas», laboratorio ideologico del Psoe, per discutere sulle sorti della sinistra in questo difficile momento. Alla fine, con un soprassalto creativo, sono state lanciate ben 55 proposte per affrontare la crisi, un vero e proprio nuovo «manifesto».

Forse bastavano anche meno, perché non è ancora chiaro come pensare a una rivincita dopo la più clamorosa delle sconfitte: la sinistra, che ha sempre teorizzato e praticato il governo della politica sui comportamenti dell’economia, ha visto la politica assoggettarsi all’imperio dei mercati, proprio i più inafferrabili, quelli finanziari. Sui motivi di questo rovesciamento della gerarchia di comando, che ha ovviamente colpito più duramente quella sinistra che era al potere, come in Spagna, i giudizi sono assai disparati, ma si possono riassumere sostanzialmente in due filoni, ben rappresentati dagli importanti dirigenti del partito socialista, Jesús Caldera e Alfonso Guerra.

Il primo, ex ministro di Zapatero e ideologo della suddetta fondazione, sostiene la tesi minimalista e meno inquietante. «Non c’è bisogno di rifondazioni ideali - dice -, la crisi ha ovviamente colpito la sinistra al governo. Tra poco, in Germania, in Francia e in Italia la socialdemocrazia tornerà al potere e tante autoflagellazioni appariranno quelle che sono, inutili esercizi di masochismo».

Meno ottimistica è l’analisi del secondo, ex vicepresidente del governo Gonzales e figura storica del Psoe: «Non sottovaluto gli effetti della crisi, ma bisogna ammettere che quando si è imposta la teoria neoliberista, alcuni di noi hanno cominciato a cercare di amministrare il capitalismo invece di amministrare il socialismo». Guerra spiega così perché l’elettorato progressista abbia finito per non vedere più «quello che distingue la sinistra dalla destra».
Chiunque abbia ragione, e magari hanno un po’ ragione tutti e due, non si comprende bene il paradosso per cui una crisi provocata dalla libertà sfrenata e senza regole della speculazione finanziaria trovi l’opinione pubblica europea così diffidente verso le tradizionali ricette della sinistra, il controllo dello Stato sui mercati, lo stimolo del deficit pubblico per rianimare l’economia, un più esteso welfare. Insomma, c’è un altra ricetta oltre al rigorismo della Merkel, alla prudenze della Bce, agli imperativi del Fondo monetario internazionale?

A questa domanda, sotto l’incubo di una disfatta elettorale che si annuncia drammatica, i più illustri economisti della sinistra spagnola si vanno arrovellando con le migliori intenzioni. Proprio qualche settimana fa è uscito un libro che sta ottenendo un grande successo. Si intitola «Hay alternativas» e raccoglie le proposte «per creare occupazione e benessere sociale» di tre studiosi, Vicenc Navarro, Juan Torres López e Alberto Garzón Espinosa. Con una prefazione del famoso linguista americano del dissenso, Noam Chomsky, si rivolge a un pubblico più radicale di quello tradizionalmente socialdemocratico, ma, nello sbandamento attuale, viene letto con attenzione anche dagli antichi riformisti. Come l’altro volume, quello dell’economista José Sevilla, drasticamente intitolato «Il declino della sinistra».
Letture pensose e utili, anche perché le urne, stasera, dovrebbero concedere ai socialisti spagnoli più tempo per riflettere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9458
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« Risposta #106 inserito:: Dicembre 05, 2011, 11:17:27 am »

5/12/2011

I sacrifici e la svolta promessa

LUIGI LA SPINA

Ci sono momenti in cui scontentare tutti è un dovere e certamente questo, in Italia, è uno di quei momenti. Il bivio davanti al quale si trova il nostro Paese non ammette vie diversive, né incertezze. Lo testimonia il tono drammatico con il quale il premier lo ha indicato.

Il messaggio di Monti segna l’atterraggio dal mondo delle illusioni e delle favole nel quale abbiamo vissuto, per troppo tempo, a quello di una realtà, per troppo tempo, nascosta e ignorata. La irrituale commozione per la quale il ministro del lavoro e della previdenza, Elsa Fornero, ha dovuto interrompere l’esposizione della riforma pensionistica è stata l’immagine più efficace di quella «catastrofe», evocata ieri, al limite della quale ci troviamo.

Un atterraggio, dunque, brusco e doloroso, ma inevitabile. Per questo, suonano particolarmente insopportabili le demagogiche proteste di chi fino a ieri è stato corresponsabile di una situazione che ci ha portato sull’orlo del dissesto. Ma anche la stessa esigenza di non distaccarsi dal reale, dovrebbe consigliare alcuni critici di verificare la concreta praticabilità di molte ricette alternative, magari anche brillanti, che in questi giorni sono state suggerite al governo Monti.

Le durissime misure approvate ieri scontano il limite, appunto, di concretezza e di urgenza. Nei prossimi giorni gli italiani si eserciteranno nel calcolo sull’equità dei sacrifici richiesti, con la solita bilancia che vede nel piatto del vicino il peso sempre più leggero. Sarà un esame interminabile e, inevitabilmente, opinabile, in cui le corporazioni degli interessi che, da decenni, imprigionano il nostro Paese si scateneranno in una forsennata gara di egoismo sociale.

Questo annunciato carosello di proteste intrecciate metterà a rischio, purtroppo, il vero giudizio che le Camere e i cittadini dovrebbero emettere sui provvedimenti governativi. Quello che risponde alla fondamentale domanda: le misure approvate ieri quanto garantiscono che, nei prossimi anni, non ne saranno necessarie altre, più o meno, dello stesso tenore e delle stesse proporzioni? Rispetto a quelle che ritualmente siamo stati costretti a sopportare negli ultimi decenni e che, evidentemente, o non sono state sufficienti o sono state sbagliate, come si differenziano?

«Le tasse sono bellissime». Con questa frase, il compianto ex ministro Tommaso Padoa-Schioppa scandalizzò provocatoriamente l’Italia. Eppure, quella frase coglieva il vero nocciolo della nostra «questione fiscale»: il sentimento di ingiustizia che rende così odioso il dovere di contribuire alle spese dello Stato. Per due motivi: l’eccezionale livello dell’evasione che tocca oltre un quarto dei cittadini e gli scandalosi privilegi di una classe politica pletorica, sia a livello centrale, sia a livello locale.

Ecco perché più che addentrarsi nel vaglio certosino di una equità che evidentemente deve fare i conti con i numeri, per cui i sacrifici non possono essere riservati solo ai ricchi, ma anche al ceto medio e alla grande maggioranza degli italiani, è meglio concentrare l’attenzione sulla presenza o meno di una «qualità» diversa dei provvedimenti governativi. Se abbiano, e quanto lo abbiano, caratteristiche tali da modificare la struttura del bilancio dello Stato e dei criteri con cui finora il prelievo fiscale ha colpito meno i patrimoni e più il reddito.

Alla luce di questo metodo, il giudizio sulla manovra varata ieri, nelle prossime settimane, dovrà verificare l’efficacia della svolta annunciata nella lotta all’evasione e nella riduzione del peso dei cosiddetti «costi della politica» sulle spalle degli italiani. Non tanto e non solo per l’entità delle cifre recuperabili se venisse ridotta la quota degli italiani che sfuggono al dovere civico di pagare le tasse, anche se potrebbero essere non trascurabili, quanto per il segnale di moralità pubblica che potrebbe rendere più accettabili i sacrifici annunciati. Stesso significato, anzi ancora più accentuato, dovrebbe essere attribuito al taglio dei privilegi e delle spese per mantenere la nostra classe politica.

E’ giusto non chiedere «miracoli» a un governo che può contare su una maggioranza parlamentare così eterogenea e del tutto priva di una sua rappresentanza nei vari dicasteri. È anche comprensibile che la distribuzione dei sacrifici debba tenere conto della somma degli interessi tutelati dai partiti che lo sostengono. Ma alla «diversità» di un governo tecnico deve necessariamente corrispondere la «diversità» di interventi che diano l’immagine di una «svolta» nella politica italiana. Ieri la conferenza stampa di Monti e dei suoi ministri l’ha promessa. Solo se sarà mantenuta, l’Italia sarà salvata.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9519
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« Risposta #107 inserito:: Dicembre 20, 2011, 06:42:15 pm »

20/12/2011

Realismo e rifiuti pregiudiziali

LUIGI LA SPINA

Una delle conseguenze più apprezzate della nuova stagione inaugurata dal governo Monti è la ritrovata civiltà e concretezza della discussione e anche della polemica politica. Confronti di idee sul merito delle proposte hanno scacciato dibattiti a suon di insulti, insinuazioni, dietrologie, sospetti, promesse irrealizzabili.

Così, quando si ritorna alla demagogia, allo schiamazzo, all’aggressività e all’arroganza verbale, come è avvenuto recentemente in Parlamento per colpa della Lega, la reazione prevalente è quella della sorpresa, dello sconcerto, del fastidio, più che quella dell’indignazione. Come se quei toni esagitati fossero ignari della gravità della situazione italiana e come se i protagonisti di quelle gazzarre fossero inconsapevolmente sopravvissuti alla fine di un’epoca.

Colpisce perciò, al di là e prima delle opinioni, il linguaggio usato dalla segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, per ribattere alle proposte della ministra Elsa Fornero sulla riforma del mercato del lavoro. Toni particolarmente sbagliati perché non esasperati dalla foga di un comizio, ma distillati freddamente in una intervista sul «Corriere della Sera». A parte la sorprendente osservazione su un presunto «livello di aggressione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici che, fatto da una donna, stupisce molto», una discriminazione di genere che in politica suona davvero fuori luogo, la Camusso insinua che ci siano personali interessi per favorire le assicurazioni private, solleva accuse di «autoritarismo» e di «brutalità», rimprovera falsità e, dulcis in fundo, sostiene che le idee della Fornero compromettano addirittura «norme di civiltà».

In un momento di pesante crisi economica che indubbiamente provoca e provocherà forti tensioni sociali, la responsabilità delle parole che vengono usate dai protagonisti della vita pubblica è particolarmente acuta. Tanto più quella della leader del più grande sindacato italiano, la quale dovrebbe farsi carico dell’impegno di non chiudersi, proprio in una fase così difficile, nella difesa degli interessi strettamente legati alla rappresentanza della sua organizzazione, ma preoccuparsi anche di quelli più generali. Soprattutto in difesa della categoria oggi più debole in Italia, quella dei non garantiti da nessuno, i giovani.

Se davvero è giusto il suo invito a guardare la realtà del mondo del lavoro, com’è davvero e non come fa comodo dipingerlo, allora la Camusso sa bene che la questione più grave è la precarietà dell’occupazione giovanile. L’idea di assicurare per tutti un’assunzione dignitosa, con un contratto a tempo indeterminato che possa dare un po’ di sicurezza nel futuro, in cambio di una maggiore flessibilità in uscita dall’azienda, con garanzie di ammortizzatori sociali estesi a tutti, in modo che la renda sopportabile per il lavoratore, non merita davvero un rifiuto pregiudiziale e apodittico.

In un mondo di mercati globalizzati, dove la competizione non ha confini né protezioni, non si tratta di difendere «totem e tabù», anche questi termini suonano vecchi e sbagliati, ma di confrontarsi sul modo di contemperare due esigenze: quella di favorire l’occupazione, specie giovanile, e quella di impedire una incontrollata «licenza di licenziare». Una discussione, però, che deve assolutamente evitare toni apocalittici e ricattatori, appelli ai «principi inalienabili», come controproposte irrealizzabili e controproducenti. A quest’ultimo proposito, davvero la segretaria della Cgil pensa che aggravare i costi per le assunzioni a tempo dei giovani aiuterebbe costoro a trovare più facilmente un’occupazione?

Tra il profluvio di commenti, a favore e contro la proposta della Fornero, ieri, si è distinto il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni che, ostile alla manovra del governo, ha fatto un’affermazione del tutto condivisibile: «Chi ha ragione, non deve avere paura del confronto». La collega leader della Cgil dovrebbe far tesoro di queste parole e, invece di opporre, con toni così esagerati e insultanti, rifiuti pregiudiziali, dovrebbe avere il coraggio di affrontare la questione con realismo e buon senso. Un esempio che avrebbe, tra l’altro, un grande valore per evitare la subordinazione all’egemonia culturale, politica e sindacale delle frange radicali ed estremiste che adoperano, irresponsabilmente, parole incendiarie e allarmanti.

Se alle barricate conservatrici delle corporazioni, quelle dei tassisti, dei farmacisti, dei notai e degli avvocati, dei commercialisti come degli architetti e, magari, anche quelle dei giornalisti, si uniscono anche quelle dei sindacati maggiori, sarà davvero impossibile, per il nostro Paese, raggiungere una crescita economica che impedisca un irreversibile declino. I danni saranno gravi per tutti, anche per coloro che credono di salvarsi nel recinto, ormai illusorio, delle vecchie protezioni. Ma saranno gravissime per le nuove generazioni che, per tutta la vita attiva saranno costrette a una precarietà continua e, quando saranno anziane, si troveranno con pensioni da fame. Forse non ci rendiamo conto di quale «bomba sociale» stiamo innescando per uno scoppio terribile tra trenta-quarant’anni. C’è ancora poco tempo perché la nostra memoria non sia maledetta.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9566
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« Risposta #108 inserito:: Gennaio 13, 2012, 05:17:44 pm »

13/1/2012

Chiusi nel bunker

LUIGI LA SPINA

Le coincidenze, nella vita, sono casuali. In politica, invece, sono determinanti, perché sono capaci di imprimere un significato unitario a eventi apparentemente non collegati tra loro. La giornata di ieri ne ha fornito un altro inequivocabile esempio: il «no» della Consulta ai referendum elettorali e quello del Parlamento all’arresto di Cosentino, piovuti contemporaneamente sulla testa di un’opinione pubblica a dir poco sconcertata, hanno rafforzato l’impressione di una classe politica sempre più chiusa nel bunker.

Sorda e persino irridente rispetto alla sensibilità, agli umori, alle speranze dei cittadini.

E’ logico, è giusto ed è anche augurabile che le distinzioni e le responsabilità non si confondano in una esasperazione di sentimenti demagogici. Le scelte della Corte Costituzionale riflettono indubbie difficoltà giuridiche a contraddire una costante linea interpretativa sulla cosiddetta questione della «riviviscenza» di una legge modificata rispetto a quella che si vuole cancellare. Più difficile, invece, giustificare come casi di coscienza dei singoli parlamentari decisioni che, come è stato evidente nel caso Cosentino più ancora che nelle vicende Milanese e Papa, chiudono o aprono a un uomo le porte del carcere secondo le convenienze del momento, magari secondo patti inconfessabili, fruttuosi nel passato e buoni anche nel futuro.

Eppure, è del tutto comprensibile cercare di prevedere, insieme, le conseguenze dei due «no», sia perché sarebbe ipocrita far finta che non indichino una direzione comune, sia perché sarebbe rischioso far finta di non capire le reazioni dei cittadini a questi due negativi verdetti. L’osservazione più immediata è stata quella di quasi tutti i commentatori politici: sia la Consulta sia il Parlamento hanno finito, ieri, per rafforzare il governo. L’incubo del referendum, infatti, avrebbe alimentato la tentazione di affrettare la legislatura per evitarlo, vista la pratica impossibilità di trovare un accordo, su un tema così controverso e delicato, in pochissimo tempo. D’altra parte, l’isolamento parlamentare del Pdl e la sua clamorosa sconfitta, nel caso di un «sì» all’arresto di Cosentino, avrebbe reso più difficile la persistenza del partito di Berlusconi nell’inedita alleanza con Pd e Udc a sostegno di Monti.

Questa opinione è del tutto condivisibile, ma dovrebbe trovare una certa compensazione nel giudizio sul significato, meno evidente ma non trascurabile, della ritrovata sintonia tra Pdl e Lega, al fine di riaffermare la volontà decisiva del Parlamento sulle sorti della politica nazionale. Come se il ripetuto avvertimento di Berlusconi al premier sulla possibilità di estrometterlo da Palazzo Chigi in qualsiasi momento suonasse, ora, più forte e più allarmante.

La delusione degli oltre un milione e duecentomila firmatari della proposta di referendum contro il cosiddetto «porcellum» elettorale e dei tantissimi altri che certamente condividevano la speranza di poterlo cancellare con la scheda referendaria dovrebbe trovare una qualche consolazione nell’impegno, espresso ieri da tutti i politici, a trovare un accordo per una nuova legge. Finora, nonostante l’indignazione dei cittadini italiani per l’esproprio della loro volontà nella composizione del Parlamento, i rimbrotti della Corte Costituzionale che saranno probabilmente ripetuti nella motivazione della sentenza di ieri, le esortazioni del capo dello Stato, i partiti non sono stati capaci, o non hanno voluto, cambiare quella legge. Perché, ora, dovremmo essere più fiduciosi di non dover mai più votare con quelle regole?

Il paragone con l’attività del governo è troppo utile, a questo proposito, per non farvi ricorso. Così come l’Europa ha costretto la politica ad assecondare Monti, sia pure con qualche maldipancia, nella dura azione di risanamento del bilancio pubblico, così il referendum avrebbe imposto al Parlamento di raggiungere un’intesa su una diversa legge elettorale. Tolto, col verdetto della Consulta, lo spauracchio della consultazione popolare, chi potrebbe escludere, come è stato negli anni passati, un nuovo fallimento di un accordo dimostratosi così arduo? Anche perché ai leader dei partiti, di tutti i partiti, fa così comodo la possibilità di modellare a loro piacimento il volto delle loro rappresentanze parlamentari, senza le sorprese determinate dalle scelte, magari difformi, degli elettori.

Nonostante i legittimi dubbi, non possiamo abbandonarci al pessimismo. Anche perché se al governo Monti fosse impedito di proseguire nell’opera di salvataggio dell’Italia, dovremmo dare l’addio all’Europa e all’euro. Se i partiti dovessero ostinarsi a ignorare i sentimenti e la volontà dei cittadini, potremmo correre il rischio di dire addio alla democrazia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9644
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« Risposta #109 inserito:: Gennaio 16, 2012, 11:48:10 am »

16/1/2012

La debolezza del fattore umano

LUIGI LA SPINA

Sarà l’inchiesta a chiarire i tanti dubbi che ancora restano sulle cause della tragedia al Giglio e saranno i giudici a valutare le responsabilità. Un’inchiesta comunque difficile, perché dovrà evitare, innanzi tutto, di essere condizionata dalla confusa onda emotiva che, del tutto comprensibilmente, si è scatenata nell’opinione pubblica, non solo italiana. Ma anche perché gli interessi economici coinvolti sono enormi, le convenienze assicurative possono essere fuorvianti, le complicità e, al contrario, le rivalità corporative potrebbero compromettere sia la trasparenza della ricostruzione dei fatti, sia l’attribuzione delle colpe.

Come sempre accade in eventi eccezionali e tragici come quello che è avvenuto nella notte tra venerdì e sabato, si sono mescolati episodi di viltà e di eroismo, dimostrazioni di incompetenza e di grande professionalità, assieme alla testimonianza unanime di una straordinaria solidarietà umana, commossa ed efficiente, di tutti gli abitanti del Giglio.

Ecco perché è giusto sempre ricordare, e in questo caso è ancora più necessario, che processi sommari a singole persone o a intere categorie sono sbagliati, soprattutto perché impediscono di individuare le opportune correzioni, di regole e di metodi, per evitare che simili tragedie non capitino mai più.

Quello che più colpisce nel disastro della «Costa Concordia» è sicuramente il contrasto tra la sofisticazione tecnologica, la grandezza delle strutture, la molteplicità delle apparecchiature di sicurezza della nave e la debolezza del «fattore umano», messo a repentaglio da uno scoglio che, ora, conficcato nel cuore della fiancata, sembra svelare, con l’antica legge della natura, la moderna superbia della scienza, l’arroganza delle abitudini pericolose, le compiacenze e le strafottenze di superuomini che appaiono, di colpo, uomini piccoli, molto piccoli.

Ecco perché, dopo che le ricerche dei possibili superstiti saranno terminate, dopo che sarà escluso il rischio di una catastrofe ambientale, dopo che sarà chiarita la dinamica dei fatti e individuate le colpe specifiche e contingenti dei responsabili, sarà opportuna una riflessione più ampia e approfondita. Lo imporrà, oltre che la coscienza nazionale, la necessità di affrontare le conseguenze su quell’immagine dell’Italia che, nel mondo, è già abbastanza compromessa. Con riflessi sul futuro del nostro turismo, di una cantieristica già in difficoltà, in generale, dell’economia del nostro Paese.

Da una parte, occorre respingere facili e superficiali accuse che, in queste ore, arrivano soprattutto dall’estero, giustificabili nelle reazioni immediate dei turisti di tante nazionalità coinvolti nel dramma dell’evacuazione della nave, ma che possono essere strumentalmente utilizzate per campagne d’opinione sostenute da evidenti interessi concorrenziali. Dall’altra parte, però, è giusto chiedersi se la vicenda non faccia emergere anche i vizi di un certo costume nazionale che, in questi anni, si sono aggravati e incancreniti.

Chi ha vissuto, magari per una vita, nell’ambiente della marina mercantile italiana, conosce benissimo le difficoltà di un settore che, malgrado sia dotato di professionalità ancora eccellenti e pervaso da una profonda sensibilità umana, non può non risentire di alcune gravi malattie italiane. Le testimonianze difficilmente arrivano a superare l’anonimato, perché l’ipocrisia è la regola di un malinteso senso dell’onore di categoria e chi osa sfuggire alle convenienze e alle piccole e grandi complicità rischia l’emarginazione e, in tanti casi, molto peggio.

La crisi della scuola italiana, innanzi tutto, non ha risparmiato gli istituti nautici. Una volta erano il vanto della nostra marineria. Apprezzati da tutto il mondo, fornivano comandanti e ufficiali di grande competenza. Ora, bisogna ammetterlo, non è più così. Meglio, accanto a scuole che mantengono livelli di insegnamento eccellenti, ce ne sono altre in cui la preparazione è molto sommaria e scadente.

Il reclutamento e la selezione del personale, sia quello di macchina, sia quello addetto alla navigazione e ai servizi, risente della difficoltà di trovare, oggi, disponibilità a un lavoro che costringe a lunghi e faticosi orari, a prolungate assenze da casa, con conseguenze magari pesanti sugli equilibri personali e familiari. Proprio per questo, gli avanzamenti di carriera, i passaggi da funzioni esecutive a ruoli di grande responsabilità spesso non seguono criteri di rigida selezione meritocratica, ma seguono considerazioni di «buonismo» o si piegano a spinte sindacali e corporative all’insegna di promozioni generalizzate.

Accanto agli specifici problemi delle navi da crociera e dei traghetti italiani, ci sono, poi, i più tipici vizi nazionali ad aggravare i rischi. Quelle compiacenze, un po’ infantili e un po’ «bullistiche», su rotte deviate per salutare vecchi amici e plurime fidanzate o per impressionare gli ospiti con passaggi suggestivi davanti alle coste o alle isole. Imprudenze che solo la ritualità del percorso e l’eccessiva sicurezza dei comandanti fanno ritenere innocue, ma la cui responsabilità non dovrebbe ricadere solo su chi li compie, ma anche su chi le tollera e, magari, le incoraggia.

Anche la tragedia del Giglio, insomma, conferma, purtroppo a un prezzo ancora una volta tragico e insopportabile, l’assoluta necessità di un cambio di mentalità nel nostro Paese. Un’Italia dove il rigore negli studi, lo scrupolo nel lavoro, il merito delle carriere, la serietà dell’impegno e, persino, il pignolo rispetto delle regole non siano più dileggiati come residui del passato, ma ritenuti strumenti essenziali per affrontare le durezze della competizione economica del futuro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9655
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« Risposta #110 inserito:: Febbraio 02, 2012, 10:45:31 am »

20/1/2012

Italiani più sensibili ai doveri

LUIGI LA SPINA

È sempre azzardato collegare segnali che sembrano arrivare da più parti nella società italiana per cercare di cogliere nuovi sentimenti e nuovi bisogni. Eppure, notizie e reazioni alle notizie che si sono succedute in queste ultime settimane paiono indicare la necessità, ma anche il desiderio, di ritrovare nella responsabilità individuale, nell’impegno personale al rigore dei comportamenti, nella consapevolezza dei doveri oltre che dei diritti, la strada più sicura, forse l’unica, per un riscatto nazionale. Per uscire da una specie di depressione psicologica collettiva, umiliata per un confronto negativo da parte degli stranieri che riteniamo ingiusto, ma che non sappiamo contrastare. Come se fosse frutto di una inesorabile congiura del destino. Quello che conferma, con l’ostinazione dei fatti e delle opinioni, vecchi pregiudizi e vecchi sospetti verso l’Italia e verso gli italiani.

Perché, nonostante le furiose opposizioni delle categorie colpite dalle annunciate liberalizzazioni del governo e dopo i duri tagli imposti ai bilanci familiari, il premier Monti mantiene un così elevato consenso popolare in tutti i sondaggi? Perché i richiami secchi del capitano De Falco ai doveri di un comandante suscitano così clamorosi brividi di ammirazione e sentimenti di riconoscenza nazionale?

Perché il blitz delle «Fiamme gialle» a Cortina, al di là delle locali reazioni, è stato accolto con unanime soddisfazione? Perché a quella tolleranza, complice e ammiccante, verso le piccole e grandi furbizie individuali, pare si sia improvvisamente sostituita una generale intransigenza, quasi giacobina? Perché appare così insopportabile persino quella nube di linguaggio, ipocrita, demagogica e incompetente, tipica di certa classe politica che ha ammorbato, fino a poco tempo fa, i nostri giornali e le nostre tv?

Domande alle quali non è facile rispondere, ma che meriterebbero qualche non inutile riflessione. Anche perché sorgono pure dalla conoscenza di proposte inusuali, persino provocatorie, che, in altri tempi, avrebbero suscitato non solo sorpresa, ma sconcerto e, probabilmente, indignazione. Nel clima di questi giorni, invece, paiono giustificate e opportune, sintomo e conseguenza di un ritrovato senso di consapevolezza individuale verso i doveri collettivi, verso i doveri nei confronti dello Stato.

Ci riferiamo, solo come un esempio, magari marginale ma significativo, all’intenzione, da parte di alcune Regioni, di comunicare al paziente, dopo la cura, il costo sostenuto dal servizio sanitario per la prestazione fornita. Non si tratta, evidentemente, di aggiungere alla sofferenza del malato l’afflizione del senso di colpa per l’esborso a cui lo Stato è stato costretto per guarirlo o alleviare i dolori della sua vita. Né di «mercificare il valore della salute», come, con un gergo tardosessantottino, alcuni si affretteranno a bollare l’iniziativa. Ma l’invito a prendere coscienza di come le tasse che si impongono ai cittadini siano usate e di quale delitto si macchino coloro che le evadono. Insieme all’appello, implicito ma evidente, a medici, industrie farmaceutiche, dirigenti ospedalieri perché le singole responsabilità di fronte a sprechi e inefficienze non permettano di affossare un bene prezioso che l’Italia è riuscita a conquistare e che sarebbe un delitto perdere: il nostro servizio sanitario nazionale.

Chiunque abbia avuto la sfortuna di dover ricorrere alle cure in un Paese extraeuropeo, soprattutto negli Stati Uniti, sa come le discriminazioni di censo siano alla base delle possibilità di guarigione del malato e, comunque, di un trattamento adeguato. Proprio per conservare questa condizione di vantaggio, però, si impongono scelte chiare e urgenti. In futuro, l’allungamento delle speranze di vita, l’arrivo alle soglie della vecchiaia di classi molto numerose, i progressi nelle tecnologie e nelle terapie imporranno maggiori spese per garantire un’assistenza paragonabile a quella attuale e, augurabilmente, anche migliore.

Occorrono, perciò, comportamenti personali responsabili. Perché non ci possiamo più permettere quella mentalità, falsamente democratica, che ritiene inesauribili le risorse dello Stato e, contemporaneamente, insopportabili le tasse. Sempre le proprie, naturalmente. Il risultato dell’illusione alimentata dall’idea che si possa «dare tutto a tutti» sarà quello di una feroce selezione classista tra chi potrà far ricorso alla sanità privata e chi dovrà subire l’inevitabile degrado della sanità pubblica. A questa opera di educazione alla disciplina e alla consapevolezza individuale potrà servire anche un piccolo segnale come questa comunicazione, dopo la cura. E’ vero che la vita di una persona non ha prezzo, ma è vero anche che ha un costo. Ed è bene che tutti lo sappiano.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9669
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« Risposta #111 inserito:: Febbraio 04, 2012, 11:46:26 am »

4/2/2012

Le banderillas dei partiti

LUIGI LA SPINA

Fragile, perché il governo Monti non può contare su un vero accordo politico tra i componenti della sua inedita maggioranza. Forte, perché i partiti che hanno votato la fiducia in Parlamento sanno che abbatterlo vorrebbe dire arrecare danni enormi al Paese, ma infliggersi anche un harakiri definitivo per la loro credibilità nei confronti dell’opinione pubblica.

Tecnico, perché si fonda sulla competenza del premier e dei ministri nelle questioni che devono dirimere. Politico, perché l’abilità del presidente del Consiglio nel destreggiarsi tra un’ex maggioranza, inquieta e delusa, e un’ex opposizione, diffidente e divisa, dimostra una vocazione certamente non improvvisata. Libero, perché non è costretto a subire i «veti» delle corporazioni che stanno affondando l’Italia, dal momento che non si regge sul loro consenso. Prigioniero, vincolato com’è a distribuire sacrifici e vantaggi, con millimetrica equità, tra tutte le forze sociali tutelate dai partiti che devono approvare, in Parlamento, i suoi provvedimenti. Il governo Monti, in realtà, più che un governo «strano», come lo ha definito il premier, è il campione dei contrari, il trionfo dell’ossimoro, quella figura retorica che accosta termini in assoluta antitesi tra loro.

Quanto potrà durare questo virtuosistico cammino sul filo che Monti è costretto a compiere tutti i giorni? E, soprattutto, il premier riuscirà a realizzare le fondamentali riforme che consentiranno all’Italia di uscire dalla «zona a rischio» dell’Europa? Oppure, quel filo finirà per avvolgerlo nella tela di ragno dell’impotenza e della delusione? Sono domande a cui proprio la curiosa contraddittorietà delle caratteristiche di questo governo consiglierebbe risposte caute e ambigue. Si possono affacciare alcune considerazioni, invece, che potrebbero indurre a un certo ottimismo sulla sorte dell’esperienza Monti, sfidando il destino dei commentatori politici, quello dell’immediata e clamorosa smentita.

Questo governo, come si è detto, ha saputo intercettare una diffusa domanda di cambiamento nel costume della politica italiana. Un desiderio di rigore, di competenza, soprattutto la necessità di una vera efficacia realizzativa, veloce nei tempi e concreta nelle conseguenze, dopo tanti anni di quelle inutili promesse e di quelle imprudenti autoesaltazioni tipiche dei «governi del fare».
A questa richiesta di una decisa svolta, i partiti dimostrano la loro incapacità di rispondere con proposte forti, condivise al loro interno, coraggiose e innovative al punto tale da imporle al centro della discussione pubblica. Ecco perché la frustrazione, provocata dalla consapevolezza di questa loro impotenza, produce l’effetto di un ribellismo trasversale che, di tanto in tanto, si sfoga nel voto parlamentare contrario al parere del governo. Non a caso, sempre in una ottica difensiva e corporativa, tipica di una categoria che si sente debole e invisa. Una volta, per salvare dalla galera un loro rappresentante; un’altra, per opporsi alla riduzione di privilegi pensionistici e non; un’altra ancora, per vendicarsi delle iniziative giudiziarie delle procure. Spesso, nel tentativo nostalgico di ritornare al clima di contrapposizione frontale del passato, come nel caso della Rai o, appunto, della lotta contro la magistratura. Un tempo in cui il chiacchiericcio della polemica, aspra e sguaiata, dava loro l’impressione di una primazia e di un potere che, oggi, sembrano del tutto svaniti.

A rimorchio sul tema che interessa veramente i cittadini e sul quale è il governo a condurre la danza, cioè l’economia, i partiti non comprendono che potrebbero dare un significato alla loro esistenza e alla loro attività in questo scorcio di fine legislatura solo su una questione, peraltro in cui avrebbero piena sovranità e sulla quale potrebbero sperare in un riscatto di fiducia da parte degli italiani: la legge elettorale. Una riforma che restituisse al popolo il potere di scegliere i loro rappresentanti in Parlamento. Ma le speranze di un’intesa sono poche, perché è molto difficile un accordo che soddisfi interessi elettorali contrastanti e, soprattutto, perché è così comodo, per tutte le segreterie dei partiti, continuare a dipingere a loro somiglianza deputati e senatori, scaricandosi vicendevolmente la responsabilità di non voler cambiare la legge.

Ecco perché è probabile che i volteggi di Monti, tra un’intervista televisiva e un Consiglio dei ministri-fiume, possano continuare, nonostante gli avvertimenti, le punzecchiature, le ribellioni della pancia parlamentare, come quelli dei giorni scorsi. Sussulti di protagonismo che mirano a infiacchire la vitalità del governo, come, nella corrida, le banderillas fanno al toro, ma che non vogliono scagliargli il colpo mortale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9732
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« Risposta #112 inserito:: Febbraio 15, 2012, 11:06:56 am »

15/2/2012

La coerenza di un "no" responsabile

LUIGI LA SPINA

Dopo la riforma delle pensioni e in vista di quella sul mercato del lavoro, la decisione di Mario Monti di non firmare la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020 conferma e rafforza soprattutto l’impressione di una notevole discontinuità rispetto agli abituali metodi di governo.

Di fronte a ben quattro mozioni, favorevoli a una scelta opposta, da parte dei partiti che lo sostengono in Parlamento, dopo una pioggia di appelli per il «sì» di sportivi, intellettuali e imprenditori, davanti a una potente lobby che ha esercitato fortissime pressioni, Monti ha evitato di seguire la strada più conveniente e, certamente, la più comoda. Quella di sostenere la candidatura di Roma, ben sapendo che, al «Comitato internazionale olimpico», i delegati avrebbero quasi certamente preferito Istanbul o Tokyo per la sede di quei Giochi. Sarebbe stato un modo per non scontrarsi con la sua maggioranza, non deludere il Coni e i promotori, non suscitare le proteste del sindaco della capitale e non subire le critiche di chi vedeva nell’Olimpiade romana un’occasione di sviluppo economico nazionale e, magari, di buoni affari per sé.

Con la consapevolezza di raggiungere lo stesso risultato di risparmio per le finanze statali, nascondendosi dietro il paravento del Cio e delle opinioni internazionali sfavorevoli all’Italia.

Il presidente del Consiglio, invece, ha deciso di assumersi la responsabilità, diretta e chiara, di un «no», motivato con la necessità della coerenza nel significato del suo governo, nella missione che la crisi economica del Paese gli ha imposto e nel rispetto del mandato che Napolitano gli ha affidato. Una scelta certamente difficile che, però, è stata agevolata da una sensibilità, rispetto agli umori degli italiani, che sembra sicuramente maggiore, in questi giorni, di quella che la tradizionale classe politica pare dimostrare. Le parole con le quali Monti ha spiegato i motivi del suo «no» alla candidatura di Roma fanno capire molto bene come il premier temesse il segnale contraddittorio, nei confronti dell’opinione pubblica, che una decisione diversa avrebbe assunto. L’incomprensione, cioè, verso un governo che, da una parte, chiede pesanti sacrifici a tutti e, dall’altra, si avventura in una iniziativa per la quale il rapporto tra i costi e i benefici non assicura un saldo positivo, con il rischio di vanificare parte di quello sforzo che i cittadini stanno compiendo per risanare i conti pubblici.

Sono ormai molti i segnali, e quest’ultimo non è il meno importante, di come questo governo riesca, meglio dei partiti e anche delle forze sociali organizzate, a inserire il suo comportamento nelle attese dei cittadini. Lo testimonia, in senso contrario, la ritualità e la ripetitività delle reazioni che, anche ieri sera, sono arrivate dopo il «no» alla candidatura olimpica di Roma e il loro clamoroso contrasto con le risposte che, in quasi tutti i sondaggi d’opinione organizzati da tv e siti Internet, hanno confermato il sostanziale accordo della grande maggioranza degli italiani con la scelta di Monti.

Al di là del metodo e della coerenza programmatica ispiratrice del governo, occorre valutare, infatti, le condizioni nelle quali l’Italia avrebbe avanzato quella candidatura. Per avallare, ma anche per rendere efficace, credibile e, alla fine, vincente una proposta simile al Comitato olimpico internazionale, occorre avere alle spalle una forte spinta unitaria di tutto un Paese. A questo proposito, è bene subito chiarire che non si tratta di giustificare le solite, meschine polemiche, a sfondo campanilistico, che si sono puntualmente levate contro una presunta insensibilità, milanese e nordista, di Monti e di alcuni suoi influenti ministri per una scelta che avrebbe favorito Roma. Commenti e sospetti che resuscitano uno sciocchezzaio, mentale e verbale, che davvero hanno ammorbato il recente passato e non vorremmo ammorbassero anche il nostro presente e futuro.

E’ vero, invece, che la promozione olimpica di una città, a maggior ragione se si tratta di una capitale, procura vantaggi economici e d’immagine a tutta una nazione. Così è stato per la Spagna, nel caso di Barcellona e, se guardiamo al caso più vicino, nel tempo e nello spazio, per le Olimpiadi invernali di Torino. Ma nei due esempi citati, sia pure con l’importanza indubbiamente diversa dei due eventi, tutte le opinioni pubbliche nazionali, i «sistemi» dei due Paesi, come si suole dire adesso, avevano manifestato un convinto appoggio e una pronta disponibilità all’impegno organizzativo e finanziario. Per le Olimpiadi romane del 2020, è una constatazione non un’opinione, questo clima di fervore collettivo non è emerso. Si sono avvertiti, invece, un distacco e una certa indifferenza nazionale a una candidatura apparsa, forse, troppo sponsorizzata da lobby locali e subordinata a logiche politiche.

Comprensibile può essere l’amarezza per la perdita di un’occasione di investimento infrastrutturale e, magari, di rilancio d’immagine. Ma gli italiani e anche i mercati internazionali si aspettano, da Monti, molto altro e molto di più che una candidatura olimpica.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9775
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« Risposta #113 inserito:: Febbraio 22, 2012, 11:57:42 am »

22/2/2012

La violenza non aiuta a dire no

LUIGI LA SPINA

I ricordi possono diventare trappole mentali, ma, qualche volta, aiutano a capire e a sollevare opportuni campanelli d’allarme. Perché può essere vero, come diceva Karl Marx, che la storia si ripete la prima volta come tragedia e la seconda come farsa, ma un altro grande pensatore, Raymond Aron, sosteneva che, oltre a distinguere specificità e tempi degli eventi, è necessario cogliere le costanti nella storia dell’umanità.

È il caso del brutto clima che si sta addensando sulla questione dell’Alta velocità in Val Susa. Perché, col pretesto dell’opposizione “no Tav”, si riconoscono, con inquietante somiglianza, due atteggiamenti che avremmo voluto dimenticare.

Da una parte, la sublimazione simbolica e apocalittica di una minaccia che sembra coagulare tutti i possibili obiettivi della protesta: quello contro l’Europa dei tecnocrati, contro la speculazione ambientale, contro gli interessi del grande capitalismo globalizzato come contro le mire della mafia, contro l’affarismo dei politici come contro il servilismo dei giudici e dei giornalisti. Un concentrato di poteri ostili al popolo che ricorda l’occulta e confusa forza del Sim, quello «stato imperialista delle multinazionali», evocato dai terroristi Anni 70. Alla stessa rappresentazione di quel tempo, mitica e paraideologica, del nemico allegorico, corrisponde oggi, purtroppo, la stessa personificazione di quello concreto, vicino, da colpire, prima, nel ludibrio del suo nome e, poi, nella sua integrità fisica.

Dall’altra parte, allora come adesso, la reazione fiacca e distratta, sottovalutatrice fino ai limiti della connivenza, dei poteri pubblici e di un’opinione comune che si limita a esprimere condanne alla violenza generiche, di maniera, con quella infastidita ritualità che a stento maschera l’implicito rimprovero a non esagerare, a non esasperare gli animi, a non amplificare episodi di ribellismo giovanilistico. Insomma, parole che ricordano troppo da vicino quelle antiche e colpevoli compiacenze nei confronti di «compagni che sbagliano».

La sistematica caccia al procuratore di Torino, Gian Carlo Caselli, con l’obiettivo di impedirgli di presentare in pubblico il suo libro, testimonia sia la gravità di un attacco a un magistrato simbolo della lotta, prima contro il terrorismo, poi, contro la mafia e, ora, contro i rischi della sicurezza nei luoghi di lavoro; sia la pavidità, l’inerzia, la vergogna di uno Stato che non riesce neanche a tutelare la libertà di parola di una persona che esercita una fondamentale funzione istituzionale in questa Repubblica.

A Torino, prima si tollera che, durante una violenta protesta, i muri del centro cittadino vengano deturpati con minacce e insulti a Caselli e a giornalisti. Poi, non si interviene tempestivamente per cancellare quelle scritte oltraggiose che, per giorni, resistono allo sguardo dei cittadini, in qualche caso ridicolmente oscurate da epiteti che tutti, ormai, conoscono. La città, nell’espressione dei suoi politici, delle istituzioni, dei sindacati, degli imprenditori, degli intellettuali, tranne qualche caso isolato, non sembra reagire con la fermezza e l’indignazione che sarebbero adeguate. In sede nazionale, inoltre, non si avverte il pericolo che la strumentalizzazione estremistica e aggressiva del movimento «no Tav» potrebbe coltivare un laboratorio di violenza pronto a egemonizzare e a distorcere ogni legittima manifestazione di protesta.

Quello che non capiscono o fingono di non capire, infatti, i promotori del dissenso «no Tav» è che proprio questo movimento è la principale vittima di tale clima. Perché il rischio è quello di una criminalizzazione del diritto a non essere convinti dell’opportunità di un’opera del genere, in questo momento. Le ragioni del «no» alla Tav, opinabili come quelle del «sì», vengono irrimediabilmente compromesse, se non riescono ad escludere ogni forma di espressione violenta. Come la credibilità dei leader di questa protesta, degli scienziati e dei professionisti che la sostengono, dei magistrati giustamente garantisti viene meno, se non ci si dissocia, senza sofistiche indulgenze, da coloro che ritengono l’inchiesta della procura torinese «una provocazione» contro i «no Tav». Lo stesso Caselli, all’annuncio degli arresti, aveva chiarito l’intenzione di colpire solo le responsabilità dei singoli in atti violenti e di escludere, in maniera assoluta, qualsiasi volontà di intimidire il movimento. Intenzione che è stata convalidata da quasi una decina di giudici, estranei alla procura, che hanno esaminato i risultati dell’inchiesta.

Credere nella validità dell’opera che dovrebbe permettere una rapida circolazione delle merci tra l’Ovest e l’Est dell’Europa non dev’essere un atto di fede, ma può nascere solo da un bilancio, concreto e non ideologico, di vantaggi superiori ai costi. Chiunque impedisca questo esame con la violenza non è un avversario dell’Alta velocità, ma un nemico della democrazia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9800
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« Risposta #114 inserito:: Marzo 02, 2012, 10:55:25 am »

2/3/2012

La coalizione che uccide il bipolarismo

LUIGI LA SPINA

In politica, specialmente in quella italiana, tutto può succedere. Ma il pronostico sulla continuazione dell’esperienza del «governo strano», con l’appoggio dei tre più grandi partiti, anche nella prossima legislatura è ormai generale. L’ha fatto intuire lo stesso Mario Monti, quando, mercoledì scorso, non lo ha più escluso, sia pure con quelle sue locuzioni allusive e un po’ criptiche. Lo ha confermato, ieri, Silvio Berlusconi, con il linguaggio alla sua maniera, diretto e senza sfumature.

L’ipotesi di un governo di unità nazionale anche dopo le elezioni del 2013 si è rafforzata perché Pdl, Pd e Terzo Polo, o meglio, i leader di questi tre partiti, hanno trovato, nelle settimane scorse, un sostanziale accordo su una nuova legge elettorale, in senso proporzionalista. Al di là dei dettagli tecnici, ancora da definire, l’intesa su questo metodo per eleggere il nuovo Parlamento conviene un po’ a tutti. In un clima di discredito e di sfiducia da parte dei cittadini nei confronti dei politici e dei partiti, con la prospettiva di una riduzione generalizzata dei consensi e di alte astensioni dal voto, il sistema proporzionale, sia pure un po’ corretto, offre due fondamentali vantaggi: consente di rendere difficili i confronti col passato e, quindi, di mascherare meglio le prevedibili sconfitte. Com’era costume durante la prima Repubblica, tutti potrebbero sostenere, la sera dei risultati, se non di aver vinto, almeno di non aver perso.

Il secondo vantaggio è quello di avere le «mani libere» per decidere la nuova maggioranza sulla quale fondare il nuovo governo e, magari, il nuovo presidente del Consiglio.

È possibile che, nonostante la buona volontà di Berlusconi, Bersani e Casini non si riesca a varare, prima che questa legislatura finisca, una tale riforma della legge elettorale. Ma, anche se si andasse a votare, nella primavera del 2013, con quella attuale, l’ipotesi della grande alleanza, di un governo di unità nazionale non si indebolirebbe. Tutti i sondaggi e tutti gli esperti di alchimie elettorali convengono sulla scarsa probabilità che, con il sistema vigente, si riesca a trovare al Senato, dove non è previsto il cospicuo premio di maggioranza assegnato alla Camera, una maggioranza tale da poter governare con un certo margine di sicurezza. Ecco perché, pure se la nuova legge non fosse approvata in tempo, sarebbe necessaria un’ampia convergenza parlamentare, simile a quella che sostiene Monti.

Quando si azzardano pronostici, bisogna avere il coraggio di andare, con sprezzo del pericolo, fino al fondo del rischio di una clamorosa smentita. Vediamo, perciò, chi potrebbe guidare il primo governo della prossima legislatura. È difficile che l’accordo tripartito Pdl, Pd e «Terzo Polo» preveda uno dei tre leader installato al piano nobile di Palazzo Chigi. Allora è naturale pensare che sia Monti, che non si presenterebbe in nessuna lista in coerenza col suo profilo di «tecnico» al di sopra delle parti, a continuare, ancora su indicazione del solo presidente della Repubblica, come il rispetto assoluto della Costituzione dovrebbe sempre prevedere, l’esperienza del suo governo «strano». Una variante a questa soluzione potrebbe consistere nel passaggio di testimone della presidenza del Consiglio a Corrado Passera, magari in vista, per Monti, di una salita a un colle molto prestigioso.

Lo scenario prefigurato, in realtà, sembra prendere atto del fallimento del bipolarismo all’italiana, come si è realizzato nella seconda Repubblica. Se guardiamo al quasi ventennio 1994-2011, infatti, dobbiamo constatare che il periodo è contraddistinto, in una prospettiva storica, da due fenomeni negativi: il declino della posizione italiana sullo scenario internazionale, sia dal punto di vista del peso politico della sua presenza, sia da quello della sua competitività sui mercati del mondo, e da un sostanziale immobilismo riformatore. Una caratteristica, quest’ultima, che ha impedito, sia ai governi di centrosinistra, sia a quelli di centrodestra, di incidere in maniera significativa nella società italiana. Con l’eccezione, non a caso, del ministero Ciampi, anche lui tecnico «associato» alla politica in un momento di grave emergenza.

È facile intuire la ragione di questa impotenza decisionale nella seconda Repubblica. La forza delle corporazioni italiane e le contrapposizioni degli interessi sono tali nel nostro Paese che solo grandissime maggioranze parlamentari possono sperare di superarle. Come dimostrano le fatiche dello stesso governo Monti nel tentativo di incominciare a scardinare la pietrificazione dell’Italia d’oggi in un così ostinato conservatorismo sociale e politico. Eppure in una situazione parlamentare, economica e internazionale che, dal punto di vista comparativo, lo favorisce così tanto rispetto ai precedenti ministeri.

Le astuzie della storia, come al solito, sono beffarde. Fu Berlusconi, con la sua discesa in campo, a varare, circa vent’anni fa, il bipolarismo in Italia. Ieri, è stato lo stesso Berlusconi ad annunciarne il funerale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9835
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« Risposta #115 inserito:: Marzo 17, 2012, 11:56:39 am »

17/3/2012

Tutti i rischi di un vertice affollato

LUIGI LA SPINA

La foto di gruppo a palazzo Chigi con i tre segretari che sostengono il governo, spedita su Twitter durante il vertice di giovedì, oltre ad aggiornare i metodi comunicativi della politica italiana, segnala anche l’inizio della «fase due» nel rapporto tra Monti e i partiti della sua maggioranza parlamentare.

Con l’intesa sulla riforma del mercato del lavoro, infatti, si chiude il tempo dell’emergenza economica, caratterizzato da quell’appoggio sospettoso, riluttante e intermittente, degli «strani» alleati, Alfano e Bersani, e dalla necessità, in Parlamento, di una decretazione a colpi di voti di fiducia. Si apre, invece, un periodo che arriverà sicuramente fino alle elezioni amministrative, ma che potrebbe prolungarsi fino al termine della legislatura, in cui i due maggiori partiti si uniranno al «terzo polo» di Casini nel «mettere la faccia», appunto, accanto a quella del governo e del presidente del Consiglio.

Un calcolo sbagliato era all’origine dell’atteggiamento del Pdl e del Pd. Pensavano che la necessità di misure severe di risanamento dei conti pubblici scavasse un solco di violenta impopolarità tra i cittadini e Monti, con il seguito dei suoi ministri tecnici. Con l’abbandono della prima linea, sulla scena della politica, ritenevano, perciò, di scansarne le pericolose conseguenze elettorali. Dalle retrovie, intanto, tentavano di tutelare gli interessi delle corporazioni a loro vicine, attraverso il ricatto dell’arma letale per il governo: il ritiro dell’appoggio parlamentare e, quindi, l’obbligo delle dimissioni di Monti.

La realtà ha smentito queste previsioni. I consensi al governo, nonostante i duri provvedimenti fiscali, non si sono ridotti a percentuali preoccupanti; anzi, si sono mantenuti a un livello rassicurante. Nel frattempo, la rapida riduzione del famoso «spread» tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, vero termometro della fiducia dei mercati sul futuro dell’Italia, sanzionava il successo del «ministero strano» e la stima dei partner europei nei confronti di Monti ne accresceva il prestigio, a scapito dei leader dei partiti nostrani. Insomma, tutti i meriti si indirizzavano verso palazzo Chigi e tutte le colpe dei compromessi, degli annacquamenti nelle misure annunciate dal governo venivano attribuite ai freni imposti dalle lobby partitiche e dai privilegi a cui i parlamentari non volevano rinunciare.

La controprova di questo sorprendente rovesciamento delle aspettative, veniva, poi, dall’altro fronte, quello delle opposizioni. La maggiore forza politica contro il governo Monti, la Lega di Bossi, non solo non veniva avvantaggiata dalla sua collocazione parlamentare, ma era squassata da tensioni interne dirompenti e l’appello alla demagogia antigovernativa sembrava cadere in un vuoto di credibilità impressionante. Nè i sondaggi erano più clementi nei confronti delle residue pattuglie dell’opposizione, a cominciare dall’Idv di Antonio Di Pietro.

Alla luce di queste sorprendenti vicende, il cambio di rotta si imponeva con una tale chiarezza che nè Alfano, nè Bersani potevano sacrificarlo alle loro inquiete basi parlamentari. Così, il forte abbraccio dei segretari stretto a Monti nella notte di giovedì costituisce, insieme, una rassicurazione sull’esistenza del governo, ma rischia di diventare persino un po’ troppo soffocante.

L’assunzione di una piena e chiara responsabilità nel sostegno a Monti, infatti, consente al presidente del Consiglio una navigazione politica meno solitaria e meno esposta alle turbolenze quotidiane. Anche il sostegno alle Camere dovrebbe essere più solido, dal momento che, finita la fase dell’emergenza economica, i provvedimenti governativi dovrebbero prendere la strada dei consueti disegni di legge. Come dimostra la via scelta per attuare l’accordo sulla giustizia trovato nel vertice notturno, dalle norme anticorruzione ai limiti sulle intercettazioni e sulla loro pubblicazione. Un ritorno alla normalità delle procedure di legislazione democratica che certamente andrebbe apprezzato. Così, si dovrebbe far credito ai partiti di voler cogliere l’opportunità di realizzare quelle riforme che da troppo tempo la società italiana aspetta e che le esasperate polemiche tra gli schieramenti finora hanno impedito di varare.

Gli abbracci troppo vigorosi, però, possono nascondere qualche insidia. Innanzi tutto, limitano gli spazi d’iniziativa autonoma. Finora, il presidente del Consiglio poteva esercitare la sua libertà d’azione con la sicurezza di poter dimostrare ai partiti che lo sostengono come la loro presunta «arma letale», il ritiro della fiducia, fosse, in realtà, una pistola scarica. Ora, con la fine del periodo più acuto della crisi finanziaria, ma soprattutto, con il metodo degli accordi preventivi e ufficiali, sanzionati dai vertici con i tre leader, la situazione si è modificata, non sempre a vantaggio del presidente del Consiglio. Perché i segretari dei partiti di maggioranza, di fronte a un provvedimento che non trovasse tutti d’accordo, potrebbero più facilmente rimproverare a Monti di voler imporre una misura sulla quale non è stata trovata un’intesa.

Nella «fase uno», questo governo rischiava di avanzare in terreni inesplorati, infidi e di trovarsi, un giorno, senza truppe alle spalle. Nella «fase due», il pericolo non sta più indietro, ma avanti: quello di vedere la strada troppo affollata e di essere costretto a indietreggiare.

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« Risposta #116 inserito:: Marzo 28, 2012, 03:10:23 pm »

28/3/2012 - FORZE POLITICHE DEBOLI

Tutto porta a un Monti bis

LUIGI LA SPINA

È bastato l’altolà «andreottiano» di Monti per far capire a tutti, ma soprattutto ai partiti che lo sostengono in Parlamento, quanto fosse poco credibile la minaccia delle elezioni anticipate. Così Alfano, Bersani e Casini, consapevoli della debolezza e della scarsa credibilità delle forze politiche che guidano, hanno cercato di correre ai ripari, con l’annuncio di un accordo sulla nuova legge elettorale e sulla riforma della Costituzione.

L’intenzione è chiara, ma contraddittoria: da una parte, si promette di restituire ai cittadini la facoltà di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, condizione minima, ma indispensabile per avere il coraggio di chiedere ai cittadini il loro voto; dall’altra, si cerca di allargare la libertà di manovra dei partiti nella formazione del governo, mandando sostanzialmente in soffitta quel bipolarismo all’italiana durato quasi un ventennio.

Una esperienza che aveva suscitato molte speranze, ma che ha provocato molte delusioni.

Ammaestrati dal passato, bisogna essere prudenti nei pronostici, perché gli annunci di accordi, le esibizioni di buona volontà non bastano a ritenere che in un anno, quanto manca alla fine della legislatura, si riesca a varare una nuova legge elettorale e ad approvare, quanto meno, uno schema di riforma costituzionale. Come sempre, il diavolo sta nei dettagli e non si nasconde dietro i grandi principi. Quando alle parole si sostituiranno i numeri, le convenienze dei partiti faranno premio sulle rette intenzioni e poiché, su queste materie, non si possono prevedere maggioranze striminzite, i troppi poteri di veto potrebbero far saltare qualsiasi bozza d’intesa.

Bisogna ammettere, però, che le probabilità di realizzare un accordo, questa volta, sono maggiori, perché le circostanze politiche, del tutto inedite e abbastanza anomale per il nostro Paese, potrebbero aiutare. Innanzi tutto, i tre partiti della maggioranza governativa, constatata quanto sia scarica la pistola alla tempia di Monti, devono dare segnali di concreta capacità riformatrice. Diversamente, apparirebbe clamoroso e quasi umiliante il confronto con un presidente del Consiglio che, in pochi mesi e con l’elogio di tutte le autorità politiche del mondo e di tutte le istituzioni finanziarie internazionali, assume decisioni importanti e anche impopolari. Autoridurre il loro ruolo a portatori d’acqua, magari riottosi e litigiosi, di un professore bocconiano, a capo di un governo «strano», farebbe sospettare, nella capitale, un’epidemia di masochismo politico. Una sindrome finora sconosciuta, anche ai medici parlamentari più sperimentati. La materia elettorale e costituzionale costituisce, naturalmente, una riserva assoluta di competenza dei partiti e, quindi, libero da qualsiasi influenza governativa, il terzetto Alfano, Bersani, Casini potrebbe dimostrare che la politica esce dalle retrovie del palcoscenico italiano e ritrova il ruolo di protagonista.

C’è, inoltre, una convenienza a cercare davvero un accordo, per un motivo meno legato all’immagine e alla credibilità dei partiti e più ai loro concreti interessi. L’aspetto più importante, dal punto di vista politico, dell’intesa di massima sbandierata ieri, alla fine del vertice, è quello che sancisce la fine del cosiddetto «obbligo di coalizione», preventivo rispetto al voto degli italiani. La norma che distingueva la seconda Repubblica dalla prima, quella cominciata dopo la riconquista della democrazia.

La mano libera alle segreterie dei partiti per la formazione di una maggioranza che sostenga il governo, dopo le elezioni, apparentemente potrebbe far pensare a un ritorno al passato, quello del sistema proporzionale perfetto. In realtà, il margine di discrezionalità che si affiderebbe alle forze politiche è notevolmente maggiore di quello che era a disposizione nella cosiddetta prima Repubblica. Allora, si trattava solo di scegliere, fra gli alleati della Dc, quelli più adatti al segno che la segreteria di piazza del Gesù voleva dare al suo governo. Ora, il gioco si può fare a tutto campo e nessun partito è escluso, a priori, dalla possibilità di entrare nella maggioranza parlamentare.

L’astuzia della storia, però, potrebbe giocare un brutto tiro a questa «volontà di potenza» dei partiti. Se gli attuali umori elettorali non cambieranno fino al prossimo anno, è probabile che nessuna forza politica possa ottenere una quota di consensi sufficiente non solo a comandare da sola o quasi, ma neanche tale da conquistare un premio di maggioranza, o di «governabilità» come si prefigura nella nuova ipotetica legge elettorale, capace di aggregare una solida alleanza politica. La soluzione, allora, potrebbe essere quella di essere costretti, anche nel 2013, a richiamare, dopo una breve vacanza, Monti a Palazzo Chigi. Così, una riforma del voto concepita per restituire lo scettro al re, finirebbe per affidarlo al solito professore.

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« Risposta #117 inserito:: Aprile 11, 2012, 07:02:41 pm »

11/4/2012

Meno soldi ai partiti non è tempo di meline

LUIGI LA SPINA

Forse non hanno capito. O fanno finta di non capire. Chiusi nei loro bunker d’isolamento, davanti a una marea montante d’indignazione e di rabbia popolare, molto pericolosa per il futuro della nostra democrazia, i partiti sembrano pensare di cavarsela con una nuova legge-soufflé sul finanziamento pubblico. Allora, proprio per cercar di evitare decisioni che darebbero il colpo definitivo alla credibilità del nostro sistema politico, è meglio mettere da parte ogni garbo diplomatico, parlare molto chiaro, cominciando, come ogni storia prevede, da un riassunto delle puntate precedenti.

Tutto è cominciato da una vera e propria truffa della volontà popolare. Un referendum, infatti, aveva bocciato la legge che stabiliva il finanziamento pubblico ai partiti. Le forze politiche, con un espediente tanto sfacciato da apparire davvero provocatorio nei confronti del rispetto che si dovrebbe avere per i cittadini in una democrazia, l’hanno, di fatto, ripristinato. Non solo attraverso il trucco di definirlo in altro modo, come “rimborso elettorale”, ma non prevedendo alcun controllo sull’uso dei soldi che gli italiani sono costretti a devolvere ai partiti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti e sarebbe davvero miope non vedere come lo scandalo dei milioni usati a piacimento, soprattutto suo, dal tesoriere Lusi e di quelli del collega Belsito si possa circoscrivere a quei partiti, senza toccare anche le altre forze politiche.

Già mesi di polemiche sui costi della nostra democrazia, con campagne di stampa documentate e incalzanti, hanno avuto, finora, esiti modestissimi. Persino qualche taglio a indennità pensionistiche, spropositate rispetto alle norme che regolano quelle dei comuni cittadini, hanno suscitato proteste furibonde da parte di parlamentari e di ex presidenti delle Camere che, peraltro, non saranno da annoverare fra i padri (e le madri) della nostra patria. Ora, se non ci saranno provvidenziali ripensamenti notturni, si annuncia un nuovo gioco di «melina» politica.

Di fronte a quanto emerso non solo dalle inchieste e dalle intercettazioni, ma soprattutto dalle confessioni di segretarie e autisti, non si pensa a un decreto-legge che metta fine, subito, a questo vergognoso andazzo, ma alla via parlamentare, seppur con la promessa di un iter più veloce, meglio sarebbe dire meno lento, del solito. Ma se si ricorre a un decreto-legge in casi di urgenza, quale mai provvedimento può essere più urgente di questo?

Non si rendono conto i partiti della situazione in cui si trovano moltissime famiglie italiane in queste settimane? Con una disoccupazione, soprattutto giovanile, già molto alta al Nord, ma veramente drammatica al Sud e con la prospettiva di dover pagare a giugno, ma soprattutto a fine d’anno, un pesante aggravio di tasse sulla casa, il bene che appartiene all’ottanta per cento dei nostri cittadini, si prepara una legge che, sostanzialmente, non diminuisce il contributo pubblico ai partiti.

E’ inutile affollare la testa dei lettori con molte cifre, perché ne basta una, fin troppo eloquente: per oltre due terzi, i partiti incassano soldi che non hanno una documentazione, verificata e credibile, valida a confermare lo scopo di effettivo rimborso elettorale. Anzi, per la stragrande maggioranza dei casi, non esiste alcuna documentazione. Insomma, prendono dai contribuenti italiani 100 e ne spendono correttamente solo circa 33. Il resto dove va?

Il rispetto per la volontà popolare imporrebbe, come si è detto, l’ossequio al risultato del referendum, cioè l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Ma pretenderlo, in Italia, sarebbe come pretendere l’impossibile. Si può chiedere, invece, come minimo risarcimento ai cittadini, almeno il dimezzamento di questa «imposta forzosa», con il controllo, da parte di una autorità estranea a qualsiasi influenza politica, di come questi soldi vengano usati. I partiti devono uscire da una condizione unica tra le associazioni italiane, quella dell’assoluta imperscrutabilità dei loro bilanci e dell’assoluta insindacabilità dei loro statuti e delle regole di democrazia interna. Prima di cambiare la Costituzione, sarebbe meglio applicarla, perché su questo tema la nostra Carta fondamentale è del tutto disattesa.

Se davvero i partiti, ancora una volta, facessero finta di non capire, toccherebbe al governo Monti intervenire. Il presidente del Consiglio dovrebbe preparare un opportuno decreto-legge e mettere il Parlamento davanti alla responsabilità di bocciarlo. E’ possibile che questo gesto costerebbe a Monti la poltrona, ma forse ne varrebbe la pena.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9981
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« Risposta #118 inserito:: Maggio 06, 2012, 04:49:41 pm »

4/5/2012

L'inversione di ruoli in Europa

LUIGI LA SPINA

L’Europa della moneta unica cerca di cambiare volto. Per la prima volta dall’inizio del secolo, cioè dalla fondazione, potrebbe modificare il suo profilo arcigno, quello di chi chiede ai cittadini del continente solo tagli e sacrifici, quello che suscita proteste di massa come a Barcellona ieri, e mostrare, invece, la faccia benigna dell’unica istituzione in grado di assicurare l’araba fenice dei nostri tempi, la crescita. Così, se nei prossimi mesi si realizzassero davvero le premesse e le promesse che si annunciano in questi giorni, si potrebbe avviare una significativa inversione dei fondamentali compiti nelle funzioni tra l’Europa e gli stati nazionali: alla prima la responsabilità della spesa, ai secondi la guardia dei bilanci.

Gli italiani non hanno certo dimenticato il biglietto da visita con cui l’euro si presentò, quello dei famosi «parametri di Maastricht» da rispettare, con il relativo prezzo.

Una parola che, anche negli anni che seguirono all’introduzione della moneta unica, divenne sempre associata all’Europa: tassa. Quella che pagammo per entrare subito nell’euro e che ci fu imposta da tutte le manovre finanziarie varate dai nostri governi, con l’alibi delle decisioni di una istituzione lontana dal cuore degli europei e insensibile alle necessità dei cittadini. Era l’ossessionante «vincolo esterno», quello che costringeva i politici nostrani a fare cose sgradevoli, che mai, naturalmente (?), avrebbero fatto di loro volontà.

Il mutamento di ruoli sul teatro della scena europea potrebbe essere determinato, come quasi sempre accade, non da improvvisi assalti di coscienza politica e di responsabilità civile dei governi nazionali, ma dalla spietata realtà. Perché gli Stati non hanno più un soldo da spendere e l’unica possibilità di mettere in campo i miliardi di euro necessari a un’inversione di rotta nella stagnazione continentale si può trovare a Bruxelles e a Francoforte. Il motivo, al di là delle sofisticherie tecniche degli economisti, si può riassumere con parole abbastanza comprensibili a tutti: la Ue può finanziare grandi infrastrutture, capaci di muovere lavoro e occupazione, a tassi molto più bassi di quelli che dovrebbero sborsare Roma e Madrid, per non parlare di Atene e Lisbona.

La Banca europea per gli investimenti, infatti, se sarà trovato un accordo nell’incontro previsto agli inizi della prossima settimana, potrebbe assicurare fino a 300 miliardi per grandi opere nel nostro continente attraverso i cosiddetti «bond per la crescita». E’ vero che l’operazione dovrebbe essere preceduta da una ricapitalizzazione della Bei, ma la garanzia della tripla «A» su questi bond dovrebbe costituire un tale vantaggio da rendere molto conveniente una simile partita di giro tra Stati nazionali e istituzioni comunitarie.

Tale progetto per lo sviluppo europeo, l’unico che sembra avere realistiche possibilità di riuscita, perché non trova l’ostilità pregiudiziale della Merkel, sempre contraria invece agli eurobond, richiede una condizione assoluta, cioè l’impegno degli Stati nazionali al rigore dei bilanci pubblici. Alla vigilia delle elezioni francesi e sotto l’influsso delle promesse elettorali di Hollande, si sono agitate troppe illusioni sulla possibilità di un allentamento degli impegni su deficit e debiti nella zona euro. Come avverte Monti, del resto, nei suoi ripetuti inviti a non pensare che si possa ottenere una crescita sforando i conti.

Ma è davvero possibile una tale inversione di ruoli tra Europa e Stati nazionali? Innanzi tutto bisogna affrontare una facile obiezione alla tesi di una Ue sempre taccagna guardiana dei bilanci. E’ naturalmente vero che Bruxelles ha dispensato, attraverso i famosi «fondi strutturali», un fiume di denaro ai cittadini e ai governi europei. Sia per aiutare le regioni continentali più svantaggiate, sia per sostenere le categorie economiche più deboli. La distribuzione di questi soldi, però, è stata sempre condizionata dalle lobby più forti in sede comunitaria e i fondi o non sono stati utilizzati, come spesso è capitato per quelli destinati all’Italia, o sono finiti per obiettivi ben diversi da quelli che erano stati individuati. Per questi motivi, l’Ue, anche se in questi anni non ha lesinato finanziamenti per lo sviluppo, non è mai apparsa come una risorsa per la crescita, ma sempre come un’idrovora nei risparmi dei cittadini.

I tempi, ora, sembrano donare all’Europa la possibilità di cambiare un’immagine talmente negativa da giustificare persino le idee più strampalate, come quella di un ritorno alle monete nazionali. Potrebbe costituire un paradosso, ma di paradossi è piena la storia. Proprio nel momento di maggiore crisi del sogno perseguito dai suoi padri, come i nostri Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, l’Unione europea potrebbe compiere uno scatto in avanti nel governo del continente. Perché il controllo della fiscalità comunitaria e la moneta unica non bastano più a giustificare la sua esistenza. Per sopravvivere, ora deve salvare gli europei dal declino del loro ruolo nel mondo. Forse non lo farà per l’impulso generoso e visionario degli autori del «Manifesto di Ventotene», ma per le crude necessità dell’economia. Ma fa lo stesso.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10062
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« Risposta #119 inserito:: Maggio 13, 2012, 05:57:02 pm »

13/5/2012

La parola negata

LUIGI LA SPINA

La domanda può essere considerata provocatoria, ma qualche volta bisogna avere il coraggio di scavare senza pudore nell’inquietudine, perché nel suo profondo si possono trovare anche tracce di verità.

Se la democrazia è soprattutto legata alla parola, al dialogo libero e sincero tra i membri di una comunità, non corriamo il pericolo di smarrirla, questa nostra democrazia, nella triste Italia d’oggi? Se il discorso pubblico diventa così faticoso, angosciante e, qualche volta, impossibile, si può ancora pensare, attraverso il confronto della ragione, di individuare compromessi condivisi ai problemi nuovi e difficili che le società contemporanee ci pongono?

È questo il dubbio, magari indecente ma ineludibile, che sorge quando si leggono le parole dei cartelli che si agitano nelle manifestazioni di protesta, quando si ascoltano quelle dei politici, vanamente in cerca di un senso, anche quando manifestamente non l’hanno; quando si sentono quelle di rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori, dai toni sempre drammatici e ultimativi, che invece appaiono vane e fastidiosamente ripetitive; quando quelle parole appaiono, lugubri e assurde, nei volantini dei terroristi.

Persino quando si avverte la pressione, esigente e diffidente, sulle bocche dei ministri, perché siano costretti a pronunciare la parola sbagliata, magari frettolosamente inopportuna, perché ci si possa avvolgere nelle spire di una polemica che non produrrà mai nulla di utile, di serio, di concreto.

Quella «lingua di legno» che si rimproverava ai politici e ai burocrati del secolo scorso, elusiva e ipocrita, sembra essersi trasformata, nell’Italia d’oggi, in una «lingua di fuoco», che apparentemente incendia le passioni e che, invece, è solo una fiammella fatua, come quella, innocua, che invano tenta di riscaldare le anime dei cimiteri. In un clima di profondo e motivato disagio sociale, sembra perduta la possibilità di esprimere un’opinione, magari del tutto opinabile, senza che si alzi subito, non la critica sul merito, ma la condanna per aver osato pronunciarla e, persino, pensarla.

Eppure, terminata finalmente la stagione di quelle ideologie che avevano sempre una certezza, per tutto e per tutti, ora ci troviamo davanti a un mondo, forse divenuto troppo grande e troppo complesso, dove i dubbi, invece, si accumulano, più di quanto si sciolgano. Dal ruolo delle religioni nella vita politica e sociale al problema della distribuzione delle risorse, tra popoli ex ricchi ed ex poveri; dalla questione delle fonti energetiche, in un futuro che non garantisce uno sviluppo illimitato a quella di una vita dell’uomo che si allunga imprevedibilmente, insieme conforto individuale e allarme sociale. Le risposte a questi interrogativi, proprio perché nessuno ha più la bussola della verità, dovrebbero essere tutte ammesse, tutte verificate dal riscontro dei fatti e dei numeri, tutte vagliate da un esame sereno della ragione. Non ci dovrebbero essere argomenti tabù, interlocutori impediti a esprimere un giudizio. Peggio, uomini e donne ancora oggi, ancora in Italia, che rischiano la vita per un’opinione, per un’appartenenza, per una fede. Persino per l’espressione di una identità, nazionale, religiosa o sessuale.

Gli esempi sono troppi e fa male pure ricordarne qualcuno. Il ricorso all’atomo non è più un’alternativa energetica discutibile, ma un’ipotesi che condanna alla pistola chi l’avanza. L’Alta velocità non dimostra un’utilità opinabile, ma in Valsusa è diventato un fantasma apocalittico, che non è possibile evocare neanche nelle scuole, là dove si insegna, o si dovrebbe insegnare, la civiltà del dialogo democratico. L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori forse è diventato marginale tra le cause della mancata crescita occupazionale in Italia, ma continua a suscitare proclami inutilmente retorici e drammatici.

La crisi delle rappresentanze sociali, evidente nel nostro Paese, aggrava l’impressione di un teatro dell’assurdo, dove i fronti polemici, immotivatamente aggressivi, non trovano più mediatori credibili, autorevoli, capaci di imporre soluzioni ragionevoli, compromessi sostenibili in un periodo sufficientemente lungo. Così il dialogo, quello vero, finalizzato al convincimento dell’interlocutore, finisce o per essere rifiutato o viene sollecitato solo come pretesto per dimostrare la colpa dell’avversario, ormai sinonimo di nemico.

La «parola negata» in una democrazia produce, tra l’altro, una conseguenza grave, perché giustifica la dittatura della maggioranza o, peggio, la dittatura dell’autorità. Se il pluralismo delle idee non è più ammesso alla competizione del consenso nell’opinione pubblica, è evidente che la forza del potere vincerà sempre. O attraverso l’insidia del «luogo comune», la più pericolosa trappola della mente, o attraverso la coercizione di una verità che cala dall’alto, da una cattedra, da un pulpito, da un consiglio d’amministrazione. Perché la libertà della lingua, anche quella più scomoda, è l’arma più forte di chi è meno forte. Paradosso dei nostri tempi è il fatto che sono i più deboli, a volte, a rifiutarla e a disconoscerne la potenza.

Se il discorso pubblico diventa in Italia così arduo, così improduttivo, sarà sempre più difficile trovare soluzioni concrete, rapide, realizzabili ai nostri problemi, perché la confusione delle lingue, la censura delle idee e la delegittimazione delle persone non ci consentirà di distinguere la realtà dalla sua brutta rappresentazione. Diceva un grande intellettuale europeo, il filosofo e musicologo Vladimir Jankélévitch: «Le cose rispettabili sono relative e contraddittorie, ma non lo è il fatto di rispettarle».

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